Le pulci più spietate per il suo secondo discorso d'insediamento le ha fatte a George W. Bush il New York Times, nei giorni successivi alla parata di Washington. La distanza siderale e patente fra il manifesto «libertario», come addirittura s'è spinto a definirlo qui da noi il Foglio, e la politica effettiva del presidente ha dell'incredibile per qualsivoglia commentatore, come pure l'incredibile silenzio sulle due guerre in Afghanistan e in Iraq, ovvero sulla sostanza del primo mandato. Liberazione e democratizzazione, scrive David Brooks, saranno d'ora in poi i fantasmi presenti a tutti gli incontri internazionali: sarà difficile per gli Stati uniti continuare nella politica di sostegno agli «uomini forti» dell'America latina fatta per decenni, o continuare a frustrare l'indipendentismo ucraino, o non considerare Putin come una minaccia per la democrazia, o tacere sulle relazioni degli Stati uniti con la Cina e il Pakistan. Per non dire delle contraddizioni in politica interna: in tanto parlare di libertà Bush si è ben guardato dal nominare il Patriot Act e le restrizioni alle libertà costituzionali che esso comporta. Ma non è solo questione dello scarto fra detto e fatto, dichiarazioni d'intenti e politica reale. Il discorso di Bush merita considerazioni preoccupate anche se lo si esamina in sé e per sé, a prescindere dalla discrasia con gli atti politici. Lungi dall'essere la coerente prosecuzione della tradizione democratica americana, esso è il punto d'approdo della catena di sillogismi che hanno ispirato il presidente texano dall'11 settembre in poi. Lungi dall'essere un manifesto libertario, esso è la stazione finale di un progressivo slittamento del significato della parola «libertà» fra la fine del XX e l'inizio del XXI secolo. In questa doppia chiave lo legge Orlando Patterson, docente di sociologia a Harvard e studioso del significato della libertà nella cultura occidentale e americana in particolare.
Ecco la catena di sillogismi. Primo: i terroristi sono tiranni che odiano la libertà; Saddam Hussein è un tiranno che odia la libertà; ergo, Saddam Hussein è un terrorista. Secondo: la tirannia genera terrorismo; la libertà è l'opposto della tirannia; ergo, promuovere la libertà è il modo migliore per combattere il terrorismo. Catena smentita dal fatto che non tutti i tiranni sono terroristi o protettori di terroristi, e non solo le tirannie generano terrorismo, anzi: le libere democrazie non sono da meno, vedasi la storia del Ku Klux Klan negli stessi Stati uniti, né sono da meno i paesi in transizione da assetti autoritari ad assetti democratici, vedasi la Russia di oggi.
Ed ecco lo slittamento del significato di «libertà» - già evidenziato dallo storico Eric Foner nel suo fondamentale studio di qualche anno fa sulla Storia della libertà americana (Donzelli, per chi volesse leggerlo in italiano). Nel Novecento, scrive Patterson, sono coesistiti negli Satti uniti due concezioni diverse del termine: quella basata su diritti civili, partecipazione politica e giustizia sociale; e quella basata sulla «privatizzazione» della libertà, intesa come affare pertsonale, opportunità di fare quello che si vuole, di andare dove si vuole, di ottenere il massimo potere e il massimo successo possibile. La «libertà fai da te» di Bush, ma anche di Berlusconi, che ha segnato il passaggio dal costituzionalismo democratico al liberismo de-costituzionalizzato.
Su questo crinale cruciale la storia politica delle due sponde dell'Atlantico torna a incontrarsi. Come pure il destino delle rispettive sinistre. Le quali non rivedranno la luce se non rimettendo le mani sulla concezione della libertà, per strapparla al campo avverso e rideclinarla all'altezza dei tempi. Passando per la critica della democrazia, che della libertà non costituisce evidentemente una garanzia, se ne produce due concezioni così sideralmente distanti.