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Lodo Meneghetti
Bellezza a Ravello
24 Marzo 2004
Ravello
Lodo Menghetti sostiene, in questa bella lettera (21 gennaio 2004), che ciò che serve, a Ravello, e non solo, non sono i grandi gesti, ma “un’architettura che sia capace di non ergersi, che scelga invece un lavoro di cura, risanamento del corpo malato, di ricostruzione della perduta giovanile bellezza come nuova bellezza senile”

La bellezza: oggi, rispetto agli interventi del passato, valutiamo col nostro metro e secondo il nostro sentimento della natura, dell’architettura e così via. A questa stregua premetto che la bellezza non ha (non può avere) bisogno di spiegazioni, è un’attribuzione spontanea - nel significato letterale di “senza che si siano subite pressioni dall’esterno” (Palazzi e Folena) - ma ragionata, imposta dalla dotazione sensoriale personale appoggiata alla conoscenza indipendente, vale a dire libera da schemi del tipo, come nella lingua, “vince l’uso, vince la consuetudine”. Siamo all’opposto del “è bello ciò che piace”. Troppo comodo e regressivo. Una vecchia vignetta di Novello presenta una signora un po’ discinta che si porta a letto un grande prosciutto abbracciandolo faticosamente: “ non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace”, recita la didascalia.

Di gusti, caro Eddy, si deve discutere, purché nel “gusto” rientri il significato vasto di ricezione attraverso tutti i sensi (tale è sensazione, e anche sentimento). E se, dinnanzi a questo o quel paesaggio, questa o quella architettura, questo o quell’insieme di architettura e paesaggio, ci domandiamo, nei diversi casi, di quale bellezza si tratta, avvertiremo che il sentimento del bello sorge secondo diverse tonalità, diverso colore musicale (Adorno): ma nella sostanza è il medesimo, così come tutte le ventiquattro tonalità stanno alla pari nella dimostrazione bachiana del Clavicembalo ben temperato. Ricordo una frase di Piero Bottoni: dire che l’arte è una questione di buon gusto è come dire che l’urbanistica è una questione di buon senso. Già, quel buon senso che in una lettera su Baia Sistiana la molto fiduciosa Dusana Valecic (il dibattito che speravamo di sollevare, che fine ha fatto?) pensava appartenesse alle persone qualunque insieme alla capacità di distinguere il bello dal brutto, l’utile dal dannoso. Rispondevo di osservare come è conciato il nostro paese, dai monti alle coste, dalle città alle campagne: sarebbe stato facile riconoscere che la distruzione della bellezza e appropriatezza del paesaggio e dello spazio italiano è avvenuta sotto il consenso, spesso la spinta delle popolazioni. Mi permettevo poi di citare lo psicoterapeuta James Hillmann che in Politica della bellezza ci offre una triste ragione: “Il Grande Represso di oggi è la bellezza… Oggi siamo inconsci della bellezza. Siamo antiestetici, anestetizzati, psichicamente ottusi”. Che siano tali anche i firmatari favorevoli all’intrapresa di Ravello, gigantesca relativamente al posto, forse non accortisi durante la pur meritoria loro attività in campi di elevato valore che il territorio, il paesaggio, gli ambienti mirabili gli si trasformavano sotto i piedi e l’Italia diventava brutta, malpaese (Valentini), malvivibile salvo pochi recessi? O forse, per ragioni di età, la maggior parte di loro non ha conosciuto l’Italia da noi amata (né il particolare di Ravello), o in ogni modo non l’ha conosciuta nella totalità percorrendola in lungo e in largo: impossibilitati ai confronti (questi, per accedere al piano della dissertazione storico-artistico e politico-sociale, costituiscono il materiale di base), cadono facilmente in equivoci circa la dotazione paesaggistica, in tranelli sensoriali ricoperti dall’autorevolezza dell’interventista ancorché emerito. Riguardo a quest’ultimo sono l’ultimo dei sospettabili: al tempo della mia direzione del dipartimento di progettazione del Politecnico di Milano sostenni e introdussi la prima mostra su Oscar Niemeyer dentro la facoltà di architettura. Spiace, a me, soprattutto la presenza di Cesare De Seta, Mario Manieri Elia e perfino di Giovanni Valentini, per non dire dell’ex preside Cesare Stevan mio allievo quarant’anni fa. So che il loro atteggiamento è del tipo: l’opera architettonica di Niemeyer riscatta il luogo, non lede ma, al contrario, “costruisce” paesaggio. Talmente convinti che esprimono fastidio se gli si ricorda il principio del rispetto delle regole e che, come scrive Salzano, non s’accorgono di accedere alla logica dei distruttori tipo Berlusconi, non dei costruttori del paesaggio (nota: nella lista dei sostenitori ben quattordici si autodefiniscono Manager, che finezza!).

Ernst Gombrich, a tanti anni di distanza dal suo gran libro Arte e illusione, ci ha ripetuto che la visione è illusoria: la ragione risiede nella psicologia della percezione. È un grosso problema quello dell’inganno in materia di sensazioni davanti all’architettura, ai paesaggi naturali e artificiali, ai paesaggi archeologici et similia, soprattutto all’intersezione fra diversi oggetti e contesti, in particolare davanti all’architettura in un contesto storicamente affermato. Sicuro inganno, quindi percezione deviata, impropria, alla fine credere di provare godimento e commozione mentre l’anima e il corpo non presentano la minima increspatura: quando il vedere resta tale strictu sensu, un osservare superficiale, l’opposto della penetrante visione osservazionale e immaginosa leonardesca o lecorbusieriana in frequenti situazioni di rapporto con le opere e la natura. Si paga un alto prezzo a vedere senza sapere. Vedere senza cognizioni e preparazione è più che essere ciechi giacché il cieco, avendo acutizzato (talvolta fino all’esasperazione) tutti gli altri sensi, è capace di “vedere”.

A Ravello cinquant’anni fa il territorio, il paesaggio, la relazione fra la scarsissima massa del costruito e il contesto naturale o naturale-artificiale, la distanza/vicinanza col mare narravano un luogo dalla bellezza avvolgente rivolta a scopi umanizzanti. Man mano gl’italiani, i campani, gli autoctoni, gli alloctoni, i ladri di territorio e di bellezza, i fautori dell’“impersonale” cosiddetto sviluppo hanno ferito, lacerato, costruito, stradalizzato, già violato le regole o approfittato della loro inadeguatezza; ma hanno violato anche il cuore e la mente di quelli che lì, in cuore e mente, conservavano la dote ravelliana, solo disposti a vederla crescere in quanto sé, dote paesaggistica, sé, interiorità spirituale (e morale): cosa significa? Che sono già avvenute troppe cose avverse al Grande Represso per credere che altro, l’unicum “questa volta bello” possa davvero liberarlo, il G.R., dalle prometeiche catene che lo hanno costretto a vedersi il fegato spappolarsi sotto le voraci beccate degli avvoltoi nostrani. Allora, non si può fare architettura lì? Sì, in un altro senso, quello cui ho accennato a proposito di Baia Sistiana. Dobbiamo riconoscere, in casi come questo di Ravello e oggi in migliaia di casi analoghi in Italia - luoghi comunque massacrati ma buttanti ancora un filo di sangue vivo dalle arterie -, che la miglior soluzione è quella di un’architettura che sia capace di non ergersi, che scelga invece un lavoro di cura, risanamento del corpo malato, di ricostruzione della perduta giovanile bellezza come nuova bellezza senile.

Chiudo con una citazione a memoria di Wright: l’artista vede più lontano del suo popolo. Sarebbe l’unico a saper creare la bellezza: se non gli riesce non è vero artista e gli altri non possono vederla da soli.

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