Nella cultura e nella storia del movimento operaio quello che oggi decliniamo con il termine di “bene comune” è stato sempre reso con quello di “interesse generale”. C’è sempre stata, infatti,una certa diffidenza nel far proprio tale termine, ritenuto più affine alla cultura del solidarismo cattolico, in quanto non includente, apparentemente, la polarizzazione sociale derivante dal conflitto fra le classi.
È stato merito del movimento altermondista l’aver riscoperto e disvelato la carica e la portata rivoluzionaria del termine, che è diventato l’emblema e il programma di grandi movimenti globali per la difesa dei beni comuni e dell’acqua in particolare, e che ha pervaso anche i movimenti nati nell’occidente per la difesa di diritti e beni sociali fondamentali (acqua, salute, istruzione, servizi pubblici, ambiente, ecc.) contro le striscianti e incombenti privatizzazioni che caratterizzano l’economia della globalizzazione.
Oggi il termine “ beni comuni “è quasi di normale uso nel linguaggio sindacale e politico. Anzi c’è il rischio di un suo uso mistificatorio e manipolatorio per assorbirne, svuotandola, la sua carica innovativa e rivoluzionaria. Ci sono poi politici ed amministratori che usano il termine per legittimare pratiche tutt’altro che coerenti e orientate alla difesa del bene comune.
È questo il caso del destino che vivono le nostre città, divenute spesso anche nelle mani di amministratori di centro-sinistra, teatro di operazioni che hanno sconvolto il loro assetto urbano, sociale, ecologico, con qualche sottovalutazione dei loro effetti anche da parte del movimento operaio e sindacale: la crescita, anche edilizia, delle città è stata vista, in qualche caso, come occasione di sviluppo e quindi apportatore ( effimero) di benessere, di ricchezza e di occasioni di lavoro. Una maggiore consapevolezza critica dello “sviluppo“ è senz’altro maturata negli ultimi tempi nel movimento sindacale. Il fatto stesso che siamo in grado di riunirci a convegno fra importanti camere del lavoro della Cgil per discutere sulla idea di città come bene comune, ci racconta di quanti passi si siano fatti nell’abbandono di una visione economicista della città. Ed è, questa, una consapevolezza che travalica i confini del nostro paese e investe in qualche modo una preoccupazione più generale sul futuro e sul destino delle città, in Europa e nel mondo.
Il modello dello sprawl urbano, imperante negli anni del liberismo più sfrenato, viene oggi sottoposto a rivisitazione critica nella progettazione urbana delle grandi città europee. Contro i suoi alti costi, viene oggi privilegiato un modello urbano fondato sul contenimento del consumo di suolo, sul riuso, sulla cooperazione di area vasta tra comuni e sulla guida delle istituzioni pubbliche, in alternativa alla deregulation urbanistica che aveva imperversato nei decenni precedenti.
La Cgil di Roma e del Lazio ha iniziato un processo di riflessione sulle trasformazioni dell’area metropolitana romana e sulle contraddizioni in essa emergenti, per porle al centro di una rinnovata funzione di rappresentanza sociale del sindacato confederale.
La Conferenza sulle periferie nella città metropolitana del gennaio scorso ha indagato in particolare su come le trasformazioni produttive e del mercato del lavoro romano hanno inciso nella nuova configurazione urbana e sulla “diffusione” della città nel territorio; sul rapporto tra rendita finanziaria, immobiliare ed espansione urbana; su quello tra processi di valorizzazione immobiliare, crisi alloggiativa e caro-fitti; sulla trasformazione multietnica della città, sulle politiche di accoglienza degli immigrati e sui conflitti che provocano con le popolazioni residenti; sulle pratiche partecipative dei cittadini e sul governo di prossimità. Ha in sostanza messo i riflettori su quello che è stato definito come “ modello Roma”, svelandone le contraddizioni, i meccanismi di sviluppo, le profonde disuguaglianze sociali e le tante forme di emarginazione e di disagio urbano di cui era portatore o a cui non aveva saputo dare risposte.
Il risultato delle ultime elezioni a Roma ha consegnato la sua amministrazione per la prima volta dal dopoguerra alle destre. Ed è stato decisivo il voto popolare delle sue periferie più estreme, delle nuove periferie periurbane. Le cause di questa disfatta risiedono, infatti, nel disagio e nel malessere sociale ed urbano crescenti, rimasti senza risposte. I consensi e i voti alle forze del centro sinistra diminuivano, infatti, in proporzione allo distanza dal centro della città. Perché ?
La città di Roma ha visto, come tutti sanno, negli ultimi anni una forte crescita della sua economia. Lo vediamo nei dati della crescita del PIL, della ricchezza pro-capite, e della movimentazione turistica nazionale e internazionale. Ma il motore di questo sviluppo conosciuto come “Modello Roma” è stato trainato dalla valorizzazione finanziaria, immobiliare, turistica del centro storico e dal settore delle costruzioni attraverso l’espansione della città nell’Agro romano e nel territorio metropolitano. Ed stata la rendita finanziaria, intrecciata con quella immobiliare, a guidare e a ridisegnare la nuova composizione sociale e urbana della città. I valori immobiliari nella città sono cresciuti a dismisura ( + 10% annui dal 2001 al 2007), in particolare nel centro storico, accentuando così il fenomeno della fuga degli abitanti verso le periferie, e dalla città verso i comuni più esterni, a costi più contenuti.
Dal 1991 al 2007 la popolazione residente nella città è passata da 2.733.908 a 2.705.603, quella della provincia da 3.695.961 a 4.013.057. Nel periodo, oltre 200.000 romani circa si sono trasferiti dalla città consolidata verso le periferie più estreme e verso i comuni dell’hinterland provinciale.
Il nuovo PRG di recente approvato prevede nuove edificazioni per complessivi almeno 70 milioni di m3 da spalmare nelle 18 nuove centralità urbane e metropolitana previste. Le cosiddette nuove centralità sono in realtà prive di una funzione strategica nel modello policentrico di sviluppo previsto per la città, come fu in qualche modo l’idea irrealizzata del defunto progetto SDO ( Sistema Direzionale Orientale); ma si rivelano essere in realtà nuovi poli di espansione urbana nelle nuove periferie e di consumo di suolo intorno a grandi centri commerciali, incentivando così un modello diffusivo di sviluppo della città oltre il GRA, con nuove periferie fatte di quartieri-dormitorio, privi o carenti di servizi pubblici e privati fondamentali, scarsamente o per nulla serviti da reti di trasporto pubblico.
Nel frattempo a Roma si contavano, nel 2005, 249.000 abitazioni in più rispetto al numero delle famiglie (erano 199.000 nel 2001). Il rincaro medio dei prezzi di vendita tra il 2001 e il 2006 è stato del 44,1%, quelle degli affitti del 73,8%. I costi di locazione hanno raggiunto nel 2006 un canone medio di 195 euro a mq.: in sei anni è quasi raddoppiato. L’incidenza del canone su un reddito familiare di 30.000 euro annui in una periferia si stima essere mediamente del 37%, in presenza di estesi processi di svalorizzazione del lavoro e di crescita della diseguaglianza sociale.
Negli ultimi anni (dati UBS) la retribuzione oraria lorda di un lavoratore a Roma è ormai quasi ultima nell’Europa a 15, al livello della Grecia. La crescita delle retribuzioni si è concentrata nel settore immobiliare e dell’intermediazione finanziaria, fra professionisti e consulenti, costruttori e immobiliaristi. Il lavoro dipendente ne è rimasto invece escluso.
I dati annuali dell’associazione italiana Private Banking collocano Roma e il Lazio al secondo posto in Italia per la presenza di famiglie Super Ricche, dopo la Lombardia, con un patrimonio di almeno 500.000 Euro, escluso il patrimonio immobiliare. Ovviamente Roma ne è la maggiore beneficiaria, portandola così ad essere la città più diseguale d’Italia nella distribuzione del reddito, di cui sono vittime in particolare le donne, i giovani, e l’esercito dei lavatori poveri del terziario e dei servizi, in gran parte precari e a part-time involontario.
Le nuove forme del disagio sociale e urbano richiedono nuove politiche e, soprattutto, un nuovo orientamento anche da parte del movimento operaio e sindacale. Occorre intervenire sulla qualità dello sviluppo locale e territoriale.
Ciò implica la necessità di misurarsi con nuove ed inedite forme di rappresentanza che leghi la rappresentanza del lavoro al territorio e a quella per un modello condiviso di sviluppo urbano; unifichi la rappresentanza del lavoro standard col disagio sociale e la precarietà del lavoro, in particolare, nelle grandi aree urbane, relazionandosi con le tante forme di resistenza civica e sociale che sono cresciute in questi anni nelle nostre città.
Si diffondono sempre più, infatti, anche nei quartieri più periferici di una città come Roma, movimenti di reti e associazioni civiche che si battono contro l’inurbamento ingiustificato e la cementificazione del territorio, per una mobilità sostenibile, per diffondere una cultura e una pratica della solidarietà per i più deboli, per il diritto all’abitare, per affermare un controllo democratico e partecipato sull’uso del territorio e degli spazi pubblici nelle trasformazioni urbane. Nel corso delle ultime due consiliature oltre 90 mila cittadini hanno sottoscritto undici delibere d'iniziativa popolare, testimonianza della volontà dei cittadini di essere protagonisti delle scelte che riguardano il governo del proprio territorio.
Urge quindi anche una riforma e un rinnovamento nella sfera della nostra rappresentanza e della decisione politica. La rappresentanza sociale del lavoro deve integrarsi a livello territoriale con la rappresentanza delle comunità locali ed assumere il paradigma del bene comune con cui declinare la propria funzione nella difesa e promozione dei beni pubblici fondamentali e dei diritti di cittadinanza, nella difesa del territorio e della vivibilità urbana, nel farsi promotore di una economia sostenibile e di una città solidale .
Credo che la nuova confederalità di cui parliamo e la nuova dimensione territoriale che deve assumere l’iniziativa del sindacato e della Cgil, deve fare i conti con il problema della sua rappresentatività sociale oltre gli steccati del lavoro classico di tipo fordista .
La contrattazione territoriale deve assumere il paradigma della città come bene comune. Ciò implica anche che le nostre cdlt devono diventare più rappresentative nei confronti delle comunità locali, rafforzando il loro rapporto col territorio e i cittadini. È ciò che la Cgil di Roma si propone di fare attraverso una vertenzialità diffusa da promuovere in tutte le articolazioni del suo vasto territorio metropolitano per dare voce e rappresentanza al disagio e alle contraddizioni emergenti, aprendosi alla partecipazione delle comunità locali e delle reti sociali e civiche presenti. Così come ci proponiamo di lanciare una grande vertenza sulla politica dell’abitare che dia risposte alla domande diverse di uso della città e di inclusione sociale attraverso un grande programma di edilizia pubblica e popolare che faccia perno sul riuso delle aree pubbliche dismesse e sulla riqualificazione e rifunzionalizzazione del patrimonio immobiliare esistente, senza un ulteriore consumo di suolo nella campagna romana. Ciò implica fare del decentramento dei poteri e della rappresentanza lo strumento per una politica che promuova la partecipazione dei cittadini e delle forze sociali al governo democratico del territorio, per affermare un’idea di sviluppo della città fondata sull’economia solidale, sulla valorizzazione delle risorse e delle culture locali, sulla difesa e la promozione dei beni comuni, nonché sulle funzioni di eccellenza legata ai poli della ricerca di cui è ricca la città, capaci di inverare un vero policentrismo urbano e metropolitano.
Non c’è idea ri-fondativa della città se non sostenuta da una idea di pianificazione urbanistica contro la deregulation liberista che ha imperversato in questi anni. Non c’è città senza cultura e pratica della solidarietà, senza un ideale di comunità, nutrito anche dei valori del lavoro e della storia del movimento operaio e sindacale.