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Andrea; Tronconi Pierattilio Rossi
La “lotta di classe” di Veltroni: negare la lotta di classe.
20 Marzo 2008
2008-13 aprile, prima e dopo
Gli autori inviano questo articolo, pubblicato da Liberazione del 20 marzo 2008, per la discussione aperta su “13 aprile, si vota”

La lotta di classe non c’è più. Lo ha sancito in un suo recente intervento di campagna elettorale Veltroni in polemica con Bertinotti poiché essa è un retaggio culturale dell’ottocento e del secolo trascorso. Sepolte da tempo le classi sociali, ora è la volta di proclamare, quale logica conseguenza, anche la fine del conflitto di cui le classi sono portatrici. Con una battuta viene così cancellata la storia, anche quella del partito in cui Lui stesso ha militato. Nella foga di lanciare il neonato partito “riformista” verso una frontiera in cui il conflitto viene esorcizzato il Pd di Veltroni approda a riverniciate categorie del pensiero riprese dall’ammirata America. Non si tratta, come ha detto Bertinotti, di un semplice maquillage, ma di un riposizionamento vero di una linea politica e di una classe dirigente che fa proprie le ragioni del mercato e del capitale.

Bandito il termine “socialismo”, nella nuova vulgata non ci sono più padroni e operai. Non perché il capitalismo si è dissolto, ma perché entrambi sono sussunti entro la categoria di “lavoratori” che svolgono “ruoli diversi”. Il termine padrone è definitivamente rimosso a favore del più digeribile “datore di lavoro”. Lavoratori sono sia i “datori di lavoro” che i loro “dipendenti” perché entrambi si “spezzano la schiena” da mattina a sera per creare ricchezza. Poiché tutti e due fanno “impresa” esiste un “interesse comune” che dovrebbe far convergere coloro che svolgono “ruoli diversi”. Nel nuovo pensiero le differenze sociali non sono determinate dalle differenti condizioni in cui nel processo economico si presentano chi possiede i mezzi della produzione e chi invece dispone solo della propria forza lavoro, ma da una ingiusta distribuzione del reddito prodotto a cui dovrebbe provvedere la politica della concertazione. Mercato e concorrenza sono riaffermati pilastri della crescita sociale ed economica e mentre il primo deve essere esteso ovunque, liberalizzando i settori o comparti ancora “protetti” dallo Stato, il secondo deve essere incentivato liberandolo dai lacci e laccioli che la politica vi ha inserito. Il credo della dottrina liberista “meno stato e più mercato” viene assunto a riferimento per le politiche economiche poiché il privato, “rischiando del suo”, è il solo soggetto che è spinto a far fruttare nel modo più efficiente i “fattori della produzione”. La liberalizzazione viene invocata quale presupposto della concorrenza poiché è quest’ultima il meccanismo che consente di contenere o ridurre i prezzi delle merci. Liberisti con i soggetti deboli ma protezionisti con le banche, specialmente quelle grandi, poiché il loro fallimento trascinerebbe nel baratro l’intero sistema economico. Ai “lavoratori dipendenti” viene chiesta “flessibilità” perché ciò è imposto dalla nuova divisione internazionale del lavoro e dal mercato. E se la “flessibilità”, che è un bene, si accompagna alla “precarietà”, che è considerata un male, quest’ultima non deve diventare motivo per mettere in discussione la prima. Nel mercato del lavoro anche il salario deve essere flessibile e derivare dalla produttività, non quella media settoriale o nazionale, ma quella della singola azienda. Da qui la necessità di superare i contratti nazionali di categoria e incentivare, con politiche fiscali, quelli di secondo livello. Se poi non si fanno, poco male, perché si ha fiducia nelle generosità delle imprese che sanno premiare i meritevoli. Poiché la detassazione di salari e stipendi deve favorire la produttività aziendale, essa deve riguardare solo l’allungamento del tempo di lavoro (straordinari). Al diritto al lavoro, sancito dalla Costituzione, si preferisce il meno rigido diritto all’”opportunità di lavorare”. Ci fermiamo qui.

È grazie a questa revisione politico culturale che nel Pd si vuole, mistificando, far convivere l’operaio della Thyssen con il suo antagonista, l’ex presidente di Federmeccanica, che ha firmato il contratto nazionale solo grazie alle deprecate lotte sindacali. É la nuova politica del “ma anche”. Ma chi “conterà” quando si tratterà di prendere decisioni di politica economica e di politica del lavoro, il giovane Colaninno ed il falco Calearo o l’operaio della Thyssen? Chi avrà la meglio tra la giovane precaria messa in lista ed il prof. Ichino, che da anni si batte per la cancellazione dello statuto dei diritti dei lavoratori? Chi la spunterà tra le new entry di Legambiente e Di Pietro?

Si sancisce la morte della lotta di classe mentre il mondo è attraversato da lotte che oppongono lavoratori ai capitalisti, oppressori ad oppressi per la conquista di migliori condizioni di vita e di diritti sociali. Non è culturalmente e politicamente onesto cancellare la storia introducendo una cesura tra il presente e il passato, come se le evidenti contraddizioni insite nel sistema capitalistico non esistessero più solo perché vengono rimosse dalla coscienza e dal pensiero. Non siamo nel mondo dell’armonia e la sua invocazione non basta a giustificare una pratica politica che mira a conservare l’ordine presente. Le classi sociali subalterne, anche dopo le elezioni, si troveranno comunque a lottare per la conquista di migliori condizioni di vita, ad ennesima riprova che la lotta di classe non è una invenzione dato che scaturisce dall’esistenza delle differenze socioeconomiche che stanno alla base del sistema economico vigente.

Andrea Rossi è Consigliere PRC Provincia di Lodi, Pierattilio Tronconi è Consigliere PRC Comune di Codogno.

Sull'argomento, anche gli articoli sul salario di Luciano Gallino, Giorgio Ruffolo e Andrea Nove e quello su La ricchezza sbagliata di Nicola Cacace

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