La vicenda dell’affresco vasariano in Palazzo Vecchio su cui anche eddyburg si è soffermata nelle ultime settimane dello scorso anno, si presta perfettamente ad esemplificare lo stato del nostro sistema di tutela e delle politiche dei beni culturali oggi in Italia. Non solo pessimo, ma tendente al farsesco.
Come noto, l’affresco di Giorgio Vasari che ricopre la parete orientale del Salone dei Cinquecento in Palazzo vecchio è stato sottoposto ad alcuni sondaggi alla ricerca di una precedente opera di Leonardo, la mitica rappresentazione della battaglia di Anghiari. L’ideatore del progetto che prevedeva i sondaggi e l’investigazione della parete alla ricerca di un’intercapedine al di là della quale si troverebbe l’affresco leonardesco, è un ingegnere italiano, Maurizio Seracini, collegato con l’Università di San Diego in California: che, dopo anni di tentativi, trovatosi uno sponsor nel National Geographic, ha ottenuto i permessi necessari non solo dal sindaco Renzi – il Comune è proprietario dell’opera - ma anche dalla soprintendente, Cristina Acidini.
Peccato che quest’ultimo passaggio sia stato contestato attraverso una coraggiosa presa di posizione di una funzionaria dell’Opificio delle Pietre dure, istituzione cui era stato richiesto il parere di competenza sulla possibilità di operare i sondaggi senza danno per l’affresco del Vasari. Cecilia Frosinini, responsabile del dipartimento delle pitture a fresco all’interno dell’Opificio, assieme all’ISCR di Roma, la massima istituzione nazionale in tema di restauro, ha espresso una circostanziata critica non solo sulla potenziale pericolosità dei sondaggi a danno dell’affresco, ma sull’intero progetto in questione i cui presupposti scientifici non sono mai stati illustrati pubblicamente e compiutamente.
Ma le preoccupazioni circostanziate di un tecnico di lunga e provata competenza, rilanciate con vigore da Tomaso Montanari in un articolo del 30 novembre, non sono bastate neppure a richiedere, come un elementare atteggiamento prudenziale avrebbe richiesto, un supplemento di verifica. Agli inizi di dicembre sono stati avviati i sondaggi ed è a questo punto, il 5 dicembre, che, mentre Italia Nostra, tramite un esposto alla Procura della Repubblica, sollevava il problema dell’integrità all’affresco vasariano, un contemporaneo appello per l’interruzione delle operazioni potenzialmente invasive, lanciato da un gruppo di storici dell’arte e intellettuali al sindaco e alla soprintendente ha raccolto in pochissime ore molte e qualificatissime adesioni di studiosi di storia dell’arte e di restauro.
Il 6 dicembre, senza nessuna conferma ufficiale, le operazioni di ricerca sono state interrotte e, contemporaneamente, il sindaco ha iniziato una vivace campagna di denigrazione nei confronti dei firmatari dell’appello, da lui, novello Ulisse, accusati di scarso amore per la ricerca e la verità scientifica. La procura, come atto dovuto, ha proceduto ad un sopralluogo sul cantiere di cui si attendono gli esiti.
Nello stallo determinatosi nei giorni successivi, mentre l’appello continuava a registrare un incessante flusso di adesioni, la soprintendente, nella sua doppia veste di responsabile del Polo museale fiorentino e, ad interim, dell’Opificio delle Pietre dure, non ha ritenuto necessarie spiegazioni o commenti ai firmatari dell’appello.
Nel frattempo il materiale prelevato nei sondaggi effettuati è stato inviato per le analisi ad un laboratorio di provincia e sui risultati “secretati” (sic!) dal National Geographic detentore dell’esclusiva, lo scoppiettante sindaco non ha mancato di alludere ad anticipazioni relative a clamorosi risultati.
Infine, dopo settimane di incredibile silenzio, il 23 dicembre la Soprintendente si è finalmente espressa con una lettera a mezzo stampa, affrontando – con molte contraddizioni – solo il tema della pericolosità dei sondaggi. La dichiarazione, sulle cui ambiguità ci sarà sicuramente modo di ritornare, rappresenta ad oggi l’ultimo atto ufficiale della vicenda.
Ad oggi, dunque, mentre i ponteggi serviti per le operazioni ancora ingombrano il Salone dei Cinquecento, ciò che sappiamo di quest’impresa è registrabile esclusivamente sotto l’etichetta “scoop mediatico”. Nessuno di coloro che dovrebbero farlo per ruolo istituzionale ha mai illustrato le premesse scientifiche di quest’operazione. La totale mancanza di trasparenza sulla sua genesi si sposa pericolosamente con la carenza (per usare un eufemismo) di un curriculum specifico dell’ideatore del progetto a ineliminabile, preventiva garanzia della fondatezza del progetto stesso.
Si tratta di lacune non giustificabili non solo nel campo della storia dell’arte, ma della ricerca scientifica tout court, inammissibili, poi, di fronte al potenziale livello di invasività delle operazioni che hanno interessato l’affresco vasariano, pericolo ipotizzato da chi, al contrario, per ruolo e competenza, aveva tutte le credenziali per poterlo fare.
L’episodio va ben al di là di una querelle interna e specialistica fra storici dell’arte. E non perché vi sia coinvolto quel blockbuster mediatico che è Leonardo, ma perché sottolinea spietatamente il degrado cui sono giunte le nostre politiche dei beni culturali.
Dell’uso mercantile del nostro patrimonio usato in maniera spregiudicata anche in questo caso si è scritto con lucidità, ma tale deriva rischia di essere micidiale quando viene ad innestarsi, come a Firenze (ma non solo) in un deserto culturale: da troppi anni la città dei Medici è priva di una programmazione di livello almeno nazionale e si limita ad uno sfruttamento del proprio patrimonio artistico asfittico e privo di una visione di lungo respiro tanto da ricordare il caustico aforisma di Joyce quando di Roma affermava che “fa pensare a quel giovanotto che vive mostrando il cadavere della nonna ai turisti”.
E’ una situazione che caratterizza ormai troppe realtà italiane: oltre a Firenze e Roma, appunto, Venezia, Milano, Napoli, Palermo… pare insomma che al di là di singoli sempre più isolati episodi, la “valorizzazione” del nostro patrimonio culturale sia ormai declinata solo in funzione di un turismo predatorio. E i cui protagonisti sono a loro volta predati, vittime di un’offerta sempre più scadente e da troppo tempo non aggiornata.
Non si tratta solo dell’ormai endemica mancanza di risorse: le troppe iniziative inconsistenti che ancora si succedono (tanto per rimanere a Firenze, si pensi alla dispendiosa vacuità di un evento come Florens), non sono negative solo perché rappresentano uno spreco di risorse, ma perché “inquinano” un contesto e lo vampirizzano e, sostituendosi ad un’offerta culturale degna di questo nome, diseducano, annegando in un’opaca palude di mostre e mostriciattole, eventi e convegni usa e getta (dove facce e argomenti hanno ormai raggiunto un grado di assoluta ripetitività) la possibilità di costruire politiche e azioni non effimere e capaci di ripensare il nostro patrimonio in termini innovativi e conservativi assieme.
Non è un ossimoro, ma una sfida di evoluzione e ripensamento in cui occorre investire tutte le energie possibili: negli ultimi tempi, con una pericolosa accelerazione nell’ultimo biennio, al contrario, a questo ruolo si è costantemente sottratta la principale istituzione di tutela del patrimonio.
Il nostro Ministero dei beni culturali ha dunque urgentissima necessità di rifondare una politica aggiornata e in grado di contrastare culturalmente l’assalto al patrimonio e al paesaggio in atto nel nostro paese. Si tratta di un’operazione né immediata, né semplice, né spendibile in termini mediatici e non ci sono ricette sicure, ma di sicuro deve possedere caratteristiche di trasparenza e, soprattutto, ripristinare spietatamente e senza deroghe, criteri di competenza: gli unici strumenti efficaci in una navigazione che rischia di essere tempestosa.
E’ tutto ciò che è mancato in questa vicenda del “gratta e Vinci”, ed è per opporsi a questo che decine e decine di studiosi di tutto il mondo – e quanto competenti! – hanno espresso il loro dissenso. Non era, per molti di loro e per ragioni diverse, un atto scontato: anche in questo risiede l’esemplarità dell’iniziativa e assieme la necessità di trasformarla, al di là delle contingenze del singolo episodio, in un’occasione di ripensamento profondo dell’uso del nostro patrimonio. Collettivo e collaborativo: a questo mira ad esempio la richiesta dei promotori di istituire un Comitato di esperti che possa discutere, in piena trasparenza, del progetto e del destino di uno dei luoghi simbolo del Rinascimento.
E al “giovane” Renzi, paladino di quest’impresa, consigliamo nel frattempo di rivedere un film ormai decrepito per i suoi standard (1984), Non ci resta che piangere, laddove gli improbabili e cialtroneschi ingegneri simulati dagli irresistibili Benigni e Troisi incontrano un Leonardo da Vinci dapprima perplesso e poi in grado, lui, di inventarsi il primo treno della storia.