Mi sbaglierò, ma contro l'evidenza dei numeri sono convinta che l'esito del voto di domenica sia del tutto aperto. Dire che la società italiana abbia trovato l'energia per archiviare Berlusconi e il berlusconismo sarebbe azzardato; ma percepire una diffusa stanchezza per l'uno e l'altro, nonché per la sceneggiatura urlata e inconsistente della politica nell'infinita transizione italiana, invece è realistico. Non l'energia, ma un vago desiderio di cambiare plot c'è. E Walter Veltroni, con la sua creatura del «nuovo» Pd, la intercetta. Che poi sia anche capace di interpretarla sensatamente, è tutto un altro discorso. E come si configurerà la scena politica italiana da lunedì prossimo in poi, con questa nuova presenza operativamente in campo e una nuova sinistra che è ancora una promessa, è il problema. Vorrei cercare di interrogare la diffusa incertezza sul voto di cui tutti i sondaggi parlano a partire da qui.
Con la gestione veltroniana - la più organica alla sua natura - il Pd si è rapidamente configurato come un partito che rompe definitivamente il cordone ombelicale con la sinistra europea novecentesca, portando a compimento l'interpretazione più radicale dell'89 italiano. Se avesse potuto prevalere un'altra curvatura della svolta del Pci, è una questione che ormai riguarda gli storici. Dire che il nuovo partito è un partito di centro è vero ma non dice nulla di come questo «centro» sarà fatto. La Dc era un partito di centro; ma il Pd sarà una sorta di nuova Dc? No, perché se da un lato ne mutua l'interclassismo, i toni rassicuranti, la trasversalità del messaggio e il trasversalismo delle cooptazioni, dall'altro non ne prende il radicamento popolare, né l'organicità cattolica (malgrado le genuflessioni teodem), né il linguaggio, la filosofia delle alleanze e via dicendo. Sradicato a sinistra, il nuovo partito non per questo è radicato in una tradizione centrista. E' un centrismo di tipo nuovo, che notoriamente guarda più al modello americano che a quello europeo. Ma la società e la politica italiane sono davvero sulla via di una compiuta americanizzazione?E se sì, che cosa comporta questo per l'azione collettiva?
Per quanto vaga e allusiva, questa domanda è cruciale per capire che cosa si agita nell'arcipelago di una sinistra sociale diffusa che non ha deciso che cosa votare, o che ha deciso di non votare (salvo la spinta dell'ultim'ora di un altro voto contro Berlusconi) . L'offerta del Pd non la riguarda; quella della Sinistra Arcobaleno non la mobilita. Bisogna chiedersi seriamente perché, facendo la tara di una serie di motivazioni - la delusione per l'esperienza di governo, la non immunizzazione del ceto politico della Sinistra dalla dequalificazione di tutto il ceto politico, i ritardi, soprattutto culturali, nel processo di costruzione del nuovo soggetto - che tutte insieme non bastano a sostenere una scelta astensionista. Se di queste si trattasse, l'astensione sarebbe banalmente interpretabile come un comportamento passivo di rifiuto della degenerazione della politica. Mentre stavolta, a mio avviso, si tratta (almeno in parte) di un comportamento attivo, che alla Sinistra vuole dire qualcosa. Che cosa?
A mio avviso, che è proprio l'argomento più usato dalla Sinistra in questa campagna elettorale - la necessità di salvaguardare l'esistenza e il peso di una forza di rappresentanza politica della sinistra - a non essere autoevidente, e a dover essere dimostrato. In questione, insomma, non è tanto la capacità o l'inadeguatezza del partito, o della federazione o di quello che sarà, in costruzione; è il modello della rappresentanza politica in sé e per sé, e a prescindere dalla crisi del ceto politico che oggi la incarna. Si può fare politica - questo è il messaggio attivo dell'astensione - fuori dallo scenario della rappresentanza, e comunque derubricandone al massimo la rilevanza. Con il che siamo di nuovo alla questione di poco fa: la tendenza è anche in questo caso verso un modello, grosso modo, americano, dove le istanze radicali si esprimono in azioni sociali e culturali a prescindere dalla mediazione rappresentativa, e contrattando spazi di agibilità pubblica con il governo non migliore, ma meno peggiore possibile?
Si tratta di una questione grande, su cui precipitano decenni di crisi della rappresentanza. Il cambiamento indotto nel sistema politico italiano dal Pd la accelera. A sinistra bisognerebbe discuterne con meno veli di quanti ne stenda l'urgenza del voto. L'onere della prova infatti spetta a tutti. Chi chiede consensi in nome della salvaguardia della rappresentanza deve dimostrarne l'efficacia per il futuro. Chi pensa di poterne fare a meno, deve esercitare l'inventiva su pratiche politiche extrarappresentative a loro volta efficaci (come almeno il femminismo s'è sforzato di fare). Le due strade possono divaricare. Ma possono anche coesistere e alimentarsi a vicenda. Vale la pena pensarci, prima di rifiutare la scheda.