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Il terremoto nel Friuli. Il racconto di quegli istanti, di quel luogo e la scomparsa di un mondo antico. La Repubblica. 7 maggio 2016 (c.m.c.)

Ricordo perfettamente dov’ero e cosa facevo quando arrivò il terremoto del 6 maggio ‘76, e anche dov’ero e cosa facevo durante le scosse successive. Sono fotogrammi stampati nella memoria con nitidezza impressionante. È come per l’11 settembre 2001: tutti ricordiamo il momento in cui arrivò la notizia. Io ero a spasso per Napoli, c’era il sole, e una donna lanciò da una finestra il grido “Hanno bombardato New York, poi il grido si moltiplicò, corse di bocca in bocca come una fucilata per Spaccanapoli fino ai Quartieri Spagnoli.

Quella sera che la voce del Profondo urlò sotto i monti del Friuli stavo lavorando nella redazione de Il Piccolo, a Trieste, a 80 chilometri dall’epicentro. Una vecchia stanza con due scrivanie, ai piedi del Colle di San Giusto. Faceva caldo, le finestre erano aperte sulla strada, si sentiva profumo di acacia. Ricordo che scrivevo un pezzo sulla “Dottrina Brežnev” su una Olivetti Lettera 32. Alle 21 ci fu un tremito lungo e così regolare che immaginai una messa in moto anticipata delle rotative, due piani più in basso. Non mettevo minimamente in conto una cosa lontana, visto che la sedia ballava, e la sedia era sotto di me.

Il fatto è che quella cosa tremendamente vicina non accennava a smettere. Poi, dalla finestra, vidi che tutto il giornale — giornalisti e tipografi — si era riversato per strada. Ero l’unico rimasto in redazione. Uscendo, feci in tempo a vedere la tromba delle scale contorcersi su se stessa. La percorsi e quando arrivai per strada — senza correre per conservare un minimo di dignità — era già tutto finito. Non c’era nemmeno un’automobile in giro, il traffico era scomparso, ma le strade erano piene di gente. Tutta Trieste era uscita in ciabatte o maniche di camicia. Non avevamo la minima idea di dove avesse picchiato il terremoto.

La parola Friuli arrivò solo un’ora dopo, sotto forma di lancio d’agenzia, mentre ero chino sui tavoli della composizione del giornale. Volarono nomi di montagne note: San Simon, Chiampon.
Li sentii rimbombare cupamente. Poi si parlò di centri abitati. Gemona. Venzone. Noti anche quelli. Partirono i primi inviati e i primi soccorsi. Ma il terremoto ci mise del tempo a uscire dalla dimensione astratta di un telex. Non sapevamo che in quei cinquanta secondi era scomparso un mondo antico. Per quanto mi riguarda, forse non lo volevo sapere.

Ma sì. Non era possibile che fosse scomparsa Montenars, dove da bambino avevo passato estati a caccia d’asparagi o di gamberi di fiume sotto il Monte Quarnan. Non poteva essere crollata la bottega di alimentari di “sior Raffaele” dove avevo imparato la lingua locale e il gioco fulmineo della morra. Era impossibile che se ne fosse andata la piccola Magnano in Riviera, il paese che nonno Domenico aveva lasciato a otto anni per un destino d’emigrazione a Buenos Aires. Rifiutavo che non ci fosse più Artegna, con la casa della bella “Mariute” dal sottotetto pieno di pannocchie e la grande aia pavimentata con ciottoli dove avevo visto ammazzare il maiale.

All’alba del 7 maggio ci furono scosse di assestamento e ne ricordo perfettamente la prima. Ero in cucina, avevo in braccio mio figlio Andrea di tre mesi che, succhiando il biberon, subito avvertì il mio allarme sbarrando gli occhi. Fu solo allora, ricordo, nel grande silenzio della casa, che ebbi la percezione nitida della potenza del Profondo e capii perché quelle montagne mi erano sempre apparse arcigne. La cordigliera dei Musi, in particolare, segnata di bianche abrasioni, simile all’onda di uno tsunami, che separava le Alpi Giulie dalla pianura friulana. Poi aprii la radio e cominciò la conta dei morti e dei paesi distrutti.

Il 15 settembre mio cognato andava a insediarsi come pretore a Tolmezzo e si beccò entrambe le scosse, micidiali, che quel giorno diedero al Friuli il colpo di grazia. Con la seconda gli venne addosso l’intera parete di scaffali e bottiglie nel bar dove era andato a brindare al primo incarico di magistrato. Nelle settimane seguenti mollai per un po’ la redazione e finii con i soccorritori nella selvaggia alta valle del Torre, un posto dimenticato da Dio e anche dalla politica, dove avevamo allestito un campo di fortuna.

Fu lì che, verso sera, sentii il ghigno della Signora del profondo come mai prima. Ero in tenda, sfinito. Leggevo, ricordo, Praga Magica di Ripellino, l’unico libro che avevo nello zaino. A un tratto, con veloce crescendo, un lamento baritonale si impossessò della valle. Pareva un corno tibetano. Solo quando aprii la zip e guardai fuori, arrivò la scossa, sfasata di alcuni secondi rispetto al tuono. Era un banale assestamento, ma egualmente la valle parve rattrappirsi e gli strati contorti della montagna, in alcuni punti, presero a sparare scintille. Massi rotolarono nei ghiaioni, poi fu di nuovo silenzio. E non esiste silenzio più silenzio di quello che segue un terremoto.

Sono passati quarant’anni e non sono mai tornato nei posti dell’anima che avevo conosciuto prima del 6 maggio del ‘76. Mai più ad Artegna, a Magnano o a Montenars. Ci ho sempre girato attorno, meticolosamente. Troppa la paura di non saperli ritrovare o di scoprirvi l’ombra irriconoscibile del bambino che ero. Viaggiando, capivo che la ricostruzione più ben fatta d’Italia aveva cambiato tutto. Aveva sepolto un mondo più della furia di Persefone. Forse tutto sarebbe cambiato egualmente, certo. Ma quella resta per me la cesura. Non troverò mai più il Friuli che ho amato.

Due articoli (di Caterina Pasolini e di Michele Serra) fra i tanti che raccontano l'emergenza del giorno; un evento che andrebbe commentato, per gettare una goccia di buonsenso in un oceano di confusione: lo faremo domani. La Repubblica, 28 dicembre 2015


SMOG, LE TRE GIORNATE DIMILANO
DELRIO: “ECCO IL PIANO DEL GOVERNO”
di Caterina Pasolini


Auto ferme dalle 10 alle 16 fino a mercoledì. Targhe alterne a Roma Grillo e i Verdi all’attacco. Galletti: “Giù i biglietti dei mezzi pubblici”

L’aria inquinata assedia le città e surriscalda la politica, con lo smog sempre più al centro dello scontro aperto tra governo e opposizione. Se oggi fino a mercoledì sarà blocco totale del traffico a Milano e in 11 comuni lombardi, Roma si limita alle targhe alterne tra le proteste di Grillo che parla di «governo spocchioso indifferente ai morti» e dei Verdi che minacciano di denunciare il prefetto Tronca e che parlano di «omicidio di stato».

«Si sarebbero potuto salvare 25 mila vite se i limiti di legge del pm10 e del No2 fossero stati rispettati. Questo è un omicidio di Stato», accusa Angelo Bonelli dei Verdi. Rincara la dose Beppe Grillo parlando dei 68mila morti in più del 2015 previsti dall’Istat: «Lo smog sta rendendo le città italiane sempre più simili a Pechino. Adesso si vieta la circolazione alle auto, tra poco sarà vietata la circolazione delle persone, come in Cina. L’inquinamento ci avvelena e il premier e i ministri spocchiosi non si rendono conto di quello che accade nel paese» accusa il leader dei cinquestelle.

Alle accuse risponde il ministro dell’ambiente Gianluca Galletti. «Davanti all’emergenza smog, che per gli effetti climatici si ripresenterà in futuro in modo frequente, la a risposta deve essere coordinata e di sistema. Non in ordine sparso». Così ha convocato mercoledì una riunione con sindaci e governatori in modo da confrontare le misure adottate e trovare un unico modo per procedere. «Proporrò ai sindaci di abbassare il prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici per invogliare la gente a lasciare a casa l’auto».

Il governo sotto accusa ribatte insistendo che nella legge di stabilità ci sono già misure antinquinamento. A dirlo, sulla sua pagina Facebook, il ministro alle infrastrutture e trasporti Graziano Delrio: «Possono contribuire all’abbassamento delle emissioni le riqualificazioni energetiche nell’edilizia per le quali sono previste detrazioni del 65%, gli stanziamenti di 60 milioni per invitare a trasportare le merci sui treni, gli altri 91 miloni destinati alla mobilità ciclabile inserite nella legge di stabilità».

E mentre il governo annuncia riunioni e interventi, il prefetto di Roma Tronca viene accusato dai Verdi di fare il «promoter dei commercianti» non bloccando il traffico e minacciano di denunciarlo in procura. «È il responsabile della salute dei cittadini. Se i provvedimenti presi risulteranno inadeguati possono configurarsi precise responsabilità penali », aggiungono al Codacons. Oggi nella capitale non viaggeranno i veicoli con la targa dispari nella fascia verde dalle 7.30 alle 12.30 e dalle 16.340 alle 20.30. Domani toccherà alle pari stare ferme. Per invitare i romani ad usare i mezzi pubblici il biglietto varrà per tutto il giorno.

LA RIMOZIONE DEL CIELO
di Michele Serra

La Milano felix dell’ultimo paio d’anni, ordinata, sicura di sé, lustra di Expo e con il suo skyline nuovo fiammante, soccombe come ogni altra città alla mefitica nube di polveri che la avvolge.

I nuovi grattacieli, in pieno giorno, immergono le loro vette in un cielo opaco, che le ingoia e le cancella. Osservati dal piano stradale, è come assistere a un tuffo al contrario; un tuffo nel mare ignoto che ci sovrasta. Non è più lo smog nerastro e unto che massacrava i colletti delle camicie negli anni Sessanta e Settanta, quando il carbone delle caldaie e i fumi delle fabbriche spalmavano sulla città una patina buia, catramosa. È una moltitudine subdola di particole che l’assenza di vento aggrega in una specie di aerosol permanente, che solo il vento e la pioggia possono lavare via. Con metafora non scientifica, ma credo efficace, potremmo dire che lo smog è passato da uno stadio primitivo, basico, da rivoluzione industriale, a una più raffinata formula postmoderna. Meno visibile (se non dopo una lunga siccità) ma non per questo meno perniciosa.Non c’è certezza dei morti effettivi, caso per caso, città per città; ma che di particolato ci si ammali e si muoia, sì. Secondo l’Oms (dati del 2008) circa due milioni di umani ogni anno, nel mondo, muoiono a causa di quello che si respira nelle città dove abitano.

Questa certezza del male che riscaldarci, nutrirci, produrre cose provoca all’ambiente e dunque a noi stessi, come è inevitabile che sia genera fatalismi e isterismi in pari misura. Si va dal tipico “non possiamo farci niente, e comunque la vita media è in aumento in tutto il mondo sviluppato”, all’altrettanto tipico “è una vergogna, governo assassino”. Al netto di queste due inutili eppure frequentatissime parti in commedia, quello che davvero colpisce in emergenze come questa, e come in tutte le cosiddette emergenze legate al clima, è che siano appunto considerate emergenze e trattate da emergenze; mentre sono problemi strutturali del pianeta Terra, del suo modello di sviluppo e di vita. Strutturali e dunque quotidiani. Ogni picco che arriva sulle prime pagine dei giornali e sul tavolo dei ministri è sorretto da un ampio contrafforte che si estende, giorno per giorno, lungo i decenni: è quel contrafforte — la “normalità” dello sviluppo e della nostra maniera di vivere — l’evidente matrice di ogni allarme, di ogni provvedimento drastico o pseudo tale, di ogni blocco del traffico.

Il sospetto è che l’artificialità delle nostre vite quotidiane (che raggiunge, nelle città, il suo culmine) produca una vera e propria “rimozione del cielo”, che lasciamo scrutare a meteorologi poi interpellati, quando abbiamo paura o disagio, come aruspici. Perché viviamo, letteralmente, “al riparo”, condizionati in estate, riscaldati in inverno, sempre più ignari della volta celeste che invece, e nonostante noi, ci avvolge, ci fa respirare, raccoglie le nostre deiezioni e si surriscalda.

Mi è capitato parecchie volte, in periodi di prolungata siccità come questo, da quel pendolare città-campagna che sono, di scoprire che amici milanesi non avevano alcuna idea che i fiumi erano in secca e i campi inariditi; fino a che — l’emergenza, appunto — qualche telegiornale decideva che le immagini del Po che sprofonda nel suo limo (o all’opposto preme sugli argini) sono abbastanza suggestive da essere mandate in onda.

A Milano non ci sono neanche gli storni, come a Roma; e pochissimi rapaci (non ne ho mai visto uno), a differenza di Roma che ne è piena. Non si guarda quasi mai il cielo, a Milano, lo si considera dimenticabile anche esteticamente, a dispetto del fin troppo ripetuto passo manzoniano sul cielo di Lombardia “così bello quando è bello”. Ma è il cielo di Lombardia, appunto, che di Milano è molto più vasta e varia, e ha i laghi, i monti, le risaie, i pioppeti, i campi, per altro anche loro in questi giorni oppressi da nebbie grevi e quasi mai pulite. Milano guarda il suo cielo solo quando diventa una specie di enorme palla giallastra, fotografata e filmata da ogni finestra con quel misto di ansia e di sorpresa che è tipico di chi non sa bene cosa fare.

Consolarsi dicendo che Pechino sta peggio è ridicolo e anche piuttosto offensivo, sia per Pechino che per Milano. (Per non parlare di Frosinone, star a sorpresa delle polveri sottili nazionali). Peggio, nella realtà, sta il mondo nel suo insieme, che di summit in summit tenta di mettere una pezza a fenomeni di smisurata inerzia, abitudini indiscusse, pubbliche e private, l’abuso pigro e scellerato dell’automobile, l’intervento politico solo quando la situazione è catastrofica e dunque si può reggere meglio il mugugno di chi non crede agli allarmi e crede solo ai propri porci comodi. Ci vorrebbe il classico salto culturale (in avanti, non indietro, forti di tecnologia e scienza) verso la natura, i boschi, i fiumi, i campi coltivati e quelli incolti, sopra i quali portare lo sguardo al cielo, cercare di avvertire il tempo atmosferico così come di misurare con passo meno corto e sguardo meno avido il tempo cronologico, cogliere le anomalie, riconoscere le stagioni, è un’attività del tutto naturale.

In questo senso i cittadini sono dei veri e propri deprivati. Nelle società urbanizzate non si vede e non si sente più il cielo. Si è in ostaggio dell’allarmismo mediatico (quegli “al lupo! al lupo!” che al lupo non ti fanno credere più), si è più indifesi di fronte a una natura estranea e sconosciuta, o misconosciuta. E conoscendola meno, la si offende più facilmente.

«Il grande affare della difesa idrogeologica del Veneto è un Mose in piccolo, anche questo in mano ai soliti noti, poche imprese, quasi sempre le stesse, che si difendono con i denti dai concorrenti e dai curiosi». La Nuova Venezia, 16 dicembre 2015 (m.p.r.)

Il grande affare della difesa idrogeologica del Veneto è un Mose in piccolo, anche questo in mano ai soliti noti, poche imprese, quasi sempre le stesse, che si difendono con i denti dai concorrenti e dai curiosi. Corrono camion, ruspe, soldi e soprusi, un’insalata mista sparsa per la campagna veneta, nella fascia collinare, in montagna. Lungo fiumi, canali, a ridosso delle frane. Un elenco sterminato di lavori, in corso o in programma, di cui si sanno con certezza solo i costi di partenza. Che se sono quelli di arrivo, stando al parametro Mose, abbiamo fatto tombola.

«Non è vero», dice l’ingegnere capo del Genio Civile di Vicenza Marco Dorigo, che tiene ad interim anche Padova. «Su un centinaio di gare fatte da noi, vi sfido a trovare un solo lavoro costato più del previsto. Pronto a darvene prova». Una volta che c’è una buona notizia non ce la faremo scappare. Va detto che Dorigo e i suoi colleghi - Salvatore Patti a Venezia, Alvise Lucchetta a Treviso e a Belluno, Umberto Anti per Verona e Rovigo, ad interim loro - gestiscono lavori al massimo per 500-700 mila euro. Mera esistenza in vita per un’impresa. Dura comunque da raggiungere. I lavori vengono affidati con procedura negoziata, le imprese possono partecipare solo se chiamate. È prevista, anzi auspicata, la rotazione, ma è un fatto discrezionale. Va a finire che il giro è sempre il solito, o cambia di poco.
Cosa deve pensare chi resta fuori? La polpa arriva con i lavori sopra il milione di euro. Qui la procedura è aperta, le gare di solito sono all’offerta economicamente più vantaggiosa. Magari con il prezzo valutato 30 punti e la qualità 70, come sta accadendo per il bacino di laminazione di Caldogno (importo lavori 25 milioni, con espropri e altro, totale 46), per l’invaso di Trissino (importo lavori 17.385.000 euro, totale 26 milioni) e per quello di Montebello (totale previsto 55 milioni). Con un rapporto 70-30, significa che il giudizio della commissione vale più del doppio delle tasse dei contribuenti che pagano il conto.
L’impianto di Caldogno è stato vinto da un’Ati con Idra Building capogruppo e Medoacus e Coveco mandanti. L’invaso di Trissino, appaltato dal consorzio di bonifica Alta Pianura Veneta, è andato a Medoacus, Idra Building e Coveco. Un altro grosso appalto vicentino, il bacino di Viale Diaz (importo lavori 10 milioni, totale previsto 18) è stato assegnato sempre con rapporto 70-30 a Costruzioni Traverso più Consultecno, due società del gruppo Idra Building. Non è ancora aggiudicato, per una anomalia dell’offerta. La commissione ha chiesto chiarimenti, se ne riparlerà a inizio anno. L’intreccio vede sempre i soliti nomi. Si segnala in particolare Medoacus, consorzio stabile di imprese con sede a Mestrino, al centro di una furiosa contestazione nell’Alta Padovana.
Medoacus ha presentato 6 progetti di ripristino degli argini del Brenta tra Carmignano e Santa Croce Bigolina, con compensazione attraverso prelievo di ghiaia, per un valore stimato di 1.900.000 euro. La Regione ha accolto la richiesta, sottoponendola a valutazione d’impatto ambientale. Ma gli abitanti della zona non hanno bisogno di aspettare la risposta per sapere che sarà una devastazione stile anni Settanta, quando i cavatori di ghiaia fecero crollare il ponte di Fontaniva. L’architetto Giuliano Basso ha provato a interessare quindici giorni fa la seconda commissione del Consiglio regionale (presidente Francesco Calzavara. leghista). Pare con scarsi risultati. Ad ascoltare senza battere ciglio c’era anche l’ex assessore all’ambiente Maurizio Conte, sotto la cui gestione è stato recepito l’accordo quadro per la difesa del suolo che ha portato in Veneto 45 milioni di euro. Un elenco di interventi lunghissimo, dettagliatissimo. C’è tutto, meno i nomi delle imprese che se ne occupano.
Ma il pezzo forte sono i cantieri ancora da aprire con i 153 milioni di euro previsti dal nuovo accordo quadro, firmato col governo a Roma il 4 novembre scorso, dal commissario al rischio idrogeologico del Veneto Luca Zaia e dal “soggetto attuatore” Tiziano Pinato. E manca ancora il completamento dell’idrovia.

«Questa mattina all'Ara Pacis di Roma. La riqualificazione urbana e la gestione dei servizi possono, se bene indirizzare guidare la crescita economica e valorizzare le città». Ediliziaeterritorio.ilsole24ore.com, 27 novembre 2015

La filiera integrata del real estate oggi rappresenta il 20% del Pil italiano e circa due milioni di posti di lavoro, ma ha un enorme potenziale di crescita.Il lavoro da fare è tanto. Pensiamo, a esempio, al consumo di suolo, passato dal 2,9% degli anni 50 al 7,3% del 2012, che oggi richiede razionalità e salvaguardia ambientale; pensiamo al degrado fisico e sociale delle aree urbane storiche e periferiche: 2,6 milioni di edifici in mediocre o pessimo stato di conservazione (ricerca Cresme); per finire consideriamo il patrimonio costruito prima del 1971 - cioè 7,2 milioni di edifici - che non risponde a criteri antisismici. Per comprendere il valore di tali azioni da compiere, si consideri che nel 2014 gli investimenti nelle costruzioni sono arrivati a 170 miliardi e che lo sviluppo nel campo dei servizi in genere coinvolge il maggior numero di occupati, pari al 64% degli occupati totali, di cui oltre 12 milioni nel solo settore privato. In altre parole, riqualificazione urbana e gestione dei servizi rappresentano un giro d'affari colossale che, se ben indirizzato e coordinato, può largamente superare ogni aspettativa economica e proiezione di crescita. Parliamo anche di un settore tra i più penalizzati dalla crisi economica, e che non ha margini di recupero se non interviene una strategia politica di lungo respiro che ridia vigore al mercato reale.

Il comparto immobiliare oggi è a una sorta di anno zero, ancora alle prese con una crisi lunga e grave (da cui solo alcune aree del Paese cominciano a emergere), in un contesto in cui la carenza di risorse pubbliche si aggiunge alla paralisi amministrativa e all'ostinazione del popolo dei «No». «Insomma, l'economia italiana ha una grande risorsa inutilizzata, o mal interpretata, e che invece può essere, con nuove regole e nuovi modelli gestionali, il più straordinario volano di sviluppo per tutto il Paese», dice Alfredo Romeo, presidente di Osservatorio Risorsa Patrimonio-Italia (promosso da Romeo gestioni, Nomisma e Cresme consulting). Questa risorsa, precisa Romeo, è «il territorio nel suo complesso che, con poche iniziative destinate alla valorizzazione, può essere il motore di una ripresa generale soprattutto se si ferma quella distorsione del mercato provocata dai fondi immobiliari che fanno gli amministratori di condominio invece di valorizzare i beni gestiti». Con quali risorse intervenire in tempi di drastici tagli alla spesa? Ci sono modelli tecnici e amministrativi che possono esse adottati. E in più ci sono norme attuative che prefigurano in modo concreto le opportunità di intervento coinvolgendo, oltre alle Amministrazioni, anche cittadini e imprese.

Una formula che offre promettenti orizzonti di investimento e di ritorno economico è l'articolo 24 del Decreto "Sblocca Italia" (Dl 133/2014) che promuove un modello bottom-up. «Questa norma - insiste Romeo - può rappresentare il detonatore capace di far esplodere il vero cambiamento sul tema delle valorizzazioni, perché concilia tre elementi cruciali: la responsabilità sull'attuazione del progetto della pubblica amministrazione, la condivisione e la partecipazione dei cittadini e soprattutto l'interesse dei privati a investire». Conclusioni, sintesi e riflessioni, su tutto questo corpus di studio sono al centro del seminario in corso di organizzazione dal titolo «Gestire le città – La risorsa Territorio per un New Deal italiano». L'incontro, che si tiene oggi a Roma (Auditorium Ara Pacis) e che viene moderato dal direttore del Sole 24 Ore, Roberto Napoletano, presenta un programma articolato.

All'introduzione di Alfredo Romeo, il quale si intrattiene sul tema «Cultura e qualità dei servizi: il New Deal necessario», segue la relazione di base, curata da Roberto Mostacci, del Comitato Scientifico Orp-Italia. In una seconda fase del seminario si succedono altri autorevoli interventi: Luigi Nicolais, presidente del Cnr si occupa di «Territori della ricerca»; Roberto Reggi, dg dell'Agenzia del Demanio interviene su «La ricchezza delle valorizzazioni – I modelli innovativi»; Paolo Crisafi, dg di Assoimmobiliare parla di «Oltre l'immobiliare: nuove proposte contro la crisi del mercato»; Veronica Nicotra, segretario generale dell'Anci parla della «Sfida del cambiamento nella Pa e negli Enti Locali». A Dario Nardella, sindaco di Firenze, va il compito di raccontare un'esperienza diretta di «Partecipazione dei cittadini nella gestione della città». Infine, Raffaele Cantone, presidente di Anac (Autorità nazionale anticorruzione) si occupa di «Rispetto delle regole o regole da cambiare? Il diritto come motore o freno dell'Economia» ed Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente e Territorio della Camera, chiude su «Qualità delle città, qualità della vita».

nota per eddy
sulla pagina personale di Alfredo Romeo il report del convegno
Roberto Reggi direttore del Demanio si descrive

«L’attacco al welfare dei comuni è stata una fredda scelta ideologica, fatta propria anche dalla sinistra. Dobbiamo ripensare i luoghi urbani come una grande opportunità di redistribuzione sociale, che non smantella o vende i servizi pubblici ma li rende più efficienti». Il manifesto, 7 ottobre 2015
Se ci sarà vita a sini­stra dipende molto dalle nostre capa­cità. Intanto dob­biamo pren­dere atto che la vita sociale sta scom­pa­rendo dalle nostre città sot­to­po­ste ad una spie­tata macel­le­ria sociale, ana­loga all’offensiva tesa alla mar­gi­na­liz­za­zione del mondo del lavoro.

ùUno spunto di rifles­sione viene dalla recente scom­parsa di una delle più alte figure di sin­daco, Renato Zan­gheri. La Bolo­gna che egli dirige a par­tire dal 1970 è la città che ha por­tato avanti una straor­di­na­ria rea­liz­za­zione del wel­fare urbano. La sta­gione degli asili nido parte da lì. I cen­tri anziani testi­mo­niano l’attenzione verso la parte più debole della società. Biblio­te­che e par­chi di quar­tiere per i gio­vani. Nella con­ce­zione egua­li­ta­ria che allora carat­te­riz­zava la sini­stra furono spe­ri­men­tati tra­sporti urbani gra­tuiti nelle ore fre­quen­tate da lavo­ra­tori e stu­denti. La città era insomma con­ce­pita come un bene comune che doveva essere redi­stri­buito per col­mare le dif­fe­renze sociali. In que­gli stessi anni Pier­luigi Cer­vel­lati mise in scena uno straor­di­na­rio capi­tolo dell’urbanistica ita­liana recu­pe­rando parti del cen­tro antico e lasciando le case restau­rate ai ceti popo­lari: un’esperienza che divenne famosa in tutta Europa.

Quella sta­gione pre­ziosa fu pos­si­bile gra­zie a una equi­li­brata poli­tica di inde­bi­ta­mento, e cioè di inve­sti­menti pub­blici in favore di tutti. L’attacco al wel­fare urbano è avve­nuto sotto la ban­diera dei tagli lineari di bilan­cio. Ma come dimo­stra il ver­mi­naio di Mafia capi­tale e i con­ti­nui casi di cor­ru­zione nel sistema degli appalti, molto più con­si­stenti poste di bilan­cio sono state lasciate nelle mani di mal­fat­tori legati alla poli­tica ridotta ad azione lob­bi­stica. Per le altre poste di bilan­cio non c’è stata pietà: asili nido, ser­vizi sociali, tra­sporti, cul­tura. Un sistema inclu­sivo è stato deser­ti­fi­cato e nello stesso tempo il defi­cit dei comuni è aumen­tato enor­me­mente pro­prio per­ché sono state sal­va­guar­date le opere inu­tili, dimo­strando che la vora­gine dei nostri conti pub­blici non deriva dalla spesa sociale ma dalla siste­ma­tica azione di rapina. Sono oggi 200 le ammi­ni­stra­zioni locali fal­lite e i pic­coli comuni sono ormai senza futuro. La scelta dei tagli alla spesa sociale si è dimo­strata una fredda scelta ideologica.

Il tema da affron­tare è come mai quell’ideologia sia stata fatta pro­pria anche dalla sini­stra. Alla fine degli anni ’80 (Zan­gheri lasciò la città nel 1983) furono accet­tate tutte le posi­zioni cul­tu­rali dei nostri avver­sari sto­rici per asse­con­dare le pri­va­tiz­za­zioni. Oggi si paga pres­so­ché per tutte le ero­ga­zioni pub­bli­che e i pochi ammi­ni­stra­tori che resi­stono lo fanno con grandi dif­fi­coltà. Sba­glie­remmo ad attri­buire la respon­sa­bi­lità di que­sto misfatto solo al par­tito della sini­stra che non c’è più, e cioè al Pds-Ds-Pd. Le sue colpe sono gigan­te­sche ma se ci fer­mas­simo lì non coglie­remmo il nostro stesso appan­na­mento. Anche figure pre­sti­giose estra­nee a quel mondo sono state inca­paci di deli­neare una pro­spet­tiva differente.

I bravi sin­daci di Milano e di Genova sono rima­sti loro mal­grado schiac­ciati da que­sta gigan­te­sca invo­lu­zione cul­tu­rale. Non pos­sono agire verso un’altra pro­spet­tiva e si limi­tano al più ad edul­co­rare le poli­ti­che neo­li­be­ri­ste trion­fanti. E’ que­sto sen­ti­mento di impo­tenza ad essere avver­tito dalla popo­la­zione delle peri­fe­rie. E’ da que­sto intrec­cio di que­stioni — oltre ovvia­mente dalla can­cel­la­zione dei diritti dei lavo­ra­tori — che nasce il cono d’ombra che ci oscura, la disaf­fe­zione alla poli­tica, la fuga dal voto. Se non col­miamo que­sto defi­cit di cul­tura poli­tica e non tor­niamo ad occu­parci di città nel suo insieme di biso­gni sociali e di mar­gi­na­lità non riu­sci­remo a riscattarci.

E’ una sfida gigan­te­sca, ma non par­tiamo da zero per­ché in que­sti anni una dif­fusa cul­tura alter­na­tiva si è man­te­nuta viva gra­zie a tante azioni locali e alla straor­di­na­ria vicenda dei movi­menti dell’acqua pub­blica. Si tratta a mio giu­di­zio di pas­sare dalla difesa dei beni comuni — penso all’esemplare azione di Napoli sull’acqua — ad una siste­ma­tica azione di risar­ci­mento per la parte della società mag­gior­mente col­pita dalla crisi. Dob­biamo ripen­sare i luo­ghi urbani come una grande oppor­tu­nità di redi­stri­bu­zione sociale, che non sman­tella o vende i ser­vizi pub­blici ma li rende più effi­cienti con l’attiva par­te­ci­pa­zione popo­lare. Le risorse ci sono: basta tagliare appalti e ester­na­liz­za­zioni che per­pe­tuano il domi­nio liberista.

Se per­diamo que­sta occa­sione deter­mi­ne­remmo il nostro ulte­riore declino e garan­ti­remmo la riu­scita piena dell’ultimo tra­guardo che l’economia di rapina vuole imporre: la ven­dita del patri­mo­nio pub­blico e la ulte­riore pri­va­tiz­za­zione dei ser­vizi pub­blici. La vicenda greca di que­ste set­ti­mane ci dice di non illu­derci: Ger­ma­nia e Troika hanno impo­sto 50 miliardi di ven­dita di beni immo­bi­liari e di società pub­bli­che e l’insigne giu­ri­sta Paolo Mad­da­lena non si stanca di ripe­tere che senza patri­mo­nio gli Stati per­dono la pro­pria sovra­nità. E se non ci sve­gliamo toc­cherà anche al nostro paese.

«Verdini, è il potere così come Renzi prometteva di combatterlo, camaleontico, cinico, sopravvivente a qualunque evento perché vivente solo in funzione di se stesso. Amico degli amici, purché gli amici siano al potere, e nemico solamente di chi non ha potere». La Repubblica, 4 ottobre 2015 (m.p.r.)

No, Verdini non è il mostro di Lochness, come dice Matteo Renzi. È molto peggio, politicamente parlando. Intanto perché esiste, a differenza del biscione avvistato in un lago scozzese da qualche amante della birra. E poi perché incarna magistralmente, della politica italiana, l’eterno affarismo e l’eterno consociativismo, il cinismo pre e post ideologico, la totale mancanza di coerenza (coerentemente con la totale assenza di princìpi), la disponibilità non al compromesso (che in politica è una virtù) ma al maneggio con secondi fini.

Verdini, insomma, è il potere così come Renzi prometteva di combatterlo, camaleontico, cinico, sopravvivente a qualunque evento perché vivente solo in funzione di se stesso. Amico degli amici, purché gli amici siano al potere, e nemico solamente di chi non ha potere, non garantisce entrature, contatti benevoli, do ut des.
Renzi dimentica troppo spesso, e troppo facilmente, che la sua fortuna dipende esclusivamente dalla travolgente urgenza di rinnovamento che attanaglia un paese vecchio, stanco, sfiduciato, abitudinario. Si tenga pure Verdini. Perderà la parte buona di se stesso.

Una proposta di P. Bevilacqua, F. Arminio, V. De Lucia, A. Gianni, M. Lan­dini, T. Perna, M. Revelli, E. Sal­zano, E. Scan­durra, G. Viale per stabilire un rapporto virtuoso tra l'esodo del XXI secolo e la rigenerazione dei territori e dei paesi abbandonati. Il manifesto, 29 settembre 2015
«Proposta-appello Cambiare le leggi e organizzare con i sindaci un piano per dare lavoro e riportare alla vita le aree interne, una volta ricche e poi abbandonate, del nostro paese».

Il tema non è nuovo. Alcuni degli scri­venti ne hanno trat­tato sul mani­fe­sto. La sini­stra ha, in Ita­lia, la pos­si­bi­lità di indi­care una solu­zione non con­tin­gente né tran­si­to­ria al pro­blema gigan­te­sco dell’immigrazione. Lo può fare nel migliore dei modi, risol­vendo al tempo stesso alcuni suoi dram­ma­tici pro­blemi demo­gra­fici, ter­ri­to­riali, eco­no­mici e sociali. Noi pos­siamo indi­care agli ita­liani, con­tro la poli­tica della paura e dell’odio, una pro­spet­tiva che non è solo di soli­da­rietà e di umano e tem­po­ra­neo soc­corso a chi fugge da guerre e miseria.

Con le donne, gli uomini e i bam­bini che arri­vano sulle nostre terre noi pos­siamo costruire un inse­ri­mento sta­bile e coo­pe­ra­tivo, rela­zioni umane dure­voli, fon­date su nuove eco­no­mie che gio­ve­reb­bero all’intero Paese. Gli scri­venti ricor­dano che l’Italia sof­fre di un grave squi­li­brio nella distri­bu­zione ter­ri­to­riale della sua popo­la­zione. Poco meno del 70% di essa vive inse­diata lungo le fasce costiere e le col­line lito­ra­nee della Peni­sola, men­tre le aree interne e l’osso dell’Appennino, soprat­tutto al Sud, sono in abbandono.

Sem­pre meno popo­la­zione, in que­ste zone, fa manu­ten­zione del ter­ri­to­rio, con­trolla i feno­meni ero­sivi, sic­ché nes­sun fil­tro e pro­te­zione – come è acca­duto per secoli – si oppone alle allu­vioni che di tanto in tanto pre­ci­pi­tano con vio­lenza nelle valli e nelle pia­nure. Non solo dun­que la gran parte della popo­la­zione, ma la ric­chezza nazio­nale (città e abi­tati, aziende, infra­strut­ture via­rie e fer­ro­via­rie, ecc) è sem­pre più priva, a monte , di difese rispetto ai feno­meni atmo­sfe­rici estremi dei nostri anni. Ma non dob­biamo sol­tanto fron­teg­giare tale minaccia.

Lo spo­po­la­mento, l’invecchiamento di popo­la­zione, la dena­ta­lità delle aree interne costi­tui­sce, in sé, una per­dita incal­co­la­bile di ric­chezza. Ven­gono abban­do­nate terre fer­tili che erano state sedi di agri­col­ture, i boschi si insel­va­ti­chi­scono e non ven­gono più sfrut­tati, gli alle­va­menti di un tempo scom­pa­iono. Al tempo stesso bor­ghi e paesi deca­dono, per­dono i pre­sidi sani­tari, le scuole, i tra­sporti. E in tale pro­gres­sivo abban­dono degra­dano case, palazzi edi­fici di pre­gio, monu­menti, piazze: in una parola un immenso patri­mo­nio di edi­fi­cato rischia di andare in rovina insieme ai ter­ri­tori rurali.

Ebbene, que­ste aree non hanno biso­gno che di popo­la­zione, di nuove ener­gie, di voglia di vivere, di lavoro umano. Que­ste terre pos­sono rina­scere, ricreare le eco­no­mie scom­parse o in declino con nuove forme di agri­col­tura che valo­riz­zino l’incomparabile ric­chezza di bio­di­ver­sità dell’agricoltura ita­liana. In que­sti luo­ghi si può creare red­dito con nuove forme di alle­va­mento, in grado di uti­liz­zare immensi spazi oggi deserti, con­trol­lando le acque interne ora in disor­dine e tra­sfor­man­dole da minacce in risorse.

In que­sti paesi può nascere un vasto movi­mento di edi­li­zia da restauro dell’esistente, capace di rimet­tere in sesto il patri­mo­nio abi­ta­tivo. Senza dire che in molti di que­sti bor­ghi anche i nostri gio­vani pos­sono spe­ri­men­tare un nuovo modo di vivere il tempo quo­ti­diano, di sfug­gire alla fretta che svuota l’animo e fram­menta ogni sog­get­ti­vità, di creare rela­zioni soli­dali, di sco­prire la bel­lezza del pae­sag­gio, di curare la natura e gli ani­mali. Si cian­cia sem­pre di cre­scita, mai di arric­chire di senso la nostra vita.

Ebbene in che modo, con che mezzi, con quali forze si può per­se­guire un così ambi­zioso progetto?

La prima cosa da fare è can­cel­lare la legge Bossi-Fini e cam­biare atteg­gia­mento di lega­lità di fronte a chi arriva. Occorre dare agli immi­grati che vogliono restare la pos­si­bi­lità di tro­vare un lavoro in agri­col­tura, nell’edilizia, nella sel­vi­col­tura, nei ser­vizi con­nessi a tali set­tori, nel pic­colo arti­gia­nato. Non si capi­sce per­ché i gio­vani del Sene­gal o dell’Eritrea deb­bano finire schiavi come rac­co­gli­tori sta­gio­nali di arance o di pomo­dori e non pos­sano diven­tare col­ti­va­tori o alle­va­tori in coo­pe­ra­tive, costrut­tori e restau­ra­tori delle case che abi­te­ranno, dei labo­ra­tori arti­giani in cui si inse­die­ranno altri loro com­pa­gni. Ricor­diamo che oggi l’ agri­col­tura non è più un sem­plice set­tore pro­dut­tivo di beni agri­coli, ma è un ambito eco­no­mico mul­ti­fun­zio­nale. Nelle aziende agri­cole oggi si fa tra­sfor­ma­zione arti­gia­nale dei pro­dotti, pic­colo alle­va­mento, cucina locale, com­mer­cio, turi­smo, assi­stenza sociale, atti­vità didat­tica. E’ una rete di atti­vità e al tempo stesso un mondo di rela­zioni umane.

La seconda cosa da fare è avviare e met­tere insieme un vasto movi­mento di sin­daci. Su tale fronte, la strada è già aperta. Mimmo Lucano e Ila­rio Ammen­dola, sin­daci di Riace e Cau­lo­nia, in Cala­bria, hanno mostrato come pos­sano rina­scere i paesi con il con­corso degli immi­grati, se ben orga­niz­zati e aiu­tati con un minimo di soc­corso pub­blico.

I sin­daci dovreb­bero fare una rapida rico­gni­zione dei ter­reni dispo­ni­bili nel ter­ri­to­rio comu­nale: patri­mo­niali, dema­niali, pri­vati in abban­dono e fit­ta­bili, ecc. E ana­loga ope­ra­zione dovreb­bero con­durre per il patri­mo­nio edi­li­zio e abi­ta­tivo. A que­ste stesse figure spet­te­rebbe il com­pito di isti­tuire dei tavoli di pro­get­ta­zione insieme alle forze sin­da­cali, alla Col­di­retti, alle asso­cia­zioni e ai volon­tari pre­senti sul luogo. Se i diri­genti delle Coo­pe­ra­tive si ricor­das­sero delle loro ori­gini soli­da­ri­sti­che potreb­bero dare un con­tri­buto rile­van­tis­simo a tutto il progetto.

Sap­piamo che a que­sto punto si leva subito la domanda: con quali soldi? E’ la rispo­sta più facile da dare. Soldi ce ne vogliono pochi, soprat­tutto rispetto alle grandi opere o alle altre atti­vità in cui tanti impren­di­tori ita­liani e gruppi poli­tici sono cam­pioni di spreco. I fondi strut­tu­rali euro­pei 2016–2020 costi­tui­scono un patri­mo­nio finan­zia­rio rile­vante a cui attin­gere. E per le Regioni del Sud costi­tui­reb­bero un’ occa­sione per met­tere a frutto tante risorse spesso inu­ti­liz­zate.

E qui le forze della sini­stra dovreb­bero fare le prove di un modo antico e nuovo di fare poli­tica, met­tendo a dispo­si­zione del movi­mento i loro saperi e sforzi orga­niz­za­tivi, le rela­zioni nazio­nali di cui dispon­gono, il con­tatto coi media. Esse pos­sono smon­tare pezzo a pezzo l’edificio fasullo della paura su cui una destra inetta e senza idee cerca di lucrare for­tune elet­to­rali. L’immigrazione può essere tra­sfor­mata da minac­cia in spe­ranza, da disa­gio tem­po­ra­neo in pro­getto per il futuro. Così cessa la pro­pa­ganda e rina­sce la poli­tica in tutta la sua ric­chezza pro­get­tuale. In que­sto dise­gno la sini­stra potrebbe get­tare le fon­da­menta di un con­senso ideale ampio e duraturo.

Piero Bevi­lac­qua, Franco Armi­nio, Vezio De Lucia, Alfonso Gianni, Mau­ri­zio Lan­dini, Tonino Perna, Marco Revelli, Edoardo Sal­zano, Enzo Scan­durra, Guido Viale


Riferimenti

Si vedano in proposito i numerosi articoli raccolti in eddyburg, tra cui i seguenti:
un articolo di Slavoj Zizek, un altro articolo di Guido Viale, un articolo di Piero Bevilacqua:
un articolo di Massimo Livi Bacci, un articolo di Nadia Urbinati, ancora un articolo di Guido Viale.

Parla Daniel Libeskind «Saranno le città i luoghi chiamati a realizzare politiche d’integrazione». Le idee di un architetto famoso sulla citta e sul tema delle migrazioni. Buone intenzioni e qualche piccola verità in in mare di ovvietà: e un malinteso di fondo. La Repubblica, 3 settembre 2015, con postilla

Lodz, Tel Aviv, New York, Milano. Ma anche Berlino, Sao Paulo, Seul, Singapore, Londra, Gerusalemme, Las Vegas. E tutte le altre città in cui Daniel Libeskind — architetto nato 69 anni fa in Polonia e cresciuto tra Israele e Stati Uniti — ha vissuto e progettato. Fino a Roma dove, nell’ambito del Festival internazionale della cultura e della letteratura ebraica, Libeskind domani sera sarà protagonista dell’incontro: “La linea del fuoco: città tra memoria e futuro”. «Perché innovazione e tradizione non si possono separare », spiega l’architetto a Repubblica. «Solo la trasformazione è in grado di introdurre qualcosa di nuovo. In architettura, per esempio : se fai qualcosa di astratto,
senza riferimenti al passato, il risultato non avrà senso. Devi guardarti indietro per comprendere dove andare».

A proposito di presente, quanto e come il web influenza la progettazione?«Internet ha rivoluzionato il nostro modo di pensare e analizzare le cose, rappresenta una sfida e un’opportunità continua. Possiamo scoprire in pochi minuti informazioni che un tempo erano prodotto di mesi di ricerca. Il progresso tecnologico ha innovato l’architettura. Ma va ricordato che si tratta di strumenti, che dobbiamo saper utilizzare».

C’è un progetto a cui è particolarmente legato?
«Non puoi mai innamorarti troppo di qualcosa che hai fatto. Ogni progetto è come un figlio: avrà la sua vita e la sua evoluzione, devi volergli bene, averne cura e rispettarlo. Quando immagini qualcosa devi essere pronto ad accettarne le conseguenze: non conta quel che vedi oggi, ma quello che diventerà».

Ci fa degli esempi?
«Il Museo ebraico di Berlino: non avevo mai fatto niente del genere, fu il mio primo vero progetto. Non posso che definire emozionante quell’esperienza».

E poi?
«Il progetto di Ground Zero, ovviamente. Che è ancora in sviluppo ed è stato la prova più complicata che abbia affrontato. Professionalmente e umanamente ».

New York: è quella la città a cui è più legato?
«Ci vivo e la amo: è la capitale dell’immaginazione, ma...».

Ma?
«Ci sono altre città importanti per me. Come Milano: adoro quel suo essere europea, internazionale. E poi Tel Aviv, una metropoli in miniatura».

Cosa cerca in una città appena arriva?
«Le persone. I loro occhi, i loro gesti. Osservo come e dove guardano, il modo in cui camminano. Sono elementi che ti fanno capire dove ti trovi, come le persone vivono quel luogo e quindi ti permettono di trovare una connessione. L’empatia. E poi, ogni città ha la sua luce e la sua personalità, un corpo e un’anima, con cui devi saperti relazionare se vuoi viverla, lavorarci o progettare qualcosa di importante».

Spesso le metropoli crescono a dismisura, oltre i propri limiti. Esistono limiti?
«Io privilegio un’altra lettura. Prendiamo Sao Paulo, città infinita che amo e dove ho lavorato: può sembrare esagerata, disperata, eccessiva, una giungla di cemento da venti milioni di abitanti preda del caos architettonico. E invece...».

Invece?
«Quel che consideriamo disordine si può rivelare un altro ordine, differente. Le città si sviluppano anche così ed è fantastico comprenderne energia e creatività. La vita ci insegna sempre qualcosa: dobbiamo imparare a non lamentarci e capire, ascoltare. Ogni luogo del mondo, Italia compresa, ha conosciuto sviluppi improvvisi, contrasti drammatici ».

Intanto l’Europa è scossa dagli effetti di un’ondata migratoria senza precedenti: cosa succederà alle nostre città? Come cambieranno?
«Il fenomeno della migrazione è epocale e ci sono nazioni che stanno mostrando la loro inadeguatezza nell’accoglienza. Ma dovranno inevitabilmente adattarsi. E le città saranno protagoniste di questo processo. Perché senza capacità di integrazione e accoglienza il futuro sarà triste e diviso: le metropoli non possono che diversificarsi, diventando più interessanti anche per i più poveri. La disperazione deve trovare accoglienza, la segregazione sarebbe l’ennesimo errore».

Tutto questo fa pensare a un ruolo attivo dell’architettura.
«Lo definirei indispensabile, in accordo con le politiche di accoglienza. L’architettura deve essere il modo creativo e innovativo con cui le nostre società, i nostri governi possono rispondere alle domande più profonde così come a quelle più urgenti».

Ovvero?
«Creare quartieri accessibili, offrire soluzioni abitative innovative e alla portata anche dei più poveri è una missione irrinunciabile per la politica e una nuova sfida per architetti e urbanisti ».

Anche a discapito della sostenibilità ecologica?
«No, questo è il punto. La soluzione è sempre e comunque green . Un recente studio spiega come il consumo di asfalto in Cina negli ultimi tre anni abbia superato ogni record delle epoche precedenti. Non possiamo più permetterci questo tipo di inquinamento, l’architettura verde e sostenibile non è più un’opzione ma una via obbligata. Il riscaldamento globale è una drammatica realtà. E non risolveremo il problema mettendo un po’ di verde sui balconi dei palazzi, dobbiamo ripensare le nostre città. La sostenibilità è un dovere del presente, se vogliamo avere un futuro».

Come lo immagina il futuro?
«Sarà ovunque riusciremo a sviluppare e difendere un’idea di società aperta e democratica. Perché il futuro è un concetto che appartiene alle persone, non alle cose. E le idee, architettura compresa, devono aiutarci ad andare in quella direzione. Pace e amore può sembrare uno slogan retorico, eppure sono proprio quelli i valori di una convivenza pacifica da sviluppare e difendere. Questo intendo per democrazia: tolleranza, giustizia sociale, salute, benessere. E libertà ».

La luce è sinonimo di libertà?«La luce è un simbolo, da sempre. E non solo perché le grandi religioni ne parlano in modo simbolico. Ma perché è ciò che ci serve per vivere, per sapere dove andare. E per aiutarci a trovare il futuro ».

postilla

La lunga intervista che la Repubblica ha riservatoa Libeskind ci ha molto colpito. In primo luogo, per la grande distanza checorre ptra le idee che esprime a proposito del rapporto tra architettura e città e il contribute che ha dato con leoperazioni immobiliari delle quali è stato, se non ideatore e promotore, certo volenteroso partner: bastipensare all’area ex Fiera a Milano. Masoprattutto per il modo pone un problema indubbiamente centrale per il nostrosecolo (la grande migrazione dal Sud al Nord del mondo) e ne indica la soluzione, individuandola nella trasformazionedelle città perché esse diventino accoglienti per i nuovi arrivati.

Certo, seun intervistatore chiede a un architetto che cosa bisogna fare per affrontareun determinato problema quel signore risponderà sulla base del suo sapere e delsuo mestiere. Il vizio di certo giornalismo italiano d’oggi è quello di privilegiare, nella sceltadegli interlocutori, non l’esperto o gli esperti capaci, per il loro sapere emestiere, di dare risposte congruenti con quel determinato tema,ma semplicemente l’interlocutore più famoso in relazione a un qualsiasi tema che abbia una pur vaga attinenza all’argomento.
E il tema dell’accoglienza dimilioni di persone appartenenti ad etnie e popoli di cultura, modo di vita,necessità e bisogni, esigenze, aspettative radicalmente diverse da quelle deipaesi ospitanti pone problemi certo più ricchi e complessi di quelli cui sembrariferirsi Libeskind. Intanto, nel quadrodi una vision globale del fenomeno occorre comprendere, e decidere, quale partedei profughi dalle guerre e dalle carestie endemiche sarebbe disposta atornare sulle proprie terre, e a quali condizioni, e quale parte invece èdisposta a trasferirsi stabilmente. Poi bisognerebbe definire (ovviamente in modoconsensuale con i diretti interessati) se questi preferiscano la propriaintegrazione nella cultura e nei modi di vita della loro nuova patria, oppure sepreferiscano mantenere la propria identità. Una volta compiute queste scelte(che appartengono ovviamente a una Politica divenuta tutt’altro di quella oggipraticata) bisognerebbe programmare i luoghi, le attività, le risorse daattribuire a questi nuovi cittadini, e di conseguenza I modi nei quali disegnare e costruire gli habitat a offrire loro. Questioni, tutte, un po' più complesse di quella di disegnare nuove costruzioni nelle vecchie città, magarisecondo il modello Milanese di Residence Libeskind a Milano, che riportiamo qui sotto.


Una Biennale di architettura molto promettente, anche perché molto lontane dal mainstream. Non tanto per ciò che si propone di escludere, ma per ciò che vuole includere: l'architettura che serve a chi abita la città, non a chi ha più soldi degli altri. La Repubblica, 1 settembre 2015

Quarantotto anni, camicia beige e pantaloni color castagna, mani in tasca e capelli sapientemente disordinati, il cileno Alejandro Aravena ha anticipato ieri qualcosa della sua Biennale Architettura, la quindicesima della serie. L’ha intitolata Reporting From the Front . Inizierà nel maggio e si chiuderà nel novembre del 2016. Sarà assai diversa dalle Biennali che l’hanno preceduta e sarà per molti aspetti una proiezione non solo delle proprie scelte culturali e di curatore, ma anche della propria attività di progettista. Non ancora un nome di primissimo piano, Aravena è però un capofila dei tanti professionisti sudamericani che si cimentano con un’architettura dal marcato accento sociale, attiva nelle sterminate periferie urbane e sperimentatrice di dispositivi che possono attenuare, anche di poco o poco per volta, terribili disuguaglianze.

Un’architettura di frontiera, dunque, per una rassegna di frontiera. Che corrisponde anche ai precetti indicati da Paolo Baratta, presidente della Biennale: basta con l’architettura magniloquente, che innalza spettacoli tecnologici a uso di una committenza, pubblica o privata, che vuol esibire successo e potere. Basta anche con l’accettazione un po’ passiva di quel che capita nel mondo. «Andiamo oltre lo status quo», rimarca a più riprese Aravena, «vogliamo capire le domande che interessano i cittadini e che superano il “ma a me che me ne frega?” E, insieme, vogliamo capire le condizioni politiche, economiche, persino estetiche che si vorrebbe far credere insormontabili, un dato di realtà, e cercare vie diverse».

La Biennale di Aravena, si può intuire, vorrebbe mostrare una carrellata di buone pratiche che hanno migliorato l’abitare, il muoversi, il vivere in comunità. «Proporre, fare qualcosa e non solo diagnosticare», aggiunge. E il riferimento corre alle esperienze da lui maturate in quindici anni di housing sociale (quello vero, non quello dietro cui si camuffa certa speculazione).

Nel 2000 Aravena ha fondato Elemental, una società no profit che, con il sostegno dell’Università Cattolica del Cile e di un potente gruppo petrolifero, interviene in baraccopoli e periferie degradate realizzando abitazioni a basso costo, infrastrutture e spazi pubblici. Alla prima iniziativa (2001-2004) ha fatto riferimento ieri: ad Iquique ha progettato un complesso edilizio per un centinaio di famiglie, ma essendo la dotazione pubblica molto scarsa – 10mila dollari per famiglia – ha costruito solo metà di un alloggio, 40 metri quadrati (la struttura portante, la copertura, gli impianti) lasciando che i singoli proprietari completassero l’appartamento, esercitando il loro gusto, la loro creatività. «Abbiamo sfatato un’altra delle condizioni che si ritenevano immodificabili», insiste, «quella per cui una casa sociale non è soggetta a valorizzazione. Ora il valore di quelle case è cresciuto». Quel quartiere è stato intitolato a Violeta Parra, la cantante simbolo della sinistra cilena.
Aravena non è solo questo. Da tempo le sue quotazioni sono in crescita. Progetta negli Stati Uniti (ha insegnato ad Harvard), a Mosca, a Teheran, in Cina. Colleziona premi e ha partecipato già due volte alla Biennale. Dice delle archistar: «In alcuni casi la soluzione iconica di certa architettura può anche andar bene. In altre no». Ma, aggiunge, «vorremmo imparare da quelle architetture che, nonostante la scarsità di mezzi, esaltano ciò che è disponibile, invece di protestare per ciò che manca; vorremmo capire quali strumenti di progettazione servono per sovvertire le forze che privilegiano l’interesse individuale sul bene collettivo».

IL CURATORE

Prosegue e si estende la protesta contro uno dei mille delitti contro il territorio contenuti nel nefasto "Sblocca Italia, epitome del renzismo. ReTe, rete dei comitati, newsletter, 15 agosto 2015

L’Italia in piazza contro l’art.35 e la nuova ondata inceneritorista del Governo Renzi.

Il 9 settembre si riunirà la Conferenza Stato-Regioni per approvare il decreto attuativo dell’articolo 35, parte integrante dello Sblocca Italia.

Se approvato, l’incenerimento diverrebbe “attività di recupero” (anziché di smaltimento) e si aprirebbe la strada a nuovi impianti di incenerimento, addirittura non previsti dai Piani regionali, insieme a una miriade di “ristrutturazioni” di impianti obsoleti allo scopo di bruciare rifiuti da tutta Italia.

Il Governo, invece di impegnarsi a promuovere un Piano Nazionale del Riciclo e della Riparazione-Riuso (ed anche la reintroduzione del vuoto a rendere), misura che darebbe lavoro a centinaia di migliaia di persone (pensiamo ad esempio a tutte le operazioni di estrazione di metalli preziosi dai Rifiuti elettrici ed elettronici!) ancora una volta con l’accoppiata Renzi-Galletti si sdraia ai piedi della lobby degli inceneritori e delle fameliche multiutilities.

Se questo tentativo passasse si brucerebbe l’opportunità di estendere sempre più le buone pratiche verso Rifiuti Zero,decisive non solo per la tutela sanitaria ed ambientale delle comunità e dei territori, ma addirittura per la nostra intera economia, bisognosa delle materie prime-seconde contenute nei rifiuti. Insomma, se il tentativo dovesse andare a buon fine significherebbe bruciare in un sistema già di per sé costosissimo ed inquinante (pagato dalle bollette dei cittadini) risorse che rappresentano una ricchezza economica in grado di connettere rispetto ambientale e promozione di impresa locale e posti di lavoro.

L’altro effetto collaterale di tale “incursione piratesca” sarebbe quello di trasformare in carta straccia i Piani regionali, con una deregulation incontrollabile dei conferimenti da fuori Regione. Il paradosso sarebbe quello di Regioni che puntano sulle buone pratiche (e per fortuna ce ne sono) e che già fanno registrare obiettivi superiori al 60%-70% di RD (e che magari prevedono obiettivi superiori al 70-75% oltre a piani di prevenzione dei rifiuti) costrette ad accogliere rifiuti da tutta Italia, magari da Regioni arretrate e impermeabili alle buone pratiche.

Non parliamo poi dei cittadini: da un lato impegnatissimi a ridurre e riciclare i loro scarti e dall’altro costretti a subire l’inquinamento di chi ancora questo sforzo non lo sta facendo. Altro che Sblocca Italia! Oggi occorre uno Sblocca Cervelli, che chiuda con questo ennesimo regalo alle multiutilities e con l’incenerimento, per marciare verso un ciclo economico basato sul contrasto a tutti gli sprechi e sull’efficienza (basta con l’industria sporca ed assistita!).

Per questo un ampio cartello di forze locali e regionali con il pieno sostegno di Zero Waste Italy ha promosso per il 7-8-9 settembre mobilitazioni territoriali da svolgersi preferibilmente di fronte ai palazzi regionali, in modo da chiedere agli Enti Regioni di non firmare questo atto di prepotenza avvelenato ed autoritario (si brucerebbe non solo la democrazia dei territori ma anche quella delle autonomie locali).

Nei prossimi giorni forniremo maggiori dettagli ma già da ora è disponibile un documento di “Osservazioni” curato da Enzo Favoino, coordinatore scientifico di Zero Waste Europe e di Zero Waste Italy, da divulgare al massimo ed altri strumenti (bozze di comunicati stampa e brochure) da utilizzare da parte dei gruppi che aderiranno a questa mobilitazione.

Inceneritori Zero, Rifiuti Zero, Riciclo Totale dei Materiali: indietro non si torna!

Rossano Ercolini, presidente di Zero Waste Europe e di Zero Waste Italy

FONTE http://www.zerowasteitaly.org/7-8-9-sette

Un artista trasforma (temporaneamente) una chiesa cattolica in una moschea islamica: provocazione utile per stimolare un ragionamento serio e utile sul riuso del patrimonio inutilizzato. La Repubblica, 12 maggio 2015

RASFORMANDO in moschea — sia pure solo per il tempo della Biennale — una chiesa di Venezia inaccessibile dal 1969, l’artista svizzero Christoph Büchel ha fatto tre volte centro.

Di fronte alle opere esposte in Biennale la domanda rituale è: «Perché è arte?». Se ci spostiamo dallo scivoloso piano della definizione a quello della funzione, possiamo rispondere che la metamorfosi di Santa Maria della Misericordia è arte perché ci obbliga a pensare. Tutto fa tranne che intrattenerci, o distrarci: ci ricorda che, per millenni, l’arte è stata un potente strumento per cambiare il mondo, non un irrilevante altrove di comodo in cui fuggire. Ci dice ancora, Büchel, a cosa può servire il nostro patrimonio artistico: non è vero che le uniche alternative siano la chiusura, o la messa a reddito commerciale. Una chiesa antica che non diventa resort a 5 stelle, ma una moschea, rende chiaro il nesso fortissimo, e quasi sempre eluso, tra cultura ed eguaglianza, tra articolo 9 e articolo 3 della Costituzione.

Perché - e questo è il terzo, e più importante, successo - l’opera è tutta giocata sul corto circuito tra finzione e verità, nella più alta tradizione dell’arte occidentale. Nella “moschea” pregano veri fedeli, guidati da veri imam: il che ha comprensibilmente turbato una parte dei veneziani. Più curiosamente, il Comune di Venezia ha provato a fermare il libero gioco dell’arte con la carta moschicida della burocrazia: ieri ha chiesto di avere, entro il termine perentorio del 20, i documenti che dimostrano che la chiesa è stata sconsacrata, e ha surrealmente imposto che la chiesa ospiti un luogo di culto solo “per finta” (e che, dunque, non si sia per esempio obbligati a togliersi le scarpe).

Ma la questione sollevata da Büchel va esattamente nella direzione opposta: perché non offriamo alle comunità islamiche, cui non abbiamo permesso di avere un dignitoso luogo di culto, alcune chiese storiche che non usiamo più?

Un simile passo si collegherebbe a una storia lunga e terribile, cambiandone il segno. Conquiste e riconquiste hanno mutato molte chiese in moschee, e viceversa: il Partenone di Atene è stato consacrato alla Vergine cristiana, per poi essere islamizzato. Il Duomo di Siracusa è passato da tempio di Atena a chiesa della Madonna, a moschea: e quindi ancora a chiesa. Così è successo alla cattedrale di Cordova, prima chiesa, poi Grande Moschea poi definitivamente chiesa: ma nel 2007 i musulmani spagnoli hanno chiesto di poter tornarci a pregare. Non mancano esempi di (almeno temporanea) convivenza: la Grande Moschea degli Ommayadi, a Damasco è un tempio costruito dagli Amorrei intorno al 2500 circa a. C., rinnovato dai romani, trasformato in santuario cristiano da Teodosio alla fine del IV secolo, e poi in moschea dopo la conquista araba del 661: quando musulmani e cristiani poterono pregare, fianco a fianco, intorno alla testa del Battista.

Oggi sono l’immigrazione musulmana in Europa e la contrazione del numero di cristiani praticanti a far sì che la più grande moschea di Dublino sia un’ex chiesa presbiteriana, e che simili trasformazioni si contino a migliaia in Inghilterra (dove dal 1960 ad oggi sono chiuse 10mila chiese), a centinaia in Olanda, a decine in Francia. Da noi l’opera veneziana fa rumore perché c’è un solo caso: quello della chiesa storica di San Paolino, nel centro di Palermo, donata nel 1990 alla comunità musulmana dal cardinale Pappalardo, e oggi moschea amministrata direttamente dal governo tunisino. Non poteva che venire da Palermo questo segno profetico di accoglienza: e sarebbe importante che un’altra città aperta all’Oriente, Venezia, facesse per sempre ciò che l’opera di Büchel fa per qualche giorno. Una chiesa che diventa moschea, per amore e non per forza, in una città chiave dell’identità culturale europea: la migliore risposta a ogni intolleranza.

Qualche anno fa mi capitò di proporre che una chiesa storica del centro di Firenze diventasse moschea: perché è profondamente incivile che i compagni di scuola dei nostri figli non abbiano nemmeno un luogo di culto, in una città che trasforma le chiese antiche in sedi espositive, o location per sfilate. Il sindaco di allora — si chiamava Matteo Renzi — rispose che «era una bella sfida»: ma niente si è fatto, e anche l’ultimo piano urbanistico non prevede spazi per la moschea.

E quando la politica non raccoglie le vere sfide, la parola torna all’arte: capace di vedere più lontano, di costruire più futuro. Di svegliare, prima o poi, la politica stessa.

«Appalti. Nasce la "coalizione sociale" Cgil-Cisl-Uil, Libera e Legambiente, con tanto di richieste al neo ministro: «Legalità e contratti». Separare controllante e controllato. Aumentare i poteri dell’Anac, agenzia guidata da Cantone. Incentivare chi rispetta i diritti del lavoro e stop al massimo ribasso». Il manifesto, 4 aprile 2015

l primo giorno del neo mini­stro delle Infra­strut­ture Gra­ziano Del­rio è finito sui social per il suo giro in bici­cletta con­tro­mano: l’ex sot­to­se­gre­ta­rio è arri­vato alla sua nuova sede, a Porta Pia, su una due ruote, si è autot­wit­tato per salu­tare i fan, ma poi uscendo ha imboc­cato un bel senso vie­tato. E pazienza se il suo pre­de­ces­sore, Mau­ri­zio Lupi, qual­che tempo fa aveva detto no a tanti comuni che — iro­nia della sorte — chie­de­vano pro­prio l’autorizzazione a vio­lare il con­tro senso per i soli ciclisti.

Aned­doti a parte, essendo stato chia­mato dal pre­mier Mat­teo Renzi a “mora­liz­zare” il mini­stero dopo gli ultimi scan­dali, Del­rio potrebbe deci­dere di con­fron­tarsi con una nuova “coa­li­zione sociale”, nata giu­sto sul tema degli appalti: non l’ha lan­ciata Mau­ri­zio Lan­dini, ma anche lui in qual­che modo ne fa parte. Stiamo par­lando dell’arco di sin­da­cati e asso­cia­zioni — Cgil, Cisl, Uil, Libera e Legam­biente — che qual­che giorno fa ha pre­sen­tato un Deca­logo per una riforma degli appalti pub­blici: regole per far sì che siano tra­spa­renti, pie­na­mente legali, rispet­tosi dell’ambiente, dei con­tratti e della sicu­rezza sul lavoro.

D’altronde una decina di giorni fa, anche il governo ci aveva messo del suo: il mini­stero dell’Economia aveva siglato una sorta di pro­to­collo con l’Anac (l’agenzia anti­cor­ru­zione diretta da Raf­faele Can­tone), volto a boni­fi­care gli appalti. Si rischia il cata­logo delle buone inten­zioni, certo, men­tre magari le maz­zette e le irre­go­la­rità con­ti­nuano a fio­rire indi­stur­bate, ma intanto dalla Cgil spie­gano che non solo fare cul­tura su que­sto tema può essere utile per rifor­mare le leggi e i com­por­ta­menti, ma che sem­pre più spesso — è già acca­duto in diversi ter­ri­tori — si rie­scono a fir­mare accordi con le isti­tu­zioni locali per miglio­rare con­cre­ta­mente la gestione delle opere pubbliche.

Basta dero­ghe per urgenza

Il primo arti­colo del Deca­logo chiede di «ren­dere più effi­cace il qua­dro nor­ma­tivo»: tra i punti più inte­res­santi c’è la richie­sta di snel­lire il codice dei con­tratti per evi­tare il ricorso alle dero­ghe per urgenza; asse­gnare gli appalti sem­pre con gare di evi­denza pub­blica; ridurre il numero dei cen­tri decisionali.

Il secondo arti­colo chiede di «asse­gnare appalti, ser­vizi e con­ces­sioni pub­bli­che solo attra­verso gare stan­dar­diz­zate»: e cioè abo­lire la trat­ta­tiva pri­vata; stan­dar­diz­zare e sem­pli­fi­care con­tratti del mede­simo genere, pre­ve­dendo l’indicazione in fase di gara del con­tratto appli­cato per pro­filo mer­ceo­lo­gico pre­va­lente, con il soste­gno dell’Autorità nazio­nale anti­cor­ru­zione e l’utilizzo del docu­mento di gara unico euro­peo; atti­vare con­corsi per tutte le opere pubbliche.

Il terzo arti­colo del deca­logo della spe­ciale “coa­li­zione sociale” sugli appalti chiede di «raf­for­zare i corpi tec­nici dello Stato per eli­mi­nare il ricorso a pro­fes­sio­ni­sti esterni inpro­get­ta­zione e dire­zione lavori»: per­ciò, tra le altre cose, abo­lire l’istituto del gene­ral con­trac­tor», pre­ve­dere subap­palti con­trol­lati, per cui la parte che va in subap­palto debba essere dichia­rata in sede di gara; sta­bi­lire il divieto di attri­bu­zione del subap­palto a imprese che hanno par­te­ci­pato alla gara.

Pre­miare chi è in «white list»

Il quarto arti­colo chiede di «affi­dare i lavori solo sulla base di pro­get­ta­zione ese­cu­tiva», e di avviare gli appalti solo a fronte di coper­ture certe. Al quinto punto, si chiede di «imple­men­tare e miglio­rare il sistema delle white list», e cioè: pre­miare nelle gare le imprese che non siano coin­volte in vicende di cor­ru­zione e di mafia; ren­dere obbli­ga­to­rio, per le cate­go­rie di lavori sen­si­bili, l’iscrizione alle white list; pre­fe­rire le imprese che hanno buoni e cer­ti­fi­cati risul­tati in pre­ce­denti atti­vità con­trat­tuali, con­trol­lando cer­ti­fi­ca­zioni fiscali e contributive.

Dal sesto punto in poi si chiede il miglio­ra­mento dei sistemi di con­trollo: «ampliare i poteri di inter­vento, vigi­lanza e san­zione dell’Anac». Set­timo arti­colo: «Ren­dere effi­cace il con­trollo tec­nico per ogni appalto», ad esem­pio sce­gliendo «col­lau­da­tori indi­pen­denti sulla base di cri­teri defi­niti dall’Anac e solo alla fine dei lavori, per evi­tare con­flitti di interesse».

Il punto otto evi­den­zia l’importanza dell’informazione: «adot­tare il Free­dom Of Infor­ma­tion Act anche in Ita­lia», «intro­durre il Debat Public per le opere pubbliche».

Il punto nove è per l’ambiente: «Valu­ta­zione di impatto ambien­tale sul pro­getto pre­li­mi­nare, con veri­fi­che nelle fasi suc­ces­sive»; «Uti­lizzo di mate­riali pro­ve­nienti dal recu­pero nei capi­to­lati di appalto». Il dieci, infine, chiede di «tute­lare i lavo­ra­tori»: «con­tra­stare la pra­tica del mas­simo ribasso; rein­tro­durre il rispetto della clau­sola sociale vin­co­lante nei campi di appalto; esclu­dere le imprese che abbiano vio­lato gli obbli­ghi con­trat­tuali verso i lavo­ra­tori; ren­dere obbli­ga­to­rio il paga­mento diretto del subap­pal­tante da parte della sta­zione appal­tante e, in caso d’inadempienza dell’impresa appal­ta­trice, il paga­mento diretto dei lavo­ra­tori da parte della sta­zione appaltante».

La stessa Cgil ha lan­ciato la rac­colta firma per una sua pro­po­sta di legge sugli appalti: con­tro il mas­simo ribasso, per la tra­spa­renza e lega­lità e per la clau­sola sociale.

Il debutto alle Infrastrutture: “Cambiare il codice degli appalti”. E si tiene la struttura di missione. Un buon inizio. Ma per farci credere che sia vero non dovrebbe rimangiarsi lo Sblocca Italia e cancellare la "Legge obiettivo". Altrimenti è ennesimo tweet. La Repubblica, 3 aprile 2015

ROMA . Parte in bici da Palazzo Chigi, ormai suo ex luogo di lavoro, dove ha appena incontrato Matteo Renzi per decidere le prime mosse da ministro delle Infrastrutture. Grazie alla pedalata assistita Graziano Delrio - come documentano le foto che lui stesso posta su Twitter - sale facilmente fino a Porta Pia, dove per la prima volta entra al suo ministero. Ci resterà tutto il giorno impegnato a prendere contatto con i dossier più urgenti, per poi allontanarsi sempre in bici, portata fuori dal portone da un ufficiale e da un commesso, imboccando un pezzo di Nomentana contromano.
Già al primo giorno da ministro Delrio - successore di Lupi, costretto a lasciare per lo scandalo Incalza-Grandi Opere - cerca di lasciare il segno.

Ai cronisti che lo aspettano a Porta Pia assicura di avere parlato con il capo dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone, che incontrerà mercoledì prossimo: «Lavoreremo a strettissimo contatto su Expo, Mose e su tutte le grandi opere italiane».
La filosofia è che «i soldi pubblici valgono come quelli privati, anzi di più». Dunque lavoreremo «in modo trasparente, con decisioni condivise e con pazienza metteremo a posto tutto, come si fa con le cose di casa: si portano a termine i lavori controllando che la spesa finale corrisponda ai preventivi».
A metà giornata al ministero arrivano la moglie di Delrio con tre dei nove figli.
Le prime novità gestionali del delicato ministero il braccio destro di Renzi le ha già decise. Non solo la struttura tecnica di missione, quella che il premier voleva togliere a Lupi per portarla a Palazzo Chigi, resterà a Porta Pia. Dove arriveranno anche la missione della scuola e quella del dissesto idrogeologico che Delrio gestiva da sottosegretario alla Presidenza. Renzi, spiega il neo ministro, «vuole un unico coordinamento dei lavori pubblici». Delrio porta con sé anche l’expertise sui fondi europei con l’obiettivo di non sprecare nemmeno un centesimo di quelli legati alle infrastrutture. E da martedì il primo dossier sul quale si concentrerà sarà proprio relativo all’Europa, la selezione dei progetti italiani che possano entrare nel piano straordinario per gli investimenti da 315 miliardi del presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker.

Il settore più delicato dopo lo scandalo Incalza è quello delle Grandi opere. Delrio è intenzionato a confermare quanto deciso da Lupi, che come spiega un allegato al Def in via di gestazione aveva deciso di tagliarle da 419 a 49. E non si esclude che il nuovo ministro opti per una riduzione ancora più drastica secondo il motto che ripete ai collaboratori: «Meno tangenziali più depuratori». Ovvero, «servono solo opere utili e non è detto che tutte le Grandi opere lo siano». Molta attenzione andrà poi alle richieste dei sindaci, non a caso Delrio è stato a lungo primo cittadino di Reggio Emilia, alla manutenzione e alle piccole opere sparse sul territorio per garantire sicurezza ai cittadini.
Sul piano organizzativo il neo ministro si è reso conto che, al contrario di quanto fatto a Chigi, non potrà stravolgere il ministero, considerato piuttosto rigido. Resta da scegliere comunque il successore di Incalza, con Delrio che dopo avere pronunciato un battuta («per fortuna che non c’è più») ha iniziato a vagliare i vari profili con il suo staff. In serata l’intervista al Tg1 che non può mancare nel giorno del debutto ministeriale. Con due indicazioni sul programma: «La legge obiettivo - afferma - va profondamente riformata, ha dei meccanismi che non ci piacciono. Anche il codice degli appalti va modificato, dobbiamo adeguarci agli altri paesi».
Una notizia agghiacciante. Il rimedio peggio del male. Comunque ci siamo abituati. La stessa politica del territorio, ma in più a Napoli di direbbe: "a pazziella 'mmano a' creatura". La Repubblica, 23 marzo 2015

Roma. Renzi farà davvero il ministro delle Infrastrutture. L’interim sarà breve e non arriverà certo fino alle regionali (31 maggio). Ma non brevissimo. Il premier ha tutta l’intenzione di usare qualche settimana per modificare nel profondo l’assetto del dicastero di Porta Pia. È l’occasione per impegnarsi in quella che lui chiama «la lotta agli inamovibili che fanno blocco », intendendo i burocrati dei gabinetti e degli uffici legislativi. Di loro parlerà oggi alla School of Government della Luiss in una conferenza sul “dovere di decidere”. «Difenderò la centralità della decisione contro i ritardi e gli scaricabarile», racconta ai collaboratori che lo hanno sentito ieri.

Il periodo alle Infrastrutture servirà dunque ad applicare uno spoil system che attraverserà sicuramente i tecnici del ministero e potrebbe arrivare fino alla squadra di sottosegretari e viceministri. Solo dopo questo lavoro si giungerà alla scelta del nuovo titolare. Renzi continua a ripetere che l’identikit è un passo successivo, anche se alla fine sarà un politico e non un tecnico «perché questo governo vuole mantenere la coerenza del messaggio di un ritorno alla responsabilità della politica». Ma prima, come dicono a Palazzo Chigi, «si metterà un po’ d’ordine al ministero» per consentire alla «macchina di correre».

Renzi considera le Infrastrutture molto più di «un ministero. Dallo sblocco dei cantieri passa un pezzo decisivo della ripresa in Italia», dice in queste ore. «I fondi europei, il piano dei porti, i lavori autostradali, i soldi per l’edilizia, la sicurezza delle strade, la banda larga è compito del ministero delle Infrastrutture». Competenze molto ampie e fondamentali per evitare che «la crescita sia microscopica ». Renzi ai suoi collaboratori ripete che «le condizioni macroeconomiche faticosamente costruite in Europa adesso ci sono e nascono dal cambio di clima dovuto anche al risultato delle Europee. Se il Pd non avesse preso il 41 per cento saremmo ancora a discutere di austerity, debito e privatizzazioni ». Dunque, il Jobs Act e gli incentivi, le altre riforme sono indispensabili per la credibilità sui mercati e nella Ue. «Ma occorre stimolare gli investimenti pubblici e privati», dice il premier. E dalle Infrastrutture deve partire l’iniziativa maggiore.

Il dopo Lupi si conferma però difficile per gli strascichi che lascia nel Nuovo centro destra e per le polemiche sugli indagati che rimangono saldamente al loro posto nell’esecutivo, oltre che per la corsa di Vincenzo De Luca in Campania. Il Movimento 5stelle non vuole mollare l’osso. Aveva presentato la mozione di sfiducia contro il ministro dimissionario. Adesso invece usa l’arma del blog di Beppe Grillo. «Ogni scarrafone è bello a mamma sua - scrive il comico - e gli scarrafoni piddini per l’ebetino sono molto più scarrafoni di Lupi che si è dimesso per un Rolex al figlio e un biglietto aereo alla moglie (meglio un aereo di Stato per la moglie?).

Ma se a ogni pioggia l’Italia frana, se i cittadini muoiono, se le strade sono devastate, se il welfare è scomparso, è anche colpa loro». La conclusione è ancora più violenta: «Gli scarrafoni del Pd rimangono al loro posto. Del resto il loro partito è una fogna, quale posto migliore?». Sul doppiopesismo attaccano anche il Mattinale, la nota che fa capo a Renato Brunetta, e Daniela Santanchè, ossia Forza Italia. «Con l’intervista a Repubblica Renzi ha inaugurato la stagione della giustizia fai da te: i sottosegretari del suo governo che sono indagati ai suoi occhi sono una casta intoccabile, come se per loro la morale, l’etica e la legalità non esistessero», dice la Santanchè. La nota di Brunetta, Il Mattinale, considera le dichiarazione di Renzi «uno stupefacente documento contemporaneo di faccia tosta».

Ecco perché vogliono a tutti i costi realizzare grandi opere spesso dannose, sempre costose e mai prioritarie. Sono la base procedurale e materiale di un "articolato sistema corruttivo che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori". Il Fatto quotidiano, 16 marzo 2015
Ercole Incalza, storico dirigente del ministero dei Lavori pubblici, è stato arrestato su richiesta della procura di Firenze. Quattro persone sono finite in carcere mentre sono in corso oltre 100 perquisizioni: oltre a Incalza, l’imprenditore Stefano Perotti, il presidente di Centostazioni spa (Gruppo Fs) Francesco Cavallo e Sandro Pacella, collaboratore di Incalza. L’operazione è condotta dai carabinieri del Ros. Nel mirino la gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere. Agli indagati, a quanto si apprende una cinquantina, compresi alcuni politici, vengono contestati i reati di corruzione, induzione indebita, turbata libertà degli incanti ed altri delitti contro la Pubblica amministrazione. L eperquisizioni hanno toccato gli uffici di diverse società, tra cui Rfi (Rete Ferroviaria Italiana, controllata da Ferrovie dello Stato) e Anas international Enterprise. In primo piano nell’indagine, i rapporti tra Incalza e l’imprenditore Perotti, a cui sarebbero state affidate nel tempo la progettazione e la direzione dei lavori di diverse grandi opere in ambito autostradale e ferroviario, dietro compenso.

Incalza è stato un superburocrate delle Infrastrutture. Esordì nel 2001 come capo della segreteria tecnica di Pietro Lunardi nel secondo governo Berlusconi, poi nei 14 anni successivi ha “servito” Antonio Di Pietro (governo Prodi). Fu quindi Altero Matteoli (ancora con Berlusconi) a promuoverlo capo struttura di missione, con la successiva conferma di Corrado Passera (Monti), Lupi (governo Letta) e di nuovi Lupi (governo Renzi). Poi l’addio in sordina nel gennaio scorso, mantenendo comunque un ruolo di superconsulente. Nella sua trentennale carriera, Incalza è stato indagato ben 14 volte, uscendone però sempre indenne. Il suo nome ricorre nelle carte delle principali inchieste sulla corruzione nelle grandi opere, da Mose a Expo passando per la “cricca” di Anemone e Balducci. Cosa che non ha fermato la sua carriera in seno al ministero oggi delle Infrastrutture.

Tutte le principali Grandi opere – in particolare gli appalti relativi alla Tav ed anche alcuni riguardanti l’Expo, ma non solo – sarebbero state oggetto dell’”articolato sistema corruttivo che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori”. Le indagini sono coordinate dalla procura di Firenze, perché – sempre secondo quanto è stato possibile apprendere – tutto è partito dagli appalti per l’Alta velocità nel nodo fiorentino e per il sotto-attraversamento della città. Da lì l’inchiesta si è allargata a tutte le più importanti tratte dell’Alta velocità del centro-nord Italia e a una lunga serie di appalti relativi ad altri Grandi Opere, compresi alcuni relativi all’Expo.

«Bellezza, affari, arte, corruzione. Splendori e miserie dell’Italia minore, spiegata ai tedeschi. Un articolo scritto per l’edizione tedesca di Le Monde Diplomatique». Sbilanciamoci.info, newsletter n. 400, 12 marzo 2015

Urbino con i suoi 15.000 abitanti appartiene alle “cento città” del centro Italia che ancora oggi formano un tessuto unico nella cultura urbano-paesaggistica del paese. Bologna è la grande città più vicina che dista all’incirca tre ore (con i trasporti pubblici). Siamo in una profonda provincia quindi, ma in una provincia dall’altissimo livello culturale. Dal mio giardino riesco ad ammirare una delle più belle opere del Rinascimento, il Palazzo Ducale. Oggi il centro storico della città, dove anticamente il palazzo era il fulcro della vita cittadina, viene affittato a turisti e studenti universitari. Chi passeggia nelle vecchie stradine può rendersi conto della mancanza di bambini. Passerà sotto un potente platano piantato nel 1799 sotto il quale si trova un asilo infantile gestito da una cooperativa.

I servizi pubblici in Italia, ammesso che siano ancora considerati tali, sono in misura sempre maggiore privatizzati o affidati a cooperative sociali. In entrambi i casi si cerca di abbattere i costi ricorrendo a forme di lavoro precario di giovani e meno giovani. Le tanto elogiate riforme del mercato del lavoro volute dall’Unione Europea negli ultimi dieci anni hanno moltiplicato le forme di contratti precari così che ad occuparsi di bambini, malati, libri, musei, profughi e spazi verdi sono sempre più persone malpagate e in continuo ricambio. Tra questi troviamo sia eroici idealisti che molti ignoranti. Il loro lavoro precario provoca un nuovo tipo di alienazione e assomiglia a una tragicomica parodia di quello che Marx definiva il sogno di un’umanità dalle numerose e versatili capacità.

Solo pochi attenti osservatori hanno colto la relazione tra riforme del mercato del lavoro, politiche di austerità, concorrenza al ribasso nelle gare d’appalto pubbliche, impiego sempre maggiore del lavoro precario e degenerazione dell’apparato pubblico. Negli ultimi dieci anni si è assistito a un progressivo peggioramento dei servizi pubblici che nel frattempo sono diventati sensibilmente più costosi. “Mafia capitale”, il recente scandalo sulla corruzione a Roma, ha messo in luce un sistema in cui la gestione di vari servizi del sociale, in primis l’accoglienza degli immigrati, è stata trasformata in una gigantesca macchina per fare soldi e in un oliato meccanismo di corruzione e spartizione di potere. Per questo caso la procura di Roma ha richiesto perfino l’applicazione del reato di associazione mafiosa. Il ricorso all’utilizzo di tale strumento di accusa avrebbe il compito di facilitare il lavoro dei magistrati, ma dal punto di vista giuridico questa interpretazione resta molto discutibile. In maniera analoga, la magistratura di Torino aveva proposto l’applicazione del reato di terrorismo contro i leader delle proteste contro la costruzione della ferrovia ad alta velocità Torino-Lione. In questo modo gli accusati, per lo più giovani, avrebbero rischiato fino a 10 anni di prigione, ma per fortuna il tribunale si è opposto a questa strategia repressiva.

Sono le “grandi opere”, spesso inutili, antidemocratiche e perfino antieconomiche, che in Italia come in altri paesi rappresentano la vacca sacra delle politiche di crescita nazionali. Alle grandi opere crede la sinistra italiana ormai più della destra. Anche ad Urbino dove l’amministrazione locale è stata guidata da una giunta di sinistra per più di cinquant’anni.

La costruzione di una strada a scorrimento veloce che ha permesso l’accesso più rapido alla città ha richiesto l’apertura di una costosissima galleria. Una soluzione alternativa sarebbe stata l’ampliamento della strada già esistente alla quale in ogni caso la galleria si ricongiunge prima di arrivare in città. Questo pezzo finale di strada è rimasto nelle stesse condizioni ormai da dieci anni, tanto che una parte di strada è franata durante una delle abbondanti piogge degli ultimi anni. In questo modo, da mesi, gli automobilisti si trovano incolonnati per un cantiere fermo per mancanza di fondi e perdono così quello stesso tempo che hanno risparmiato con la galleria.

Un gioiello di Urbino, l’Oratorio di San Giovanni, doveva essere protetto dalla pressione dell’acqua che scende dalla collina adiacente. L’impresa che ha vinto l’appalto abbassando i prezzi è finita poco dopo in bancarotta lasciando sul posto un enorme cantiere. A ridosso delle mura della città sorgono ora due grandi centri commerciali. Per costruire uno di questi – parcheggio coperto con annesso supermercato e stazione dei bus – è stata letteralmente tagliata una delle colline sulle quali sorge la città per poi essere ricoperta da una colata di cemento nascosta da qualche albero. Per costruire il parcheggio sono stati bloccati numerosi canali d’acqua sotterranei che attraversano la collina, i quali con tutta probabilità si faranno rivedere con il prossimo smottamento del terreno.

Da circa una decina di anni ogni grande pioggia in Italia causa una vera e propria catastrofe. Nel cedimento fisico del territorio si rispecchia la decadenza morale del paese. La distruzione del territorio prosegue con gli scandali del Mose di Venezia, dell’alta velocità Torino-Lione, dell’Expo di Milano, della costruzione della nuova metro C a Roma (scandalo probabilmente più grande di quello “Mafia capitale”), tutti alimentati dal recente decreto “Sblocca Italia” del governo Renzi per il rilancio delle politiche di crescita. Dato che l’Italia non ha un apparato in grado di amministrare responsabilmente le grandi opere pubbliche, Renzi ha deciso di semplificare i processi decisionali e i meccanismi di controllo.

Quando Pasolini visitava le favolose città dell’oriente era solito paragonarle con città italiane quali Venezia e Urbino. Quale ruolo possono avere questi luoghi del passato nel mondo contemporaneo? Questa domanda esistenziale non si pone soltanto nel caso delle città italiane. L’unica soluzione fino ad oggi trovata e più che mai applicata è quella di dare il passato in pasto al presente, cioè al turismo. Quasi in una forma di cannibalismo. Ovviamente ci sono delle sfumature e varianti. La strategia sviluppata ad es. a Urbino in questi ultimi mesi può suscitare qualche interesse.

Dopo le elezioni comunali dello scorso anno, la città ha chiamato come assessore alla cultura Vittorio Sgarbi e negli ultimi mesi sono state organizzate numerose iniziative come non si vedeva da tempo. L’attrazione principale è un ritratto di una giovane principessa della famiglia Sforza attribuito a Leonardo da Vinci. Il ritratto, disegnato su una pergamena, è stato esposto a Palazzo Ducale. L’opera, acquistata inizialmente nel 1998 per 22.000 dollari come lavoro di artista sconosciuto, aumenterebbe il suo valore esponenzialmente qualora venisse riconosciuta la paternità di Leonardo. Dopo aver offerto il Palazzo Ducale come cornice espositiva, Sgarbi è entrato decisamente nel dibattito sull’opera essendo assolutamente convinto che l’autore sia Leonardo.

Un’operazione come questa – giocata sul piano del mercato dell’arte e della visibilità mediatica – punta a proporre Urbino come uno dei “centri” del mondo contemporaneo. Con toni meno enfatici e più sincero anni fa Paolo Volponi, scrittore e poeta originario di Urbino, aveva constatato: “In ogni grande museo del mondo si possono trovare tracce di Urbino”. Sgarbi ha mobilitato questo prestigio di Urbino, la sua storia, i suoi miti e i suoi enigmi e porta nella piccola città una cultura degli “eventi” fino ad oggi estranea ad Urbino.

Il mercato dell'arte e l'uso delle esposizioni ai suoi fini è estremamente attraente per attività finanziarie speculative (e anche criminali). Gli “eventi” sono diventati un gioco pericoloso della politica culturale, gestito da una tipologia molto particolare di manager del quale Sgarbi è un chiarissimo esempio, con la sua geniale quanto patologica figura di esperto dei mercati dell’arte, di uomo dei talkshow, di avventuriero della politica e della vita pubblica dell’era Berlusconi. Uno scrittore come Balzac avrebbe trovato molta eccitante raccontare il personaggio.

Se Urbino ritroverà o meno il successo grazie a lui rimane da vedere. Quello che è certo è che ha portato un “vento nuovo” in una città dal fascino addormentato e i visitatori ne sono entusiasti. “Vento nuovo” e “rottamare” sono le parole preferite del governo Renzi, un aspetto che unisce la politica di Renzi a quella di Berlusconi, senza soluzione di continuità: il “nuovo” come valore in sè.

Retoriche di questo tipo tendono a nascondere molte altre esperienze che tengono in piedi l’Italia migliore. Una, piccolissima, non lontana da Urbino, viene dal piccolo comune di Sant’Ippolito (1500 abitanti) che a dispetto di tutte le misure di austerità continua a permettersi una biblioteca locale. In uno degli incontri della biblioteca il priore di Fonte Avellana, monastero nascosto in mezzo all’Appennino, ha commentato il discorso che Papa Francesco il 28 ottobre scorso ha tenuto ai rappresentanti dei movimenti sociali di tutto il mondo. La discussione ha riguardato il tema della credibilità delle parole e si concentrava in particolare su due frasi pronunciate dal Papa. La prima è un monito: “È curioso come nel mondo delle ingiustizie abbondino gli eufemismi… Potrei sbagliarmi in qualche caso, ma in generale dietro un eufemismo c’è un delitto”. La seconda era rivolta al suo pubblico di attivisti: “Voi avete i piedi nel fango e le mani nella carne. Odorate di quartiere, di popolo, di lotta”. Una vera politica culturale, indivisibile dalla politica sociale, non significa altro che ridare credibilità alle parole e alle immagini.

«Non è la prima volta che gli amministratori della Val di Susa invitano gli altri comuni d’Italia a sfilare al loro fianco. Ma oggi la valle che resiste chiede agli extravalligiani di andare oltre la semplice condivisione di uno striscione in un corteo. Chiede atti veri, chiede UGO! l’Unica Grande Opera». Il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2015

Se vi capita di partecipare ad un’assemblea di uno qualsiasi delle migliaia di comitati in difesa del territorio che esistono ad ogni latitudine del nostro paese, ad un certo punto dell’incontro sentirete sicuramente qualcuno degli attivisti pronunciare la frase: “Dobbiamo fare come in Val di Susa!”. Chi si oppone alla cementificazione, chi resiste a una grande opera, chi protesta per difendere il paesaggio, negli ultimi anni ha quasi sempre fatto riferimento, in piccola o in grande parte, al movimento che in Val di Susa ha lottato e lotta contro il TAV. Dall’altra parte della barricata, il partito dei politici, degli immobiliaristi e dei lobbisti delle grandi opere, hanno sempre accusato i movimenti ambientalisti di essere soltanto “quelli del no”, di non avanzare proposte, di saper fare solo proteste. Sabato 21 febbraio 2015, si è svolta a Torino l’ennesima manifestazione Notav.

Questa volta però non è stata la solita manifestazione. Il serpentone non ha solo manifestato solidarietà ai 48 militanti Notav che sono stati condannati ad oltre 140 anni di carcere (130 anni in più degli autori della strage del Vajont) e al risarcimento di 131.140 euro. Non c’erano solo i cartelli “Je suis Erri!”. Accanto all’indignazione per l’aggressione al territorio della Valle lunga e stretta già abbondantemente sventrata c’era un pezzo in più. C’era la risposta a chi dice che chi si oppone non è propositivo. C’erano tante belle delibere di Consiglio Comunale. Delibere piene zeppe di proposte concrete per uscire dalla crisi. Proposte per curare il paese e creare veri e duraturi posti di lavoro. Delibere che invitano il Governo ad azioni responsabili.
Non è la prima volta che gli amministratori della Val di Susa invitano gli altri comuni d’Italia a sfilare al loro fianco. Ma oggi la valle che resiste chiede agli extravalligiani di andare oltre la semplice condivisione di uno striscione in un corteo. Chiede atti veri, chiede UGO! Chi è UGO? Non è il nome del figlio immaginario del caro Massimo Troisi. UGO è l’Unica Grande Opera di cui il paese ha una necessaria e improcrastinabile esigenza: la messa in sicurezza del suo fragile territorio. La delibera che chiede UGO è semplice. Prende le mosse dalla situazione di difficoltà e di precarietà finanziaria che tutti i comuni vivono quotidianamente da almeno vent’anni. Ma la proposta va anche oltre UGO. Perché con i soldi risparmiati se si rinunciasse definitivamente al TAV si potrebbero anche mettere in sicurezza tutte le scuole, si troverebbero le risorse per la sanità, per le bonifiche delle terre dei fuochi, per la giustizia, per i tanto reclamizzati processi rapidi e sicuri che dovrebbero incentivare maggiori investimenti dall'estero, per l'Università, per la ricerca e per la formazione, per la lotta all'evasione fiscale, per la manutenzione e il potenziamento dei 5.000 km di ferrovie per i pendolari che rappresentano il 90% degli utilizzatori dei treni.

Se lo chiedesse la maggioranza dei comuni d’Italia? Se UGO nascesse davvero? Sarebbe un’altra Italia.

Postilla
E se insieme chiedessimo ( e magari ottenessimo) l'eliminazione delle spese per le guerre della NATO? Forse le istituzioni potrebbero aiutare il risveglio del pacifismo in Italia

«Il degrado urbanistico dei comuni italiani è dovuto a leggi scellerate volute con accordo trasversale sia dal centro destra che dal centro sinistra». .Da un numero monografico della webzina di Attac, Granello di sabbia, 17 febbraio 2015

Dal mese di aprile 2014 Roma è sostanzialmente fallita. La capitale dello Stato italiano ha accumulato un debito insostenibile di 22 miliardi quantificati dalla relazione di lavoro iniziata nel 2008 del commissario governativo e presentata al Parlamento. Se ne sono accorti in pochissimi. La notizia era così grave che renderla pubblica avrebbe provocato un terremoto sui mercati finanziari e molti investitori avrebbero preferito abbandonare un paese che vede la sua capitale portare i libri contabili al tribunale fallimentare. Ma gli economisti liberisti, il cui credo domina il mondo, trovarono una soluzione geniale: trattare la capitale d’Italia come una qualsiasi azienda decotta. Come già sperimentato con l’Alitalia, l’obiettivo fu quello di creare una bad company in cui far confluire tutti i debiti ed una nuova società pulita da affidare agli amici del cuore (nel caso di Alitalia, ai capitani coraggiosi guidati da Roberto Colaninno). E così è stato anche per Roma. L’amico del cuore stavolta rispondeva al nome di Gianni Alemanno, da pochi mesi eletto sindaco. Inizialmente ebbe poteri speciali in materia di bilancio e poi nel 2011 gli fu affidata una nuova creatura istituzionale pronta per l’uso: la vecchia Roma se n’è andata in pensione portando con sé 22 miliardi di euro di deficit.

Il caso del debito di Roma non è un’eccezione. Alessandria nel 2011 è stato il primo capoluogo di provincia ad essere portato al fallimento. Napoli è in fase di pre-dissesto. Parma è stata lasciata dalle amministrazioni di centro destra e cento sinistra con 850 milioni di deficit. Reggio Calabria è fallita. La quasi totalità delle amministrazioni locali è indebitata. Nel luglio 2014 sono stati complessivamente 180 i comuni italiani in default. Le cause sono sempre quelle elencate: opere pubbliche insensate, espansioni urbanistiche e utilizzo del comparto delle società di erogazione dei servizi come finanziamento occulto per il famelico mondo della politica.

Questo disegno scellerato si è servito anche dell’urbanistica, o meglio della sua distruzione. Dal 1994, anno dell’uscita del paese dalla crisi provocata da Tangentopoli, si è assistito ad una serie ininterrotta di provvedimenti legislativi e di concrete politiche che hanno cancellato le regole di governo del territorio per sostenere il comparto delle costruzioni. Questa scelta è stata sostenuta da un espediente retorico di grande efficacia: lasciando libera la proprietà fondiaria di disegnare le città si sarebbe avuta una nuova fase della vita urbana senza il ristagno dell’economia provocato da un’urbanistica accusata di non cogliere le ragioni del mercato. Le città sono diventate uno dei tanti segmenti dell’economia. Ma esse non sono meri settori produttivi: sono i luoghi in cui si vive, si lavora, ci si incontra, in cui ci sono le scuole per i giovani e i servizi di assistenza per gli anziani.

Grazie alla disarticolazione della legislazione di tutela e alla cancellazione dell’urbanistica si è prodotta la più grande espansione edilizia dal periodo dell’immediato dopoguerra. Nel 2013 l’Ispra, Istituto superiore di studi per l’ambiente, ha confermato quanto una parte degli urbanisti e delle associazioni aveva denunciato in quegli anni. Afferma l’Ispra che a fronte di un consumo di suolo medio europeo del 3,2% sul totale della superficie, in Italia il valore è pari a 6,2%, poco più del doppio. A parità di popolazione insediata e di luoghi per la produzione industriale o terziaria, in Italia abbiamo cementificato il doppio dei paesi che hanno invece mantenuto il controllo del territorio. La cancellazione delle regole ha prodotto un’esplosione edificatoria gigantesca, una frammentazione edilizia cui la mano pubblica deve fornire comunque i servizi e garantire il soddisfacimento dei bisogni primari, dalla mobilità, all’istruzione e all’assistenza sanitaria. Roma e tutte le città italiane pagano con un indebitamento crescente le politiche urbane che hanno dominato l’Italia per venti anni.

La diffusione urbana è così evidente da essere notata anche da un autorevole membro del neoliberismo. Nel giugno 2014 Carlo Cottarelli, chiamato dall’ottobre 2013 (governo Letta) quale commissario alla Spending Review, dopo anni di attività nel Fondo monetario internazionale, scopre dall’esame delle immagini satellitari notturne che la struttura territoriale italiana presenta anomalie rispetto all’Europa del nord poiché è più frammentata e dispersa, ulteriore conferma che abbiamo costruito troppo. La soluzione proposta da Cottarelli è coerente con i dettami del liberismo. Non chiede infatti di fermare la folle macchina del cemento. Afferma che il rimedio è quello di spegnere l’illuminazione pubblica in modo da spendere di meno.

Abbiamo il doppio dell’urbanizzato e conseguentemente spendiamo il doppio per far funzionare le città. I comuni italiani sono stati infatti costretti a inflazionare il cemento e l’asfalto perché così ha deciso l’economia dominante. Il principale responsabile di questo disastro è senza dubbio Franco Bassanini (Pd), Ministro della Funzione pubblica (2001, governo Amato), che in quel ruolo decise che gli oneri di urbanizzazione che i costruttori versano ai comuni per costruire servizi, potevano essere utilizzati anche per la spesa corrente e tutti le amministrazioni locali hanno fatto ricorso a quel cespite di finanziamento. Del resto, sono stati praticati da anni tagli lineari dei trasferimenti statali che hanno portato all’attuale generalizzata bancarotta. Per capire l’ammontare della manovra, basti dire che nei sei anni dal 2008 al 2013 sono stati tagliati 17 miliardi di euro, oltre 2 miliardi e mezzo all’anno.

Il degrado urbanistico dei comuni italiani è dovuto a leggi scellerate volute con accordo trasversale sia dal centro destra che dal centro sinistra. Domina però tutto il quadro la figura di Franco Bassanini, come abbiamo visto. Ed è forse per il grande merito di aver distrutto le amministrazioni locali che – ancora con accordo bipartisan – nel dicembre del 2008 fu nominato dal governo Berlusconi a capo della Cassa Depositi e Prestiti. E questa è una vicenda nota ai lettori della rivista perché Attac e Marco Bersani ne hanno fatto una meritoria battaglia.

Articolo tratto dal granello di sabbia di gennaio/febbraio 2015 "Enti locali: cronaca di una morte annunciata", scaricabile qui

«ll disegno originario, approvato dalla precedente amministrazione (sempre Pd), prevedeva la realizzazione di un polo residenziale nuovo di zecca, in un'area vasta quanto 35 campi da calcio. Il sindaco anti-cemento Isabella Conti: “Non temiamo più nulla. Abbiamo agito legittimamente"». Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2015

Addio alla nuova cittadella di San Lazzaro, al centro del caso delle presunte minacce al sindaco Pd anti-cemento Isabella Conti. Giovedì 12 febbraio il consiglio comunale ha votato all’unanimità a favore della decadenza del Piano operativo comunale, così come già deliberato dalla giunta. Quindi niente ruspe, per ora, nel cuore verde della città emiliana, 30mila abitanti alle porte di Bologna. La mossa comporta infatti l’annullamento dei diritti edificatori sull’area della frazione agricola di Idice, individuata per la costruzione di 582 alloggi. E costringe le cooperative a rinunciare al progetto come era stato pensato negli anni scorsi, e insieme a un affare d’oro.

«Abbiamo il dovere morale di farlo pensando al futuro e a ciò che lasceremo dietro di noi», ha detto il sindaco nel discorso prima del voto. «Non stiamo facendo nulla di diverso da quello promesso incampagna elettorale. Sempre nella tutela dell’interesse pubblico e tenendo la legalità come stella polare». A dicembre, Conti aveva deciso di raccontare ai carabinieri le pressioni, ricevute dopo aver bloccato i lavori della new town per la mancanza delle fidejussioni: politici (anche del suo partito), imprenditori e tecnici avevano tentato di indurla al dietrofront. Una denuncia che aveva mandato nel caos il Pd, e spinto la Procura di Bologna a indagare non solo sulle presunte minacce, ma anche sulla maxi operazione immobiliare.

Giovedì, dopo il via libera dell’aula, Conti ha ribadito l’intenzione di tirare dritto. Anche di fronte al rischio di azioni legali da parte di alcuni colossi del mattone (coinvolta c’è anche Coop Costruzioni, una delle più grandi coop rosse emiliane), che con il voto hanno visto andare in fumo un possibile giro d’affari stimato tra i 120 e 150 milioni di euro. Il disegno originario, approvato dalla precedente amministrazione (sempre Pd), prevedeva la realizzazione di un polo residenziale nuovo di zecca, in un’area vasta quanto 35 campi da calcio. «Non temiamo più nulla. Abbiamo agito legittimamente, seguendo un iter rigoroso e preciso», ha spiegato il sindaco. «Una causa sarebbe totalmente infondata. Ora voltiamo pagina e cominciamo a riprogettare la città, pensando ad altre zone che hanno davvero bisogno di essere riqualificate».

Lo stop è stato accolto con festeggiamenti e brindisi dalle decine di cittadini, che hanno riempito la sala del consiglio come poche volte nella storia di San Lazzaro. A esultare anche diversiconsiglieri comunali, da sempre contrari al maxi insediamento. Come Massimo Bertuzzi, della lista civica Noi Cittadini. Già nel 2013 aveva presentato un esposto in Procura, denunciando le anomalie nella vendita dei terreni. E proprio Bertuzzi, nella seduta del consiglio comunale, ha letto alcune delle osservazioni che le cooperative hanno fatto arrivare in comune nelle settimane scorse. Compreso un testo, in cui si parla senza mezzi termini dei danni e delle responsabilità legali dei singoli consiglieri. «Se qualcuno si permette di scrivere queste cose, mentre stai facendo solo il tuo lavoro, vuol dire che il sistema è malato», ha commentato il consigliere.

Non è un caso che al voto in aula, un passaggio decisivo, si sia arrivati dopo tre commissioni infuocate e tesissime, condotte a porte chiuse «per non alimentare preoccupazioni nei consiglieri chiamati a decidere». E prima di esprimersi sul blocco dei lavori, gli eletti avevano voluto consultare le carte e ascoltare avvocati per scacciare lo spettro di possibili ripercussioni legali. Alla fine però la votazione è andata secondo previsioni: 21 sì e 4 non votanti. Standing ovation e tutti in piedi al momento del verdetto. Esclusi i 3 consiglieri di Forza Italia, maggioranza e opposizioni hanno votato insieme. Compatto anche il Pd, che dopo giorni di incontri, discussioni e difficili mediazioni, ha deciso di fare quadrato e sposare la linea del sindaco.

Si chiude così il primo capitolo, quello politico, di una vicenda che per la prima volta ha acceso i riflettori sui rapporti tra coop emiliane e istituzioni e sulle influenze che le imprese possono esercitare sulle amministrazioni. Un terreno poco esplorato, in una regione dove Pd e mondo delle cooperative hanno sempre lavorato in sintonia, scambiandosi spesso uomini e dirigenti. Resta aperta e ancora tutta da scrivere la pagina giudiziaria.

Riferimenti

Si veda su eddyburg: sullo stesso caso, di Alessandro Cori Minacce al sindaco anti-cemento; di Vittorio Emiliani Cemento&Asfalto: c’è chi dice no, che racconta un analogo caso in Lombardia. Sui diritti edificatori, di Edoardo Salzano E’ confermato: non esistono “diritti edificatori” né “vocazioni edificatorie” di suoli non ancora edificati

«Si sono presi gli appalti per togliere le macerie e quelli per la ricostruzione. Imprese a loro vicine hanno messo l’amianto nelle scuole, l’hanno sotterrato sotto due centimetri di asfalto, l’hanno usato per fare i campi di accoglienza». La Repubblica, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)

Nell'Emilia che crollava per il terremoto, la ‘ndrangheta era arrivata prima dei soccorsi. «O comunque in contemporanea», scrive il gip di Bologna, a corollario della maxi inchiesta che svela quello che da troppo tempo non si vuol vedere. Anche l’Emilia Romagna, infatti, è infestata dalle cosche calabresi. Sono a Parma, sono a Reggio, a Modena, a Piacenza. Dovunque. Sono nel cratere dei comuni devastati dal sisma del 2012, si sono presi gli appalti per togliere le macerie e quelli per la ricostruzione. Imprese a loro vicine hanno messo l’amianto nelle scuole, l’hanno sotterrato sotto due centimetri di asfalto, l’hanno usato per fare i campi di accoglienza. Ridevano mentre i capannoni di Mirandola cadevano giù, annusando l’odore del business. È già successo all’Aquila. Succede anche nella prospera regione rossa, preda del clan Grande Aracri di Cutro, piccolo paese del crotonese lontano un migliaio di chilometri da questa terra.

Dalla Calabria al nord
Su richiesta di tre procure, Bologna, Brescia e Catanzaro, ieri sono state arrestate 117 persone, quasi tutte in Emilia. Altri 46 fermi, in attesa di convalida, sono stati disposti nel resto d’Italia. Gli indagati sono più di 200, i capi di imputazione 189, un intero quartiere nel parmense è stato posto sotto sequestro. «Operazione storica, senza precedenti», la definisce Franco Roberti, il procuratore nazionale antimafia. In carcere sono finiti politici locali, imprenditori, poliziotti e ex carabinieri collusi, giornalisti. E poi loro, gli esponenti della potentissima ‘ndrina di Cutro. Ci sono Domenico e Ernesto, fratelli di quel Nicolino “mano di gomma” Grande Aracri considerato il reggente, e i cinque uomini che hanno mandato a “prendersi” l’Emilia: Nicolino Sarcone a Reggio Emilia (il cuore della cellula ndranghetista), Michele Bolognino a Parma, Alfonso Diletto nella bassa reggiana, Francesco Lamanna e Antonio Gualtieri a Piacenza. Associazione per delinquere di stampo mafioso, è l’accusa. Al Nord hanno portato tutto il loro “bagaglio” criminale: estorsioni, attentati incendiari, droga, usura, minacce, armi. Hanno garantito un serbatoio di voti ad almeno sette candidati sindaci. In cambio, hanno voluto appalti.
La telefonata dopo il sisma
«È caduto un capannone a Mirandola », dice al telefono Gaetano Blasco, uno degli indagati, alle 13.29 del 29 maggio 2012. Il suo interlocutore, Antonio Valerio, non riesce a trattenere le risate. «Eh, allora lavoriamo là», risponde. «Ah sì, cominciamo facciamo il giro». Non erano ancora passate cinque ore dalla tremenda scossa che aveva fatto venti morti, con epicentro a Medolla, replica di quella del 20 maggio precedente con le sue 27 vittime. Il terremoto aveva colpito nel “posto giusto”, secondo loro, perché da quelle parti lavora storicamente la Bianchini Costruzioni Srl, con la quale i Grande Aracri hanno una «perversa joint venture » attraverso uno dei suoi principali esponenti, Michele Bolognino.
«L’azienda modenese - scrive il gip bolognese Alberto Ziroldi - è il soggetto ideale grazie al solido legame con il mondo delle cooperative e le eccellenti relazioni con le amministrazioni locali». La sinergia è nata nel 2011, sul lavoro di ristrutturazione del cimitero di Finale Emilia. Bolognino fornisce ad Augusto Bianchini (il titolare) muratori e carpentieri sottopagati tra false fatturazioni, buste paga fittizie e frodi a danno della Cassa edile, in cambio trattiene per sé una parte delle spettanze e mette una mano del clan nel circuito dei lavori pubblici. L’antifona era abbastanza chiara a tutti. «In una maniera o l’altra ti aggiustiamo, ti tengo presente a te», dice Bolognino a un imprenditore calabrese che ha 12 operai a disposizione e vuole entrare nell’affare.
I rifiuti pericolosi nelle classi
Devastante, per la Bianchini Srl, il capo d’accusa a suo carico. I titolari «per conseguire un ingiusto profitto - si legge nell’ordinanza di custodia cautelare - hanno utilizzato materiale contaminato da amianto, previa miscelazione di tale rifiuto pericoloso con terre da scavo», per pavimentare e stabilizzare decine di lavori ottenuti nei comuni colpiti dal sisma. Tra questi i campi di accoglienza a San Biagio e Massa Finalese, l’area vicina alla caserma dei Vigili del Fuoco e il capannone Phoenix a San Felice sul Panaro, il sito stradale della tangenziale di Sermide (appalto da 1,2 milioni di euro).
La ditta ha vinto anche 4 dei 28 lotti banditi dall’allora commissario delegato Vasco Errani per edifici scolastici temporanei. Sono circa mezzo milione di euro. Secondo il pm Marco Mescolini «hanno abbandonato rifiuti pericolosi contenenti amianto» nelle aree esterne alla scuola media a Concordia sulla Secchia, in quella destinata a verde delle elementari di Mirandola e Finale Ligure, nonché davanti a un istituto di Reggiolo. Quando Bianchini informa la moglie dei controlli dell’Arpa regionale, («... Finale, Concordia, Mirandola... sicuramente una traccia... la trovano anche lì») la donna non ci gira intorno: «Siamo rovinati... », la sentono dire i carabinieri in un’intercettazione del 24 novembre 2012.
I controlli aggirati
Nonostante l’azienda in quel biennio venga prima investita dai controlli sull’amianto, poi espulsa dalla white list della prefettura di Modena per i suoi rapporti con la ‘ndrangheta, riesce lo stesso ad ottenere nel 2013 la commessa (circa 80mila euro) per la rimozione delle macerie del crollo del castello di Finale Emilia. Come? Grazie al gancio che hanno nell’amministrazione, tale Giulio Gerrini, responsabile del servizio lavori pubblici, finito ai domiciliari. È lui ad assegnare in via diretta, senza averne titolo, l’appalto alla Ios, l’azienda che avevano fatto rinascere dalle ceneri della Bianchini Srl.
«Per la mania delle mega-opere sono stati tralasciati ilavori ordinari e la viabilità minore. Risultato? 5 crolli solo in Sicilia». Ma non solo in Sicilia. Articoli di DanieleMartini e Giuseppe Lo Bianco. Il FattoQuotidiano, 6 gennaio 2015


L’ANAS DI CIUCCI:
STRADE E PONTI CHE SPROFONDANO
di Daniele Martini

Sarà colpa degli appalti assegnati con criteri discutibili,dei lavori poco accurati, della manutenzione fatta con il contagocce, oppuredel destino cinico e baro. Fatto sta che soprattutto in Sicilia, ma non solonell'isola, i viadotti e i ponti vecchi e nuovi vengono giù. L'ultimo, loScorciavacche dalle parti di Mezzojuso sulla statale 121 tra Palermo edAgrigento ha battuto tutti i record restando transitabile appena una settimana:inaugurato alla vigilia di Natale è stato chiuso alla fine dell'anno. “Chiusosolo per precauzione”, minimizza parlando con il Fatto Quotidiano Alfredo Bajo, il condirettore generale dellaprogettazione Anas, in pratica il responsabile tecnico dell'azienda pubblicadelle strade committente dell'opera. Dalle immagini appare chiaro, però, che lachiusura più che dettata dalla prudenza è imposta dal fatto che lì le auto nonpossono transitare proprio più, essendo la carreggiata sprofondata per oltre unmetro. Di fronte a quella voragine, a conti fatti è andata bene che non cisiano state vittime. Così come era andata sostanzialmente bene anche lenumerosissime altre volte in cui ponti e viadotti negli ultimi anni si erano afflosciaticome sacchi vuoti.

Manutenzionee arterie minori dimenticate
La provvidenziale assenza di morti o la circostanza che levittime siano state frettolosamente derubricate come incidenti sul lavoro, haimpedito che quei fatti gravissimi e reiterati fossero interpretati per quelche sono: un fenomeno preoccupante e pericoloso, la riprova che l'attenzionespasmodica dedicata dal presidente Anas Pietro Ciucci alle grandi opere, dalfaraonico ponte sullo Stretto di Messina alla regina delle incompiute, laSalerno-Reggio Calabria, ha lasciato il segno sulle strade statali normaliandando a scapito dei lavori minori e della manutenzione accurata. Dopo anni diquesta politica, ora si contano i cocci e anche il governo di Matteo Renzi e ilministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, si rendono conto che non si puòpiù far finta di nulla.
LaTecnis e il gioco dei lavori chiusi in anticipo
Nel caso dell'ultimo viadotto siciliano collassato ci sonomolte circostanze che lasciano perplessi. Per esempio la decisione diinaugurare a tutti i costi l'opera con 3 mesi di anticipo sui tempi previstiper la fine dei lavori affidati da Anas a un raggruppamento di imprese tra cui,con le cooperative Cmc e Ccc, spicca la ditta Tecnis del siciliano MimmoCostanzo, erede di uno dei 4 famosi Cavalieri del lavoro di Catania. Con lostesso sistema della consegna anticipata dell'opera rispetto alla scadenzaufficiale, l'Anas 2 anni fa pagò sotto forma di premio proprio alla Tecnis labellezza di 26 milioni di euro su un lavoro di circa 250 per la costruzione di11 chilometri della Salerno-Reggio Calabria nel parco del Pollino, nonostantequell'autostrada sia tutto tranne che un esempio di lavori veloci. Progettistaera Nino Bevilacqua, un signore che si sposta in elicottero e vive in uncastello affacciato sul porto di Palermo, un professionista tra i più pagatid'Italia, usato spesso da Tecnis. Forse anche per la presenza di Bevilacqua,l'Anas apprezza molto la Tecnis a cui affida spesso e volentieri i lavori. C'èla Tecnis, per esempio, sulla Variante di Morbegno della statale 38 inValtellina, appalto da oltre 200 milioni di euro. C'è Tecnis sullaPalermo-Agrigento e sulla Agrigento-Caltanisetta, sulla Rieti-Terni (altri 170milioni di euro) e c'era Tecnis sulla Variante di Quadri, 2 chilometri e 200metri di asfalto nella Valle del Sangro in Abruzzo costati 40 milioni di euro einaugurati 9 mesi fa.
La pessima condizione dei viadotti e delle strade èmacroscopica. All'inizio di luglio in Sicilia collassò il viadotto Petrulla sullastatale 123 tra Licata a Ravanusa: 4 i feriti tra cui una donna incinta. Subitodopo si accorsero che il vicino ponte Ficili era a rischio e lo chiusero. Nellastessa estate fu sprangato il ponte Gurrieri a Modica e quello della BalataBaida sulla statale 187 a Castellammare in provincia di Trapani. Poco più di unanno prima, febbraio 2013, si afflosciò il Verdura sulla statale 115 traTrapani e Siracusa e il 28 maggio 2009 nella provincia di Caltanissetta vennegiù un pezzo del ponte Geremia II.
Lungoelenco di incidenti, feriti e chiusure
Anche l'elenco dei ponti caduti o chiusi fuori dalla Siciliaè impressionante. Il caso più grave, con un autista di camion morto, risale aduna decina d'anni fa sulla statale 42 in provincia di Brescia dove si spezzò ilviadotto Capodiponte. L'incidente più clamoroso è però quello del ponte sul Potra San Rocco al Porto e Piacenza, unica via tra Emilia e Lombardia oltreall'autostrada e la ferrovia. Lì la mattina del 29 aprile 2009 sprofondò nelfiume un'intera arcata trasformando la strada in una botola in cuisprofondarono 4 automobilisti che rimasero feriti, uno in maniera grave. Suquel pezzo di ponte crollato l'Anas aveva detto di essere intervenuta appena unanno prima con lavori di consolidamento che evidentemente avevano consolidatopoco. Nello stesso anno si verificarono due crolli sulla Teramo-Mare mentre il2 marzo 2011 le impalcature del ponte sulla statale 407 Basentana a Calciano inprovincia di Matera si abbassarono all'improvviso di 2 metri. Nello stessoperiodo sempre in Basilicata chiusero il ponte di Baragiano. Otto giorni dopoin Puglia crollò una parte del ponte tra Vieste e Peschici sulla statale 89. L'11 maggio di due anni fa toccò a un ponte Anas in Abruzzosulla linea ferroviaria tra Terni e Rieti all'altezza di Scoppito.
PALERMO-AGRIGENTO
LA PROCURA INDAGA SUL CEDIMENTO
diGiuseppe Lo Bianco
Sequestro dei documenti di “tutte le fasi dell’appalto”,come dice il procuratore di Termini Imerese Alfredo Morvillo, e nomina di unpool di docenti universitari che hanno il compito preliminare di accertare lecause del cedimento dell’asfalto: il giorno dopo l’allarme per il crollo deltratto di accesso al viadotto Scorciavacche, sulla statale Palermo-Agrigentoall’altezza di Mezzojuso, realizzato da due “coop rosse” e dalla Tecnis delcatanese Mimmo Costanzo, è partita la caccia alle responsabilità. “Ci muoviamosu due fronti – dice il procuratore Morvillo, cognato di Giovanni Falcone –abbiamo sequestrato tutti i documenti relativi a tutte le fasi della gara diappalto per verificare eventuali anomalie, e abbiamo nominato i consulentitecnici che hanno il compito di accertare le cause del crollo”. Dal tipo diaccertamenti necessari, se irripetibili o meno, dipenderà l’iscrizione delleprime persone (tecnici o responsabili amministrativi del consorzio di impreseBolognetta) nel registro degli indagati. “Il fatto è grave – aggiunge Morvillo– e procediamo con urgenza. Nel giro di pochi giorni dovrebbero arrivare leprime risposte”.

Ieri pomeriggio il procuratore Morvillo e il sostitutoFrancesco Gualtieri hanno incontrato due docenti della facoltà di Ingegneria diPalermo ai quali è stata affidata la perizia preliminare. E solo dopo sarannodecise le operazioni tecniche da eseguire. Nel frattempo l’aerea del viadottorimane sequestrata su ordine della magistratura e chiusa al traffico, deviatosulla provinciale adiacente. Per il presidente di Anas Pietro Ciucci, chedomani compirà un sopralluogo sul luogo del cedimento, infine, si tratta di unfalso allarme: “A dispetto di certi titoli e di certe fotografie maleinterpretate o scambiate, nessun viadotto è crollato, il danno ammonta a pochecentinaia di migliaia di euro”. Che non saranno, ha assicurato, a caricodell’Anas: "Non lasceremo niente di intentato per individuare iresponsabili e garantiremo la massima collaborazione alla Procura di TerminiImerese’’ e l'impegno "per il ripristino dell'opera senza oneri a caricodi Anas".

«Bologna: la procura apre un’inchiesta sulle frasi pronunciate nei confronti di Isabella Conti, primo cittadino di San Lazzaro che ha bocciato un mega progetto edilizio. Al vaglio gli sms in cui politici del suo partito e imprenditori le facevano pressioni». La Repubblica, 3 gennaio 2015

Blocca un mega-progetto edilizio e per lei, giovanissima sindaco Pd di un paese alle porte di Bologna, comincia un calvario. Pressioni di ogni tipo, una pioggia di sms, telefonate e mail di compagni di partito ed esponenti delle coop che vedono sfumare la costruzione di centinaia di appartamenti. Fino alla minaccia raccolta da un dipendente comunale al quale un ex consulente del comune sibila: «Ma che cosa intende fare, questa? Vuole passare un guaio? Vuole che le capiti qualcosa?». Troppo per Isabella Conti, 32 anni, avvocato, da pochi mesi primo cittadino di San Lazzaro, che corre dai carabinieri e denunciare l’accaduto, anche a costo di creare un caso politico e giudiziario. E infatti la procura della Repubblica di Bologna ha immediatamente aperto un’inchiesta.

Tutto nasce da un provvedimento urbanistico del paese dell’hinterland bolognese. Un insediamento da 582 alloggi, più una scuola e un centro sportivo, al centro di polemiche violente da quasi un decennio. Il progetto, da sempre osteggiato dagli ambientalisti e dai comitati cittadini, era stato varato dalla giunta precedente, targata sempre Pd. Ma nel novembre scorso la giovane sindaco Conti ne decreta lo stop con una delibera che avvia la decadenza del Poc (Piano operativo comunale). Uno strappo già annunciato dalla Conti in campagna elettorale, prima della sua elezione nel maggio 2014. L’occasione le si presenta quando, in seguito al fallimento della Cesi, una coop rossa che insieme alla Coop Costruzioni e altre due aziende, doveva realizzare l’opera, al Comune non viene presentata una fideiussione da parte della cordata vincente. E la Conti coglie il pretesto e ferma tutto anche se le aziende annunciano di essere pronte a fare causa al Comune per 20 milioni di euro. È in questo clima che cominciano le pressioni tramite sms e posta elettronica. Al vaglio degli inquirenti ci sono alcuni messaggi spediti da politici e imprenditori per convincerla a fare la “scelta giusta” e tornare sui suoi passi. Pressioni politiche, fin qui. Messaggi per consigliarle di valutare la sua decisione, per evitare eventuali problemi politici e azioni di risarcimento danni. Ma a un certo punto, a metà dicembre, all’orecchio del sindaco arriva altro. Un dipendente comunale le riferisce le frasi minacciose di un consulente del Comune, un professionista vicino al partito democratico. «Ma cosa intende fare questa? Vuole passare un guaio?», parole che Isabella Conti riferisce immediatamente ai carabinieri e che gli inquirenti, il procuratore aggiunto Valter Giovannini e la pm Rossella Poggioli, non prendono certo sottogamba. L’inchiesta è appena partita nella massima riservatezza. Ma tutto il mondo politico, dal Pd ai grillini al Forza Italia, esprime solidarietà alla Conti. E così i vertici di Legacoop. «Sono molto dispiaciuta — ha detto la presidente Rita Ghedini, ex senatrice — spero che non sia niente di rilevante. Quella di cui si parla è un’operazione di rilievo economico e speravo che rimanesse tale».

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«Il Paese frana sotto la pioggia e passa la legge che sblocca i cantieri. Il Presidente del Consiglio invece di sostituirsi a giornali e storici nella ricerca di responsabilità, si chieda cosa deve fare il governo. Invece di pensare alle leggi regionali, pensi a quelle che firma lui». La Repubblica, 17 novembre 2014

Lascia interdetti lo scaricabarile tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Liguria sulle responsabilità del dissesto del territorio italiano. E non solo perché è indecoroso mettersi a discutere mentre i cittadini e la Protezione civile lottano contro il fango: ma anche perché la questione è troppo maledettamente seria per liquidarla a colpi di dichiarazioni e controdichiarazioni tagliate con l’accetta.

Andrà scritta, prima o poi, la vera storia della cementificazione dell’Italia. Quella storia che oggi ci presenta un conto terribile. Andranno identificati, esaminati, valutati i giorni, le circostanze, i nomi, le leggi nazionali e regionali, i piani casa, i piani regolatori, i condoni, i grumi di interesse che — tra il 1950 e il 2000 — hanno mangiato 5 milioni di ettari di suolo agricolo. E che solo tra il 1995 e il 2006 hanno sigillato un territorio grande poco meno dell’Umbria, in un inarrestabile processo che oggi trasforma in cemento 8 metri quadrati di Italia al secondo: come ci ricorda un prezioso libretto di Domenico Finiguerra.
Per dare un titolo a questa brutta storia, negli anni Settanta Giorgio Bocca, Indro Montanelli e Antonio Cederna parlarono di “rapallizzazione”: perché Rapallo e tutta la Liguria erano il luogo simbolo della distruzione del paesaggio e della deformazione delle città. Per sapere che quella regione non ha cambiato verso, non importa leggersi le statistiche che ci dicono che, tra il 1990 ed il 2005, in Liguria si è massacrato il territorio più che in Calabria e in Campania: basta accendere la televisione.Ma è stato tutto il Nord a pensare che lo sviluppo fosse perfettamente sinonimo di cemento. E continua a pensarlo.
Quando, nel maggio scorso, un cittadino di nome Gabriele Fedrigo ha esposto fuori dalla sua finestra due striscioni con su scritto «Basta cemento» e «Acqua e aria sane», il suo Comune lo ha diffidato, perché avrebbe attentato al decoro urbano. Il comune era Negrar, in Valpolicella: quello che ha dato origine alla parola “negrarizzazione”, che vuole dire «urbanizzazione speculativa, e al di fuori di ogni controllo» (Dizionario Treccani).
È stato l’architetto veronese Arturo Sandrini a coniare questo termine, in un articolo del 1997 in cui invitava a ribellarsi al processo che ha trasformato Negrar, la Valpolicella e tutto il Veneto «quasi in un’unica immensa area urbanizzata, dov’è difficile trovare qualche zona non interessata da quel delirium edilizio, fatto di orridi capannoni prefabbricati, naturalmente uno diverso dall’altro, di ville, villette e villone, ovviamente non quelle venete, che giacciono invece impietosamente abbandonate». Sandrini non era solo. Quando Fedrigo (che non scrive solo slogan, ma ha anche pubblicato il libro di ri-ferimento sulla Negrarizzazione, Speculazione edilizia, agonia delle colline e fuga della bellezza, 2010) è stato diffidato, la Valpolicella si è riempita di identici striscioni. Ne è comparso una perfino sulla villa Serego Alighieri: la residenza che nel 1353 fu comprato dal figlio di Dante, Pietro, e che dopo ventuno generazioni è ancora di proprietà dei discendenti diretti del poeta.
Ma se questa storia diventa esemplare, se si può parlare di una “negrarizzazione” dell’Italia intera, è proprio perché la sua morale risponde in modo concreto alle domande di queste ore: di chi è la colpa? A Negrar non c’è stato un singolo mostro, l’orco speculatore. Né c’era una povertà da cui riscattarsi di colpo. E non c’è stato nemmeno l’abusivismo: non c’è un solo edificio fuori della legge, a Negrar. La Valpolicella aveva una bellezza naturale struggente, aveva la storia, aveva un vino spettacolare: un’economia solida. Ma questo non è bastato: era troppo lento. La speculazione edilizia è come una droga: tutto corre più veloce. E allora una comunità — senza che nessuno la costringesse — ha deciso di eleggere politici disposti a corrompere le leggi, perché le leggi corrotte permettessero di corrompere l’ambiente. Legalmente. Il motto del ventennio berlusconiano — “padroni in casa propria” — è stato applicato nel modo più radicale e devastante: fino a distruggere la casa stessa. E infatti il sinonimo perfetto di “negrarizzazione” è “irresponsabilità”: l’idea bestiale che non importa chi sarà a pagare il conto. Anche se saranno i nostri figli: anzi noi stessi, solo qualche anno — o qualche temporale — dopo. E non siamo usciti da questa storia: basta vedere quante resistenze, e quanto violente, sta incontrando l’ottimo Piano Paesaggistico della Regione Toscana, finalmente vicino all’approvazione.
Allora vorremmo che il Presidente del Consiglio pensasse al futuro, e non al passato. Che invece di sostituirsi ai giornali e agli storici nella ricerca delle responsabilità, egli si chiedesse cosa può e deve fare il suo governo. Che invece di pensare alle leggi regionali, pensasse a quelle che sta firmando lui.
Vezio De Lucia ha spiegato (Nella Città dolente, 2013) che la storia del cemento cominciò davvero quando la Democrazia Cristiana rinnegò Fiorentino Sullo e la sua ottima legge urbanistica, che ci avrebbe lasciato un’Italia diversa. Era il 1963: cinquant’anni dopo il governo di Matteo Renzi fa lo stesso errore, approvando lo Sblocca Italia di Maurizio Lupi, che è una legge fatta per portare a compimento la “negrarizzazione” dell’Italia. Una legge che bisognerebbe avere il coraggio di ripensare radicalmente anche se è appena uscita sulla Gazzetta Ufficiale. Anzi, una legge che bisognerebbe avere il coraggio di rottamare.

«RottamaItalia. Il governo rischia una procedura d'infrazione europea per l'articolo 5 del decreto che regola le concessioni autostradali. La denuncia di Altreconomia: "L'obiettivo dell'articolo pare solo uno: fare in modo che il rinnovo delle concessioni non sia mai messo a gara, una gara europea"». Il manifesto, 21 ottobre 2014 (m.p.r.)



Il governo Renzi rischia una pro­ce­dura di infra­zione da parte dell’Unione Euro­pea per la norma sulle con­ces­sioni auto­stra­dali con­te­nuta nel decreto Sblocca Ita­lia. Bru­xel­les ha aperto una pre-procedura di infra­zione il 17 otto­bre scorso sull’articolo 5 del decreto, attual­mente in discus­sione alla Camera, e chiede all’esecutivo di spie­gare la norma che per­mette ai con­ces­sio­nari auto­stra­dali di pro­porre la modi­fica dei rap­porti con­ces­sori esi­stenti sulla base di nuovi piani economico-finanziari. L’articolo 5 era già cri­ti­cato nei giorni scorsi dell’Autorità dei tra­sporti e dall’Antitrust. La prima ha par­lato di «un ritorno a pro­ce­dure del pas­sato incen­trate sulla deter­mi­na­zione in via ammi­ni­stra­tiva di canoni, pedaggi e tariffe di accesso alle infra­strut­ture di tra­sporto». L’Antitrust ha sol­le­vato dubbi di anticoncorrenzialità.

In maniera più argo­men­tata, l’ebook «Rot­ta­maI­ta­lia» pub­bli­cato da Altre­co­no­mia ha denun­ciato il «comma Orte-Mestre», la mega-autostrada che il mini­stro Lupi intende costruire. La norma impe­di­sce il rin­novo delle con­ces­sioni mediante una gara. Il «mer­cato» delle auto­strade resterà così in mano ai mono­po­li­sti. Bru­xel­les ha deciso di agire in nome del «libero mer­cato» e con­ferma: tra le tante misure con­te­state di un prov­ve­di­mento che dà il via libera a tri­vel­la­zioni, cemento, spe­cu­la­zioni immo­bi­liari e finan­zia­riz­za­zione del patri­mo­nio e del ter­ri­to­rio, l’articolo 5 sulle con­ces­sioni auto­stra­dali sem­bra con­sen­tire la rea­liz­za­zione di «signi­fi­ca­tive modi­fi­che» ai con­tratti di con­ces­sione esi­stenti riguar­danti lavori nell’ambito del rap­porto con­ces­so­rio e livello delle tariffe. Insomma, il governo Renzi non sta­rebbe affatto libe­rando gli «spi­riti ani­mali» del capi­ta­li­smo tra­di­zio­nale — quello del cemento e quello che costrui­sce auto­mo­bili. Nei fatti sta favo­rendo i mono­po­li­sti del set­tore. Non solo, rischia anche di vio­lare la legi­sla­zione comu­ni­ta­ria in mate­ria di appalti pubblici.

Lo sco­glio sul quale si sono andati a inca­gliare Renzi e il mini­stro dei tra­sporti Mau­ri­zio Lupi non è indif­fe­rente. Lo atte­sta anche un emen­da­mento allo Sblocca Ita­lia intro­dotto in com­mis­sione Ambiente alla Camera: per la pro­roga delle con­ces­sioni auto­stra­dali ser­virà il via libera dell’Unione euro­pea. Un giu­di­zio nega­tivo sull’intero dise­gno di legge per la con­ver­suione del decreto legge è arri­vato anche dalla Con­fe­renza delle Regioni. I gover­na­tori chie­dono tra l’altro il ripri­stino del con­tri­buto di 560 milioni di euro per il riparto delle risorse del sistema sani­ta­rio nazio­nale nel 2014. Come denun­ciato dal coor­di­na­mento uni­ver­si­ta­rio Link, que­sto taglio si sca­ri­cherà sul finan­zia­mento delle borse di stu­dio, oltre che sui disa­bili. Non meno caldo è il fronte poli­tico che ha visto la dura oppo­si­zione del Movi­mento 5 Stelle, oltre che con­vo­ca­zione di una mani­fe­sta­zione nazio­nale il 7 novem­bre a Bagnoli nell’ambito della cam­pa­gna «Blocca lo Sblocca Ita­lia». Ieri il depu­tato Pippo Civati ha riba­dito l’intenzione di votare con­tro lo Sblocca Ita­lia: «Sarà una buona pale­stra, con­tiene cose che non vanno». Sabato sarà in piazza a Roma con la Cgil. «È una mag­gio­ranza che ha fatto qual­cosa che non era nel pro­gramma per il quale siamo stati votati».

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