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Ida Dominijanni
Abu Ghraib, prova di realtà
6 Dicembre 2005
Scritti 2004
Dopo la guerra di Bush si può ancora dire che le donne sono innocenti, "altre", in qualche modo estranee e lontane rispetto alla guerra ed alla violenza? L'articolo, da il manifesto del 20 luglio 2004, dà conto di una riflessione collettiva, che non riguarda solo le donne

IDA DOMINIJANNI

Non c'è più estraneità femminile rispetto alla guerra: se avesse un senso filtrare qualche sedimento positivo dal panorama devastato del dopo 11 settembre, questo sarebbe uno. Ancora all'inizio degli anni 90, durante la guerra del Golfo, e poi di nuovo durante la guerra in Kosovo, la rivendicazione dell'innocenza delle donne - storica o «naturale» che fosse - rispetto al mestiere maschile delle armi finiva con l'assumere, nel dibattito femminista, una funzione di schermo: esentava dalla presa di parola, dalla responsabilità, dall'azione politica. Già allora in verità lo schema non teneva: c'era Melissa nel deserto iracheno, la marine spaccata in due, mezza soldatessa emancipata mezza femmina stuprata, a dire di un coinvolgimento volente o nolente della donna, e del gioco della differenza sessuale, sul campo. Ma poi sono arrivate le altre: Condoleeza Rice a dirigere le operazioni, e Lyndie England a eseguire sevizie e torture divertendosi allegramente. Tirarsi da parte non si può più: sono donne. Forse degli imprevisti, ma non certo dei meri incidenti, sulla strada della libertà femminile. E l'imprevisto, insegna Hannah Arendt, è ciò che apre la storia e il pensiero. Qualcosa va ripensato, nella piena del mutamento del presente. Come scrive Lia Cigarini sull'ultimo numero di Via Dogana, collocato fra 11 settembre 2001 e 11 marzo 2004: «Ora veramente la cosa della guerra ci tira per i capelli fuori dalle collocazioni che ci siamo date. Impossibile rifugiarsi nell'estraneità». E come scrive Anna Maria Crispino sull'ultimo numero di Leggendaria, dedicato alla sinistra vicenda della tortura nel carcere di Abu Ghraib: «Il fatto che a quelle torture abbiano attivamente partecipato delle giovani donne e il modo in cui ne siamo venute a conoscenza suppongono una prova di realtà cui non possiamo sfuggire». Crispino prova a riordinare le questioni sulla base di una domanda circolata anche in alcuni incontri dei mesi scorsi alla Casa internazionale delle donne di Roma, nonché su queste stesse pagine: Lyndie England «è un esito perverso dell'emancipazione, o anche un portato della libertà femminile che non contiene, non necessariamente né in modo lineare, un ordine di civiltà altra?». Le risposte di Leggendaria sono svariate, ma tutte accurate e da meditare. Bia Sarasini parla della «banalità del male in forma di donna» che emerge nello shifting dall'immaginario della forza femminile stile Kill Bill alla realtà della soldatessa sadica ventunenne del West Virginia. Kenneth Kusmer individua nella saga di Abu Ghraib alcuni elementi sintomatici degli Usa di oggi e dell'Occidente di sempre, come la perversione sessuale innestata sulla violenza razziale, antico marchio del colonialismo, e una certa eroticizzazione in chiave sadomaso della cultura americana, recente marchio dell'America sessuofobica degli anni `90, sul quale torna in altra chiave Roberta Tatafiore. Mariella Gramaglia lavora sul tratto androgino che accomuna i e le ventenni di oggi da New York a Roma a Teheran, dal comportamento fallico di Lyndie England alle giovani teste rasate, maschili e femminili, delle nostre periferie, tratto tuttavia fratturato al suo interno da linee di classe sempre più implacabili. Anna D'Elia conta i danni dell'effetto Abu Ghraib: demonizzazione della parità fra uomini e donne che porta a par orrori di uomini e donne, demonizzazione della scommessa sulla differenza che ne esce smentita, affossamento del multiculturalismo, strada spianata alla prossima guerra preventiva contro il femminismo dopo quella contro il terrorismo. Letizia Paolozzi interroga l'afasia maschile di fronte a quelle foto, Gabriella Bonacchi e Alberto Leiss le confrontano con altre sintomatiche immagini pescate nella miniera cinematografica dell'inconscio collettivo.

La strategia, o le strategie femministe non ne escono intatte. Ma neanche azzerate. Acutamente Marco Bascetta vede nel gesto di obbedienza al corpo militare della torturatrice l'esatto contrario del gesto di diserzione dal corpo militante operato dal femminismo negli anni 70. E Lia Cigarini - torno a Via Dogana - individua in Lyndie England non una deriva imprevista della libertà femminile, bensì la traccia di un'antica contraddizione, fra il progetto della libertà femminile e la permanenza del tratto fallico della sessualità di donne non libere, che si mettono al servizio del simbolico maschile. Resta che Lyndie England e Condoleeza Rice non bastano ad azzerare alcuni guadagni della pratica politica delle donne, come argomentano su Via Dogana con toni segnati dal dolore del presente, Marina Terragni, Ana Maneru Mendez, Luisa Cavaliere. Tornare alla pratica dell'inconscio, dice Terragni, ci aiuterebbe a capire che cosa corre in noi sotto questi cieli di guerra. Inconsciamente appunto, Mariella Gramaglia ci prova su Leggendaria. Racconta di come le capitò di vedere per la prima volta, a 10 anni, un nudo di uomo, in una mostra sui campi di sterminio nazisti, «un corto circuito emotivo indimenticabile per l'intera vita», monito a non dimenticare che, «se si spezza il legame fra esporsi ed essere accolti, qualcosa di atroce può essere in agguato»: il salto del confine fra l'umano e l'inumano, direbbe Judith Butler.

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