La giustizia sociale si realizza con il trasporto pubblico. Si può aggiungere che si realizza anche con il trasporto pubblico. Ma la nettezza con la quale Richard Burdett esprime il suo convincimento supera le sfumature. Architetto, consulente del sindaco di Londra Ken Livingstone (che per il suo radicalismo chiamano Ken "il rosso"), Burdett studia da tempo quanto la struttura fisica di una città produca benessere sociale o, al contrario, esclusione. Da Berlino a Johannesburg. Da Città del Messico alla sua Londra. Sua fino a un certo punto, perché Burdett ha vissuto per vent’anni a Roma, sulla via Cassia (il padre era il corrispondente della Cbs), e ora si muove con agio su una scala che comprende Parigi, Bogotà, Kinshasa e Mumbai. La città occidentale ancora sufficientemente definita nella sua forma e le sterminate conurbazioni africane o asiatiche. In questi giorni Burdett, che insegna alla London School of Economics, è a Roma per un convegno (vedi il box in questa stessa pagina), dove propone i dati che continuamente acquisisce, come direttore del progetto Urban Age, su che cosa stanno diventando le città nel mondo.
Cominciamo da Londra.
«Londra sta crescendo, a differenza delle altre grandi città europee: 750 mila persone arriveranno entro il 2015».
Perché dice "arriveranno"?
«Perché la gran parte dei nuovi londinesi verranno da fuori, in particolare dall’Europa dell’est. Si prevedono almeno 400 mila nuovi posti di lavoro. D’altronde Londra ha superato Tokyo e New York per il giro degli affari che si realizzano e per gli investimenti soprattutto di russi e arabi».
E la città come si prepara ad accogliere i nuovi venuti?
«Livingstone ha deciso che tutto lo sviluppo edilizio si svolga all’interno degli attuali confini della città - la cosiddetta Green Belt - senza consumare un centimetro quadrato del verde che la circonda. Si edificherà solo sui terreni abbandonati - ex aree industriali, vecchi scali ferroviari, depositi di gas o elettrici. E solo dove già esiste un sistema di trasporto pubblico. Londra ricostruisce se stessa».
È un fenomeno urbanistico e sociale insieme.
«Nascono quartieri che dovrebbero sfruttare la vera forza della città, la forza della reciprocità, come la chiama il sociologo Richard Sennett, quella che sconfigge "l’estraniamento e il rancore". La città è nata mescolando funzioni diverse - la casa, il lavoro, la cultura, il divertimento. Ogni quartiere deve riprodurre questi intrecci. Tenga poi conto che almeno metà di tutti i nuovi insediamenti deve essere accessibile alle fasce economicamente più deboli, da chi ha pochissimi mezzi fino a chi sta già un po’ meglio, ma certo non può permettersi i prezzi del libero mercato. I quartieri evitano di diventare ghetti se ospitano persone di ceti diversi».
Apro una parentesi. Fra la città che cresce disperdendosi sul territorio e la città compatta, che invece tiene ben presenti i suoi confini, lei predilige questo secondo modello?
«Non c’è dubbio. La prima è la città dell’auto privata. Occorre ricordare che le grandi città del mondo contribuiscono per il 75 per cento alle emissioni di anidride carbonica?».
Forse sì.
«E allora facciamolo. Ma la città compatta non ha solo minori effetti sul riscaldamento globale. È molto meno costosa, perché i trasporti pubblici e tanti altri servizi non sono costretti a rincorrere i brandelli di quartieri sparsi nel territorio».
Torniamo a Londra. Si vedono già gli effetti di quella che gli urbanisti chiamano la ridensificazione?
«L’uso delle macchine è diminuito del 20 per cento dal 2001. E nello stesso periodo è raddoppiato quello dei mezzi pubblici su strada. Il 99,8 per cento di chi lavora nella City - gente ricca, forse straricca - usa o la metropolitana o l’autobus. I parcheggi sono stati banditi dal centro...».
... e invece parcheggi si progettano e si costruiscono nei centri storici di Milano e di Roma...
«A Londra si prevedono parcheggi in centro solo per i disabili. Ma accade lo stesso a Tokyo, dove quasi l’80 per cento degli abitanti usa stabilmente la metropolitana. I soldi che l’amministrazione londinese incassa dal biglietto d’ingresso delle auto nel centro - fra i 2 e i 300 milioni di euro l’anno - sono destinati a migliorare il trasporto pubblico e tutti i servizi che si realizzano nei nuovi quartieri - ospedali, biblioteche, scuole».
La tendenza che prevale nel mondo, però, è lo sprawl urbano, la città diffusa. Sia nel mondo occidentale, tanto più in Africa o in Sudamerica dove l’urbanesimo è quello degli slums, delle baraccopoli.
«Città del Messico esemplifica al meglio la tensione tra ordine spaziale e ordine sociale. La sua sterminata espansione, con il 60 per cento dei 20 milioni di abitanti che vivono in baracche e case abusive, rivela disparità economiche enormi, ma che sono rese più acute dal dominio delle auto in una città in cui la benzina costa meno dell’acqua minerale».
E come si fronteggia questo fenomeno?
«Purtroppo si continua a investire in autostrade a due livelli anziché nel trasporto pubblico. Queste scelte stanno deteriorando ulteriormente la città, aumentando i tempi di tutti gli spostamenti e spingendo i poveri ai margini più remoti di una metropoli che sembra non avere limiti».
E i più ricchi?
«Cercano protezione nelle comunità blindate e protette da grate o nei nuovi ghetti verticali di Santa Fè, grattacieli scintillanti che dominano la città di casupole. Non è difficile capire che solo aumentando la popolazione che vive nei quartieri centrali si può ovviare alle gravi carenze strutturali - trasporti pubblici insufficienti, l’acqua potabile che scarseggia, terreno franoso e mancanza di spazi aperti. Ma l’assenza di qualunque controllo sull’edificazione fuori dei confini legali della città vanifica ogni tentativo di pianificazione».
I centri storici si svuotano di residenti anche in Italia.
«È grave che ciò accada. Gli effetti negativi si propagano in tutta la città. Un caso estremo, però, è quello di Johannesburg, dove il quartiere di Hillbrow, che era la sede delle principali istituzioni finanziarie fino al 1994, nello spazio di pochi anni è diventato una zona inaccessibile, sia ai neri che ai bianchi. Il paesaggio è inquietante, di sera si vedono solo le luci tremolanti di cucine improvvisate: indicano la presenza di una nuova sottoclasse urbana priva di diritti. Gli edifici, anche quelli di recente costruzione, restano vuoti o vengono chiusi con assi di legno. Questa regione diventerà una delle più popolose dell’Africa, malgrado gli effetti dell’Aids e una speranza media di vita di 52 anni. Ma se lo spazio e i trasporti pubblici non riescono a sviluppare il loro potenziale democratico, diventando luogo di integrazione e di tolleranza, si creerà un sistema che celebra la diversità e non l’inclusione».
Lei sovrintende alle trasformazioni di Londra in vista delle Olimpiadi del 2012. Cosa state progettando?
«Abbiamo scelto una delle zone industriali dismesse della città, Lower Lea Valley, dove non si investiva da sessant’anni, con pochissimi abitanti, ma con una buona rete di trasporti. Lì costruiremo impianti sportivi che per il 90 per cento smonteremo dopo le gare».
E cosa fate? Una specie di città temporanea?
«In parte sì. Ma intanto allestiremo servizi e infrastrutture che serviranno quando le Olimpiadi saranno finite. Il cuore dell’area sarà una grande stazione ferroviaria. Londra deve continuare a vivere dopo il 2012».