loader
menu
© 2025 Eddyburg

C’è di tutto nel letto del Serchio: strade, ferrovie, aree industriali, impianti sportivi, scuole, residenze, strutture ricettive, discariche, discoteche, club ippici, colonie solari, campi nomadi. E le golene sono quasi completamente edificate, tanto da rendere difficile individuare possibili casse d’espansione in cui far defluire le acque in caso di piena, per evitare nuovi disastri. È disarmante il quadro che si ha delle condizioni dell’asta del Serchio, percorrendola tutta dalle sorgenti sopra Sillano e Minucciano fino a Nodica e al mare, passando per la Garfagnana, la Media Valle e la Piana di Lucca.

Un viaggio lungo il fiume che Il Tirreno ha fatto - venti giorni dopo la drammatica alluvione - insieme al segretario dell’autorità di Bacino del Serchio, il geologo Raffaello Nardi, l’assessore della Provincia di Lucca alla protezione civile, Emiliano Favilla, e il presidente della commissione provinciale infrastrutture Francesco Angelini.

Secondo il programma degli interventi del piano di bacino, occorrerebbe oltre un miliardo di euro per evitare nuove esondazioni attraverso la realizzazione di casse di espansione, gli adeguamenti degli argini e delle infrastrutture viarie, la manutenzione delle opere idrauliche, la bonifica e il consolidamento delle frane e la sistemazione idraulico-forestale. In realtà non c’è al momento traccia di stanziamenti del genere, sia pure in un periodo pluriennale. Dal 2003, in sostanza, arrivano i soldi per pagare gli stipendi della trentina di dipendenti e piccole somme che finiscono più per rispondere alle richieste dei singoli Comuni che non al quadro d’insieme delle cose da fare.

Che sono tante e tutte urgenti, come si capisce subito scendendo sulle rive del fiume tra Piano della Pieve e Castelnuovo Garfagnana, dove sul greto del Serchio sorgono numerosi insediamenti produttivi, accanto a scuole, impianti sportivi e abitazioni. Rischiano tutti di finire sott’acqua e l’Autorità di Bacino si è già opposta a ulteriori ampliamenti a valle. «Anche alla luce dei danni prodotti dalle ultime piene - spiega Nardi - sarebbe opportuno realizzare delle protezioni in tutte le aree produttive sul fiume, come abbiamo fatto a Diecimo di Borgo a Mozzano per tutelare le fabbriche che erano andate sotto nell’alluvione del 2000. In quel caso la metà della spesa fu sostenuta dall’Associazione industriali».

Aree simili, a rischio, sono anche quelle di Gallicano, Bolognana, Pian di Coreglia, Fornaci di Barga, Fornoli e Socciglia.

Altro provvedimento urgente è la delocalizzazione di quelli che in gergo vengono chiamati “mucchi” nell’alveo, per lo più impianti per la lavorazione e il riciclaggio degli inerti (soprattutto ghiaia). Ce ne sono lungo tutto il corso del Serchio e alcuni hanno dimensioni imponenti, come a Gallicano, Borgo a Mozzano, Ponte a Moriano, e Nave.

«Con Comuni e privati - commenta il segretario dell’Autorità di Bacino - ci sono protocolli d’intesa. Solo Lucca deve ancora approvarli, ma mi risulta che la delibera stia per arrivare in consiglio comunale». Peccato che quella delibera dia dieci anni di tempo alle aziende che devono spostarsi. Lucca, il Comune più colpito dalle alluvioni, sembra paradossalmente il meno sollecito ad attuare rapide misure di prevenzione e salvaguardia. Alle prossime piene, la delocalizzazione potrebbe rivelarsi superflua: il fiume potrebbe aver spazzato via i “mucchi”.

Più urgente ancora è capire in quali condizioni si trovano davvero gli argini che hanno ceduto di fronte a una portata - 1.700 metri cubi al secondo a Lucca e 1.900 a Nodica - inferiore a quella di altre piene passate senza danni. In attesa di conferme scientifiche, Nardi ha comunque una convinzione: «Le notizie storiche dal 1419 in poi non riportano la concomitanza di due piene superiori ai 1.700 metri cubi nel giro di due-tre giorni. Non va dimenticato che il 18-19 dicembre 2009 c’erano state nevicate abbondanti anche a valle e che gli argini erano quindi diventati molli.

Quattro giorni dopo, il 22, è passata una piena da 1.200 metri cubi e gli argini si sono intrisi ancora di più. A distanza di 48 ore, alle 6,10 del 25 è arrivata l’ondata da 1.700-1.900 metri che ha creato non la tracimazione, ma la rottura dell’argine in due punti a S. Maria a Colle e, più a valle, a Nodica. Non dimentichiamoci che il mare in tempesta non riceveva. Non credo peraltro che siano casuali i punti della rottura, avvenuta all’altezza di due meandri dell’antico Auser (il Serchio di allora, ndr) raddrizzati per portare il fiume verso il mare invece che nel bacino del Bientina. Va infine aggiunto che gli argini sulla riva destra, a Lucca come nel Pisano, sono terrapieni meno robusti rispetto a quelli della riva sinistra, costruiti più ampi e solidi per proteggere le città. In passato, in casi di piena, gli argini venivano rotti proprio nell’Oltreserchio, per evitare danni ai centri abitati».

Il guaio è che oggi, da Ponte a Moriano a Nodica, ma anche più a monte, tutte le fasce sotto gli argini sono centri abitati. In teoria non ci potrebbe essere alcuna costruzione a meno di dieci metri dai terrapieni; la realtà è che si trova di tutto, anche a pochi metri dall’acqua, in mezzo al letto. I controlli? L’Autorità di Bacino indica con chiarezza le prescrizioni e i divieti, ma i Comuni non sembrano particolarmente impegnati nel farli rispettare. E i privati, di fronte ai dinieghi, si rivolgono al tribunale delle acque e al Tar, arrivando anche a chiedere i danni. Risultato: alla fine passano progetti di ogni genere. «Sono gli effetti della legge ponte del 1967 che, dopo l’alluvione di Firenze - chiarisce Nardi - previde lo stop alle edificazioni accanto ai corsi d’acqua, concedendo però un anno di proroga. Ci fu la corsa a presentare richieste per nuove costruzioni, i cui danni sono stati poi aggravati dall’abusivismo e dal condono del 1985». Solo a Lucca, le domande di condono sono 10mila, molte delle quali ancora inevase.

Perché stupirsi allora, scendendo a valle, delle aree industriali a due passi dall’acqua del Serchio a Gallicano, Pian di Coreglia, Fornaci di Barga, Pian della Rocca, Socciglia, Diecimo, Chifenti, Piaggione, Ponte a Moriano e giù giù fino al mare? O delle zone sotto Nodica occupate da stabilimenti che sorgono in terreni 4-5 metri sotto il livello del Massaciuccoli? O ancora della presenza di un club ippico, di un campo nomadi, di una ex colonia e di una discoteca - accanto a impianti per lavorare gli inerti - tra Monte S. Quirico e Ponte S. Pietro?

Il 2010 segnerà anche per la Toscana un cambio al vertice dell’amministrazione regionale: è dunque il momento di fare una breve considerazione e qualche auspicio. Per la sua storia e la sua civiltà, la Toscana ha il dovere, verso i suoi cittadini e verso il mondo, di preservare con cure specialmente attente lo straordinario, delicatissimo patrimonio di valori ambientali, paesaggistici, urbani.

In Toscana meglio che altrove è possibile cogliere l’intima unità del patrimonio culturale col paesaggio, la diffusione capillare di opere d’arte e monumenti fin nelle più remote pievi di campagna, la secolare costruzione di un orizzonte di civiltà e di bellezza che fino a qualche decennio fa appariva spesso inalterato. Dalla Toscana, in un momento di svuotamento progressivo dello Stato sotto le irresponsabili spinte della Lega e nella colpevole inerzia delle (mancate) opposizioni, abbiamo il diritto di attenderci, come Italiani, la costruzione di un modello integrato di conservazione per lo sviluppo, che possa servire da esempio-guida per il resto d’Italia.

In questi anni di crescente degrado della cultura civica e di assalto ai valori della Costituzione, la Toscana ha “retto” meglio di altre regioni italiane (come la Sicilia o il Veneto) alle pressioni di speculatori senza scrupoli e alle spietate cementificazioni. Meglio, o sarebbe più giusto dire “meno peggio”. Ma la Toscana non può accontentarsi del “meno peggio”; non può affidare la propria politica del paesaggio, come spesso è stato, a soluzioni compromissorie. Deve scegliere e indicare la propria strada, con consapevolezza e ambizione: per rispondere alle aspettative dei cittadini, ma soprattutto per rispettare se stessa, la propria tradizione e il proprio futuro. Il mio auspicio per il 2010 è che la nuova amministrazione regionale sappia cogliere l’importanza e la pregnanza di questa sfida: un’occasione che la Toscana non può perdere.

I Comuni della Val di Cornia, per decenni, sono stati portati ad esempio per i piani regolatori coordinati, redatti sin dagli anni ’70, e per l’aver previsto al loro interno la tutela di oltre 8.000 ettari di aree d’interesse archeologico e naturalistico. Da quei piani è sorto il sistema dei parchi, anch’esso attuato senza ricorrere ad Enti e con risultati che collocano questa esperienza tra i migliori esempi nazionali. Non è bastato. Disconoscendo il suo valore, le attuali amministrazioni sembrano preferire l’istituzione di un Ente parco regionale. La lista civica “Comune dei Cittadini”, nel Comune di Campiglia, ha fatto sentire il suo dissenso.

Dalla stampa apprendiamo che i Comuni hanno richiesto alla Regione di creare un “ente parco” per la Val di Cornia. Naturalmente di tutto questo non sanno nulla i Consigli Comunali, né è stato oggetto di una discussione pubblica.

Come noto, i parchi della Val di Cornia sono divenuti un punto di riferimento nazionale per l’essere stati concepiti, realizzati e gestiti direttamente dai Comuni tramite un loro soggetto strumentale. Qui non esistono enti che sostituiscono i Comuni nell’amministrazione del territorio del parco: gli obiettivi e le norme dei parchi sono contenute nella pianificazione urbanistica definita in forma coordinata dai Comuni sin dagli ’80.

L’assenza di enti intermedi, insieme alla feconda interazione con il mondo della ricerca scientifica e alla cultura d’impresa che si è formata nel management della società Parchi, è stata una delle ragioni del successo di questa esperienza. In poco più di 10 anni è stato messo in opera un sistema integrato di parchi archeologici, di musei e di aree naturali protette che ha tutelato il patrimonio, consentendo inoltre di raggiungere nel 2007 il pareggio di bilancio di parte corrente.

Senza nulla togliere alla funzione sociale degli enti parco (in molte realtà senza gli enti parco non si sarebbe protetto il territorio), si deve riconoscere che il modello adottato dai Comuni della Val di Cornia ha dato ottimi risultati. Questa è la ragione della grande attenzione che ha suscitato questa esperienza a livello nazionale. Del resto, a riprova, basta osservare ciò che è accaduto per il parco interprovinciale di Montioni dove sono occorsi 12 anni dalla sua istituzione per sottoscrivere, solo nel 2009, l’atto costitutivo dell’ente che dovrà gestirlo. Qualche riflessione andrebbe fatta.

Stupisce quindi che sia proprio la Val di Cornia a considerare oggi l’ipotesi di approdare a scenari che prevedono nuovi enti, piani dei parchi separati dai piani urbanistici dei Comuni, duplicazioni di funzioni amministrative e burocratiche. Se così sarà i Comuni rinunceranno a svolgere il ruolo di protagonisti primari della tutela del territorio che hanno avuto fino ad oggi, non senza contraddizioni. E vorrà dire che ci saranno stagioni in cui si sono fatti parchi ed altre in cui si fanno enti.

Campiglia, 19 dicembre 200

Gruppo Consiliare Comune dei Cittadini

PALAIA. Le mura esterne hanno un colore indistinto, alcune sono scrostate o cadenti; i tetti in più punti mostrano cedimenti. Lo scenario è vuoto, nel corridoio selciato che attraversa il borgo di Villa Saletta. Una cittadella inanimata in realtà, che si staglia in alto sulla collina lungo la strada palaiese. Risale al mille il suo primo nucleo, fatto costruire dal vescovo di Lucca Guido. Cresciuta nel medioevo (insieme alla tenuta), più tardi parte delle costruzioni borgo nacque per volontà dei Medici, che ne furono proprietari nel milleseicento. Poi la cittadella passò ai Riccardi e da questi alla famiglia Niccolai Gamba Castelli. Il resto è storia recente, che ha visto la villa e la tenuta passare da una società inglese (già proprietaria di una catena di alberghi) a un’altra, che ha diviso il patrimonio in tre società: Fattoria Villa Saletta, Frantoio Villa Saletta, Hotel Borgo Villa Saletta. Un progetto che inizia sette anni fa e che traghetterà (per il 2011) il borgo millenario verso scenari internazionali: lo riporterà a nuova vita, spiega l’amministratore delegato delle tre società, il 43enne newyorkese Douglas Platt, conservandone la struttura ma lanciandola nel mondo del super lusso. L’investimento previsto è di oltre duecento milioni di euro. E le aspettative di nuova occupazione sono stimate in cinquecento posti di lavoro: 250 diretti (come camerieri, inservienti, cuochi, receptionist nell’albergo) e 250 indiretti, soprattutto nell’ambito del catering. L’imperativo: conoscere la lingua inglese.

Ma se quello che si prospetta come epilogo per il borgo di Villa Saletta è improntato nelle migliori direzioni, dalla fine degli anni Novanta il complesso millenario ha vissuto nel bel mezzo di un’altalena di progetti mancati e iter autorizzativi del Comune mai giunti concretamente in porto. «La proprietà precedente a quella attuale - spiegano il sindaco di Palaia Alberto Falchi e l’ingegner Borsacchi dell’ufficio tecnico comunale - aveva presentato un progetto per fare della villa un complesso turistico ricettivo con centro benessere, campi da golf. Ma i pareri favorevoli all’iter autorizzativo che il Comune aveva emesso sono rimasti lettera morta. Quella società non ha mai chiesto concessioni». E il borgo è rimasto lì, in decadenza.

Come spesso accade, la svolta è frutto del caso. Un giorno di sette anni fa Douglas Platt, manager del settore immobiliare nato e cresciuto nella Grande Mela, passa da Villa Saletta con la moglie Barbara Bertini, origini pontaegolesi ma residente a Firenze, dove la coppia si era stabilita e vive tuttora (in attesa di trasferirsi a Venzano di Volterra, dove i Platt, insieme ad altri soci, hanno acquistato l’ex monastero agostiniano nel quale gli australiani Lindsay Megarrity e Donald Leevers avevano realizzato un agriturismo e un giardino delle essenze fra i più famosi al mondo).

Rimangono stregati dal fascino del borgo e Platt prende subito contatti con la proprietà. Forte di quattro trust di imprese britanniche disposte a investire, conclude in breve tempo l’affare, e Villa Saletta, con i suoi 600 ettari di tenuta (di cui venti coltivati a vite e con un’oliveta di 2.500 piante) e le sue 25 case coloniche, passa di mano.

Dal 2000 comincia la gestazione del maxi progetto, che ora, afferma il manager, è in dirittura d’arrivo. Sono in corso le consultazioni con la Sovrintendenza e presto verranno presentate le richieste di concessioni edilizie. Intanto è stato ristrutturato un palazzo, dove hanno sede gli uffici, e da pochi giorni è partito il restauro di una parte di tetti.

«Dopo tanti anni il progetto sta partendo - dice infatti Platt -. Il borgo sarà convertito in un hotel a cinque stelle, del calibro di Danieli a Venezia o di quelli della catena Four Seasons. Avrà 130 camere di sessanta metri quadrati ciascuna, e 26 suites, cinque ristoranti, pizzeria, pub, bar, centro benessere e spazi per conferenze. Tutti i locali e le strutture avranno accessori di alta tecnologia. Nel 2008 inizieranno i lavori. Sarà l’albergo più bello di tutta la Toscana e tra i più belli d’Europa. Solo per l’albergo abbiamo un budget di cento milioni di euro, mentre l’investimento complessivo supera i duecento».

Cibo e prodotti naturali saranno il filo rosso del complesso turistico ricettivo, pensato per una clientela high level (di alto livello), soprattutto britannica e americana. Al suo interno nascerà una cooking school, scuola di cucina che utilizzerà i prodotti dei campi della tenuta; una wine academy, accademia del vino che farà perno su quelli prodotti nel vigneto di casa e anche i trattamenti del centro benessere avranno come base ingredienti naturali.

Sarà bene che gli abitanti della zona comincino a studiare l’inglese: l’intenzione della proprietà, spiega Platt, è di assumere soprattutto persone del posto per l’albergo e le altre attività che saranno inaugurate a gennaio 2011.

Un altro caso recente in Tuscany, a Castelfafi.

Il Consiglio di Stato resuscita «l´ecomostro» di Monticchiello, così definito per primo da Alberto Asor Rosa nell´estate del 2006, il nuovo insediamento abitativo a ridosso delle mura del borgo medievale che diventò l´emblema di una vasta campagna contro la cementificazione della Toscana. La sesta sezione del Consiglio di Stato ha infatti annullato i provvedimenti dell´allora ministro Francesco Rutelli che, tra il gennaio e il settembre 2007, imposero il vincolo indiretto all´area intorno alla rocca di Monticchiello e bloccarono la realizzazione delle ultime tre villette non ancora costruite (18 appartamenti, meno di un quinto dell´intero insediamento). Da oggi, volendo, gli imprenditori di Iniziative Toscane potrebbero riaprire il cantiere per completare il villaggio. Così come era stato progettato in origine. Così come non piace proprio alla rete degli ambientalisti.

Il progetto di costruire sotto Monticchiello viene da lontano, è previsto da vecchi piani regolatori, giunge a conclusione il 10 agosto 2006 quando il Comune di Pienza, decorso il termine entro il quale la soprintendenza può annullare la pratica, rilascia il permesso a costruire. Le ruspe si mettono subito al lavoro. Asor Rosa, che ha una casa in zona, solleva il caso su Repubblica il 24 agosto 2006. «Il cemento assale la Valdorcia» scrive, dando il via a una vasta mobilitazione per tutelare una delle zone più belle d´Italia, parco e patrimonio universale dell´umanità secondo l´Unesco. Entra in campo il ministro Rutelli, che a gennaio cala il suo asso. Ai costruttori comunica l´avvio di un procedimento amministrativo ai sensi del decreto legislativo 42 del 2004 per imporre il vincolo indiretto nell´area costruttiva a tutela della cinta muraria di Monticchiello con torri, porte e rocca. Stop agli edifici ancora da costruire e via a uno studio affidato a un´équipe di architetti paesaggistici per mitigare l´impatto delle opere già edificate.

Ma i costruttori, assistiti dall´avvocato Giuseppe Morbidelli, ricorrono al Tar. Perdono il primo round. Fanno appello. E la spuntano. Oggi, infatti, il Consiglio di Stato annulla il vincolo indiretto imposto dal ministero sostenendo, tra le altre cose, che la procedura non ha ricevuto un adeguato approfondimento tecnico, che il vincolo indiretto non è ammissibile per mancanza di un completo vincolo diretto della rocca da proteggere, che il diritto acquisito dai costruttori non è stato precisamente compensato con la possibilità di costruire altrove. In teoria il ministero potrebbe riproporre il vincolo, ma solo al termine di una lunga e approfondita istruttoria e al costo di un grosso risarcimento dei danni. Certo è, invece, che da oggi Iniziative Toscane può tornare a muovere le ruspe. Amareggiato Asor Rosa. «Non discuto le sentenze» dice. «La ferita è già evidente, degli interventi di mitigazione previsti da Rutelli non c´è traccia, sono stati una presa in giro. Adesso confido in una iniziativa degli enti locali, in particolare del Comune di Pienza, perché si trovi una qualche forma di risarcimento per l´impresa in modo da evitare il completamento dell´ecomostro».

Informazioni e documenti sulla Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio sono disponibili qui

«Prima la Val di Cornia veniva portata ad esempio, oggi è finita anch’essa sul banco degli imputati. Anche da noi si è generalizzata la politica delle varianti al piano strutturale, ridotto progressivamente il potere dei consigli comunali, quasi azzerata la programmazione coordinata». E tra la politica e la cultura sembra scoppiata «una vera e propria guerra». L’allarme viene dal professor Rossano Pazzagli, che ieri a Venturina ha moderato un dibattito sulla «politica del cemento» con Vezio De Lucia e Salvatore Settis. Urbanista e consulente dei piani strutturali dei Comuni di Piombino, Campiglia e Suvereto il primo, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa e autore della denuncia sullo sviluppo edilizio di San Vincenzo il secondo.

Buona urbanistica contro cattiva urbanistica. Buona quella che ha portato alla nascita del sistema dei Parchi della Val di Cornia, «che non ha confronti in nessuna parte d’Italia e probabilmente d’ Europa», secondo De Lucia. Cattiva quella attuale, in cui agli atti autoritarivi dello Stato si vanno sostituendo gli atti “di negoziazione” tra pubblico e privato, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

Ma l’affondo più duro è venuto ancora una volta da Salvatore Settis: «La spinta lodevole della Val di Cornia - ha detto nel suo intervento - nasceva dalla concezione del paesaggio come bene comune, oggi invece i Comuni stanno svendendo il territorio. E non è accettabile la linea difensiva di chi minimizza la situazione in Toscana prendendo ad esempio le regioni in uno stato peggiore.

Molti gli interventi dei presenti, i quali più che rivolgere domande hanno portato testimonianza degli aspetti maggiormente condannabili del cambiamento della zona, dalla persistente vicinanza dell’industria alla città di Piombino, al problema delle cave campigliesi. Sono intervenuti anche due candidati alla carica di sindaco. Massimo Zucconi, che concorre per Campiglia, ha ricordato il coraggio dell’amministrazione piombinese che eliminò 180 ettari di costruzioni abusive (che interessavano 10mila persone) dalla Sterpaia e di quanto il sistema dei Parchi sia debitore degli stralci ai piani regolatori che hanno salvato il territorio dove quel sistema è sorto.

Assurdo, secondo Zucconi, dire, come ha fatto il sindaco di Campiglia, che il padre del Parco sia la Cava di Monte Calvi. Nicola Bertini, candidato a San Vincenzo, ha lamentato l’inversione della priorità tra pubblico e privato e la “dubbia” elasticità del concetto di interesse pubblico, che pare aggiustarsi ad incastro, a suo dire, ai progetti di provenienza privata. Tra il folto pubblico in sala, poche le facce di Campiglia; una delle persone intervenute ha esclamato, suscitando gli applausi, che “gli amministratori non vengono mai a queste serate di approfondimento!” In effetti, non era presente nessun rappresentante delle istituzioni locali, neppure un consigliere comunale.

Settis, Asor Rosa, il direttore del “Tirreno”, Frontera e Vanni, Moschini: tutti a ragionare di “politica e cemento”. Sorprende il silenzio di chi governa, come se niente fosse di loro competenza.

Colpisce la conseguenza logica tra l’affermazione del direttore «la strada del cemento è stata la scorciatoia per una politica che non solo ha smesso di pensare, ma non vuole nemmeno che lo facciano altri» e quanto scritto da Frontera e Vanni che ricordano solitudine, avversione, quindi fallimento di un responsabile tentativo di dare al territorio della provincia di Livorno uno strumento di governo pensato per fare di conto tra trasformazioni urbanistico-edilizie e risorse disponibili, applicando parametri certi, misurati e non svolgendo valutazioni letterarie.

In considerazione di ciò e dei tempi elettorali, sussiste il dovere della chiarezza, dobbiamo attestare che spesso si è cercata la scorciatoia del cemento pensando che questa potesse essere sviluppo, anche se tante volte è stato ripetuto che l’edilizia è attività di servizio alla produzione, alle attività primarie, allo sviluppo vero e duraturo. Ebbi modo di dire queste cose già in una conferenza programmatica della Cgil livornese nel gennaio-febbraio del 2005, ma tant’è.

Altrettanto è evidente che si è smesso di pensare ad un progetto di città e comunità, di territorio, che è facile inseguire centri commerciali, le grandi operazioni, spacciare come un successo la realizzazione, a scomputo degli oneri, delle opere di urbanizzazione, dimenticandosi che poi chilometri di strade, fogne, condotte idriche, impianti di illuminazione, vanno gestiti; peggio ancora dimenticando che la competitività di un territorio è garantita in prima istanza dalla qualità ambientale e paesaggistica, quindi dall’accessibilità, dalla vivibilità, dai servizi alle persone e alle imprese. E non possiamo dimenticare che una sussidiarietà forse male interpretata come acquisizione tout-court di potere, ha consegnato ai Comuni molti compiti e oneri, finito per travolgere ogni sistema di controllo, ovvero ha consentito una sorta di “co-pianificazione” che la Regione ha reintrodotto in forme non sempre chiare, soprattutto per quanto riguarda la specifica responsabilità di scelta. Cioè non ci si è assunti l’onere di assegnare a ciascun livello compiti e ruoli, senza sovrapposizione di competenze e si è creato un sistema di valori e beni - suolo, paesaggio, risorse idriche - comunque contendibili: in questo contesto, tutto appare possibile e ovviamente spesso lo è per chi, economicamente, è più forte.

È dunque evidente:

1. che molti problemi non si possono più governare negli angusti confini comunali;

2. che frammentazione istituzionale e competizione tra territori hanno prodotto la moltiplicazione degli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia a scapito della qualità ambientale e paesaggistica;

3. che la mancata riforma della fiscalità e della contabilità locale ha fatto degli oneri di urbanizzazione un’entrata irrinunciabile;

4. che la crescita urbana equivale a futuri maggiori costi di gestione urbana (e cioè a meno risorse per scuole, servizi sociali, verde pubblico);

5. che non si vede all’orizzonte chi si faccia carico di un confronto senza tesi precostituite e ricostruisca un proficuo rapporto tra politica, amministratori, competenze e cittadini: prevale ovunque il “frazionismo” che si riassume nella sindrome di “nimby”, “non nel mio cortile”;

6. che se si crede davvero ai principi europei la valutazione ambientale non può essere ridotta a espressione letteraria, ma deve essere saldamente ancorata alle risorse, cioè a specifici limiti: se le risorse ci sono le cose si fanno, altrimenti non si fanno. Non si può pensare che comunque si debba fare e poi si vedrà;

7. che il futuro del paesaggio non può essere rimesso ad una valutazione separata, di volta in volta, di progetti edilizi, ma ferreamente connesso a specifici vincoli di tutela;

8. che territorio e paesaggio sono capitale fisso sociale, non bene soggetto alla fluttuazione e speculazione dei mercati;

9. che non abbiamo bisogno di “piani casa” e leggi ad hoc - perché norme per gli ampliamenti invece che per nuove costruzioni erano e sono possibili con un qualsiasi piano regolatore che stabilisca cosa fare e come - ma di norme sul diritto dei suoli, la determinazione delle indennità di esproprio che non possono essere definite come prezzo di mercato perché, se uno Stato è comunità, una forma di solidarietà ci deve essere.

Ma siamo maturi per tutto questo, ci sono volontà politiche di discutere e voglia di riprendere un cammino?

Se oggi autorevoli personaggi della cultura denunciano una crisi del paesaggio toscano e un cattivo governo del territorio una ragione ci sarà. E se negli ultimi anni centinaia di cittadini in parecchi luoghi (compresi Piombino, San Vincenzo e Campiglia) si sono organizzati dal basso per contrastare villette, cave, porti e altri episodi di cemento, non sarà certo per caso o per capriccio. Eppure il ceto politico reagisce stizzito o tace di fronte a un problema reale. Così la crisi del paesaggio ne evidenzia un’ altra altrettanto grave: quella della politica, o meglio, della politica democratica.

Salvatore Settis, Alberto Asor Rosa, Vezio De Lucia, Vittorio Emiliani, Furio Colombo e Bruno Manfellotto - solo per citare i più noti intellettuali che dai settori dei beni culturali, dell’urbanistica, e del giornalismo - non hanno esitato a parlare di un’emergenza paesaggio in Toscana. E non può consolare il fatto che altre regioni abbiano fatto peggio. Questa è semmai un’ aggravante per quanto riguarda la crescita anche qui di una politica del cemento.

Settis ha scritto sul Tirreno che “il partito del cemento ha esteso anche in Toscana i propri tentacoli, insinuandosi in Comuni d’ogni colore politico”, portando ad una situazione paradossale: mentre si parla di crisi edilizia, si moltiplicano le costruzioni (S. Vincenzo e Venturina docet). La stessa Regione ha dovuto riconoscere - come ha ricordato Massimo Morisi - che in Toscana si è costruito troppo e male, ma poi si è affrettata ad approvare il berlusconiano piano-casa.

Sono tutti “piccoli, rancorosi e smemorati”, come ha scritto il segretario del Pd di Piombino-Val di Cornia Tortolini, sempre preoccupato di bollare così coloro che si permettono di criticare? Tutela del paesaggio e libertà di pensiero dovrebbero andare a braccetto.

La Val di Cornia, che fin dagli anni ’70 aveva conosciuto pratiche di buona pianificazione urbanistica, è ora tristemente sul banco degli imputati. Essa è passata dai piani regolatori elaborati nei primi anni ’90 ai piani strutturali degli ultimi cinque anni. Ci sono errori passati che vanno corretti, ma si è assistito anche ad uno scadimento della cultura della pianificazione, con il ricorso sempre più frequente alla politica delle varianti e delle aggiunte, una riduzione del ruolo dei consigli comunali e della partecipazione dei cittadini, un arretramento sostanziale del coordinamento urbanistico tra i Comuni, a dispetto del fin troppo celebrato piano strutturale d’area e dell’annunciato regolamento urbanistico unico, che le amministrazioni uscenti non sono state in grado, in cinque lunghi anni, di portare a conclusione.

Si predica bene e si razzola male: sembra essere stato questo il motto seguito, camuffato da un neoriformismo che ha poco a che vedere con la vera tradizione riformista. “Un’armonia di contrasti da raggiungere” l’ha definita lo stesso Tortolini... Troppa grazia, cosa vuol dire? Intanto il piano strutturale registra una crescente occupazione di territorio e un consumo medio di suolo di 623 mq per abitante, con intuibili danni all’agricoltura e all’ambiente.

Le ferite al paesaggio rispecchiano anche, qui come altrove, il degrado della politica e della democrazia. Che fare? Settis, Colombo e gli altri non possono restare cavalieri solitari. Il paesaggio è un bene comune e il territorio è la principale risorsa della nostra regione. Tocca ai cittadini, alla politica diffusa fuori dai partiti, ai municipi ancora virtuosi, alle mille pieghe della società civile rivendicare un nuovo protagonismo e una vera stagione di partecipazione. Solo così, insieme ai mali conclamati che affliggono il paesaggio, potremmo cominciare a curare anche quelli incombenti della democrazia.

In questo la Toscana, per le sue tradizioni paesaggistiche e civiche, dovrebbe avvertire una “responsabilità nazionale”, come ha recentemente scritto l’urbanista De Lucia.

L’autore è docente di storia all’Università del Molise e direttore dell’Istituto di ricerca su territorio e ambiente Leonardo di Pisa

I precedenti, contrapposti, interventi sul Tirreno:

Alberto Asor Rosa, 8 maggio 2009

Bruno Manfellotto, 10 maggio

Salvatore Settis, 12 maggio

Erasmo De Angelis, 13 maggio

Giuseppe De Luca, 14 maggio

Furio Colombo, 14 maggio

Nel giro di pochi giorni il "Tirreno" ha ospitato due interventi di alto spessore e di grande rigore, quelli di Salvatore Settis e di Alberto Asor Rosa, due massimi studiosi - l’uno del mondo antico, l’altro della letteratura e della politica del mondo contemporaneo - che non riescono a immaginare il loro ruolo di intellettuali disgiunto da un forte impegno civile.

Settis ha preso spunto dallo scempio edilizio di San Vincenzo, da quella arrogante collina cementificata che si para dinanzi al viaggiatore che percorra l’Aurelia da sud a nord. Su quella scia, Asor ha allargato la sua indagine con un breve viaggio che lo ha portato anche a Campiglia, Rosignano, Castiglioncello. Ma è evidente che, viaggiando e osservando, l’uno e l’altro pensavano a tutta la Toscana che solo pochi anni fa fu definita "felix" (proprio da Asor Rosa!) e alla china lungo la quale si è ora messa a correre.

Devo immaginare che sindaci e assessori abbiano accolto quelle parole - e queste poche righe, se sono arrivati fin qui... - con malcelato fastidio. Perché questo è il sentimento che li pervade ogni volta che qualcuno provi a riflettere su ciò che è stato fatto e si fa in Toscana: lo tacciano con disprezzo di radical chic, a volte di vip. E corrono a posare un altro mattone. Perfino Riccardo Conti, che ha speso tempo e risorse alla ricerca di un serio testo di legge regionale che tenesse insieme sviluppo e rispetto del territorio, davanti a queste critiche non riesce sempre a conservare la pazienza.

Forse è la reazione di chi può fare poco e fatica ad ammetterlo: l’assessore discute, suggerisce, legifica ma - ahimè - non riesce ad arginare i mille amministratori locali che progettano opere invasive e spesso ingiustificate. Meglio il silenzio.

Io invece vorrei insistere, provando a leggere questi fatti attraverso una diversa ottica. Mettiamola così. La strada del cemento è stata la scorciatoia più facile per una politica che non solo ha smesso di pensare, ma non vuole nemmeno che lo facciano altri. Specie se si tratta di intellettuali che tenacemente ci provano. Cosa sia successo è semplice da spiegare. In Toscana, ma non solo, si è risposto alla crisi economica e dell’occupazione, figlie anche di una lenta ma inesorabile deindustrializzazione, con massicci piani di sviluppo urbanistico ed edilizio. Tutto qui. Con evidenti vantaggi: i cantieri portano occupazione immediata.

E questo sia nelle fasce più basse della popolazione (immigrati compresi), sia nell’esercito di fornitori, costruttori e piccole imprese dell’indotto; i soldi che girano sono tanti e l’economia cresce; la politica, poi, ci guadagna due volte: prima governando il flusso delle risorse e delle licenze edilizie, poi incassando i tributi locali.

Perché spezzare il cerchio? Perché ci sono anche gli svantaggi: l’edilizia è come una fiammata che scalda molto, ma dura poco e che produce nel tempo costi crescenti, quelli che discendono dal maggiore inquinamento e dal consumo di risorse pubbliche (acqua, energia, territorio). In più, alla lunga produce non reddito, ma rendita. Che di fatto la collettività è chiamata ad alimentare pagandone costi e servizi.

In Toscana, poi, c’è un’aggravante: in una zona a forte vocazione turistica, questo tipo di politica economica produce reddito (rendita) solo per pochi mesi l’anno; in più, tutto avviene all’ombra di un paradosso: la continua distruzione proprio di quel capitale che ne ha fatto per anni un’oasi ambìta dal turismo culturale e vacanziero. È come fare un falò dei soldi che ci ha lasciato il nonno.

Finora di queste cose si è discusso, diciamo così, all’italiana. Cioè dividendosi, attaccandosi, disprezzandosi: scapoli contro ammogliati, favorevoli e contrari, partito dei geometri e partito dei vip. Senza cominciare invece a interrogarsi se non esista un modo diverso di affrontare la questione, e se non si debba finalmente cominciare a pensare a forme alternative di sviluppo, di crescita, se non altro più eque e più durature. Per capire che è il momento, non c’è bisogno di chiamarsi Barack Obama.

L’assessore regionale alle infrastrutture Riccardo Conti certo non perde il vizio di avere una sua visione del tutto personale della realtà. Leggendo mercoledì le sue risposte alle domande del “Tirreno” ci siamo divertiti a rilevare almeno nove ricostruzioni arbitrarie sulla vicenda dell’autostrada Tirrenica. Vediamole in sintesi.

1. Conti dice che il ministro Matteoli, scegliendo la soluzione costiera «è venuto sulle posizioni della Regione Toscana»: posto che la soluzione costiera è stata anch’essa ampiamente corretta dalle osservazioni fatte dalla Regione Lazio (confermando che la posizione della Toscana non era proprio ottimale), è mai possibile che si riduca a trattativa politica una procedura tecnica di valutazione di impatto ambientale concepita per vagliare in piena autonomia tutte le alternative?

2. Apprendiamo poi che l’Europa guarderebbe, in piena crisi petrolifera, con favore la costruzione di autostrade per garantire lo sviluppo, tra l’altro, del porto di Livorno: quando è noto che dal 2004 sono stati escluse dalle reti transeuropee (TEN-T), e quindi dai finanziamenti comunitari, proprio le autostrade, a favore del trasporto via mare e su ferrovia.

3. Nell’intervista c’è anche un vero scoop. Apprendiamo che il progetto definitivo di adeguamento in sede dell’Aurelia a tipologia autostradale «non piacque al ministero dell’Ambiente». Al contrario, sul progetto definitivo Anas presentato in procedura di valutazione di impatto ambientale nel giugno 2001, c’era un orientamento assolutamente positivo da parte dei tecnici della Commissione Via che si erano limitati a chiedere nel novembre 2001 solo migliorie puntuali nel tratto tra Ansedonia e Fonteblanda.

Ma nel 2001 si insediò il terzo governo Berlusconi e, tornata in auge l’autostrada e azzerata la Commissione tecnica di Via che aveva chiesto le migliorie, non si ebbero più risposte dall’Anas.

4. Risibile è poi che l’adeguamento in sede dell’Aurelia taglierebbe in due la Maremma (verrebbe da domandarsi allora cosa succederà da Cecina a Grosseto Nord, secondo il progetto Sat) e che gli ambientalisti non abbiano proposto sin dal 2004 una forma di pedaggiamento aperto e selettivo, per favorire anche il traffico locale, senza bisogno di una infrastruttura chiusa e della costruzione di nuove strade complanari.

5. Come è incredibile che il progetto costiero non avrebbe problemi di finanziamento quando ancora la Sat non è stata capace ad oggi di presentare un piano economico-finanziario che non faccia ricadere sugli utenti dell’autostrada, con tariffe spropositate, o sullo Stato, con l’allungamento abnorme della concessione, i costi nascosti della sua disponibilità a realizzare l’autostrada con fondi propri.

6. Inoltre non è vero che le «strade di servizio» (complanari) debbano essere costruite per forza ex novo e che non si possa derogare, fatto salvo il rispetto della sicurezza, dagli standard autostradali «in specifiche situazioni locali, ambientali, paesaggistiche, archeologiche ed economiche» quale indubbiamente è la Maremma: il Codice della strada vigente prevede entrambe le cose.

7. Non so cosa intenda poi l’assessore per «autostrada ambientalizzata». So solo che il progetto di autostrada costiera - ora, a quanto si sa, rivisto - nella sua versione originaria sostenuta a spada tratta dalla Regione Toscana prevedeva la costruzione di sette barriere-svincoli o punti di esazione di tipo chiuso (Grosseto Sud, Talamone-Fonteblanda, Orbetello-Monte Argentario, Capalbio, Montalto di Castro, Tarquinia, Civitavecchia), di 24 viadotti e di 14 gallerie (di cui 8 artificiali) e l’apertura di 46 cantieri per almeno cinque anni.

8. Fa piacere che l’assessore sia così attento alle aziende agricole: è forse per questo, che come calcolato dai Comitati locali, solo nel tratto toscano: 6 casali verranno abbattuti, 105 fabbricati e 47 aziende compromessi, e 110 saranno gli ettari di terra chiusi tra Aurelia e autostrada.

9. Infine, l’assessore annuncia l’inizio dei cantieri entro il settembre di quest’anno. Auguri, visto che si deve aggiornare la valutazione di impatto ambientale su un progetto cambiato sostanzialmente e che ci sarà sempre qualcuno/a, come noi, che continuerà a difendere in tutte le sedi gli interessi economici, sociali e ambientali del territorio e una più saggia politica dei trasporti.

L’autore è responsabile dell’ ufficio legislazione Wwf Italia.

Che si tratti di Capalbio e l’autostrada, di Castello e dintorni, ma anche di altri ‘casi’ più o meno noti non è facile dare a questo dibattito che riguarda la pianificazione del territorio toscano un senso più generale. Da tanti frammenti ancorchè significativi è complicato, infatti, risalire ad un contesto regionale e nazionale. Eppure questo è un passaggio obbligato se non vogliamo restare sul bagnoasciuga dei problemi. D’altronde vorrà pur dire qualcosa se in Sardegna la crisi si è aperta sulla legge urbanistica. E segnali dello stesso tipo registriamo in altre regioni.

Si prenda – per cominciare- una questione all’apparenza minore che appare già accantonata; il nulla osta previsto dal nuovo Codice dei beni culturali che è passato dai parchi ai comuni senza colpo ferire e alla chetichella. I parchi davano il nulla osta sulla base di una valutazione non frammentata ma riconducibile quasi sempre ad un piano e in ogni caso nell’ambito di un contesto ambientale più ampio. Anche le relative risorse che andavano a rimpinguare il bilancio del parco dovevano essere investite nell’ambiente e per l’ambiente. Il comune non potrà dare il nulla osta seguendo i criteri del parco perché non ha la competenza e la visione del parco, per di più potrà utilizzare quelle risorse per cose certamente importanti ma non finalizzate all’ambiente e al paesaggio.

Non è una differenza da poco e non averne tenuto conto risulta tanto più assurdo dal momento che il collaudato sistema degli anni scorsi era stato voluto e previsto da una legislazione regionale innovativa anche sul piano nazionale. Peccato che non si sia ‘approfittato’ del dibattito sulla nuova legge regionale sui parchi per fare meno pasticci.

L’Irpet ha pubblicato recentemente uno studio su ‘Le trasformazioni territoriali e insediative in Toscana’, di Chiara Agnoletti. E’ l’annoso problema del consumo del territorio e sulle cui percentuali si polemizza da tempo. Un dato parla da solo; il 46% delle abitazioni in Toscana è localizzato nel 26% della superfice regionale ovvero nella Valle dell’Arno. Abbiamo inoltre un 19% di tessuti urbani discontinui che presentano enormi problemi di mobilità e di raccordo nei vari servizi.

Fermiamoci qui non senza ricordare che negli stessi giorni sono stati forniti una serie di dati dell’Apat relativi ai nostri fiumi e corsi d’acqua dai quali emerge un quadro estremamente allarmante sia in ordine allo stato delle acque (inquinamenti vari), al cuneo salino e alla condizione ecologica (vegetazione perifluviale etc). Ma dati più precisi sono stati forniti da Greenreport proprio il 31 dicembre scorso e a questi rimando. Cosa significa? Significa che per l’Arno come per il Serchio ma vale anche per altri corsi d’acqua ‘minori’ nonostante le celebrazioni dell’alluvione di 40 anni fa, oggi non possiamo parlare di una vera pianificazione. L’impressione è che i fiumi siano ancora considerati unicamente o quasi sotto il profilo della sicurezza idraulica e non come quel patrimonio ambientale e paesaggistico di cui parla(va) la legge 183 poi manomessa dalla Commissione Matteoli.

Non è un caso che a differenza anche di una regione a noi contigua come la Liguria noi non abbiamo parchi e aree protette fluviali mentre per il Magra versante ligure vi è un parco regionale che opera in stretta connessione anche pianificatoria con l’autorità di bacino che peraltro è unica e riguarda anche la Toscana.

Ora – e veniamo così al paesaggio su cui si è riaperta la discussione anche in Toscana- pensare che questa complessa realtà possa essere ricondotta unicamente ad ambiti pianificatori comunali, provinciali e regionali non sta nè in cielo né in terra. E che per quanto riguarda il paesaggio tutto ciò sia riconducibile ai 38 ambiti di paesaggio previsti dal PIT è un’altra di quelle ipotesi di cui è arduo cogliere la razionalità. Chi ha anche frettolosamente dato un’occhiata alle Schede sul paesaggio che con una insistenza degna di miglior causa si continuano a definire ‘istruzioni per l’uso’ non può non aver provato imbarazzo. Io l’ho fatto per il territorio del parco di San Rossore perché lo conosco meglio e francamente mi chiedo a cosa cavolo possono servire schede che tra l’altro dimenticano le dune viareggine.

Credo che se vogliamo ripartire con il piede giusto dobbiamo innanzitutto vedere non solo cosa prevedono i piani regolatori comunali ( come fa la Agnoletti) ma anche i PTC delle province, i piani dei parchi e delle aree protette regolarmente approvati dalla regione anche i parchi nazionali dell’Arcipelago e delle Foreste Casentinesi, vedere cosa c’è in pentola per l’Arno (stando al PIT poco) e così per gli altri fiumi. Lì c’è già molto sicuramente molto di più di quello che troviamo nelle schede zeppe di ‘belle visioni’ , ma assai scarse di quelle istruzioni per l’uso di cui pure si chiacchera, tanto che ricorre frequentemente l’avvertenza ai navigatori che non sono state fatte ipotesi concrete operative per evitare il rischio di sbagliare.

Ma chi pianifica rischia sempre meno comunque che se rimane con le mani in mano. E’ un dibattito come è facile intuire non solo urbanistico anche se l’urbanistica di questi tempi finisce sempre di più sulle prime pagine.

Cerchiamo di non perdere l’autobus.

Un primo dibattito pubblico sul progetto Tui a Castelfalfi, ampiamente documentato su Eddyburg, si è concluso nel dicembre 2007 con alcune raccomandazioni del Garante alla comunicazione recepite dal consiglio comunale di Montaione in una delibera dove si stabilisce (fra l’altro) .. ’che si provveda:’

- alla verifica, con il supporto e la consulenza di Acque S.p.A...., delle reali esigenze di risorse idriche e delle modalità di approvvigionamento e di gestione;

- ad un ridimensionamento dell’intervento e alla qualità architettonica della progettazione del medesimo....;

- alla formulazione di un piano industriale dell’attività della Società Tenuta di Castelfalfi....;

- che sia mantenuta l’unitarietà dell’intervento.

Per dare corso al progetto, il 31 luglio 2008 il Comune di Montaione ha adottato una variante al Regolamento urbanistico. Leggere come in questa sede siano state tradotte le raccomandazioni del Garante è anche un’occasione per una riflessione più generale sul funzionamento della normativa regionale, qui sottoposta alla prova dei fatti da un’operazione particolarmente impegnativa e complessa.

Sul sito on line del Comune di Montaione è consultabile, oltre al RU (relazione, norme tecniche, cartografia), anche una ‘Guida alla variante’; un documento importante perché elemento fondamentale di comunicazione ad un pubblico più esteso del locale e quindi veicolo di una possibile nuova forma di partecipazione sul caso Castelfalfi La Guida è articolata in tre parti, oltre ad una premessa. La prima parte contiene una sintesi della valutazione integrata. La seconda è dedicata al Verbale di intesa fra Comune e Società Tenuta Castelfalfi Spa (Tui). Nella terza sono riassunti i principali contenuti della variante..

La valutazione integrata della variante al RU ha dato esito ampiamente positivo (chi ne avrebbe dubitato?) con alcune raccomandazioni riguardanti azioni di mitigazione e compensazione da rispettare nelle fasi attuative. Ma nel merito e soprattutto per la risorsaacqua, questione assolutamente cruciale, sono ripetute, senza approfondimenti, le indicazioni della delibera. In particolare, nella valutazione si raccomanda che in sede di approvazione della Variante il promotore fornisca bilanci idrici ed energetici debitamente certificati (un passo indietro rispetto alle raccomandazioni del Garante). Si dovrebbe invece affidare ad un soggetto terzo e indipendente la redazione degli studi sui bilanci idrici; come sarebbe molto meglio da un punto di vista partecipativo, che questi bilanci fossero preparati e valutati primadell’adozione del Regolamento Urbanistico. A maggior ragione se si considera che la questione ‘acqua’ è emersa come fondamentale nel dibattito, ed è proprio a proposito dei bilanci idrici che quasi tutti i partecipanti hanno evidenziato forti elementi di criticità.

La seconda parte della Guida illustra i principi fondamentali di un ‘Verbale di intesa’ che dovrebbe regolare gli impegni tra pubblico e privato. Si tratta di un documento di intenti, si spera non troppo generici, che – dice la Guida - sarà sottoscritto prima dell’adozione della variante,e in effettinella Guida i principi dell’intesa sono tutti coniugati al futuro; d’altra parte, se l’intesa, ad adozione avvenuta, è stata già firmata, perché non renderla di pubblica conoscenza e verificarla in termini di corrispondenza con le raccomandazioni del Garante?

Infine nella terza parte vi è una sintesi delle norme di attuazione, non solo di difficile comprensione per una valutazione del carico antropico complessivo, ma anche come semplice calcolo dei volumi e delle superfici utili. Manca, come si è accennato, l’analisi della domanda e della possibile offerta di risorse idriche: i metri cubi, more solito, anticipano la sostenibilità.

Quanto alle norme di attuazione nei primi tre punti dell’art. 45, alla voce ‘Castelfalfi’ vi sono alcuni enunciati criptici di cui di seguito diamo un esempio, perché i lettori di Eddyburg ci aiutino in un’analisi logica e sintattica che non siamo riusciti a portare a termine.


NTA, pg. 55, Contenuti e caratteri del progetto complessivo

Il progetto complessivo, che sostanzierà il contenuto del PUA, risponde alle seguenti finalità:

- individua la maglia insediativa caratterizzata da case isolate e viabilità poderale, case sparse, borgo antico e sua espansione in nucleo abitato su viabilità principale, emergenze storico-insediative tipiche del paesaggio agrario, emergenze naturalistiche, secondo quanto individuato dalla valutazione integrata della presente Variante, andando a costruire uno scenario di regole insediative che costituiscono l’identità funzionale, fisica e di immagine del territorio, sul quale fonda le ipotesi di intervento, che propongono il restauro e il recupero degli edifici dotati di valore architettonico o documentale, la nuova edificazione nei limiti dimensionali ammessi dal piano strutturale vigente, secondo le regole insediative storicamente consolidate, la tutela della viabilità esistente e la sua rifunzionalizzazione per la mobilità elementare, il ripristino e il miglioramento delle risorse naturali (vegetazionali e idriche) e delle sistemazioni agro-ambientali, la tutela dei filari alberati e delle masse vegetazionali storicamente consolidati e degli habitat naturali, l’accrescimento delle dotazioni territoriali infrastrutturali.

La lettura dei documenti ancora non disponibili on line consentirà un giudizio più approfondito sulla fase attuale del progetto. Tuttavia fin da ora sono evidenti due elementi critici, ormai costanti nella pianificazione toscana. Il primo elemento è il sistematico rinvio di analisi e decisioni strategiche a qualche fase e/o strumento urbanistico successivo. Questa prassi non è innocente perché funziona come un sistema di scatole cinesi che da una parte costituisce degli ‘stati di diritto’ da cui non si può tornare indietro, dall’altra riduce in modo irreversibile le opzioni del progetto. Di fatto si crea un vero e proprio ‘imbuto’ decisionale in cui diminuiscono progressivamente e drasticamente le possibilità di partecipazione. E, ancora, a proposito di rinvii alle fasi successivi, è paradossale l’anomalia di rimandare alla convenzione contestuale al piano attuativo non solo la formulazione del piano industriale, ma addirittura la valutazione di conformità del progetto alla normativa del PIT.

Per compiere questa disinvolta acrobazia il RU si inventa una nuova categoria concettuale, decisiva per l’approvazione del RU, il cui significato tuttavia sarà spiegato – si annuncia - successivamente. Recita infatti l’art 45 alla voce Caratteristiche dell’azione territoriale complessa che ‘in tale convenzione sarà chiarito il significato della definizione di “ambito residenziale integrato al sistema complessivo turistico-ricettivo (RTR)”, che il presente articolo individua come categoria rispondente agli obiettivi del Piano strutturale comunale e del Piano di indirizzo territoriale (PIT) regionale vigenti per l’utilizzo del patrimonio collinare secondo una dinamica imprenditoriale garante della “funzionalità strategica degli interventi sotto i profili paesistico, ambientale, culturale, economico e sociale “ statuita dall’art. 21 della disciplina del PIT già citato’. Vale a dire che prima si afferma con una presa si posizione ontologica che il progetto è conforme alla normativa del PIT, poi si spiegherà come e perché.

L’altro elemento critico, collegato al precedente è, a dispetto della proclamata unitarietà dell’intervento, l’eventuale frammentazione di piano e progetto in tante parti che rischiano di rendere incontrollabile il tutto (fin troppo banale dire che la valutazione di un progetto non è uguale alla sommatoria delle valutazioni delle sue parti). Da questo punto di vista è pericolosa la possibilità prevista nel NTA di spezzare di fatto il piano attuativo unitario in tanti piani riferiti a ognuna delle 12 unità minime di intervento. Rimane da chiedersi perché per il progetto Castelfafi non sia stata applicata la procedura del Piano complesso di intervento (che viene invece usata al di fuori delle prescrizioni della legge 1/2005 da altri comuni toscani), permettendo in tale modo un’approvazione contestuale di Regolamento Urbanistico e piano attuativo.

Sarebbe un errore se il Comune di Montaione, sotto la pressione di Tui, volesse dare un’accelerazione al progetto prima di avere sciolto alcuni nodi strategici riguardanti la sostenibilità dell’operazione in termini ambientali e paesaggisitici, mettendo ‘in cascina’ (di Tui) alcuni punti edificatori fermi e immodificabili. Spesso le scorciatoie sono pericolose e a conti fatti fanno perdere più tempo di un progetto ben valutato e partecipato in tutte le sue parti.

Il 28 giugno scorso, a Firenze , la Rete dei Comitati toscani guidata da Asor Rosa mostrò l’immagine della Toscana infelix sulla quale pesano, a mo’ di esempio, 109 emergenze territoriali che rappresentano l’esatto contrario di un buon governo del territorio. Furono assenti totalmente da quell’appuntamento gli Amministratori regionali (per propria precisa volontà), ma gli stessi hanno partecipato, sempre a Firenze il 17 di luglio ad un convegno sul consumo di suolo toscano.

Qui i governanti toscani, con i dati ricavati dall’interpretazione delle immagini derivanti dal programma satellitare Corine Land Cover, hanno tranquillizzato: in Toscana si è costruito pochissimo, e molto meno che nel resto dell’Italia! Le sensazioni dei Comitati e dei comuni cittadini sarebbero quindi solo false percezioni! In realtà aveva voluto tranquillizzare (e moltissimo) anche il Garante regionale della Comunicazione prof. Morisi a cui però (come all’assemblea della Rete dei Comitati di fine giugno) è sfuggita la valutazione che i Comitati stessi si dimostrano “fuori dal mondo” non solo perché percepiscono quello che non c’è assolutamente (l’eccesso di costruzioni, appunto), ma perché non si rendono conto che le “villettopoli” così vituperate in realtà sono assai richieste, e volute, e hanno mercato, quindi la Regione (che è e vuole essere dentro il mondo) cosa può fare?

Insomma la Regione Toscana (stando dentro il mondo) vuole essere efficiente interprete di queste voglie comuni di villettopoli e i margini per farlo sono ancora molto ampi. Certo, ancora ce ne vuole per deturpare tutto il paesaggio dell’intera Toscana e (graziealcielo!) esistono ancora tanti scorci intatti sfruttabili dai migliori attuatori delle nostre voglie e dei nostri bisogni: gli speculatori.

Non sappiamo, in dettaglio, cosa il satellite ha evidenziato (l’arch. Claudio Greppi, estensore della mappa delle emergenze toscane, però ne ha rilevato puntualmente l’inattendibilità, perché l’operazione è avvenuta ad una scala troppo piccola), ma in replica alle rassicurazioni toscane e solo a mo’ di esempio, voglio citare il caso della mala urbanistica lucchese, caso (con caos conseguente) appena scoppiato su dati numerici obiettivi e inconfutabili e che sono del tutto derivabili dalla politica urbanistica regionale.

A Lucca il Regolamento urbanistico

deroga dal Piano strutturale

Questi i passi essenziali degli eventi urbanistici lucchesi. Nell’anno 2000, con Del. C.C. n° 188 del 28. dicembre, viene adottato il piano strutturale ai sensi della legge urbanistica regionale n°5/95. L’anno successivo con Del. C.C. n° 129 del 09.08.2001 si procede alla definitiva approvazione di questo piano. Con Del. C.C. n° 101 del 08.04.2002 il Comune adotta il sotto-ordinato Regolamento urbanistico, applicativo delle linee programmatiche fissate dal P.S.. Nel marzo 2004 (Del. C.C. n° 25 del 10.03.2004) il Regolamento urbanistico è approvato in via definitiva.

I nuovi strumenti ampliano enormemente le possibilità di intervento edilizio, sia nuovo che di ristrutturazione. Incapaci di dare e indirizzare una visione vitale e funzionale della città per il suo futuro, questi strumenti si limitano piuttosto a rendere possibili una miriade di interventi offrendo, ovunque, una vastissima gamma di possibili destinazioni d’uso, la scelta delle quali è interamente lasciata al mercato e alle volontà e convenienze dei singoli operatori. Alcuni limiti quantitativi per i vari settori funzionali sono fissati all’interno del P.S. sia in riferimento all’intero territorio comunale sia all’interno di ogni singola UTOE (Unità Territoriale Organica Elementare).

Questa grande indefinizione qualitativa e l’estensione delle possibilità edificatorie fanno sì che a Lucca negli ultimi 8 anni si sia costruito così tanto, ma così tanto che il Comune è stato costretto a rendere noti i dati quantitativi che hanno evidenziato come in quattro zone (UTOE) le quantità residenziali massime stabilite dal sovra-ordinato Piano Strutturale (dal 2001) per quanto riguarda nuove costruzioni sono state ampiamente “sforate”…..Il rilevamento, fatto fare dall’Amministrazione comunale dando un apposito incarico esterno perché gli Uffici operavano senza monitorare la situazione, però è stato limitato alle nuove costruzioni, al settore residenziale ed ha computato solo i dati successivi al 2004 (ovvero successivi all’approvazione del R.U.) e non anche quelli relativi al triennio 2001/2004, ovvero a partire dalla data di fissazione di questi quantitativi.

Comunque, la conseguenza immediata di questa scoperta parziale è stata che il Sindaco ha bloccato il rilascio di permessi per nuove abitazioni in queste zone, rimandando a settembre la correzione dello strumento urbanistico per permettere l’estensione delle quantità fissate dal P.S.! Gli speculatori e gli amanti di villettopoli (così ben interpretati dagli Amministratori) possono quindi stare tranquilli: a settembre con facili accordi tra Comune e Regione il P.S. lucchese sarà debitamente corretto per ampliarne le possibilità! Ma, data la parzialità dei dati come evidenziata sopra, la reale situazione lucchese è ancora in gran parte sconosciuta e sicuramente molto più grave di quella, già gravissima, che è emersa finora.

Un recupero che aumenta

il carico urbanistico

Il presunto fiore all’occhiello della Toscana (è stato detto anche nel convegno del 17 luglio) è il recupero del patrimonio edilizio esistente! Purtroppo il “recupero”, che anche a noi piacerebbe veder coerentemente applicato, è termine divenuto troppo ambiguo. A Lucca, grazie alle norme toscane che orgogliosamente assegnano ai comuni grande e totale discrezionalità, tutto quello che è configurabile come recupero di immobili o ristrutturazione dell’esistente o demolizione e ricostruzione non è computato ai fini del carico urbanistico, né quello che si ottiene dallo sfruttamento delle volumetrie esistenti è scomputabile dai fabbisogni della comunità.

Allora non solo il “recupero” non serve assolutamente a limitare il consumo di nuovo suolo, ma diviene mero “abuso” di volumi comunque reperibili: così non solo palazzi e capannoni industriali sono divenuti condomìni, negozi, centri commerciali ed uffici, ma è nata anche la mutazione di serre agrarie collinari in 32 appartamenti, si sono abbattute tettoie per cavalli per costruire in centro storico 55 abitazioni ex novo, è nata la bulimica metamorfosi di baracche di lamiera in ville-portaerei con nuove strade, parcheggi e piscine sugli intatti rilievi collinari….Un “recupero” che da un lato presenta questi assurdi qualitativi, ma che diviene ancora più grave perché nessuna di queste quantità “recuperate” viene sottratta dal computo dei fabbisogni programmati...

Non basta! Il Comune di Lucca, nella sua inviolata autonomia municipale, è stato libero di regalare, ai possessori di edifici, da 150 a180 mc in più (un bonus volumetrico in regalo una tantum, al di là degli indici e delle zone) non computabile a nessun fine. Ancora non computabili come volumi risultano poi anche quelli derivanti dalle cosiddette superfici accessorie quali garage, seminterrati, sottotetti, ascensori, scale, corridoi ecc. Proprio per tutto questo le baracche di lamiera si sono tradotte in ville/portaerei.

Una proposta sensata alla Regione

Dal caso Lucca emerge, poi, anche quest’altro aspetto gravissimo: il Regolamento Urbanistico (come dimostrano i maggiori quantitativi concessi nelle quattro UTOE) di fatto prevede una forte maggiore edificabilità rispetto al sovra ordinato Piano strutturale. Ciò significa che i singoli Comuni in realtà, quando autonomamente elaborano lo strumento applicativo degli indirizzi, prefissati nel P.S. con Provincia e Regione, fanno quello che vogliono.

Il cattivo esempio lucchese (un esempio dei tanti, sicuramente) scoppiato ai primi di agosto costituisce un’esperienza negativa che dovrebbe portare ad una verifica indispensabile ed ad una correzione normativa necessaria della legge urbanistica regionale. La Regione Toscana dovrebbe immediatamente raccogliere (e far raccogliere) da tutti i Comuni i dati quantitativi, suddivisi per settore, sui permessi per nuove costruzioni, ristrutturazioni, trasformazioni, bonusvolumetrici, spazi accessori ….. rilasciati anno dopo anno dal 1995 (anno di entrata in vigore della L.R.T. 5/95). La Regione così possiederebbe, sempre aggiornata, la conoscenza numerica, obiettiva, di quello che succede sul territorio, e il confronto con i limiti fissati nei singoli Piani Strutturali permetterebbe quell’azione di controllo che la Regione stessa finora non ha voluto fare. Sicuramente questi dati, se fedelmente raccolti, sarebbero assai più credibili delle interpretazioni a piccola scala del programma Corine. Quattro mesi di tempo, nell’epoca informatica, sarebbero sufficienti per sapere obiettivamente tutto questo. Sapere e monitorare, obiettivamente, cosa è successo sul territorio toscano e dove lo stiamo portando, per chi e per quante persone e per quali constatati e previsti bisogni stiamo costruendo e martoriando città territori e paesaggi, non è un vezzo, è un dovere! Sapere serve anche per correggere! E le norme regionali che di fatto non permettono di intervenire per reprimere gli abusi dei Comuni che sgarrano (come quello di Lucca) anche sotto questo aspetto devono essere drasticamente riviste.

Documento inviato a la Repubblica e ad eddyburg.it per la Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio

Si attendeva con interesse l’incontro del 17 luglio in Regione, annunciato come “risposta” al convegno della Rete dei Comitati sulle emergenze territoriali in Toscana del 28 giugno. Con interesse, perché questa volta la parola doveva passare dalle impressioni soggettive ai dati sul consumo di suolo. Negli ultimi due decenni, veniva ipotizzato, la crescita delle aree urbanizzate diminuisce drasticamente: e ciò per effetto delle nuove disposizioni legislative messe in atto dalla Regione Toscana a partire dalla Legge 5 del 1995. E’ il satellite che lo dimostra, niente di più oggettivo.

L’esito dell’evento sta non tanto nei toni dell’incontro che si è svolto nella sede dell’auditorium regionale a Firenze, e nemmeno nella relazione presentata dall’IRPET, quanto nel resoconto che troviamo sulla pagina locale di Repubblica il giorno dopo, con sottotitoli del tipo “Suolo e cemento: è in Toscana la terra promessa”, oppure “Qui si costruisce meno che nel resto d’Italia. E meglio”. Il titolista si è lasciato prendere la mano, esagerando anche i toni dell’articolo dove pure accanto alle ‘sviolinate’ rivolte all’assessore c’era anche qualche espressione di cautela. Oltre al titolista, si segnala anche il redattore che ha scelto le immagini: una grande foto aerea del raccapricciante pasticcio nato intorno al casello autostradale di Barberino di Mugello, poi un vigneto “californiano” (in foto piccola) … Belle immagini davvero, per documentare la qualità delle trasformazioni del paesaggio!

Nel testo non si parla neppure del contenuto di tutti gli altri interventi, variamente critici, non solo di Paolo Baldeschi, della Rete dei Comitati, e Federico Oliva, presidente dell’INU, ma anche di Marco Romagnoli sindaco di Prato e di Dario Franchini della Provincia di Pisa: secondo l’articolista, l’evento si è esaurito con la figura dell’assessore e con le cifre che egli esibiva a conferma delle proprie tesi.. La pagina toscana di Repubblica del 18 luglio è l’esatto contrario della pagina (nazionale) curata da Francesco Erbani sullo stesso giornale del 28 giugno, che dava conto del dossier sulla “mappa delle emergenze territoriali in Toscana”: 109 casi di “malaurbanistica”, di aggressioni al paesaggio, all’ambiente e al patrimonio storico, molti in corso di realizzazione ma anche molti che ancora potrebbero essere bloccati, magari applicando realmente quel Codice del Paesaggio che Conti ha più volte dichiarato di non amare..

Il dossier della Rete dei Comitati offre una casistica di situazioni, molto diverse fra loro, dalla quale emerge confermata l’impressione che proprio negli ultimi anni si stia compiendo (anche) in Toscana una opera di cementificazione - pessima qualitativamente e distruttiva per localizzazione - ad uso principalmente della speculazione edilizia, favorita o non sufficientemente contrastata dalla legislazione vigente. Non è vero, ci risponde la Regione: da quando abbiamo assegnato ai Comuni la piena autonomia di decidere delle sorti del proprio territorio, cioè dal 1995, le cose vanno meglio. Sui singoli casi documentati nella “mappa delle emergenze” saranno date risposte puntuali, a tempo debito. Ma intanto i numeri parlano: da un incremento nel decennio 1990-2000 pari al 16 % del costruito il consumo di suolo si è ridotto, nei sei anni successivi, a un modesto 3 %. Così Riccardo Conti: e i numeri sono numeri, non si possono mica discutere.

L’idea di una verifica del consumo di suolo per urbanizzazione - con tutti i limiti di un approccio quantitativo che mette in ombra la vera emergenza toscana che è soprattutto qualitativa - è interessante, e anche noi della Rete ci siamo messi a lavorare sui dati dell’uso del suolo, utilizzando le competenze dei laboratori universitari di ricerca territoriale, a Siena e a Empoli.

Una prima constatazione, esaminando la mappatura Corine relativa al 1990, è che il procedimento adottato nel progetto europeo (sulla base di moduli di 25 ettari) è troppo grossolano per rendere conto dei processi di urbanizzazione di tipo estensivo. Da un conteggio analitico (ma probabilmente approssimato per difetto) l’insieme delle aree ignorate nel 1990 ma “recuperate” nel 2000 supera i 2.000 ettari, cui dovrebbero essere aggiunti altri 300 ettari di cave, per arrivare a un incremento effettivo non di 8.300 ettari ma intorno ai 6.000, pari al 7,3 %: un valore molto vicino alla media nazionale.

Come hanno fatto i nostri esperti regionali a dimostrare che nell’ultimo decennio del secolo scorso l’urbanizzazione correva al ritmo di 1.384 ettari l’anno, mentre nei sei anni successivi solo di 534? Semplice: sono andati a rivedere e verificare il Corine Land Cover, ma non quello del 1990, bensì quello del 2000, estraendo dal territorio agricolo e forestale la bellezza di 5.707 ettari, che sommati agli 8.300 dei dati ufficiali portano l’incremento del consumo di suolo alla spaventosa cifra di 13.000 ettari nel decennio, il + 16 % , appunto. Un valore che collocherebbe la Toscana in compagnia della Calabria, della Basilicata, dell’Abruzzo. Poi con la stessa “metodologia” hanno compiuto una rilevazione su immagini satellitari relative al 2006, per avere un termine di confronto: il famoso + 3 % post-legge 5/95.

Ma le maggiori ragioni di perplessità sull’uso dei dati riguardava, e riguarda, non tanto l’entità assoluta del consumo di suolo, quanto l’effetto che le nuove aree - residenziali e industriali - hanno avuto sulle città e sul paesaggio: i fenomeni di conurbazione e di saturazione delle periferie nelle agglomerazioni della valle dell’Arno e della costa, la proliferazione di nuovi aggregati edilizi nel territorio aperto della Toscana collinare, la moltiplicazione di seconde e terze case e di insediamenti turistici. In un decennio, un consumo di suolo di 6.000 ettari, per lo più rivolto alla creazione di rendite, è già tantissimo, e non ci consola il fatto che in altre regioni il consumo di suolo sia cresciuto più che in Toscana.

E allora, lasciamo perdere la clamorosa conferma che viene dall’oggettività dei dati. Cerchiamo di ragionare seriamente. Abbiamo a disposizione altri strumenti di verifica, come l’Inventario Forestale (che è già informatizzato) o la Carta dell’uso del suolo del 1980 (che invece non lo è, ma potrebbe facilmente essere digitalizzata). Possiamo risalire indietro fino al volo GAI del 1954 o alla Carta dell’utilizzazione del suolo del CNR, che ci restituisce la situazione agli anni ’50. Fonti che documentano la situazione di questi decenni cruciali con criteri diversi e a scala diversa, ma che potrebbero costituire una base di partenza un po’ più affidabile del Corine Land Cover. Di certo qui non troveremo un’area agricola al posto di San Miniato!

Poi ragioneremo sugli effetti prodotti dalle nuove urbanizzazioni, sulla qualità, come ci viene promesso dalla Regione.

Ricordate la "variante Laika" di San Casciano in Val di Pesa? Si tratta del progetto - a nostro giudizio dissennato - di seppellire sotto 326000 metri cubi di cemento un pezzo di grande pregio del territorio toscano, progetto che vede concordi istituzioni locali e imprenditori, immobiliaristi e sindacati, tutti egualmente dimentichi del valore durevole e imprescindibile (anche in termini banalmente economici) del paesaggio, tutti alla disperata ricerca di "opere" i cui unici parametri di valutazione - paradossalmente in positivo - sono la dimensione e il costo. Dall'ormai lontano Settembre 2006, ne abbiamo parlato a più riprese in queste note e sul nostro web, su cui abbiamo anche pubblicato un appello il cui primo firmatario è il nostro Presidente e un dossier storico estremamente circostanziato sulla spinosa vicenda.

Ebbene, il Tribunale Amministrativo della Toscana ha di recente emesso una sentenza sul ricorso presentato, avverso la variante, dal pool di comitati e associazioni ambientaliste con cui si è schierata anche la Rete; nella quale non si è pronunciato a proposito di ben 5 sulle 7 contestazioni presentate, eccependo sulla legittimità dei proponenti "a poter porre questioni in merito a scelte urbanistiche che non tocchino direttamente aree o beni vincolati dalla legge come 'beni ambientali'".

Si tratta di una disfatta gravissima non solo per la vicenda particolare, ma per tutta la nostra cultura: con questa eccezione, infatti, il TAR limita implicitamente la giurisdizione dei cittadini su ambiente e territorio a situazioni del tutto marginali quali i parchi, i monumenti e le zone protette, negando i risultati del lavoro pluridecennale di un movimento che - fino a prova contraria - rappresenta l'unico vero spunto di avanguardia in tutto il panorama politico e culturale del nostro Paese; applicando questo principio, si legge nel comunicato stampa appena diramato dai ricorrenti, si arriverebbe a non poter contestare un programma di edificazione selvaggia in area verde in quanto i cittadini che vi abitano "non sono specie protetta". A dire il vero, questo - che cioè i cittadini non siano protetti da nessuno - in effetti lo avevamo capito da tempo; non cesseremo, però, di dolercene.

Paolo Baldeschi Le emergenze in Toscana

Relazione al convegno della Rete dei comitati toscani per la difesa del paesaggio, 28 giugno 2008. Con postilla

Premessa

Possiamo chiamarle emergenze quelle documentate nella ‘mappa’? La parola ‘emergenza’ evoca il concetto di eccezionalità, una malattia che ha raggiunto un momento di crisi, ma pur sempre temporanea, Ma l’emergenza rifiuti in Campania è una malattia di un organismo politico-amministrativo sano, o è profondamente connessa proprio alla natura e al funzionamento di questo organismo? E le emergenze toscane sono il risultato di una congiuntura, l’inevitabile scoria che accompagna il passaggio dal vecchio sistema gerarchico di controlli al nuovo governo del territorio o sono invece dovuti a mutamenti strutturali dell’economia toscana che si combinano con le modalità del nuovo governo? E, in quest’ultimo caso, sono una patologia curabile del sistema o derivano dal funzionamento fisiologico di un apparato legislativo e di pianificazione - di un sistema di governo - che per sua natura produce emergenze? In una parola, sono un problema di malfunzionamento amministrativo o dipendono da scelte politiche?

Rispondere a queste domande ha un’importanza fondamentale, perché se fosse vera la seconda ipotesi, il ruolo dei comitati non può avere una natura meramente difensiva e non può neanche limitarsi a fornire delle proposte caso per caso, ma deve prospettare, oltre a proposte alternative, anche un nuovo modo di governare il territorio, più aperto alla partecipazione dei cittadini, meno opaco di quello attualmente praticato, in una parola una politica diversa; paradossalmente una politica più aderente agli obiettivi espressi nei documenti ufficiali della Regione, la legge di governo del territorio e il Piano di indirizzo territoriale (PIT) in primis.

Tre categorie di emergenze

Le emergenze toscane possono essere classificate in tre categorie. Una prima in cui l’azione dei comitati ha una natura seccamente oppositiva. Sono operazioni che non si devono fare e basta, perché non solo danneggiano irreversibilmente il patrimonio ambientale e paesaggistico della regione, la ricchezza di tutti, ma oltre tutto non sono funzionali allo sviluppo dell’economia toscana (beninteso se non si equipara lo sviluppo alla cementificazione). La seconda categoria, che comprende per lo più le opere pubbliche – strade, infrastrutture di trasporto su ferro, impianti di produzione di energia o di smaltimento di rifiuti - non vede opposizioni di principio. Qui i comitati si oppongono piuttosto a specifici progetti, e allo stesso tempo propongono progetti alternativi, meno impattanti sul territorio, meno costosi (ma forse quest’ultima caratteristica è proprio quella che ne definisce uno specifico handicap).

Vi è, infine, una terza categoria, quella delle attività estrattive dove le emergenze sono dovute all’inadeguatezza del piano regionale; un piano che è la sommatoria delle richieste dei privati e che spesso di risolve in uno sfruttamento oltre il lecito delle risorse di cava e nella sostanziale inosservanza dei progetti di recupero.

In questa relazione sulle emergenze toscane sarà trattata solo la prima categoria, le operazioni diffuse e pervasive contro l’ambiente e il paesaggio toscano. Questa scelta dipende dal fatto che trattare con un minimo di documentazione e in modo non sommario le operazioni che entrano nelle altre due categorie avrebbe comportato la necessità di un tempo e di uno spazio non consentito in questa sede. Ma, soprattutto, perché si tratta di operazioni non generalizzabili, ma che devono essere esaminate progetto per progetto, caso per caso. Rimando perciò a questo proposito alle specifiche relazioni che seguiranno e saranno svolte da coloro che hanno competenza ed esperienza in proposito. Quindi, anche se le considerazioni e le proposte conclusive riguardano tutte le categorie di emergenze, qui l’attenzione sarà rivolta soprattutto ai casi che si iscrivono nella metafora Monticchiello.

Le operazioni contro il paesaggio e l’ambiente

Monticchiello, è stato definito – a volte a mezza voce, a volte apertamente – dai politici toscani ‘un caso risibile’. Siamo d’accordo: Monticchiello è risibile se confrontato con tanti altri casi, avvenuti o in corso. In fin dei conti, a Monticchiello vi era un la giustificazione di offrire abitazioni alla popolazione locale, un problema reale che riguarda zone di alta appetibilità turistica dove la gente del posto non può competere nel mercato delle abitazioni. Un problema cui è stata data una risposta viziata da un eccesso di localismo e sbagliata da un punto di vista economico. Tuttavia, se le case di Monticchiello non fossero state costruite come pretenziose villette proprio ai piedi del castello, ma come normali abitazioni in qualche luogo più adatto, in un contrasto non stridente con l’edificato storico, si poteva discutere sulla qualità architettonica, ma la cosa finiva lì.

Ma che dire di tante operazioni concluse o in cantiere o progettate che ripetono in termini moltiplicativi la pur deprecata (a parole) lottizzazione di Monticchiello senza alcuna giustificazione se non la promessa di ‘sviluppo’ alle comunità locali? Basta muoversi nelle colline o nell’entroterra costiero toscano, magari percorrendo qualche strada secondaria, per notare un abnorme proliferazione di ville e villette, lottizzazioni poste in luoghi di alta visibilità, spesso accanto a qualche centro storico o a complessi edilizi monumentali (la grancia di Cuna, ad esempio), con un impatto paesaggistico devastante La ‘mappa’ segnala decine di queste operazioni in corso, rivolte al mercato delle seconde o terze case o al mercato turistico e tuttavia i casi segnalati nella mappa sono solo la punta dell’iceberg: operazioni come quelle in corso a Casole d’Elsa, a Campagnatico, sul Monte Argentario, a Rimigliano (S. Vincenzo) a Capoliveri e a Marina di Campo nell’Elba, a Salivoli (Piombino), a Monticiano, a Monte San Savino, a Serravalle Pistoiese sul Montalbano, a Magliano, a Lucca (le serre trasformate in residenze), tanto per citarne alcune, alcune finite sulle cronache dei quotidiani per palesi episodi di illegalità. Ma su quest’ultimo punto tornerò più avanti, perché anche l’illegalità rischia nel sistema di governo toscano di diventare fisiologica e non più patologica.

L’opposizione dei comitati al depauperamento del paesaggio toscano è quindi pienamente giustificata: si tratta della proliferazione di veri e propri scempi, promossi da politici e amministratori locali che coagulano a loro volta gli interessi di costruttori, proprietari, professionisti, e li traducono in operazioni dove spesso gli uffici tecnici comunali svolgono il ruolo di catalizzatori più che di controllori. All’opposizione di comitati, le amministrazioni e i blocchi locali del mattone oppongono il consueto argomento dello sviluppo, una parola magica che ricorre in tutti i documenti politici, da quelli regionali fino a quelli dei comuni più piccoli. Lo sviluppo come panacea che mette tutti d’accordo; lo sviluppo che chiede inevitabilmente il sacrificio di qualche valore secondario; lo sviluppo che prevale per forza di cose su ambiente e paesaggio.

Un falso sviluppo

Proviamo ad esaminare allora la qualità e la reale consistenza di questo sviluppo. Costruire case produce reddito una tantum, un reddito che va ai costruttori in forma di profitti, ai proprietari dei suoli in forma di rendite e agli addetti come retribuzione del lavoro. Si tratta di redditi che generalmente non vengono spesi localmente e hanno breve durata. Ciò che è stato costruito a sua volta produce reddito, ancorché figurativo, se si tratta di prime case. Ma la lottizzazione della campagna toscana non produce quasi mai prime case. La stragrande maggioranza dei cittadini della nostra regione sono già proprietari delle case in cui abitano e coloro che cercano abitazione – giovani e immigrati – non possono certamente acquistare immobili che per prezzo e caratteristiche sono destinate ad acquirenti ben più ricchi.

A proposito di sviluppo e incremento del reddito locale, un dato mi sembra interessante: riguarda l’isola d’Elba, un territorio particolarmente aggredito da lottizzazioni legali e illegali, dove la presenza dell’ente parco dell’arcipelago toscano viene sentito con particolare fastidio da amministratori e costruttori. Un recente studio dell’Irpet (Toscana Economia - n. 4 - 18 giugno 2008) afferma che “... se il turismo porta ricchezza (all'Elba il Pil è per il 21% più alto rispetto alla media regionale), quel reddito in buona parte se ne va altrove: molti acquisti si fanno sul continente, i lavoratori stagionali arrivano da fuori, i proprietari delle strutture turistiche spesso non sono del posto. Di conseguenza il reddito disponibile - e non quello prodotto - è di circa il 4% più basso della media regionale. Aumentano poi le spese generali (smaltimento rifiuti, consumi idrici, trasporti): ogni 100 euro che un turista spende - ha calcolato l'Irpet - le entrate per gli enti locali crescono di 9 euro ma le spese generali di 14.

Ciò che vale per l’Elba vale a maggior ragione per l’intera regione. I comuni non costituiscono sistemi chiusi: profitti e rendite alimentano ulteriori investimenti edilizi, in altre parti della Toscana o in altre regioni, i redditi dei lavoratori hanno breve durata e sono spesi in altri luoghi. L’offerta turistica più che aggiuntiva finisce per essere sostitutiva di quella esistente; ne fanno fede due fenomeni di facile osservazione. Da un parte l’ingente quantità di sfitto turistico anche nei mesi di alta stagione come luglio e agosto; interi residences che sono vuoti o occupati solo per brevi periodi, non certamente rimunerativi dell’investimento, ma in realtà una specie di bene rifugio. Dall’altra la tendenza delle cosiddette residenze turistico-alberghiere a diventare residenze e basta, dopo avere goduto di particolari agevolazioni normative e fiscali. Si tratta quest’ultimo di un fenomeno diffuso che ha visto più volte l’intervento sanzionatorio delle procure della repubblica.

I motori di uno sviluppo basato sull’edilizia

Ciò che appare come distruzione irreversibile di risorse territoriali viene promosso e alimentato da un riposizionamento in atto di parti consistenti dell’economia toscana. Molti imprenditori operanti in settori soggetti alla concorrenza del mercato globale – come tessile e moda – anche penalizzati dalla debolezza valutaria dei paesi dove sono esportatori[1], stanno riconvertendo i loro capitali dalle attività manifatturiere all’edilizia, soprattutto nel settore turistico, ma anche nel mercato delle abitazioni. E’ significativo a questo proposito che i prezzi delle abitazioni residenziali siano cresciuti nel periodo che va dal 2000 al 2006 quasi del 50% (fonte ANCE, Quinto rapporto sul mercato immobiliare toscano, ott. 2006), mentre i prezzi degli immobili per uffici o nello stesso periodo siano cresciuti del 16% e degli stabilimenti industriali del 10% (meno, cioè, dell’inflazione). Ma il dato forse più interessante sulla composizione strutturale dell’economia toscana e sulle sue direzioni di cambiamento viene dal rapporto annuale del 2005 della Banca d’Italia, a proposito degli impieghi bancari di medio e lungo termine. Nel 2005, in Toscana si è investito in costruzioni più di 10 miliardi di euro, di cui 4 miliardi in abitazioni, meno di 4 miliardi in investimenti direttamente produttivi (macchine, attrezzature, mezzi di trasporto, ecc.), mentre più di 17 miliaerdi sono stati destinati all’acquisto di immobili[2]. Ancora più significativi i dati tendenziali. A fronte di un incremento degli investimenti in costruzioni (non comprendente le opere pubbliche) medio annuale del 18% nel biennio 2003-2005 sta un decremento degli investimenti produttivi che nel 2005 ha registrato un meno 7,5% rispetto all’anno precedente. In sintesi, l’economia toscana a fronte delle difficoltà che incontrano i suoi settori tipici si sta riconvertendo verso il mattone, dagli alberghi di extra lusso, ai villaggetti turistici e ai residences destinati agli acquirenti più modesti. Il settore immobiliare ha assunto il ruolo di volano per il trasferimento di capitali da settori in crisi per concorrenza a settori che godono di rendite oligopolistiche: dalla produzione manufatturiera all’edilizia, utilizzando come materia prima il territorio, il ‘made in Tuscany’ non soggetto alla concorrenza ma non riproducibile. E poiché il territorio toscano, per la sua unicità e per il suo appeal richiama anche numerosi investitori stranieri, nonché capitali di origine dubbia se non chiaramente malavitosa, si può comprendere come sia in atto un assalto generalizzato alle parti più pregiate della regione; un assalto che i comitati possono solo denunciare non certo contrastare da soli.

Uno sviluppo durevole

La miscela fra le tendenze in atto dell’economia toscana e comportamenti amministrativi, sollecitati quest’ultimi anche dalla crisi delle finanze comunali, alimenta un modello di falso sviluppo, distruttivo del territorio. Qui stanno due obiettivi fondamentali che chiedono una politica diversa da parte della Regione. In primo luogo uno sviluppo durevole e che – differenza di quello edilizio – non si esaurisca nel prodotto stesso. In secondo luogo uno sviluppo che utilizzi il territorio come fattore di innovazione e di modernità; che incorpori cioè la qualità e unicità del territorio toscano come ‘qualità del prodotto’, senza distruggerlo.

Se guardiamo all’isola d’Elba, per tornare all’esempio precedente, vediamo un territorio di straordinarie opportunità che viene utilizzato per attività turistiche poco più di due mesi l’anno; dove invece che servizi si offrono immobili; dove i diversi operatori non fanno sistema; dove chi alloggia in un residence non è sicuro di trovare un posto sulla spiaggia; dove, in sintesi si offrono cose a caro prezzo, per lo più case, ma non servizi. Altra cosa sarebbe un turismo prolungato per almeno sei mesi l’anno, un’offerta complementare di alloggi, servizi, eventi, prodotti tipici, come avviene in un mercato moderno. Se in questo modello virtuoso di sviluppo si dovessero costruire anche delle strutture ricettive, ben inserite nel paesaggio sarebbero benvenute. Quanto vale per l’Elba vale anche per il resto della Toscana.

In definitiva, i comitati si oppongono a una distruzione di paesaggio e territorio che avviene senza che alla base vi sia un progetto di sviluppo durevole e sostenibile. Sono certamente a favore di progetti che utilizzino il territorio in senso opposto, in un reale processo di modernizzazione dell’economia toscana. Agli inizi del terzo millennio, modernizzazione e sviluppo significano ricerca, innovazione, istruzione, formazione professionale, servizi alle imprese, produzioni tecnologicamente avanzate, ospitalità qualificata e orientata - una serie di beni, prevalentemente immateriali, che trovano nel nostro territorio e nel nostro paesaggio un supporto di eccellenza. Questi valori dovrebbero stare alla base del patto politico fra diversi livelli istituzionali e fra istituzioni e cittadini, e se tutto ciò comporta un limitato consumo di nuovi suoli, anche in posizioni delicate, cioè se i progetti edilizi sono realmente finalizzati a una modernizzazione correttamente intesa, possono essere tranquillamente accettati e sostenuti fatta salva ovviamente la qualità dei progetti.

Il territorio e la politica dichiarata della Regione Toscana

Quanto detto finora sulla qualità dello sviluppo toscano e sulle tendenze in atto è confermato dal Piano di sviluppo regionale (PSR) 2006-2010, dove si afferma che “in ambito economico-sociale, l’analisi della distribuzione del reddito e della ricchezza segnala uno spostamento progressivo dalla retribuzione del lavoro a quella della rendita, e dai settori produttivi a quelli finanziari e immobiliari. Mentre a proposito del settore terziario del tempo libero - che in gran parte equivale ad attività turistiche - sempre nel PSR viene detto che “è necessario sviluppare competitività attraverso la valorizzazione del patrimonio ambientale, paesaggistico, culturale, e ridurre le rendite di posizione” e di seguito, sempre il PSR sostiene che nel ridisegno del sistema toscano “risultano favorite ... le aree turistico-rurali, dove un nuovo modello di sviluppo, ma anche il meccanismo della rendita e dell’investimento immobiliare, ha creato significativi flussi di reddito, non accompagnati però da livelli occupazionali stabili e qualificati. Risultano, invece, sfavoriti i sistemi produttivi locali basati sull’attività manifatturiera(PSR 2006-2010, p. 7).

Ma i principali documenti programmatici e strategici della Regione Toscana, vale a dire PSR e PIT sono condivisibili non solo per molti aspetti analitici, ma anche per quelli propositivi. In particolare per quanto riguarda il territorio, nel PSR ci si propone di “far emergere il valore immateriale rappresentato dal territorio, contrastando tutte le forme delle rendite di attesa; promuovere anche attraverso le politiche territoriali l’innovazione, salvaguardare e rafforzare il valore delle colline e delle coste e di tutte le altre eccellenze presenti sul territorio; generare coesione, dinamismo e governance territoriale cooperativa tra tutti i livelli istituzionali presenti” (PSR p. 31).

Un territorio che secondo il PIT deve essere inteso come “patrimonio ambientale, paesaggistico, economico e culturale della società toscana. Ma anche “un ‘veicolo’ essenziale con cui la nostra comunità regionale parteci­pa alla comunità universale dell’umanità e si integra nei suoi destini”. E ancora: il territorio è “un fattore costitutivo del capitale sociale di cui dispone l’insieme di antichi, nuovi e potenziali cittadini della nostra realtà geografica. Perciò, quale che sia la titolarità dei suoli e dei beni immobili che vi insistono, il territorio – nelle sue componenti fisiche così come in quelle culturali e funzionali – è comunque e pregiudizialmente il nostro patrimonio pubblico: che pubblicamen­te e a fini pubblici va custodito, manutenuto e messo in valore[3](Documento di piano, pp. 21, 22).

Potremmo aggiungere molte altre importanti affermazioni del PSR e del PIT che sono completamente condivise dai comitati. I comitati non solo sono d’accordo con queste analisi e questi obiettivi, ma intendono collaborare in quello spirito di partecipazione ‘bottom-up’ che deve integrare la componente ‘top-down’ delle decisioni.

Il territorio e la politica reale nella regione Toscana

Le dichiarazioni di principio di PSR e PIT sono importanti; ma sono anche impegnative? E se sono impegnative come sono tradotte in una prassi concreta?

Qui si situa una fondamentale discrasia fra fini e mezzi che deriva da una precisa scelta politica della Regione. La discrasia consiste nel fatto che l’adesione degli enti locali, dei Comuni in primis, agli obiettivi della politica regionale riguardante il territorio si colloca su un piano meramente volontaristico. Questa scelta è dichiarata e ribadita nel PIT al di là di ogni possibile dubbio. Cito fra le tante affermazioni: “Nessun Comune deve sentirsi sotto tutela.... E' un punto su cui la chiarezza dev’essere massima, a costo della ridondanza. Così come la ge­rarchia anche l’età del principio di conformità - quale chiave delle relazioni intergovernative - è de­finitivamente sepolta”. (Documento di piano, p. 82).

In sintesi, secondo il PIT, “perché la governance non scada a mero rito negoziale”, perché, cioè, si realizzi quel patto istituzionale e politico necessario affinché gli obiettivi del PIT non rimangano sulla carta, occorrono due pilastri fondamentali. Il primo pilastro è costituito da un’adesione, più ancora che politica, ‘etica’ alle finalità del PIT[4]. L’altro pilastro è la valutazione integrata che dovrebbe costituire il lato tecnico e ‘oggettivo’ della governance. (“la valutazione integrata è lo strumento indispensa­bile per dare sostanza alla governance territoriale, trasformando la sussidiarietà e l’autonomia lo­cale, che ne sono il presupposto, in cooperazione attiva invece che in tentazioni di isolamento par­ticolaristico o municipalistico ..... E dia testa e gambe a quel nuovo ‘patto’ che il Pit vuole rappresentare”[5]). E ometto molte altre citazioni che rafforzano questa posizione sostanziale che costituisce l’essenza della politica di governo del territorio della Regione Toscana.

Di fronte a una così palese contraddizione fra obiettivi politici e strumenti amministrativi viene da chiedersi se i nostri governanti abbiano perso ogni senso della realtà? Si immaginano forse che i comportamenti degli amministratori locali – fatto salvo il comportamento di tanti sindaci che operano con sostanziale correttezza siano rivolti esclusivamente al bene comune e che non vi giochi alcun altro tipo di interesse, né di politica personale, né economico? Che non sia possibile alcuna collusione fra politica e affari? Che le forze della rendita si facciano ammansire dalle buone parole? Poiché i governanti della Regione Toscana non sono così ingenui da credere di vivere in un mondo incantato, dove non esistono capitali leciti e illeciti in cerca di occasioni speculative, un mondo dove non esistono collusioni fra amministratori e il blocco del mattone, un mondo dove non esiste la corruzione, dove lo statuto del territorio, ancorché costituito da soli indirizzi, è la fonte e il parametro etico, di quel “senso del limite” con cui chi amministra come chi intraprende deve trattare un patrimonio (il territorio) tanto prezioso, quanto delica­to” (Documento di piano, p. 26); poiché, dicevamo, i nostri governanti, forse non sono in questo momento particolarmente sensibili alla tutela del paesaggio, ma certamente non ingenui, dovremmo pensare che gli obiettivi politici del PIT siano di altra natura rispetto a quelli dichiarati e che mirino ad una consensuale spartizione del governo del territorio fra Regione e Comuni, finalizzata alla conservazione di poteri collettivi e personali, con le Province relegate nel ruolo di convitati di pietra.

Una seconda risposta cui ci piacerebbe aderire (ma va dimostrata nei fatti) nasce dalla constatazione in parte condivisibile che le politiche di piano, le “politiche regolative” e in particolare la loro strumentazione giuridica non si realizzano senza un diffuso consenso; consenso che non può essere ottenuto ritornando a sistemi di pianificazione gerarchica, ma deve coinvolgere tutte le istituzioni. Questa secondo punto di vista anche se sottovaluta la potenza dei cambiamenti strutturali che abbiamo ricordato e delle conseguenti spinte ad un’utilizzazione privatistica del territorio, mirata allo sfruttamento di rendite di posizione, deve essere precisata e integrata sul piano degli attori cui viene sollecitato il consenso. Torneremo su questo punto che è centrale nelle conclusioni.

Di fatto in questi ultimi anni, già a partire dalla legge di governo del territorio del 1995 (che non differisce nelle finalità da quella attuale), le cose sono andate in tutt’altra direzione e non bastano certamente le esortazioni del PIT o del PSR a ribaltare corposi e consistenti interessi economici che si sono intrecciati con gli interessi politici di non pochi amministratori locali. L’affermazione che l’efficacia del piano regionale (di cui abbiamo già ricordato i virtuosi obiettivi) è affidata alla “capacità politica” dell’amministrazione regionale di alimentare e orientare la cooperazione tra i diversi livelli di governo del panorama istituzionale toscano. (Documento di piano, p.26), suona come ‘parola di re!’, dove la ‘capacità politica’, assurge a suprema garanzia del patto fra istituzioni e cittadini.

[…]

Nota

Il testo integrale della relazione di Baldeschi, comprese le note, è scaricabile in formato .pdf, adoperando il collegamento qui sotto.

Della relazione ci sembra che meritino particolare evidenza quattro aspetti.

1. Il progressivo spostamento degli interessi economici dalle attività produttive a quelle della “valorizzazione immobiliare”, che costituisce l’ambito di riferimento delle politiche territoriali del sistema delle istituzioni.

2. La sottolineatura della profonda ambiguità del PIT, delle leggi urbanistiche e dell’intera politica del territorio. In particolare, il gigantesco scarto tra le intenzioni enunciate, le denunce espresse, gli obiettivi dichiarati, e le concrete azioni mediante le quali si effettuano, si promuovono o si tollerano azioni di segno radicalmente opposto.

3. L’accento posto sulla questione del mancato rispetto della legalità: si va dall’ossimoro delle “Varianti delle invarianti” (sic), approvate da molti comuni, al mancato rispetto, nei “regolamenti urbanistici”, delle prescrizioni dei “piani strutturali”. L’unica possibilità di imporre il rispetto delle procedure di corretto governo del territorio diventa quindi il ricorso alla magistratura.

4. La precisione con la quale si definiscono sinteticamente le caratteristiche che dovrebbe avere un’azione di tutela, conforme al Codice del paesaggi, che voglia essere efficace: il piano deve essere prescrittivo e non di mero indirizzo; deve essere garantita la conformità degli strumenti urbanistici; deve essereverificato l’effettivo adeguamento delle strutture tecniche comunali.

La Rete dei Comitati per la difesa del Territorio, di recente costituitasi in Associazione, fin dalla sua origine ha considerato l’ambiente, nella sua accezione più vasta di territorio, paesaggio, beni culturali, centri urbani, condizioni di vita individuale e collettiva, come un bene primario da tutelare e arricchire a beneficio della collettività. L’attività della Rete, derivante dall’azione dei 180 Comitati nati su singole specificità territoriali ma riconosciutisi in alcuni principi generali, ha evidenziato gli effetti negativi di pratiche di governo del territorio che riguardano sia il livello nazionale che quello delle amministrazioni locali. La Regione Toscana, che vantava in passato un primato nella difesa del bene pubblico contro i particolarismi, si è incamminata oggi verso un modello di gestione del territorio in cui trovano spazio gli interessi speculativi e la rendita immobiliare a scapito della tutela ambientale. La riconversione in atto dell’economia toscana, dalla produzione manifatturiera all’edilizia, ha contribuito a una cementificazione diffusa, scollegata da emergenze abitative, mentre le grandi infrastrutture non sembrano tener conto di quel rapporto tra costi e benefici per la collettività che dovrebbe essere il parametro essenziale per ogni grande opera. Quanto alle politiche energetiche, vengono promossi obsoleti e pericolosi impianti ad alto rischio, anziché sostituirli con fonti energetiche rinnovabili, per le quali è necessario comunque attivare la procedura di VIA; come, per la gestione dei rifiuti, si insiste con un piano che prevede l’incenerimento e il conferimento in discarica anziché avviare una responsabile politica fondata su riduzione, raccolta differenziata spinta, riciclaggio, e impianti di trattamento a freddo, utilizzando pratiche già altrove collaudate con ottimi risultati.

Per fare il punto della situazione sul territorio toscano la Rete ha promosso il Convegno “Le emergenze in Toscana. Crisi di un modello regionale di sviluppo”.

A fianco di relazioni che hanno evidenziato la mancanza di una visione culturale e politica che tenga in debito conto i livelli di attenzione con cui le Istituzioni devono guidare le trasformazioni del territorio, e di interventi che hanno proposto soluzioni alternative ad alcune scelte sbagliate ma anche di recente ribadite come essenziali (tirrenica, nodo fiorentino tav, rigassificatore, inceneritori, tramvia fiorentina, geotermia nell’Amiata…), dopo aver evidenziato alcuni specifici casi territoriali, è stata presentata una “Mappa delle emergenze” nella quale sono registrati i luoghi in cui si verificano aggressioni al patrimonio territoriale della Regione, con segnalazioni provenienti dai Comitati stessi. Si tratta di un lavoro in progress che la Rete mette a disposizione di chiunque voglia conoscere lo stato effettivo della situazione toscana, al di là della retorica dello sviluppo di qualità e delle buone intenzioni enunciate nei documenti ufficiali. Un Osservatorio permanente, arricchito a latere da una analisi di scempi sui quali non sono ancora nati specifici Comitati, che costituisce una denuncia circostanziata della sofferenza in cui versa il nostro territorio e insieme la base per le ipotesi alternative di cui la Rete è portatrice; un libro bianco sui danni già compiuti e un richiamo forte al rispetto di quei principi costituzionali che sanciscono all’art. 9: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Infine, la Mappa vuole essere un appello alle istituzioni e, anche in vista delle prevedibili conseguenze relative alla mancata applicazione del “Codice del paesaggio”, un possibile terreno di confronto, aperto e trasparente, con chi non sostenga solo a parole la difesa dell’interesse presente e futuro della collettività.

In calce è scaricabile un’ampia rassegna stampa, diffusa dalla Rete all’indomani del Convegno. Qui la " Mappa delle emergenze". Altre informazioni sul sito della Rete. Qui la relazione di E. Salzano, fra poco anche quella di Paolo Baldeschi. Alberto Asor Rosa ha parlato a braccio.

Centonove vicende di maltrattamenti, distribuite in tutta la Toscana, con una concentrazione nell'area fiorentina e ad esclusione di due sole zone, la Garfagnana e il Casentino. La Rete dei comitati coordinati da Alberto Asor Rosa ha stilato una mappa degli scempi del territorio toscano, dalle espansioni edilizie agli stabilimenti industriali. I comitati hanno organizzato per oggi un convegno a Firenze (Circolo Vie Nuove, via Donato Giannotti 13). Partecipano, fra gli altri, Asor Rosa, Salvatore Settis, gli urbanisti Edoardo Salzano, Paolo Baldeschi e Giorgio Pizziolo, l'agronomo Mauro Agnoletti.

La Toscana si conferma una regione a elevata conflittualità ambientale, da quando, due anni fa, esplose la vicenda delle case costruite sotto la rocca di Monticchiello. Da allora sono sorti molti comitati di tutela. Che, con quelli già esistenti e con le associazioni ambientaliste, hanno costituito una rete. Un'antica abitudine alla partecipazione ha alimentato forti passioni e stimolato competenze e analisi. Sull'altro fronte le istituzioni regionali e molte locali, si sono impegnate a difendere una lunga storia di buongoverno. La mappa disegna una regione puntellata da inestimabili luoghi di pregio a fianco dei quali figurano località inghiottite dal cemento. «Le emergenze territoriali nella Toscana», spiega Claudio Greppi, geografo dell'Università di Siena e autore del dossier che accompagna la mappa, «non sono smagliature occasionali, come dicono gli amministratori pubblici. Sono le conseguenze di come viene applicata la legislazione regionale. E gli effetti delle norme si vedono solo ad alcuni anni di distanza». La mappa raccoglie le segnalazioni dei comitati. Fra le realizzazioni più discusse il grande albergo di Poggio Murella, a Manciano, progettato da Paolo Portoghesi; o gli insediamenti di Campagnatico, di Monte Argentario e di Capoliveri all'isola d'Elba, sui quali pendono inchieste della magistratura. A Casole, sul colle di San Severo, vista mozzafiato sulla Val d'Elsa, c'era un piccolo podere con un casale in pietra, una stalla e qualche annesso: ora spuntano dieci villette con cinquanta appartamenti e persino un laghetto artificiale. Un villaggio turistico dovrebbe sorgere invece a cinquecento metri dalla Rocca di Campiglia Marittima: se il minuscolo borgo occupa sul cocuzzolo 50 mila metri quadri, ai suoi piedi il villaggio si estenderà su un'area grande più della metà dell'abitato medievale. Ottantaquattro sono invece le villette contestate nella zona di Palaia, a Greve in Chianti. Un altro caso ancora, Castelfalfi, piccolo borgo di origine longobarda inserito in una vasta tenuta, con campo da golf e con edifici in parte già trasformati in residenze turistiche. La proprietà è stata acquistata da Tui, un gigante tedesco del turismo, che progetta nuove edificazioni per 140 mila metri cubi, un albergo da 240 posti letto, un villaggio per altri 400, e piccoli borghi dove oggi ci sono isolati casali, oltre all´aumento del campo da golf da 68 a 162 ettari. Fra le emergenze si segnalano stravolgimenti nel centro storico di Fiesole, ma anche l'ampliamento dell'aeroporto di Ampugnano, vicino a Siena, e la costruzione dei 110 chilometri di autostrada da Civitavecchia a Grosseto. Ma complessivamente è sotto accusa tutta la politica urbanistica attuata in vaste zone della regione. Spiega Edoardo Salzano: «L'azione di tutela non è semplice conservazione, ma amorevole accompagnamento e guida che consenta il prolungamento nel tempo delle regole, degli equilibri che la qualità di paesaggi urbani e rurali hanno costruito e mantenuto fino a oggi".

"Ma il cemento non è dilagato"

Intervista a Claudio Martini di Francesco Erbani - la repubblica, 28 giugno 2008

«Fra i comitati è prevalsa una politica di contrapposizione. Hanno vinto istanze estremiste e per certi aspetti regressive». Claudio Martini, presidente della Regione Toscana, non potrebbe essere più secco. Con i comitati ogni dialogo è interrotto. «Qualcuno ha anche detto che dietro le scelte urbanistiche c'è odore di tangenti. E a questo punto per me il discorso si chiude».

I comitati accusano la Regione di aver favorito una politica di espansione edilizia.

«Sono scandalizzato a sentir parlare di Toscana infelix. Nella regione avvertiamo la presenza di interessi speculativi, che dopo aver aggredito le coste si spostano nelle zone interne. Ma chi sostiene che ci saremmo consegnati a essi non fa i conti con la realtà».

E la realtà qual è, secondo lei?

«Ci sono problemi e possiamo anche discuterne. Ma con la nuova legislazione regionale l'insediamento di Monticchiello non sarebbe stato possibile. E poi non è vero che dovunque spuntino ecomostri».

Lei non crede che il cemento stia dilagando in Toscana?

«Non ci credo. A breve avremo nuove rilevazioni sull'urbanizzazione. Ma posso anticipare che negli ultimi dieci anni in Toscana il fenomeno è stato inferiore alla media italiana e inferiore anche al dato del decennio precedente».

Vi accusano di aver lasciato mano libera ai Comuni, troppo deboli rispetto a certi interessi.

«Se non ci fosse stata l'opera di salvaguardia dei comuni toscani non avremmo avuto la salvaguardia di teatri, castelli, siti archeologici. In ogni caso, con la nuova legge regionale, i Comuni non sono lasciati da soli. È prevista una pianificazione del territorio in accordo con la Regione e anche con le soprintendenze. Ma il problema è che i comitati hanno un'idea dello sviluppo improponibile. Loro contestano anche ospedali, impianti di energia eolica e geotermica. Non vogliono campi da golf. Protestano se uno stabilimento industriale chiede un ampliamento, senza il quale è costretto ad andare in Germania».

«Il ministro Sandro Bondi mi dà ragione su Monticchiello non diversamente da come mi aveva dato ragione il suo predecessore Francesco Rutelli... Una vicenda di cui prendo atto con molta soddisfazione. Evidentemente la denuncia fatta a suo tempo ha sollevato uno scalpore capace di resistere ai mutamenti di maggioranza del governo».

Alberto Asor Rosa ha appena letto l'intervista al ministro Bondi al Corriere della Sera. Contento degli apprezzamenti del neoministro dei Beni culturali? «Non si può che esserne contenti. Ma Monticchiello è la punta più emergente e nota di un iceberg di dimensioni ben più imponenti, composto da tanti segmenti persino più consistenti. Lì si capirà il tipo di approccio del nuovo ministro, visto che anche lui parla del caso Toscana».

A che cosa si riferisce, Asor Rosa? «In Toscana pende da tempo la questione del corridoio tirrenico, cioè la sciagurata ipotesi di affiancare al vecchio tracciato dell'Aurelia una nuova autostrada destinata a sfondare da cima a fondo la Maremma. Sarà il vero banco di prova per il ministro, ben più impegnativo e significativo della presa di posizione su Monticchiello». Il vecchio professore non rinuncia alla battuta: «Il dispiegamento delle aperture bondiane avrà modo di chiarirsi nei prossimi mesi».

Vi vedrete col ministro? «Ci sarà presto una magnifica occasione. Il 28 luglio si riuniranno a Firenze proprio i Comitati toscani per la difesa del territorio, io ne sono il coordinatore. Credo che in quella sede, dietro adeguato nostro invito, il ministro potrà ottenere l'ascolto di una platea sicuramente molto attenta alle sue opinioni...»

Mi chiedo come sia possibile, in Toscana, il massacro del territorio rurale, Val di Cornia compresa. Me lo chiedo, prima di tutto, alla luce delle leggi che questa regione ha prodotto, sin dagli anni 70. Leggi che hanno sempre individuato nel territorio rurale, e nelle attività agricole, una fondamentale risorsa economica e un tratto distintivo del paesaggio e dell’identità della regione.

Provenendo da altre regioni ed attraversando la Toscana, si percepisce nettamente che cosa hanno rappresentato questi capisaldi della legislazione regionale. La Maremma, la Val d’Orcia, le colline senesi, le colline di Bolgheri e altre realtà rurali sono oggi straordinari bacini di qualificata produzione agricola e risorse paesaggistiche che contribuiscono a promuovere l’immagine della Toscana nel mondo.

Sono patrimoni che devono essere protetti sotto il profilo paesaggistico e sostenuti per lo sviluppo di produzioni agricole orientate alla qualità e alla tipicità. La più recente legge regionale sul governo del territorio (la n.1/2005) sembra averne coscienza, arrivando ad affermare che “nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti”, che le zone agricole sono assunte “come risorsa essenziale del territorio limitata e non riproducibile, che “nelle zone con esclusiva funzione agricola sono di norma consentiti impegni di suolo esclusivamente per finalità collegate con la conservazione e lo sviluppo dell’agricoltura e delle attività connesse”.

Se le leggi non sono propositi, ma norme da osservare, viene davvero da chiedersi cosa stia accadendo nel concreto governare di questa Regione e dei suoi Comuni. Basta guardarsi intorno, anche qui, per capire che qualcosa non va nella politica e nell’amministrazione. Il fenomeno è diffuso, ma raggiunge limiti intollerabili in realtà come San Vincenzo dove vaste aree agricole sono massacrate da villette che spuntano dal nulla, da casolari rurali che si ampliano a dismisura e si moltiplicano fino a divenire agglomerati abitativi, da vere e proprie lottizzazioni che si materializzano tra relitti di campi coltivati. Basta percorrere la vecchia Aurelia o salire in quelle che un tempo erano le strade panoramiche di S. Carlo e S. Bartolo per capire che cosa stia accadendo: uno scempio paesaggistico e la distruzione progressiva del patrimonio produttivo agricolo.

Le domande sono molte. Com’è possibile, in presenza di leggi regionali a cui devono uniformarsi piani e regolamenti locali, disattendere clamorosamente i principi guida del governo del territorio?

Com’è possibile, in un’area come la Val di Cornia che ha tradizioni di pianificazione coordinata, assistere ad una così profonda divaricazione delle politiche di governo del territorio tra comuni limitrofi? Com’è possibile, senza che la politica si ponga serie domande, assistere al prevalere di evidenti interessi speculativi su quelli della produzione agricola e della conservazione di beni vitali per l’immagine della Toscana, determinati per la qualificazione dello sviluppo locale, compreso quello turistico? E’ sin troppo evidente, ormai, che è più facile per una società immobiliare ottenere permessi per una lottizzazione nelle zone agricole che per un imprenditore agricolo il permesso di ampliare una cantina o per una cooperativa le autorizzazioni a costruire un frantoio sociale.

Il problema dunque, anche in Toscana, non è dunque il “dire” ma il “fare” quel che si dice. Nella pubblica amministrazione, poi, il dire una cosa e farne un’altra dovrebbe configurare un illecito amministrativo, pena la perdita di credibilità della politica e l’inevitabile scivolamento nel dominio dell’arbitrio dove a contare non sono le leggi ma i poteri.

Massimo Zucconi è stato il creatore del sistema dei parchi della Val di Cornia e il suo direttore per oltre un decennio

Dal volume in corso di stampa: Il paesaggio della Toscana tra storia e tutela, a cura di Rossano Pazzagli, Pisa, ETS (Collana “Le aree naturali protette”, diretta da Renzo Moschini)

Ho avuto occasione, negli ultimi mesi, di partecipare, e più di una volta, a iniziative critiche sulla gestione del paesaggio e dell’urbanistica in Toscana. Ho sottoscritto l’appello di Alberto Asor Rosa dell’ottobre 2007, quello titolato Salviamo l’Italia,che attribuisce la responsabilità della distruzione del territorio e del paesaggio soprattutto agli “orientamenti espressi dal ceto politico, anche quello di centro sinistra, il quale – in misura crescente anche nelle zone del paese considerate un tempo santuari dell’arte e della cultura, come la Toscana – ha imboccato a quanto pare senza sentire ragioni, la strada dell’investimento immobiliare speculativo e delle grandi opere a ogni costo”. Collaboro stabilmente al sito di Edoardo Salzanoeddyburg.it, che assume posizioni molto spesso di esplicito dissenso con la politica urbanistica toscana. Un esempio sono le critiche mosse al Pit - piano d’indirizzo territoriale. Che cosa si contesta al Pit? Soprattutto di aver messo in discussione la prevalenza delle scelte di tutela su quelle di trasformazione, prevalenza che è netta nella legge urbanistica regionale del 2005. Invece, secondo il Pit, ciò che la legge regionale definisce come lo statuto del territorio viene definito e adottato un’agenda. In sostanza, con un’astuzia semantica, vengono definiti, con la medesima portata di elementi statutari, sia beni non negoziabili, fondanti l’identità del territorio toscano, inteso come patrimonio ambientale, paesaggistico, e culturale, sia elementi di carattere funzionale (infrastrutture, servizi ed impianti di utilità pubblica).In altre parole, porti, aeroporti, grandi impianti tecnologici per il trattamento dei rifiuti, per la produzione o distribuzione di energia finiscono nello statuto allo stesso livello del paesaggio.

Qui m’interessa subito chiarire che mi permetto di essere critico con la Toscana, perché ammiro, apprezzo, amo la Toscana, la sua storia, il suo paesaggio. Continuo a citare la magnifica introduzione di Antonio Paolucci alla guida della Toscana del Touring, laddove ha scritto che il rispetto del territorio, in Toscana più avvertito che altrove, si “deve forse a quella cultura mezzadrile sagace e parsimoniosa che […] filtrata nel comune sentire di sindaci e di assessori, è diventata politica urbanistica”. Esistono ancora amministratori che rispondono alla descrizione di Paolucci, e ne ho avuto conoscenza diretta. E accanto a essi è obbligatorio ricordare quell’altra risorsa fondamentale del potere pubblico in Toscana che sono i responsabili tecnici dell’urbanistica di comuni e province, eccellenti e spesso coraggiosi interlocutori nell’attività di pianificazione che ho avuto la buona sorte di condurre in Toscana.

Spero che non si colga una contraddizione se da una parte ammiro la Toscana, mentre al tempo stesso sottoscrivo critiche e contestazioni. Non mi sembra che ci sia incoerenza perché purtroppo tendono a diffondersi errori, arbitrarie previsioni di crescita, ingiustificata attrazione per infrastrutture sovrabbondanti. Come si fa a non preoccuparsi e a non assumere toni talvolta anche non amichevoli? Penso che sia del tutto logico prendersela in primo luogo con chi si sente più vicino e che ci piacerebbe fosse sempre come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni sospetto.

Chi scrive queste righe è napoletano e non è difficile immaginare la sofferenza che prova in questa stagione. Dall’inizio del 2008, le montagne di rifiuti accumulate per strada a Napoli e in Campania hanno campeggiato per settimane sulle prime pagine dei giornali e sugli schermi delle televisioni di tutto il mondo. E devo subito dire che non è un’emergenza, come si continua a ripetere: uno scandalo che continua da tre lustri non è un’emergenza. È un paradosso, un tragico paradosso, consistente nel fatto che, mentre le pubbliche istituzioni non riescono a smaltire la spazzatura prodotta dalle famiglie, non si è mai interrotto lo sversamento criminale – sopra e sotto i suoli di quella che fu la Campania felix – di immani quantità di materiali pericolosi e tossici provenienti in particolare dalle industrie del nord. In Gomorra, Roberto Saviano ha scritto che “nessun altra terra nel mondo occidentale ha avuto un carico maggiore di rifiuti, tossici e non tossici, sversati illegalmente. Grazie a questo business, il fatturato piovuto nelle tasche dei clan e dei loro mediatori ha raggiunto in quattro anni quarantaquattro miliardi di euro. Un mercato che ha avuto negli ultimi tempi un incremento complessivo del 29.8 per cento, paragonabile solo all’espansione del mercato della cocaina. Dalla fine degli anni ’90 i clan camorristici sono divenuti i leader continentali nello smaltimento dei rifiuti”. Negli osservatori più attenti si colgono tratti di degradazione antropologica. La città, la provincia, la regione continuano ad arretrare rispetto ad altre realtà nazionali e internazionali in qualunque indagine relativa a criminalità, evasione scolastica, evasione fiscale, disoccupazione, abusivismo edilizio, inquinamento, condizione femminile, immigrazione, eccetera. La corruzione è diffusa ovunque: il bar già simbolo del rinascimento napoletano non rilascia ricevuta fiscale. Tutto ciò è la conseguenza di una gravissima crisi morale, politica e istituzionale, sociale e ambientale. Che però è vissuta, e non solo a Napoli, come una fatalità ineluttabile. Il resto d’Italia guarda a Napoli con disincanto. Come altre volte negli ultimi anni, il commissario straordinario nominato dal governo ha sollecitato le altre regioni a farsi carico di una parte dei rifiuti della Campania, ma la risposta è stata deludente, Liguria, Veneto e Friuli hanno rifiutato. In Sardegna ci sono stati disordini contro il presidente Renato Soru. Il Veneto, per non perdere i turisti tedeschi, ha proposto una campagna pubblicitaria con la parola d’ordine: “Non siamo Napoli”. Sembra passato un secolo da Napoli siamo noi, il libro di Giorgio Bocca del 2006.

L’abisso che separa la Toscana dalla Campania non dovrebbe indurre a stemperare le critiche, a essere indulgenti, condiscendenti con la Toscana? In tanti, nelle ultime settimane mi hanno fatto riflettere sul punto. Che senso ha la richiesta di più rigore in Toscana, mentre a sud del Chiarone, e non solo in Campania, il territorio è a soqquadro, l’abusivismo continua imperterrito, la campagna non è più il mondo della natura e della produzione agricola ma il recipiente adatto a raccogliere di tutto? Ma penso che sarebbe sbagliato se facessimo così. Non otterremo certo, additando la Toscana a esempio virtuoso, un miglioramento della situazione meridionale, obiettivo di tempo lungo, irraggiungibile senza un profondo rinnovamento della politica e dei dispositivi di formazione delle classi dirigenti. Otterremo piuttosto il risultato contrario, e cioè un rallentamento della tensione che invece, secondo me, deve continuare a esercitarsi a favore della qualità ambientale e paesaggistica della Toscana.

Soprattutto a me sembra che possa e debba essere importante l’assunzione diretta da parte della Toscana di una responsabilità nazionale riguardo alle questioni di cui stiamo trattando. Che intendo per responsabilità nazionale della Toscana? Mi riferisco, per esempio, al dibattito in corso sull’ultima stesura del Codice del paesaggio, quella curata dalla commissione ministeriale coordinata da Salvatore Settis. Rispetto ai testi precedenti, molto convincente è, tra l’altro, la nuova definizione di paesaggio[1], dove si assume come indiscutibile ed esclusivo il ruolo dello Stato. Merita di essere sottolineata la differenza con l’impostazione della cosiddetta Convenzione europea del paesaggio, secondo la quale il paesaggio è, invece, “una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni”; inoltre, secondo la Convenzione, il paesaggio “costituisce una risorsa favorevole all’attività economica” e “può contribuire alla creazione di posti di lavoro”.

Altrettanto importante è la nuova norma del Codice[2], che ripristina l’impegno diretto delle strutture centrali del ministero nella predisposizione di indirizzi per la formazione dei piani paesaggistici.

Sul testo cosiddetto Settis l’opposizione della Regione Toscana è stata netta, irriducibile. Il presidente Claudio Martini ha dichiarato che si sta facendo “un micidiale passo indietro che ci condanna all’arretratezza”. L’assessore Riccardo Conti ha lanciato un durissimo messaggio nei confronti dei propri referenti politici nazionali affinché intervengano contro la visione “centralistica” propugnata dal Codice, a meno che non vogliano rischiare un “impoverimento politico e culturale” che una regione “dotata di autonomia” come la Toscana potrebbe essere tentata di attivare. Per me è difficile intendere le ragioni di tanta ostinazione. Qual è l’autonomia regionale che la Toscana sente minacciata? Quale danno potrebbe derivare dalla individuazione statale di “quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale”? Niente cambierebbe, nella sostanza, per la Toscana e le altre regioni che da anni operano nell’attività di conoscenza, di tutela e di valorizzazione delle proprie risorse paesaggistiche. Un grave danno sarebbe, al contrario, se dal Codice fossero depennate le norme ricordate sopra. Continuerebbe la latitanza delle regioni, chiamiamole apatiche (quelle meridionali soprattutto), che solo i binari fissati dallo Stato potrebbero indurre a un impegno attivo nella tutela. È qui, secondo me, che dovrebbe rivelarsi la responsabilità nazionale della Toscana alla quale prima ho fatto cenno e che invece è negata da un esasperato, irragionevole egoismo regionalista.

Concludo queste brevi, sommarie e disordinate riflessioni sul paesaggio toscano riportando in sintesi due osservazioni di Paolo Baldeschi che condivido del tutto e che spero aiutino a intendere anche il mio punto di vista. In primo luogo, secondo Baldeschi, ciò che nel Pit sembra più apprezzabile sono “le scorie di una vecchia cultura urbanistica che ancora galleggiano come relitti nel corso di un nuovo indirizzo”. La seconda osservazione che mi pare meritevole di essere ripresa riguarda il peso dei tanti comitati che in Toscana si aggregano in difesa di interessi comuni. Può darsi – osserva Baldeschi – che vi sia una componente elitaria nelle associazioni ambientaliste di livello nazionale. Ma certamente i comitati non sono fatti da signori in villa (come sostiene una polemica volgare), ma da gente normalissima, da impiegati, operai, persone che sacrificano il loro tempo libero non per difendere un interesse particolare o il cortile di casa, ma un territorio che amano e rispetto al quale provano un senso di appartenenza. Se i nostri politici avessero occhi per vedere e orecchi per sentire riconoscerebbero una riattualizzazione della vecchia base del partito comunista, quella base che, finito il lavoro, si ritrovava nelle sezioni convinta di lavorare per il bene comune.

Questa gente, queste popolazioni dentro o fuori i comitati, sono sostanzialmente impotenti. Di fronte hanno un blocco sociale e politico (spesso capeggiato dalla Regione) che si presenta come una corazzata di fronte a fragili barchette. La loro unica risorsa, oltre alla conoscenza del territorio è il rispetto della legalità. Mai come in questo caso la legalità è il potere dei senza potere.

[1] Qui di seguito i primi tre commi dell’art. 131 del Codice: “1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. 2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali. 3. Le norme di tutela del paesaggio, la cui definizione spetta in via esclusiva allo Stato, costituiscono un limite all’esercizio delle funzioni regionali in materia di governo e fruizione del territorio”.

[2] Qui di seguito il 3° comma dell’art. 145 del Codice: “3. Le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell’adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette.

Provo anch’io a intervenire nell’importante discussione che Eddyburg sta ospitando a proposito di Calstelfalfi. Qui si è verificata la prima applicazione di un metodo – il “dibattito pubblico” sui grandi interventi – che è stato poi esplicitamente previsto dalla legge toscana sulla partecipazione, approvata un mese fa. Ciò significa, che dopo questa esperienza pionieristica, ce ne saranno altre, probabilmente molte altre. E’ quindi importante capire che cosa possiamo aspettarci da un approccio di questo genere. Se pensiamo di poterlo migliorare, correggendo alcuni dei limiti che sono stati denunciati. O se è meglio buttarlo via e impegnarci a lavorare su altri fronti.

I critici del dibattito pubblico di Castelfafi dovrebbero riconoscere (e qualcuno di loro, a dire il vero, lo ha fatto) che si tratta di un’innovazione per lo meno inconsueta nel modo di procedere delle amministrazioni pubbliche italiane. Di solito, in casi simili, i progetti vengono tenuti segreti, la negoziazione tra amministrazione e l’impresa promotrice si svolge dietro le quinte. Si cerca di mettere l’opinione pubblica di fronte al fatto compiuto. Poi magari qualche intellettuale (con o senza villa) se ne accorge, denuncia il fatto sui giornali e chiede a gran voce un intervento dall’alto, che qualche volta arriva e spesso no. La polemica si svolge in alte sfere, molto distanti dal contesto locale.

A Montaione si è proceduto in tutt’altro modo. Le carte sono state messe a disposizione dei cittadini. Si è aperto uno spazio pubblico strutturato in cui è stato possibile affrontare tutti gli aspetti fondamentali della questione. I promotori immobiliari sono usciti dall’ombra in cui solitamente si rifugiano e sono stati costretti a interloquire con i partecipanti. L’equilibrio dell’informazione e la parità nell’accesso sono state garantite da un soggetto super partes. Gli incontri sono stati straordinariamente ricchi e affollati. Per capire la portata della svolta basterebbe leggere attentamente – ho l’impressione che non tutti i critici l’abbiano fatto – il documento conclusivo del garante. E’ raro che un confronto pubblico venga registrato con tale completezza, trasparenza e chiarezza. Anche sul piano linguistico, il rapporto non si nasconde dietro il gergo burocratico-ufficiale che affatica i documenti istituzionali e purtroppo spesso anche quelli degli oppositori. E’ un modo – prezioso e inusuale – di restituire con onestà (e anche con un pizzico di passione) i variegati termini della questione così come sono emersi dai partecipanti con un profondo rispetto per le loro posizioni e senza quella supponenza intellettuale che spesso appesantisce i nostri scritti.

Quello che i critici obiettano è, però, che il dibattito di Castelfafi ha finito per avallare lo “sfregio”, ossia l’intervento della Tui sull’antico borgo, limitandosi a porre qualche paletto. E, se l’esito è stato deludente, ci deve essere qualcosa che non va nel metodo. Mi pare che le critiche fondamentali siano tre. Innanzi tutto, Sandro Roggio nota che l’avvio del dibattito non è stato equilibrato: nella prima assemblea si è dato tutto lo spazio ai promotori e nessuno ai loro critici. Se questo è accaduto, si tratta di un difetto rimediabile. I débats publics francesi, a cui l’esperienza di Castelfafi si è ispirata, sono preceduti da un accurata individuazione di tutti i possibili stakeholders (associazioni, comitati, istituzioni, singoli cittadini ecc.) a cui viene chiesto di esprimere il proprio punto di vista che viene diffuso dagli organizzatori, con la medesima veste tipografica, in appositi cahiers d’acteurs. Tanto per fare un esempio, nel dibattito sulla linea del TGV Marsiglia-Nizza ne sono stati pubblicati una trentina, che affrontavano il problema sotto le più diverse angolature. E, ovviamente, gli stessi attori sono stati anche i protagonisti (non gli unici) della successiva discussione. A Castelfafi questo non è stato fatto, ma si potrebbe fare nei prossimi dibattiti. Chiedo a Roggio: lo considererebbe un passo avanti?

La seconda critica, più radicale, è quella di Alberto Magnaghi. Egli obietta che il dibattito di Castelfafi si è limitato a riflettere il livello di coscienza attuale degli abitanti di Montaione. Ma – egli osserva - le popolazioni locali sono formate da “individui la cui cittadinanza implode nella loro figura di consumatori”. Sono “bombardati dalle pubblicità televisive”. Coltivano “immaginari eterodiretti”. E si chiede pertanto: “sono questi [immaginari] che dobbiamo ‘ascoltare’ o abbiamo la responsabilità di fornire agli abitanti di un luogo strumenti che li aiutino a cambiare la loro posizione di sudditanza culturale e alienazione?” Probabilmente anche l’amministratore delegato della Tui pensa, specularmene, la stessa cosa degli abitanti di Montatone e si chiede: “ma perché questi cittadini invece di badare ai loro concreti interessi immediati, si lasciano trascinare da immaginari utopici e ci mettono i bastoni fra le ruote?”. Quali sono i veri interessi degli abitanti di Montatone? quelli di lungo periodo e comunitari che immagina Magnaghi o quelli di breve periodo ed economici che immagina la Tui? O quelli – diciamo così intermedi – che molti abitanti in carne ed ossa cercano faticosamente di definire a partire dalle loro culture, delle loro esperienze e delle loro sensibilità? Questo è l’oggetto del contendere. E mi pare che l’apertura di uno spazio pubblico trasparente sia la cornice migliore perché la contesa possa svolgersi alla luce del sole e ad armi pari (o per lo meno non troppo dispari). In un quadro siffatto chi ha più filo, tesserà (di solito invece tesse chi ha più relazioni occulte e più potere). Non capisco insomma perché Magnaghi, nella sua veste di advocacy planner, non consideri questo contesto come il più favorevole alla sua battaglia pedagogica. Preferirebbe forse affrontare i cittadini senza contraddittorio? E, comunque, non si troverebbe anche lui di fronte a persone che hanno idee, speranze, visioni e immaginari diversi da quelli da lui auspicati?

La terza critica, sollevata da Edoardo Salzano e ripresa da Paolo Baldeschi, obietta che il paesaggio di Montaione non appartiene soltanto agli abitanti di Montaione e che sarebbe pertanto necessario un approccio che essi chiamano “interscalare”, ossia che tenga simultaneamente conto dei punti di vista che emergono da livelli territoriali di scala più ampia. Si tratta di un’esigenza giustissima, ma non è chiaro come possa essere realizzata. Salzano stesso riconosce che la Regione è, da questo punto di vista, un interlocutore inaffidabile. Ma allora chi sono gli interlocutori giusti su scala vasta? Ho l’impressione che Salzano (come del resto accade spesso ai protezionisti) si affidi troppo alla forza delle leggi: “bisognerebbe – egli scrive - che le scelte della Regione Toscana fossero fedeli alla lettera e allo spirito del Codice del paesaggio”. Bisognerebbe, certo, ma se non lo è? Non credo del resto che i vincoli dall’alto imposti su popolazioni riottose siano la risposta migliore. Ha quindi un senso che il dibattito – com’è stato a fatto a Castelfafi – sia centrato sul contesto locale. Esso dovrebbe essere però aperto anche a soggetti sovralocali. A questo servono i cahiers d’acteurs del dibattito pubblico francese. E per lo stesso motivo a Castelfafi sono stati invitati anche i rappresentanti di associazioni come Legambiente e Italia nostra. Alcuni hanno partecipato altri no. Si potevano estendere gli inviti anche ad altri soggetti (che forse sarebbero venuti e forse no). Insomma questa non mi pare un’obiezione al metodo, che in parte ha già funzionato e che potrebbe facilmente essere migliorato. Il dibattito pubblico è un’arena aperta. Tutto dipende se i giocatori hanno voglia e interesse a giocare. Nulla è precluso a priori.

In realtà la tutela e la valorizzazione del paesaggio, così come la intendono Salzano, Magnaghi e gli altri critici, è un’impresa decisamente ardua. E’ una battaglia in cui è facile perdere. In questo quadro, la vicenda di Castelfafi non mi pare delle più miserevoli. Certamente l’apertura di un dibattito pubblico non è la panacea (mi sembra che in questo campo ce ne siano ben poche). E’ un’opportunità, nuova e inconsueta. E’ un’arena che offre possibilità inedite per tutti. E, nel caso di Castelfafi, il risultato non è proprio da buttare via. E’ probabile che il dibattito abbia aumentato il potere contrattuale dell’amministrazione comunale nei confronti della Tui; ed abbia rafforzato i legami tra i cittadini. Se questo vi pare poco, diteci per favore come si farebbe ad avere di più.

Postilla

In una democrazia malata il conflitto tra partecipazione e tutela (tra i diritti dei presenti e del "locale" e i diritti dei futuri e dell'"universale") è parte della nostra riflessione quotidiana. Solo una discussione serena, quale quella alla quale Bobbio fornisce un interessante contributo, può aiutare a convertire il conflitto in dialettica e a cercare la sintesi.

Premessa

Il PIT della Regione toscana è stato già analizzato da diversi punti di vista: per i paradigmi utilizzati (in particolare ‘statuto del territorio’, ‘agenda strategica’, ‘invarianti’), per la coerenza interna, per la sua efficacia normativa.

In questa relazione il PIT sarà esaminato da un altro punto di vista, il più elementare e basilare: per la sua efficacia misurata semplicemente nei termini di rispondenza degli obiettivi di piano con i comportamenti reali delle amministrazioni e le conseguenti (o non conseguenti) trasformazioni del territorio. Si potrà dire che il PIT è troppo recente per produrre qualche effetto in proposito, ma, anche a prescindere dalle norme di salvaguardia, le cose non stanno così. Il PIT è essenzialmente un documento politico e in quanto tale immediatamente efficace e, addirittura nelle attese, condizionante i comportamenti delle amministrazioni.

Prima di affrontare l’argomento, è opportuno dare una sintetica idea dell’architettura del piano - modalità che ne condiziona anche aspetti normativi e contenuti operativi. Un organigramma dei diversi documenti di cui è composto il piano è in questa immagine (scaricabile in calce):

.

Il problema che nasce da un’organizzazione documentale estremamente complicata è che lo stesso tema è trattato in diverse parti, in modo a volte contraddittorio e spesso con un inquadramento teorico e metodologico diverso. Problema secondario se la disciplina del PIT fosse contenuta tutta nel documento intitolato, appunto, ‘La disciplina del PIT’, ma così non è. Riporto in sintesi le osservazioni in proposito di Luigi Scano, limitatamente alla pianificazione paesaggistica. Questa, anche se ha il suo cuore nello Statuto del PIT (la disciplina del PIT) è tuttavia distribuita anche in altre parti del piano:

- Nell’elaborato intitolato I territori della Toscana che è allegato al quadro conoscitivo del Piano" per quanto riguarda "la ricognizione analitica dell’intero territorio";

- Nell’ Atlante dei paesaggi toscani che è parte degli " allegati documentali per la disciplina paesaggistica", per ciò che riguarda l’analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio attraverso l’individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio, nonché l’analisi comparata delle previsioni degli atti di programmazione, di pianificazione e di difesa del suolo", e "l’individuazione degli ambiti paesaggistici";

- Nelle schede dei paesaggied individuazione degli obiettivi di qualità, schede riferite agli "ambiti di paesaggio", anch’esse parte degli allegati documentali per la disciplina paesaggistica;

- Nel documento intitolato Le qualità del paesaggio nei PTC, (qualità che risultano dalla disciplina paesaggistica dei piani territoriali di coordinamento delle Province e che è parte degli allegati documentali per la disciplina paesaggistica) per ciò che riguarda "la individuazione" delle aree "vincolate" ope legis ,"la definizione di prescrizioni generali ed operative per la tutela e l’uso del territorio compreso negli ambiti individuati", "la determinazione di misure per la conservazione dei caratteri connotativi delle aree tutelate per legge e dei criteri di gestione e degli interventi di valorizzazione paesaggistica degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico", "l’individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione", ecc.

- Infine, nel quadro conoscitivo per alcuni riferimenti normativi contenuti nella disciplina delle invarianti strutturali facente parte dello Statuto del territorio.

Il PIT come documento politico

Si è detto che il PIT ha un valore prima di tutto politico. Da questo punto di vista acquista notevole importanza Il documento di piano, un elaborato usualmente indicato come ‘Relazione’ e che in altre circostanze potrebbe apparire poco significativo.

Il Documento, oltre ad assolvere il compito di spiegare gli obiettivi, l’architettura del piano e i principali paradigmi impiegati (il significato di statuto, agenda strategica, territorio, paesaggio, ecc.), è una chiara esposizione della politica che la Regione Toscanaintende perseguirein merito allo sviluppo economico e alla gestione del territorio. Scritto in un linguaggio colto (a differenza dei precedenti piani toscani), il Documento è molto esplicito e una sua attenta lettura avrebbe forse consentito di risparmiare molte fatiche che sono state spese da associazioni ambientaliste e istituti universitari per correggere, migliorare o sostituire la parti che apparivano più manchevoli e deboli del PIT.

In realtà, ciò che appare o appariva debole o manchevole è coerente con la filosofia del Documento, mentre ciò che sembra o sembrava apprezzabile sono le scorie di una vecchia cultura urbanistica che ancora galleggiano come relitti nel corso di un nuovo indirizzo di cui riassumiamo i capisaldi, citando testualmente o in sintesi i passi più significativi. I corsivi sono nostri:

Il governo del territorio non presuppone relazioni gerarchiche bensì intense propensioni cooperative tra i titolari di distinte responsabilità amministrative e tra diverse autorità di governo(p. 22)

- I Comuni nella loro individualità sia nelle loro compagini associative - così come gli altri Enti del governo locale del territorio - potranno trovare nella Regione, in questo Pit e nella sua disciplina il sostegno necessario ad esprimere l’autonomia delle proprie opzioni ... (p. 23);

- Ogni Comune come ogni altro governo locale, ... darà, ..., la sua lettura del proprio ruolo nello sviluppo della Toscana quale delineato nel Prs e la Regione mobiliterà ulteriormente le sue capacità di armonizzazione e di regìa strategica. Ma nessun governo locale dovrà mai sentirsi sotto tutela. Bensì, nella sua singolarità istituzionale così come nella pluralità delle sue compagini associative, dovrà trovare nella Regione e nelle sue risorse cognitive e normative uno specifico sostegno alle sue capacità di decisione territoriale, sia essa strategica che regolatoria; p. 86);

- E' un punto su cui la chiarezza dev’essere massima, a costo della ridondanza. Così come la gerarchia anche l’età del principio di conformità - quale chiave delle relazioni intergovernative - è definitivamente sepolta. Non perché tra le opzioni statutarie, le invarianti strutturali e le scelte normative del Pit vi abbia sempre ad essere qualcosa di negoziabile o di mutuamente "aggiustabile" in nome di una qualche pax interistituzionale. Ma perché tutta la strumentazione normativa del piano va considerata come una risorsa per la realizzazione del "patto": una disciplina concepita come volano della sua costruzione operativa e della sua interpretazione applicativa. (p. 86);

- Perciò lo stesso Piano di indirizzo territoriale... è anche - e prima di tutto - la proposta di un patto tra istituzioni: la scommessa di una nuova alleanza tra Regione e amministrazioni locali per dare all’insieme del territorio toscano quell’orizzonte di domande, valori e opportunità nel quale trovare le risorse, la coerenza e la duttilità necessarie al suo governo, plurale ma integrato. (p. 23).

- La governance darà testa e gambe a quel nuovo "patto" che il Pit vuole rappresentare. Infatti, solo se ogni livello di governo fa propria - sul piano politico - e accetta - in termini tecnici (cioè con strumenti adeguati di valutazione) - una semplice ma discriminante domanda: «...qual è il mio contributo al bene della mia Regione visto che da esso dipende gran parte di quello della mia comunità?», allora la governance non regredisce al mero rito negoziale del do ut des ma diventa capacità di situare problemi collettivi e opportunità territoriali nella scala ottimale a che il loro trattamento diventi efficace. O almeno più capace di mitigare le esternalità negative che sempre minacciano anche le migliori intenzioni (p. 28).

- la valutazione integrata è lo strumento indispensabile per dare sostanza alla governance territoriale, trasformando la sussidiarietà e l’autonomia locale, che ne sono il presupposto, in cooperazione attiva invece che in tentazioni di isolamento particolaristico o municipalistico. E facendone la base analitica e di confronto cognitivo perché la stessa governance territoriale si traduca in una mutua reponsabilizzazione tra gli indirizzi e le scelte regionali, da un lato, e le visioni e le opzioni locali, dall’altro. E dia testa e gambe a quel nuovo "patto" che il Pit vuole rappresentare. (p.28).

- Ciò che la legge regionale definisce come lo "statuto" del territorio toscano - interpretando lo spirito e la lettera di una norma di rango statutario su cui poggia la Toscana come comunità politica - viene definito e adottato dal Pit come un’«agenda». Cioè come l’insieme delle scelte di indirizzo e disciplina in merito a ciò che per i Toscani e per tutti coloro che in Toscana vogliono vivere od operare, e - ad un tempo - per i governi locali chiamati a dar loro rappresentanza, regole, opportunità e indirizzi, devono costituire "il" patrimonio territoriale e le condizioni della sua salvaguardia e della sua messa in valore (p.26).

- Lo statuto è dunque la fonte e il parametro etico, prima ancora che prescrittivo, di quel "senso del limite" con cui chi amministra come chi intraprende deve trattare un patrimonio tanto prezioso, quanto delicato. E di cui nessuno può avere moralmente piena ed esclusiva titolarità. Ciò non significa che lo statuto non debba annoverare proprie specifiche prescrizioni: ma vuol dire che non sta solo in esse il suo valore "normativo". Bensì anche e soprattutto negli indirizzi che esso formula e che affida, per la loro efficacia, alla "capacità politica" dell’amministrazione regionale di alimentare e orientare la cooperazione tra i diversi livelli di governo del panorama istituzionale toscano. (p.26).

- Pertanto, la scelta degli elementi che costituiscono lo statuto del territorio non è operazione neutra o meramente tecnica, ma è fortemente condizionata dalla stessa visione al futuro che determina la scelta delle strategie. Per questo, come vedremo, questo Pit preferisce la formula della "agenda statutaria" a quella più consueta e statica di "statuto" Un preferenza connessa a una circolarità normativa e programmatoria che lega in relazione biunivoca contenuti statutari e contenuti strategici (p.26)

- Per questo il Pit adotta sì, come abbiamo rimarcato e come la legge prescrive, uno "statuto" del territorio toscano ma lo formula e lo declina intrinsecamente in un’agenda di metaobiettivi e di obiettivi correlati, finalizzati alla sua stessa applicazione: dunque, al conseguimento consapevole e coerente di risultati specifici per modificare situazioni e fenomeni in itinere giudicate pericolose o rischiose o incompatibili con la valore del patrimonio territoriale e con la qualità del suo sviluppo. (p. 29).

In testa al documento alcune sintetiche considerazioni sullo stato di salute dell’economia toscana, che giustificano la finalità complessiva del PIT e del Piano di Sviluppo Regionale cui questo si collega: la crescita economica, declinata con tutti i necessari corollari di qualità ambientale, di sostenibilità, di competitività, di modernità. Sul piano territoriale questa finalità si traduce nell’idea che risorsa strategica dello sviluppo sia la mobilità di uomini e fattori produttivi, mobilità necessaria a mettere in rete le tante piccole città che costituiscono l’armatura urbana della regione e creare sinergie fra le diverse specializzazioni produttive e di servizio. Anche per colmare ritardi e incertezze (si pensi alla vexata quaestio del ‘corridoio tirrenico), il piano pone come obiettivo primario il miglioramento dell’accessibilità da ottenere con la realizzazione di infrastrutture di trasporto. "Maggiore accessibilità e minori tempi e costi - economici e ambientali - producono infatti un aumento della competitività dei prodotti toscani sui mercati internazionali ed aumentano la probabilità dei fattori produttivi di trovare una adeguata allocazione. Minori tempi e costi di trasporto e conseguenti prezzi più competitivi delle merci esportate comportano, cioè, una maggiore accessibilità ai mercati e l’entrata in altri precedentemente preclusi". (pp. 14-15).

Possiamo quindi riassumere.

1. Obiettivo primario della Toscana, attraverso PSR e PIT, è il recupero di competitività dell’economia regionale nel mercato globale. Competitività che sta alla base di una crescita economica basata su due pilastri. Il primo è il recupero del gap infrastrutturale che affligge la regione e in particolare il miglioramento della mobilità e accessibilità di uomini e merci. Il secondo è l’utilizzazione del territorio come fondamentale fattore produttivo, anche in ragione della sua qualità e delle conseguenti capacità attrattive di capitali esterni, nei limiti della sostenibilità delle risorse impiegabili;

2. Questa missione è affidata ad una cooperazione volontaria dei diversi livelli istituzionali. Regione e Province rinunciano non solo a qualsiasi disposizione gerarchica, ma anche a qualsiasi verifica di conformità dei rispettivi piani. Nessun governo locale dovrà mai sentirsi sotto tutela;

3. Affinché si realizzi questa cooperazione virtuosa e libera, occorre un patto fra diversi livelli istituzionali. Ogni livello di governo deve fare propria - sul piano politico - e accettare - in termini tecnici (cioè con strumenti adeguati di valutazione) - una semplice ma discriminante domanda: «...qual è il mio contributo al bene della mia Regione visto che da esso dipende gran parte di quello della mia comunità?;

4. ‘La governance darà testa e gambe a quel nuovo "patto" che il Pit vuole rappresentare. La governance vede pariteticamente coinvolti gli operatori pubblici e concorrenti gli operatori privati, nell’ambito degli indirizzi statutari.

5. La governance si regge su due strumenti fondamentali. Il primo è l’adesione politica ai contenuti dello statuto del territorio. Il secondo è il controllo delle scelta di piano attraverso lo strumento tecnico della valutazione integrata;

6. Lo statuto del territorio non pone vincoli o prescrizioni se non in casi eccezionali. Esso assume le forme di un’agenda statutaria (in una prima versione ‘agenda strategica’). L’agenda è fatta di indirizzi e direttive ai Comuni, la cui efficacia è affidata alla ‘capacità politica’ dell’amministrazione regionale di alimentare e orientare la cooperazione tra i diversi livelli di governo del panorama istituzionale toscano;

7. Lo statuto è dunque la fonte e il parametro etico di quel "senso del limite" con cui chi amministra come chi intraprende deve trattare il territorio toscano, un patrimonio tanto prezioso, quanto delicato.

8. Nonostante che Il PIT abbia la valenza di piano paesaggistico, il paesaggio nel Documento è trattato sommariamente e quasi incidentalmente. Il concetto di paesaggio viene assorbito in quello di ambiente, e la tutela del paesaggio assimilata alla sostenibilità nell’uso e gestione delle risorse territoriali.

La traduzione del documento politico nella Disciplina del Piano. Un esempio.

Non voglio affrontare il problema in termini generali, in quest’ottica si potrà leggere il documento allegato, ma in maniera più sintetica e forse più efficace, mediante un esempio riferito al patrimonio collinare. Questa scelta dipende da due motivi.

Il primo è che solo rispetto a questa ‘invariante’ si affaccia un barlume di pianificazione paesaggistica. Il secondo è che sul patrimonio collinare si sta sviluppando una governance reale in forma di collusione fra comuni e operatori privati, mirata allo sfruttamento di un patrimonio che non è rimasto intatto - come sostiene il documento – generalmente per la lungimiranza degli amministratori locali, ma semplicemente per assenza di domanda. Fino a tempi recenti, gli speculatori infatti preferivano i territori costieri o limitrofi ai principali centri urbani. Ora la domanda si orienta su un territorio, non solo di grande qualità ambientale e estetica, ma idealizzato e falsificato come ‘tipico paesaggio toscano’.

Anche per l’invariante ‘Patrimonio collinare’ la disciplina statutaria è quasi integralmente espressa come raccomandazioni ed indirizzi ai piani provinciali e comunali. Vale a dire che a livello regionale non vi è alcuna norma immediatamente prescrittiva, se si fa eccezione del comma 8 dell’art 21 che recita: Nelle more degli adempimenti comunali recanti l’adozione di una disciplina diretta ad impedire usi impropri o contrari al valore identitario di cui al comma 2 dell’art. 20, sono da consentire, fatte salve ulteriori limitazioni stabilite dagli strumenti della pianificazione territoriale o dagli atti del governo del territorio, solo interventi di manutenzione, restauro e risanamento conservativo, nonché di ristrutturazione edilizia senza cambiamento di destinazione d’uso, né eccessiva parcellizzazione delle unità immobiliari. Tuttavia il valore prescrittivo della norma (che suona come una disposizione di salvaguardia) è condizionato dall’individuazione, ancorché provvisoria, dell’ambito in cui si applica (cioè dei confini del "patrimonio collinare"), mentre una simile definizione non è prevista nel PIT.

Le direttive e gli indirizzi contenuti nello Statuto sono genericamente rivolti alla tutela di valori paesaggistici (a volte definiti come identitari), ma quasi mai individuano con precisione questi valori. Un’eccezione è costituita dall’art 22 dove sono individuate alcune risorse del patrimonio collinare aventi valore paesaggistico. Tuttavia la norma si limita ad impegnare la Regione, le Province e i Comuni ad una corretta gestione di tali risorse.

La tutela del patrimonio collinare si basa perciò esclusivamente o quasi su valutazioni ex-post dei progetti di trasformazione sulla base di criteri peraltro ambigui e facilmente eludibili, ad esempio:

a) la verifica pregiudiziale della funzionalità strategica degli interventi sotto i profili paesistico, ambientale, culturale, economico e sociale e – preventivamente – mediante l’accertamento della soddisfazione contestuale dei requisiti di cui alla lettere successive del presente comma;

b) la verifica dell’efficacia di lungo periodo degli interventi proposti sia per gli effetti innovativi e conservativi che con essi si intendono produrre e armonizzare e sia per gli effetti che si intendono evitare in conseguenza o in relazione all’attivazione dei medesimi interventi;

c) la verifica concernente la congruità funzionale degli interventi medesimi alle finalità contemplate nella formulazione e nella argomentazione dei "metaobiettivi" di cui ai paragrafi 6.3.1 e 6.3.2 del Documento di Piano del presente Pit.

d) la verifica relativa alla coerenza delle finalità degli argomenti e degli obiettivi di cui si avvale la formulazione propositiva di detti interventi per motivare la loro attivazione, rispetto alle finalità, agli argomenti e agli obiettivi che i sistemi funzionali - come definiti nel paragrafo 7 del Documento di Piano del presente Pit - adottano per motivare le strategie di quest’ultimo."

In sostanza, lo statuto del PIT assegna ai Comuni il compito di verificare la congruità degli interventi che loro stessi propongono rispetto alla loro "funzionalità strategica", agli "effetti innovativi e conservativi", all’"efficacia di lungo periodo" alla "congruità funzionale", e ad altri requisiti ancora più indecifrabili. E’ difficile immaginare che un Comune dichiari una propria previsione – magari lungamente contrattata - come non strategica, non innovativa, non funzionale e non efficace nel lungo periodo e che "le finalità degli argomenti e degli obiettivi di cui si avvale la formulazione propositiva dell’intervento non sia coerente con le finalità degli argomenti e degli obiettivi adottati dai sistemi funzionali del PIT", il tutto dopo una verifica condotta e certificata magari dagli stessi estensori del piano.

Generalizzando l’esempio riemerge l’idea che sta alla base di tutto il PIT. Il PIT non prescrive che le trasformazioni del territorio debbano corrispondere a regole statutarie - le regole con cui questi territori sono stati costruiti nel corso della storia e che definiscono a tutt’oggi la loro sostenibilità e la loro identità. La filosofia del PIT è, invece, che tutto si possa fare sulla base di verifiche rispetto a criteri estremamente vaghi se non fumosi, verifiche svolte a posteriori da parte degli stessi Comuni proponenti.

Anche le cosiddette norme di salvaguardia contenute nell’art. 36 della Disciplina non si discostano da questa filosofia. I piani attuativi ancora non convenzionati sono sottoposti a verifica integrata nel corso di approvazione del Piano Strutturale, o ad una semplice "deliberazione comunale che - per i Comuni che hanno approvato ovvero solo adottato il Piano Strutturale – verifichi e accerti la coerenza delle previsioni in parola ai principi, agli obiettivi e alle prescrizioni del Piano strutturale, vigente o adottato, nonché alle direttive e alle prescrizioni del presente Piano di indirizzo territoriale". Il Comune, è quindi l’unico snodo operativo, sia per quanto riguarda l’attuazione del PIT, sia per quanto riguarda le valutazioni integrate e le verifiche che, secondo il PIT, dovrebbero costituire il lato tecnico e ‘obiettivo’ della governance territoriale.

Considerazioni in parte diverse merita l’ultima invariante dello Statuto, i Beni paesaggistici di interesse unitario regionale. Questo è specificatamente terreno di competenze concorrenti fra Stato e Regione e quindi più direttamente regolato dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e meno soggetto all’impronta legislativa della Regione Toscana. Qui in effetti si tratta di attendere per valutare come l’intesa fra il Ministero dei beni e delle attività culturali e la Regione, siglata nel gennaio 2007, sarà tradotta in pratica. I segnali in proposito lasciano perplessi. Le Commissioni regionali del paesaggio sono state nominate con criteri partitocratici e privilegiando i tecnici delle amministrazioni rispetto a membri da scegliere ‘tra soggetti con qualificata, pluriennale e documentata professionalità ed esperienza nella tutela del paesaggio, esperti di tutela del paesaggio di consolidata esperienza’, come prescrive la legge. Tra breve sarà possibile vedere se l’intesa con la successiva integrazione del luglio 2007 sarà rispettata nelle sue scadenze temporali, assai strette, e nelle dichiarazioni di principio sottoscritte.

Una valutazione ‘bottom down’ del PIT

Vediamo ora come il PIT congiuntamente alla legge 1/2005 di ‘Governo del territorio’ sia tradotto in pratica. Abbiamo già accennato che dal momento che la disciplina del PIT si regge su un ipotesi di patto e di ‘una nuova alleanza fra Regione e istituzioni locali’, trattandosi dunque di un quadro di natura politica piuttosto che normativa, esso dovrebbe avere un’immediata efficacia sul comportamento delle amministrazioni e in particolare dei Comuni.

Il punto di osservazione che viene qui proposto può considerarsi privilegiato, perché raccoglie le segnalazioni di circa 170 Comitati attivi nella Regione, oltre a quanto quotidianamente appare sulla stampa e alle denunce provenienti dalle associazioni ambientaliste.

La prima osservazione è che la legge di governo del territorio del 2005 è stata accolta da molti Comuni come una specie di ‘liberi tutti’. Come è noto, la LR 1/2005, non solo esclude ogni parere di conformità del PS rispetto agli strumenti di Regione e Provincia (non mi permetto di dire sovra-ordinati) – concetto ribadito con forza nel Documento - ma affida ad ipotetiche iniziative dell’ente ricorrente (ad es., la Provincia se ritenesse il proprio piano non rispettato) la facoltà di adire la cosiddetta Commissione interistituzionale paritetica (di nomina politica) per una eventuale dichiarazione di non conformità del piano. Dichiarazione che può essere ignorata dal Comune nel qual caso, sempre ipoteticamente, la Regione può sospendere gli atti di piano controversi.

In realtà, quasi tutti i piani provinciali approvati nelle temperie della legge1/2005 hanno capito, l’antifona e sono poco più che l’esposizione retorica dei documenti regionali, secondo una prassi per cuile argomentazioni del PIT e le prescrizioni delle leggi di settore sono ripetute, amplificate e corredate da ulteriori principi, indirizzi e criteri dai piani provinciali rivolti ai Comuni i quali possono scegliere tre strade: a) accoglierli e dare loro concretezza nel piano strutturale; b) non tenerne conto; c) tenerne conto solo formalmente e approvare un piano strutturale sostanzialmente generico che rimanda ogni decisione concreta di trasformazione del territorio a strumenti operativi di esclusiva competenza comunale. Come corollario: formulare un piano operativo (in Toscana il Regolamento Urbanistico) difforme dal piano strutturale (casistica sempre più frequente, senza che né Regione, né Province possano e vogliano intervenire).

Se poi la difformità fra diversi piani fosse troppo palese, come ad esempio la volontà di costruire in un’area protetta, basta una conferenza di servizi per deperimetrare l’area e rendere legale l’abuso. Questo è quanto hanno fatto recentemente Provincia e Comune di Firenze, entrambi condannati dal TAR.

I casi di inosservanza del patto politico, dell’accordo alto auspicato nel Documento, i casi in cui evidentemente i Comuni si dimenticano di porsi la fatidica domanda «...qual è il mio contributo al bene della mia Regione visto che da esso dipende gran parte di quello della mia comunità?» stanno diventando sempre più frequenti. In realtà molti Comuni interpretano il PIT e la legge di governo del territorio esattamente alla rovescia rispetto alle ipotesi del Documento, cioè da un punto di vista burocratico e meramente prescrittivo e, poiché di prescrizioni ve ne sono ben poche, si sentono legalmente autorizzati a disporre a piacimento del proprio (?) territorio, con previsioni ed atti che risultano sempre positivi e sostenibili nelle valutazioni integrate.

Ma se anche le poche prescrizioni contenute nella legge danno fastidio, basta ignorarle nella quasi certezza che né Regione né Provincia interverranno. Il Comune di Serravalle Pistoiese vuole approvare la costruzione di un villaggio turistico sul terreno di proprietà di un grande vivaista, localizzato su un rilievo collinare di alto valore paesaggistico. Nessun problema. Basta non dimensionare l’insediamento nel Piano Strutturale, annunciando genericamente che un eventuale insediamento turistico ricettivo da prevedersi nel Regolamento Urbanistico non ne costituisce variante. La norma è chiaramente illegittima, ma la Regione, nello spirito di cooperazione fra diversi livelli istituzionali non ha niente da eccepire. E, voilà, 25.000 metri cubi dell’ennesimo villaggio in tipico stile rustico toscano (sono severamente proibiti i tegoli alla portoghese) partecipati alla popolazione locale con abbondanza di rendering, depliants e promesse di sviluppo.

La vicenda in corso di Castelfalfi – che qualcuno può avere seguito su Eddyburg - è ancora più significativa perché qui non si tratta di un intervento illegale, ma contrario allo spirito della legge e del piano. I villaggi turistici della TUI sono esattamente l’opposto di quella crescita basata su innovazione, competitività, servizi alle imprese, ecc., conclamata nel PIT. L’insediamento proposto a Castelfalfi è una gigantesca operazione in cui si produrrà reddito e rendita per la TUI e, essendo la sua gestione un sistema chiuso, ben pochi benefici per l’economia locale. Sarà disastrosa per un uso insostenibile delle risorse idriche (già attualmente scarse) occorrenti per la manutenzione di un campo da golf di 160 ettari. Ma tant’è. La Regione Toscana ha prestato il suo garante (cui peraltro va riconosciuta la correttezza dei comportamenti) al Comune di Montaione, e le dichiarazioni rilasciate in proposito dal Presidente Martini sembrano più quelle di un giocatore schierato che di un arbitro imparziale.

E che dire di Casole d’Elsa, dove l’intero ufficio tecnico è stato sospeso e messo sotto inchiesta dalla Procura della Repubblica insieme ad alcuni amministratori e dove sono sequestrati cantieri per diverse decine di milioni di euro? Comune che si è recentemente rifiutato di mostrare ai cittadini il Piano Integrato di Intervento gestito in modo del tutto illegale, con la mirabolante giustificazione che l’unica copia è stata consegnata ad uno studio privato incaricato di realizzare l’ennesimo abuso. In tutta la Toscana, nei territori costieri e nei paesaggi agrari di maggior pregio, si moltiplicano iniziative di ‘valorizzazione’ del territorio misurabili in centinaia di migliaia di metri cubi, insediamenti di seconde e terze case spacciati per residenze turistico-alberghiere, lottizzazioni trainate da centri commerciali.

La rete dei Comitati toscani ha raccolto decine di segnalazioni di questo tipo. Sono operazioni che avvengono in uno spirito esattamente opposto a quello postulato nel Documento del PIT, non poche in una situazione di palese illegalità.

Conclusioni

La domanda che abbiamo posto all’inizio se il PIT sia efficace rispetto ai suoi obiettivi può avere una duplice risposta. Una prima risposta è che poiché non possiamo considerare gli amministratori toscani così ingenui da credere di vivere in un mondo incantato, dove non esistono capitali leciti e illeciti in cerca di rendita (che è una forma di reddito), un mondo dove non esistono collusioni fra amministratori e il blocco del mattone composto da tecnici comunali, proprietari, costruttori, cooperative edilizie - un mondo dove non esiste la corruzione, dove lo statuto del territorio, ancorché costituito da soli indirizzi, è la fonte e il parametro etico, di quel "senso del limite" con cui chi amministra come chi intraprende deve trattare un patrimonio (il territorio) tanto prezioso, quanto delicato; poiché, dicevamo, i nostri amministratori, forse non sono in questo momento particolarmente sensibili alla tutela del paesaggio, ma certamente non ingenui, dovremmo pensare che gli obiettivi politici del PIT siano di altra natura rispetto a quelli dichiarati e che mirino ad una consensuale spartizione del governo del territorio fra Regione e Comuni, finalizzata alla conservazione di poteri collettivi e personali, con le Province relegate nel ruolo di convitati di pietra.

Una seconda risposta, meno pessimistica, è che vi sia stata da parte della Regione un’eccessiva fiducia nella capacità ‘tenere tutto assieme’ da un punto di vista politico e che il disegno non funzioni per una serie di cause interne ed esterne alla società Toscana (fra queste ultime ricordiamo la crescente propensione ad utilizzare gli oneri di urbanizzazione e costruzione per fare cassa).

Nel documento allegato a questa relazione vi sono alcune proposte per migliorare lo stato delle cose. Lungi dall’invocare il ritorno ad un sistema gerarchico e impositivo (che peraltro in Toscana come in Italia non c’è mai stato), si tratterebbe di fare un ulteriore passo in avanti dando più potere ai cittadini, innescando e promuovendo processi realmente partecipativi il cui fondamento è l’elaborazione di uno Statuto, articolato in tanti statuti locali (necessariamente sovracomunali) che valga come carta costituzionale del territorio. Non tornerò qui su questi argomenti, ma preferisco concludere con due considerazioni.

La prima considerazione che alla base del PIT ritorna, sia pure in modi verbalmente aggiornati, l’idea che il territorio sia una variabile dipendente dello sviluppo economico e che ‘quel che si può si fa’ (concetto più volte ribadito dall’assessore al territorio della Regione), purché non si superino certi limiti di sostenibilità intesa come ‘carrying capacity’. Limiti che sono definiti da procedimenti di valutazione integrata che assumerebbero il ruolo davvero paradossale di definire la ‘base analitica e di confronto cognitivo’ della governance territoriale. Paradossale perché una strategia tutta politica di governo territorio sarebbe in ultima analisi condizionata e guidata da una razionalità riduttivamente tecnica.

La seconda considerazione è che una volta decisa una politica, se si vuole governare devono essere fatti rispettare leggi e piani. Non vi è niente di più connaturato all’anima del nostro paese dell’idea che l’osservanza delle leggi sia un fatto discrezionale. Giusto quindi promuovere la cooperazione dei vari livelli istituzionali, giusto che la pianificazione non sia una cascata di prescrizioni localizzative a dettaglio crescente, ma non si può supporre che bastino le esortazioni e il ‘senso del limite’ a produrre un buon governo del territorio. Una volta sancito un patto, bisogna che questo sia rispettato dai contraenti e il rispetto delle leggi di governo del territorio non può e non deve esser esterno a queste stesse leggi. La Regione non è un organismo di decentramento dei poteri statali, non è una prefettura. E’ un organismo rappresentativo, eletto dai cittadini per governare e coordinare i vari interessi particolari e locali in un disegno unitario. Deve quindi assumersi le sue responsabilità. La mancanza di ogni tipo di controllo sull’operato dei Comuni (per carità senza che nessuno si senta sotto tutela) ha l’effetto perverso di stabilire una concorrenza sleale fra le varie amministrazioni locali, penalizzando i comportamenti virtuosi. Dobbiamo dare atto che molti Comuni in Toscana stanno operando bene o almeno ci provano. Che accanto a sindaci collusi che devono ripagare le loro campagne elettorali o che guidano cordate speculative, vi sono tanti amministratori onesti che intendono ancora la politica come servizio alla comunità Questi amministratori e Comuni sono messi in grave crisi dal ‘vicino’ che può vantare investimenti e sviluppo e magari una riduzione delle tasse.

Chiudo con una nota personale. In questi ultimi mesi ho incontrato molti rappresentanti di comitati locali. E’ stata un’esperienza interessante. Può darsi che vi sia una componente elitaria nelle associazioni ambientaliste di livello nazionale. Ma certamente i comitati non sono fatti da signori in villa (come sostiene una polemica volgare), ma da gente normalissima, da impiegati, operai, persone che sacrificano il loro tempo libero non per difendere un interesse particolare o il cortile di casa, ma un territorio che amano e rispetto al quale provano un senso di appartenenza. Se i nostri politici avessero occhi per vedere o orecchi per sentire riconoscerebbero una riattualizzazione della vecchia base del partito comunista, quella base che, finito il lavoro, si ritrovava nelle sezioni convinta di lavorare per il bene comune.

Questa gente, queste popolazioni dentro o fuori i comitati, sono sostanzialmente impotenti. Di fronte hanno un blocco sociale e politico (spesso capeggiato dalla Regione) che si presenta come una corazzata di fronte a fragili barchette. La loro unica risorsa, oltre alla conoscenza del territorio è il rispetto della legalità. Mai come in questo caso la legalità è il potere dei senza potere.

Sviluppo alcune riflessioni dopo la lettura della lettera di Morisi e delle risposte di Salzano e Baldeschi su Castelfalfi. Premetto che l’attività del garante della comunicazione (che non ho mai fatto) e quella dell’activist o attivatore di processi partecipativi (che ho sempre fatto, come “urbanista di parte” secondo la classica definizione di Pierluigi Crosta) sono due mestieri molto diversi, ma non necessariamente, se lo si vuole, in contraddizione fra loro.

Il garante deve garantire terzietà, condurre un processo partecipativo informando, dando la parola a tutti in modo equanime, “registrare e basta” come giustamente scrive Massimo Morisi e come correttamente ha fatto a Montaione esercitando il suo ruolo tecnico.

L’activist no, non è imparziale, assume volta a volta l’internità dell’osservatore al campo di osservazione e ne assume le passioni muovendosi nell’ambito della ricerca-azione, opera nel processo partecipativo esercitando un ruolo etico (che riguarda la felicità pubblica) per aiutare i soggetti deboli del processo a destrutturare i problemi come sono posti, a decolonizzare l’immaginario, a spostare in avanti la progettualità, l’autogoverno, a crescere come cittadinanza attiva e consapevole. Farò un esempio lontano nel tempo.

Quando con Giorgio Ferraresi e altri nel 1988, nella Milano “da bere”, fondammo l’associazione Ecopolis, Città di villaggi, il nostro lavoro consisteva nell’aiutare i più di cento comitati di cittadini a coordinarsi e a sviluppare, anche tecnicamente, i loro progetti quando questi erano in conflitto con quelli dell’amministrazione. Un giorno venne alla sede di Ecopolis un gruppo di abitanti del quartiere Adriano, una periferia di casermoni in prati incolti e degradati a nord-est di Milano, molto poco da bere. Ci chiesero di aiutarli a progettare una schermatura di alberi alla futura “Gronda Nord”, una superstrada urbana che avrebbe tagliato in due il loro quartiere. Le discussioni e le indagini sul quartiere furono lunghe e appassionate e portarono a conclusioni inaspettate.

Dopo qualche mese gli stessi abitanti cominciarono a ripulire una discarica abusiva, a trasformarla in un anfiteatro a gradonate per un teatro all’aperto; una vicina cascina abbandonata fu restaurata con l’aiuto di giovani volontari russi ospitati dagli abitanti, per farne il centro sociale del quartiere. Ciascuno portava i suoi saperi, i falegnami, i muratori, i meccanici, gli idraulici, i geometri, gli architetti e cosi via; affluivano per incanto materiali da costruzione, ruspe, arredi, piantumazioni. Si avviarono (con modesto successo, dato lo stato velenoso delle acque del Lambro) i progetti di orti urbani. In una serata memorabile con uno spettacolo di Paolo Rossi si inaugurò il nuovo spazio pubblico autocostruito del “villaggio” Adriano.

Il tracciato della Gronda Nord era stato nel frattempo radicalmente contestato dagli abitanti, coordinati con quelli degli altri quartieri interessati; essendo cresciuta la loro coscienza di luogo attraverso i percorsi partecipativi della cura quotidiana del quartiere, non si accontentavano più delle barriere antirumore, ma l’opera stessa era negata dal loro orizzonte, ampliatosi sulla ricostruzione della comunità locale e del suo luogo sociale di vita.

C’è dunque differenza fra garantire un processo di ascolto allargato alla popolazione, su un problema predefinito e contingente (la gronda nord, il progetto di insediamento turistico TUI) che definirei una specifica interpretazione del processo di governo dei conflitti verso un processo di governance; e far crescere processi di democrazia partecipativa in quanto forma ordinaria, non contingente di governo che comporta processi lunghi e difficili, ma costanti di maturazione di cittadinanza attiva e di trasformazione culturale verso l’autogoverno. Rispetto a questa seconda accezione, l’ascolto sul problema contingente non può che essere il primo passo della democrazia partecipativa, se l’obiettivo non è il consensus building ma l’empowerment della società locale.

Per questo sono rimasto un poco allarmato dalle conclusioni di Martini riportate da Morisi: “Castelfalfi è il modello di riferimento della partecipazione in Toscana del governo del territorio”; speravo (e non dispero) che il modello di riferimento fosse ad esempio un processo di costruzione dall’inizio del quadro conoscitivo di uno “statuto del territorio” che consentisse agli abitanti di un comune (o di un gruppo di comuni) di maturare un’idea condivisa di patrimonio territoriale, ambientale, paesistico; di codificarla nello statuto in modo da affrontare poi con consapevolezza collettiva i progetti di trasformazione che via via vengono proposti.

Assumere Castelfalfi come modello sarebbe come considerare l’articolo 1 della Convenzione Europea del paesaggio , in cui il paesaggio “designa una determinata parte del territorio cosi come è percepita dalle popolazioni”, trattabile alla lettera con qualche intervista o con qualche assemblea in cui ognuno dice come percepisce il paesaggio.

Ma chi sono queste “popolazioni” che “percepiscono”? Esse, lo sappiamo, sono ridotte (non tutte per fortuna, esiste una cittadinanza attiva crescente e diffusa sul territorio) a individui la cui cittadinanza implode nella loro figura di consumatori. Questi consumatori sono bombardati, tramite pubblicità televisive, da una cultura che gli propone l'auto sotto il letto; essendo espropriati dai saperi locali, sono indotti a praticare correntemente il "localismo vandalico", sognando di abbellire i luoghi con i modelli stilistici standardizzati delle periferie metropolitane; sono sospinti a vivere la loro socialità negli pseudo spazi pubblici degli ipermercati o in piazze telematiche; sono costretti a delegare sempre più la propria vita riproduttiva a grandi apparati tecnologici e finanziari, sempre più lontani dalla loro capacità di controllo. Sono questi immaginari eterodiretti che dobbiamo “ascoltare” o abbiamo la responsabilità di fornire agli abitanti di un luogo strumenti che li aiutino a cambiare la loro posizione di sudditanza culturale e alienazione? Se ci limitiamo a consultarla per capire come "percepisce" il paesaggio, ho l'impressione che l’”ultimo ex mezzadro” citato da Morisi ci chieda: "ma che hazzo è sto paesaggio?" Figurarsi poi di quali saperi contestuali riescono ad avere memoria e pratica attiva, i giovani rumorizzati delle discoteche o quelli dei centri sociali sistematicamente sfrattati, i maratoneti delle ipercooppe, gli immigrati con i problemi di cittadinanza, gli anziani che non arrivano con la pensione alla fine del mese, ma anche una gran parte dei nostri colleghi architetti, impegnati ad affermare la propria griffe nei paesaggi posturbani.

Finché molti cittadini di Montaione continueranno a pensare che il turismo di lusso della TUI gli porterà dei vantaggi (economici? occupazionali?), con le sirene degli accattivanti disegnini tedeschi che inventano un paesaggio toscano ad uso esclusivo di turisti globali, e la Regione che legittima soluzioni come questa come ottimali per l’economia turistica, avrà ragione il garante che, applicando correttamente il suo mestiere e operando entro questi orizzonti di senso, rivendica la correttezza della consultazione contingente degli abitanti per ridurre l’impatto dell’intervento, identificandola con la democrazia partecipativa. Quest’ultima è necessariamente un processo ben più complesso di decolonizzazione dell'immaginario e di maturazione culturale verso la consapevolezza del proprio patrimonio e la ricerca di una identità collettiva; processo che la sinistra (insieme agli intellettuali, con o senza villa) dovrebbe contribuire a far crescere, prospettando modificazioni degli interessi in campo dati, progettando e prospettando futuri equi e autosostenibili, anziché santificare lo stato presente delle cose e le sue ineluttabili leggi e confini di operatività.

Ma al di la della distinzione fra consultazione e partecipazione, ha colpito anche me, come ha colpito Edoardo Salzano, l’affermazione di Morisi che il destino di Montaione si situi inevitabilmente nella tenaglia fra il villaggio-missile transnazionale con raddoppio del campo da golf e del borgo storico (ridimensionato, forse, speriamo, dal processo di consultazione attivato) e lo svillettamento monticchiellare. Ritorno con un esempio all’annata 1988.

Abito in un piccolo borgo storico di Montespertoli (io sono una modesta variante della figura degli ’”intellettuali proprietari di villa” citati da Martini come unici oppositori al progetto di Castelfalfi, ovvero l’”intellettuale proprietario di torre borghigiana”, dove con mia moglie Anna ho lo studio e abito). Ebbene a quel tempo i proprietari del borgo, parte della fattoria di Lucignano, i conti Lodovico e Antonella Guicciardini, intenzionati a venderlo, avevano la comoda soluzione di una immobiliare, possibilmente multinazionale, che lo acquistasse a caro prezzo in blocco. Facile ipotizzare, in quel caso, un modello Castelfalfi ante litteram: la multinazionale avrebbe “trattato”una variante al PRG (che prevedeva per la zona circostante il borgo area di pregio ambientale, non edificabile) con raddoppio del borgo per ragioni di economia dell’azienda turistica che ne sarebbe seguita e la sostituzione, nella valletta antistante il borgo, della complessa trama di oliveti, vigneti, ragnaie, sterrate, ripe, boschetti e ciglioni, che costituisce il paesaggio storico delle ville fattoria, con un campo da golf. I Guicciardini scelsero un’altra strada. Frazionarono il borgo in 15 unità immobiliari, attribuirono a ciascuna un pezzo di terra circostante il borgo da coltivare (oliveti, vigneti, orti, giardini, ecc) e fecero preparare al prof. Luigi Zangheri dell ‘Università di Firenze un “Piano di riuso”, ratificato dal Comune che, oltre a confermare l’immodificabilità volumetrica del borgo, stabiliva regole di buona manutenzione dello stesso e delle sue pregevoli caratteristiche architettoniche, urbanistiche e paesistiche. Il Piano di riuso era allegato all’atto di acquisto di ogni unità immobiliare, come parte integrante del contratto. Non solo. Nelle vendita è stata data precedenza in primo luogo ad ex contadini e lavoratori della Villa fattoria, in secondo luogo ad artigiani locali (muratori, idraulici, cestai) e infine, per una quota residua, a “stranieri” come me. Oggi il borgo e il suo paesaggio (non senza gli usuali conflitti condominiali) sono mediamente ben riprodotti, curati, coltivati.

In conclusione concordo con Paolo Baldeschi (altro intellettuale in villa) quando a conclusione del suo intervento propone un tavolo partecipativo interscalare per elaborare uno “statuto del territorio dell’ambito di paesaggio” in cui si trova Castelfalfi, che potrebbe portare “buone regole d’uso e delle possibili trasformazioni, perché no, migliorative”.

La legge sulla partecipazione della Regione Toscana appena approvata offre questa possibilità: iniziare la costruzione di statuti dei luoghi attraverso processi partecipativi, che produca buone regole condivise per la cura e la trasformazione dei luoghi, decise dal comune insieme agli abitanti che rappresenta, prima e a prescindere dall’arrivo delle multinazionali del turismo; aiutando inoltre gli abitanti, attivando modelli di sviluppo economico locale, a non vendere il proprio territorio alle multinazionali stesse, processo purtroppo “galoppante” per le grandi aziende agricole, industriali, borghi e città toscane.

© 2025 Eddyburg