Durante i processi di Mani pulite colpivano le espressioni esterrefatte dei carabinieri di servizio nelle aule dei tribunali quando giudici, avvocati, imputati facevano un po’ di conti sull’entità delle ruberie, il gran ballo dei miliardi delle tangenti. Non potevano non far confronti tra la loro magra busta paga e quelle somme ingenti che ministri, segretari di partito, manager di Stato e non di Stato avevano messo in tasca. Non era necessario aver frequentato scuole di alta finanza per capire quanto era costato alla collettività nazionale il ladrocinio generalizzato, per sé stessi e/o per il partito, di quei personaggi che ora rispondevano con visi simili a Madonne addolorate alle domande dei magistrati e, persa l’antica alterigia, tentavano maldestramente di spiegare cos’erano mai quei numeretti scritti su un’infinità di documenti che provavano le loro malefatte. (Un chilometro di passante ferroviario a Milano veniva a costare, fino al 1992, 80 miliardi di lire; dopo il 1992, 45 miliardi).
Adesso quelle ruberie sembra che non siano mai esistite e la corruzione sembra non sia più un reato. In dieci anni non è stata approvata alcuna legge per contrastarla. Pare che non sia più neppure un peccato da confessare al penitenziere, mentre prosperano i condoni, le agevolazioni, le facilitazioni, gli abbuoni e si allungano i termini dei provvedimenti di clemenza inventati per cercar di sanare e di tamponare il dissesto della finanza pubblica. Il governo ha bisogno di soldi e avalla istituzionalmente in questi modi borbonici l’illecito offendendo le persone oneste. Il presidente del Consiglio suggerisce paternamente di non pagare le imposte se sono troppo elevate.
E si guarda bene dal promuovere miglioramenti dei servizi e delle prestazioni pubbliche come avviene nel Nord Europa dove a una pressione fiscale elevata corrispondono da parte dello Stato servizi adeguati.
Che cosa succede in un Paese dove il governo non sembra il gran maestro della legalità? Il rapporto tra il cittadino e lo Stato, da sempre precario qui da noi, è di nuovo peggiorato. Lo Stato non è nemico, come si dice, ma è ancora peggio, complice, maniglia utile per aggirare la legge. Tutti i vizi nazionali antichi e nuovi che, tra la fine degli anni Ottanta del Novecento e gli inizi degli anni Novanta, parevano essersi attenuati, si sono ora aggravati, ingigantiti.
Il conflitto di interessi di cui è portatore il presidente del Consiglio, rimasto irrisolto dopo due anni di governo, dieci anni dopo l’ingresso in Parlamento - se si pensa poi che risale al 1957 la legge 361 che prevede l’ineleggibilità per chi è titolare di concessioni dello Stato, come, ad esempio, le frequenze televisive, caso macroscopico - ha provocato una cascata di illegalità imitative. Protagonisti cittadini che si sentono protetti da un clima istituzionale in cui le regole sono considerate nemiche, i magistrati «figure da ricordare con orrore», i rappresentanti eletti dal popolo ladri.
L’eterna arte di arrangiarsi è sempre più di attualità. Non soltanto a livello necessitato dalla sopravvivenza, visto che le condizioni di vita si sono appesantite, le promesse si sono rivelate degli imbrogli e non serve a nulla l’ottimismo di maniera diffuso a piene mani. I caratteri negativi degli italiani, il familismo amorale, l’apoliticismo settario, il rifiuto della politica come incontro-scontro di idee e di progetti, il qualunquismo, il rigetto della morale che disturba il manovratore, un gioioso «liberi tutti» in nome del mitologico mercato, incontrollata bestia rampante, sono diventati i simboli dell’era berlusconiana.
L’ambiguità è un altro dei caratteri che soprattutto nei tempi grami della depressione economico-culturale trova nutrimento nel bel Paese. Ci sono quelli che guardano da dietro le persiane; c’è la «zona grigia dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi», secondo la definizione di Primo Levi («I sommersi e i salvati»). Ci sono quelli del «però», che non rinunciano a rimarcare il bene anche dove il male è chiaramente trionfante; ci sono quelli che fanno il doppio o triplo gioco, un colpo di qui, l’altro di là, con l’illusione o la falsa coscienza dell’oggettività; ci sono gli opportunisti, i trasformisti, gli equilibristi.
Nel 1938, 96 professori ebrei, tra i più illustri, furono cacciati dalle università italiane a causa delle leggi razziali del fascismo: 96 colleghi presero il loro posto. Con qualche problema di coscienza? Con qualche moto di vergogna?
Poi, in ogni tempo, ci sono gli altri, quelli che pagano per tutti in nome della dignità personale e collettiva. Forse è sufficiente ricordare la quindicina di professori (su 1250) che nel 1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà imposto dal fascismo e furono espulsi dalle Università italiane. E i 600mila soldati e ufficiali catturati dai nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 che rifiutarono anch’essi il giuramento di adesione alla repubblica di Salò e in nome dell’onore preferirono i rischi del lager, la fame, il dolore, spesso la morte.
Anche oggi sono infinite le generosità sconosciute che fruttificano in una società infinitamente lontana dalle istituzioni. La grande informazione «indipendente» che dovrebbe raccontare i fenomeni sociali preferisce occuparsi della rivoluzione di Armani. Ignora, come lo ignorano i politici, quel che succede nei piccoli paesi, nei quartieri delle grandi città, nelle aree metropolitane dove nasce, rinasce, si muove una società minuta, complessa, ricca di vitalità, non rappresentata. Una rete enorme di energie nuove.