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La discussione è aperta sul carattere della massiccia presenza di persone e capitali provenenti dalla Cina: al di là dell'esito nelle primarie milanesi. Qui nella postilla l'opinione di Fabrizio Bottini, che ci ha segnalato l'articolo. La Repubblica, 8 febbraio 2016,

Cinquemila, per la Camera di Commercio. Seimilacinquecento, secondo la stima della stessa comunità cinese. Tante sono le imprese individuali a Milano con titolare nato in Cina. La differenza fra i due dati si spiega anche con i casi in cui la licenza rimane intestata al vecchio titolare, spesso italiano, ma alla cassa sta il nuovo gestore. È questa la fotografia, il giorno dopo le polemiche per l’esordio al voto della comunità cinese. «In città i cinesi sono 25mila, un’impresa ogni quattro persone - dice Angelo Ou, imprenditore di 68 anni, figlio di uno dei primi arrivati negli anni Trenta - veniamo dalle regioni di Wenzhou e Qingtian. È il vostro Triveneto. Non ci piace lavorare sotto padrone».

Delle 5.002 imprese cinesi censite in città, il 30,9 per cento è attivo nel commercio, il 25,7 nella ristorazione. Il 31, 8 percento dei cinesi vive a Chinatown, intorno a via Paolo Sarpi. Molti nelle periferie a Nord : Villapizzone, Affori, Quarto Oggiaro. «Non esiste più un quartiere cinese – dice Alessio Menonna, ricercatore di Ismu – sono ovunque ci sia sofferenza commerciale e deprezzamento degli immobili».

La crescita del numero di aziende cinesi rispetto al 2014 è del 7,2 per cento, 334 nuove società. E dal 2009 sono raddoppiate. «Negli anni della crisi, la comunità cinese è la sola che è cresciuta. Lo dicono gli indicatori, dal reddito alle case di proprietà», dice Gian Carlo Blangiardo, professore di Demografia in Bicocca. E non è l’unica tendenza: aumentano le donne imprenditrici, i dipendenti lavorano di più (68 ore a settimana) e guadagnano 1.610 euro lordi al mese. Intervistati dalla fondazione Ismu, solo il 20 per cento dei cinesi a Milano dice di capire bene l’italiano e il 9 per cento di poterlo leggere.

«Ma la novità degli ultimi anni non è il numero di imprese. Siamo noi - dice Francesco Wu, 34 anni, presidente dell’associazione dei giovani imprenditori cinesi Uniic – abbiamo messo d’accordo le 14 associazioni di commercianti cinesi in città e abbiamo insegnato ai vecchi una cosa: siamo in Italia non in Cina, se vuoi cambiare le cose puoi farlo. Devi farti sentire. Queste primarie sono state l’occasione». Figli più integrati e istruiti dei propri padri, che hanno mandato i genitori a votare. Per Giuseppe Sala. «La comunità chiede al Comune poche cose semplici, che gli assessori Majorino e Balzani hanno dimostrato di non volere - dice ancora Angelo Ou -. Meno lacci al commercio, un rappresentante nelle istituzioni e l’autorizzazione a creare alcune grandi cose». La più grande: una international school cinese per 640 studenti. Un progetto fermo da tempo.

postilla

Chi ha seguito con una certa attenzione sul social network lo svilupparsi del dibattito sui «cinesi ai seggi delle primarie» milanesi, avrà certamente notato l'abisso che separa certe strampalate teorie di integrazione, vitalità urbana, convivenza, dalla realtà su cui si vorrebbero esercitare. La comunità cinese, tra la scarsa attenzione (poco oltre il folklore e qualche diffidenza) di chi a parole si fa paladino di quei concetti, è uno dei protagonisti di punta della riqualificazione dei quartieri urbani, e della loro rivitalizzazione commerciale. Il fenomeno più vistoso è quello «open air mall» di via Paolo Sarpi, che fa da virtuale trait-d'union tra il monumentale Parco Sempione e il neomonumentalismo postmoderno di Porta Nuova. È con questo tipo di iniziative, ovviamente tutte da capire, favorire, governare, che una politica urbana davvero all'altezza dei tempi dovrebbe confrontarsi, domandandosi tanto per cominciare fin dove qualunque attività che produce ricchezza è accettabile, e dove invece occorre affiancare una piena integrazione culturale. La diffidenza di certa sinistra che ha scambiato per invasori di campo i commercianti cinesi, in fila ai seggi delle primarie sostanzialmente contro certe pedonalizzazioni che ritengono controproducenti, dimostra quanta strada ci sia da fare verso un'idea di commercio urbano meno nostalgicamente campata per aria (f.b.)

Un modello utopico di integrazione locale delle diversità culturali? Molto probabilmente no, visto che con evidenza vengono tenuti fuori tutti i fattori non esplicitamente economici, che invece nella vita vera contano, eccome se contano. La Repubblica, 6 febbraio 2016, postilla (f.b.)

Ci sono un italiano, un polacco, un turco, un arabo e un indiano: ma non è l’inizio di una di quelle barzellette all’insegna degli stereotipi etnici. È la descrizione di un pezzetto di Narborough road, la strada più multietnica d’Inghilterra, se non d’Europa o forse del mondo: 24 nazionalità, in rappresentanza di quattro continenti, una accanto all’altra, su poco più di 200 esercizi pubblici, vetrina di negozio dopo vetrina di caffè, barbiere, salumiere, in apparente armonia nel cuore di una cittadina di provincia.

«Magari gli immigrati andassero così d’accordo nel nostro paese o da qualunque altra parte », dice Gennaro Zappia, cuoco salernitano, in mano una teglia di ravioli pronti per il forno, nel ristorante che ha appena aperto al numero 2 di questa colorita via del cosmopolitismo urbano. A individuarla sono stati i sociologi della London School of Economics, la cui ricerca è finita sui giornali. “Bottegai di tutto il mondo unitevi”, suggerisce il titolo del Mail, parafrasando involontariamente il motto di Marx: uniti per commerciare in santa pace e possibilmente in prosperità, certo, mica per fare la rivoluzione. Ma questa unità è un segno di civile progresso, nel momento in cui in Europa risuonano allarmi sulle invasioni straniere e sui presunti danni di un’immigrazione senza controlli.

A un’ora di treno dalla capitale, Leicester deve la sua fama passata a Riccardo III, l’ultimo re inglese caduto in battaglia, e quella più recente a Claudio Ranieri, l’allenatore che ha sorprendentemente portato in testa alla Premier League la squadra locale. Ora l’indagine della Lse (acronimo della prestigiosa università di scienze politiche londinese) sottolinea un altro motivo di distinzione: meno di metà della popolazione locale (300mila abitanti) si autodefinisce britannica, le due università cittadine attirano studenti da ogni angolo della terra e Narborough road, l’arteria che taglia il centro, è diventata una sorta di nazioni unite del piccolo commercio. Una volta era una strada in declino, contrassegnata da abbandono, degrado e miseria. Globalizzazione e immigrazione, i due grandi accusati dai nostalgici del tempo che fu, l’hanno rivitalizzata.

Beninteso, non è una strada ricca: modeste casette a due piani costellano le vie adiacenti (90 mila sterline per un appartamento con due camere da letto, si legge nella vetrina di un’agenzia immobiliare – prezzo con cui sotto il Big Ben non compri neanche un garage). Né vi compaiono “chain stores”, le catene di negozi tutti uguali (Starbucks, Gap, Pizza Express) che hanno reso omogenee le “high street”, le vie centrali nel resto della nazione. Ma è costellata di negozietti indipendenti che trasmettono dinamismo e speranza. Vicino a Sultan (barbeque turco) c’è Alino (bar africano), di fianco a Nawroz (cucina caraibica) c’è Al Sheikh (ristorantino arabo), dopo Karczma (delicatessen polacco) c’è Vashnu Daba (alimentari indiano). E avanti così, isolato dopo isolato: un macellaio pachistano, una tabaccaia kenyota, un droghiere lettone, una sarta dello Zimbabwe, un ristoratore giamaicano. “Antonio Sun Tanning”, salone per abbronzarsi, non cela un italiano, bensì un inglese: ebbene sì, ci sono anche i nativi, con nome nostrano per sembrare più esotici. Accanto ai supermercatini “halal”, cibo secondo i dettami del Corano, sorge il salone di bellezza Platinium, con in vetrina la gigantografia di una bionda in bikini. Sul marciapiede mi sfiorano una bionda in carne e ossa che parla russo dentro un telefonino, una massaia con il velo e le sporte della spesa, un gruppo di sikh con il turbante, uno di operai polacchi. Kerreen Nelson, giamaicana, dietro il bancone dell’omonimo Nelson Soul Food, dice che è bello vedere così tante comunità diverse in buoni rapporti.

«Ci siamo guardati intorno per cercare il posto giusto», racconta Zappia, lo chef di Sapri, provincia di Salerno, fra i tavoli di “La cucina italiana”, il ristorante che ha aperto con il socio romano Alessandro Graziani. «A Londra di ristoranti italiani ce ne sono tanti, qui c’erano soltanto imitazioni e abbiamo pensato ci fosse spazio per uno genuino ». Era l’unica cosa di cui Ranieri si è lamentato arrivando ad allenare il Leicester: l’assenza di un posto dove cenare come in Italia. Adesso può portare la squadra su Narborough road e mangiare tagliolini all’astice o ravioli ai funghi come in patria. Il mondo in una strada. Non è una barzelletta.

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Non è certamente un caso, se quella strada scelta dai sociologi della London School of Economics come possibile «modello di integrazione» sta nel cuore profondo della patria del liberalismo, e del conseguente amore sviscerato per una certa idea di spazio condiviso utilitaristico assai circoscritto, ma dove le cose a modo loro effettivamente funzionano. Ricordando sempre, però, che appena si esce da quell'universo altamente artificioso, nulla pare più altrettanto equilibrato, come ci dimostra ogni giorno la realtà. E del resto, basterebbe forse provare a andare appena oltre quella superficiale tolleranza da «business is business» di questa sorta di centro commerciale autogestito, dove ci si allea o ci si fa concorrenza solo per il profitto, per cogliere il senso del modello britannico della integrazione esclusivamente economica (che lascia le culture a macerarsi nella loro specificità), contrapposto a quello di scuola francese (che vorrebbe integrarle in uno Stato portatore di valori comuni di riferimento). Se esce una lezione dal racconto, anche senza ovviamente entrare nei valori specifici della ricerca LSE appena citata, è che si può praticare una ricerca di spazi comuni sperimentali, da cui forse far emergere regole più generali, ma certamente non confidando al 100% in entità del tutto astruse come lo Stato o il Mercato, a loro volta soggette a declinazioni particolari (f.b.)

Deindustrializzazione e riuso delle superfici dismesse con l'intervento del privato salvatore della patria: il copione classico è rispettato, e alla società locale restano i cocci da mettere insieme. Corriere della Sera, 23 giugno 2015, postilla (f.b.)

Anche i luoghi hanno un’anima: quella di Arese palpita al ritmo di un sei cilindri. Erano 19 mila, ai tempi d’oro, le tute blu che entravano e uscivano dai cancelli dello stabilimento voluto nel 1962 da Giuseppe Luraghi alle porte di Milano. Da quando, nel 2002 qui si è smesso di produrre automobili si sono moltiplicati i progetti di riqualificazione. Ora, finalmente, il futuro prende forma. I primi di maggio è stata inaugurata senza clamori una pista di collaudo nuova di zecca dove si trovava il vecchio tracciato dell’Alfa Romeo. Accanto al percorso, due edifici firmati Michele De Lucchi dove si terranno, eventi, corsi di guida, presentazioni. Viste da lontano le due costruzioni appaiono come un’unica bandiera a scacchi che sventola sulla pianura.

Artefice del rilancio della pista è Marco Brunelli, il patron del gruppo Finiper. Fu Brunelli nei primi anni Duemila a rilevare i due milioni di metri quadrati dell’area. Il primo passo della riqualificazione ha coinvolto gli 86 mila metri quadrati della pista stessa. Entro marzo 2016 sarà completato il centro commerciale che cresce a vista d’occhio a breve distanza, anch’esso progettato da De Lucchi. Si arriva così a un milione di metri quadrati. Per il milione che resta si stanno valutando diverse opzioni. A oggi una parte dell’area ospita undicimila posti auto al servizio del sito di Expo, a pochi chilometri in linea d’aria. Poi non è escluso che quella che inizialmente sembrava dovesse diventare un’area residenziale alla fine abbia un altro destino.

Lui, Marco Brunelli, 88 anni, uno che ha fatto la storia della grande distribuzione in Italia, si aggira nei nuovi edifici con malcelato orgoglio. L’imprenditore è attento a ogni dettaglio. Anche uno spigolo troppo sporgente può essere di disturbo: «Non si può aggiustare? Potrebbe creare disagio a chi è di passaggio». Perché Brunelli vede ogni cosa con gli occhi degli appassionati di motori che verranno qui ad affondare il piede sull’acceleratore. E tutto deve essere perfetto, a regola d’arte.
Il genio deve stare proprio qui, nella capacità di entrare nei panni di chi si ha di fronte e di coglierne i bisogni. Grazie a questo dono negli anni Cinquanta Brunelli comprese tra i primi che il momento era arrivato per passare dai negozi ai supermercati. E oggi? «Oggi è cambiato tutto. Il vecchio supermercato è destinato a essere soppiantato da luoghi in cui il momento degli acquisti si mescola con lo sport, la cura di se stessi sia sul fronte della salute che su quello della bellezza», risponde Brunelli. Non a caso l’imprenditore ha affidato lo sviluppo di 1.500-2.000 mila metri quadrati all’interno del nuovo centro commerciale di Arese ad un importante complesso diagnostico. E a pensarci bene anche la pista, oggi gestita da Aci Vallelunga, potrebbe dialogare con la nuova struttura commerciale che aprirà i battenti nel marzo prossimo.

Spesa, corso di guida sicura e check up: nel fine settimana si può fare tutto insieme. In un unico luogo. Che poco ha a che fare con i centri commerciali vecchia maniera, spesso simili ad astronavi atterrate in mezzo alla città. Il nuovo edificio punta su materiali naturali, legno in primis, su tutti i 120 mila metri quadrati su due livelli che a lavori ultimati ospiteranno 230 negozi.
Come i piloti, anche Brunelli a suo modo ama il rischio. «L’acquisizione di questa area è stata una scommessa. Ora però dormo sonni tranquilli». Come dire: ogni business è un sorpasso azzardato, ma quando rientri in carreggiata tiri il fiato. Un brivido a cui Brunelli è abituato.

Fondatore di Esselunga insieme con Bernardo Caprotti nel ’57, Brunelli ha creato Finiper nel ’74 e nello stesso anno ha inaugurato il primo ipermercato italiano. Nell’84 si deve a lui la prima galleria commerciale. Oggi, con 26 ipermercati a insegna «Iper la grande I» e circa 170 supermercati, a nome Unes e U2, il gruppo genera un giro d’affari di 2,7 miliardi di euro l’anno ed è in utile a differenza di molte realtà del settore. Dà lavoro a novemila persone resistendo alla gelata dei consumi. «No, la crisi non è finita ma qualche segnale si vede - racconta Brunelli -. La gente, per esempio, sta tornando gradualmente a scegliere prodotti di qualità più alta. Ma basta poco, un evento sciagurato di cui si è avuto notizia alla tv, a bloccare la fiducia e svuotare i carrelli della spesa. Il fatturato ne risente subito». E allora meglio distrarsi. E tornare a sognare con un giro in pista.

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A parte l’endorsement istituzionale del quotidiano vicino alla Fiat, per il «felice epilogo» della vicenda ex Alfa, volata via coi suoi posti di lavoro verso lontani lidi globalizzati, qui andrebbe davvero sottolineato sino a che punto il copione del salvatore della patria a colpi di ovvietà vetuste appaia consunto: automobili, parcheggi, monocoltura commerciale, ovvero la predisposizione di tutto quanto prepara a nuove dismissioni probabili, in tempi a discrezione degli operatori. Resilienza urbana, in senso sociale, economico, ambientale, neppure parlarne, sarà di certo «economicamente insostenibile». Così ci teniamo l’ennesimo baraccone ottenuto a colpi di ennesimi ricatti, con la minaccia di mantenere eterni deserti urbani, a cui tutto è ovviamente preferibile, invece di delineare qualcosa di un po’ più simile a un quartiere metropolitano mixed-use (veramente multifunzionale, non molti negozi), con la speranza di restare tale, vitale, resiliente. In altra parte del giornale, qualcuno nota come la Città Metropolitana, che magari a regime avrebbe potuto contare un po’ di più sulla qualità di quella riqualificazione, sia nata morta, colpevolmente abbandonata dal Governo. There Is No Alternative? (f.b.)

«Cibo: dall’Italia alla Finlandia dalla Grecia alla Spagna i banchi più belli d’Europa. Non solo per fare la spesa: qui batte il cuore delle città». La Repubblica, 10 giugno 2015

CHIOSTRI medievali, ex-conventi, dimore ottocentesche. Non è solo per fare la spesa che si visita un mercato. Girare tra i banchi porta dritti nel cuore di una città: i prodotti freschi esposti, i profumi inebrianti, i colori e la gente. Piazze piene di vita da vivere dalla mattina fino a notte fonda, tra corsi di cucina e degustazioni, ci si va per trovare ingredienti a chilometro zero, un piatto preparato al banco, un aperitivo con vini biodinamici e ottimo cibo di strada. È un tuffo nella storia il mercato centrale di Atene. Fonde la tradizione europea con una forte atmosfera orientale. Nell’aria si respirano spezie e aromi piccanti che svegliano i sensi. Ma è l’architettura il suo vero fiore all’occhiello, perché il mercato si trova nell’antico edificio dell’Agorà di Omonia, che risale all’Ottocento, caratterizzato dal tetto in vetro e metallo. Rumoroso e affollato, visitatelo di sera, quando si anima con i numerosi bar che offrono una grande varietà di ouzo e i locali di musica rembetika dal vivo riempiono l’aria di allegria (lontano dal caos, rifugiatevi al Grand Resort Lagonissi, un angolo di paradiso sul mare: da 310 la doppia, it. lhw. com).
Per chi cerca avanguardie creative la meta è, invece, Londra. Specie nell’East End, che nel weekend si vivacizza, i parchi si riempiono di famiglie e dalle houseboat lungo i canali arrivano musica e profumo di grigliate. A Southwark Street il sabato c’è Borough Market, in una struttura che per secoli ha ospitato il commercio di generi alimentari: è ricco di stand di cucina locale e prodotti organici degli orti cittadini. Si tiene sempre il sabato Broadway Market, sul crocevia tra Regent’s Canal e London Fields, un caleidoscopio di profumi e sapori, dove assaggiare piatti di ogni angolo del mondo, dal sushi alla pizza (Shoreditch House, da 183 la doppia, shoreditchhouse. com).

Giovane, verde e mondana, Barcellona non è da meno. La Boqueria è l’indirizzo di punta. In una struttura in ferro battuto che risale al 1200, sulle famose Ramblas, è uno dei mercati coperti più amati in Europa. Curiosando tra i suoi stand si viene accolti da invitanti profumi di griglia e pesce fresco: se trovate un sgabello libero, provate un piatto cucinato espresso direttamente al banco, il Pa amb tomaquet, Tortilla de patatas, Botifarra, l’Esqueixada de bacalà e la Paella. Da Barcellona a Madrid il passo è breve. Il suo San Miguel è un esempio d’innovazione. Elegante, ordinato, pulito, offre ogni genere di delizia locale, è un ottimo indirizzo di gusto dove assaggiare cibo genuino, dalle tapas al Serrano. E al tramonto da non perdere l’aperitivo, con assaggi di cucina vegetariana (si vola Vueling, da 90 euro, (www.vueling.com).

Il gusto sposa la movida se siete a Berlino. Avanguardista, creativa, multiculturale, andate a Kreuzberg per perdervi tra caffè, ristoranti e locali che portano in un tour per il mondo. Fermatevi al Markthalle IX, aperto dal 1891. Occhio al giorno: è aperto il giovedì, quando le sue corsie sono piene di stand gastronomici dove gustare cucina tedesca, italiana, messicana, asiatica o spagnola, il venerdì e il sabato, con i coltivatori che espongono olio, marmellate, miele e formaggi (Soho House Berlin, da 120 euro la doppia: sohohouseberlin. com). In Italia non c’è che l’imbarazzo della scelta.

A Venezia il protagonista è il Rialto. Da circa mille anni si trova tra Campo de le Becarie, Campo de la Pescaria e Campo San Giacometto nel sestiere San Polo. Frutta, verdura, carni, pesce fresco si alternano a piccoli locali dove assaggiare delizie del posto: i bigoli, risi e bisi, il baccalà mantecato, seppie col nero, le sardelle in saor o i caparossoli in cassopipa (da Roma Alitalia, da 117 euro, www. alitalia. com). A Firenze vale la pena una tappa al Mercato Centrale per provare le bontà locali, ma con un occhio all’architettura: la costruzione in ferro e vetro è firmata dall’architetto Mengoni e datata 1874. Ospita botteghe artigiane, banchi di leccornie, ristoranti e trattorie per pranzare e cenare fino a mezzanotte, persino la scuola di cucina Lorenzo de’ Medici (da 271 la doppia al Grand Hotel Villa Medici, www. villamedicihotel. com).
Passando per Roma ci fermiamo all’Esquilino, mercato storico nato a fine Ottocento, che offre tra i suoi banchi un giro tra i sapori del mondo. È un vero meltin’pot di specialità: frutti esotici, sapori nuovi da culture lontane, dal Tapashi alla Cassua, c’è la carne halal e i nood les di soia. E chi desidera carpire qualcosa in più su mercati e alta cucina, alloggiando al Regina Hotel Baglioni di Via Veneto si partecipa a una speciale lezione che inizia con la scelta delle materie prime nei vivaci mercati rionali guidati dallo chef (info: The Leading Hotels of the World, it. lhw. com).

Quindi, la Sicilia. A Palermo gli indirizzi di culto sono due, Ballarò è il cuore tradizionale della città, con le primizie della campagna siciliana, le urla dei venditori, la confusione allegra tra i banchi. Ma è la Vucciria oggi il centro della movida palermitana: panelle, cazzilli, crocchè e stigghiole. Dovrete farvi largo in mezzo al caos, ma avrete tutto il meglio del più autentico cibo di strada (da 238 a notte il Grand Hotel Villa Igiea, villa-igiea).

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Come si prova - senza alcun risultato visibile a occhio nudo – ad avvertire da lustri, il modello commerciale suburbano e di libera concorrenza sul territorio lascia solo macerie ambientali economiche sociali, a brevissimo giro, altro che sviluppo. La Repubblica, 28 maggio 2015, postilla (f.b.)

MESTRE . Dal terrazzo del suo ufficio, nel parco commerciale di Porte di Mestre, Massimo Zanon vede cannibali. «Questo davanti è Auchan, centro commerciale da 39mila metri quadrati con 111 negozi, ampliato da poco più di un anno. Dall’altra parte della strada, a meno di 50 metri, hanno costruito Interspar, che vende le stesse cose di Auchan. Davanti all’Interspar sta aprendo un IperLando. Dietro quel palazzo c’è la Coop e Conforama…». Il presidente di Confcommercio Veneto li indica col dito, recitando un elenco che ormai conosce a memoria. «Decathlon, Pittarello, Mediaworld, Lidl, In’s, Obi, McDonald’s, Aumai ». Tutti qui. Troppi. «Prima hanno fatto chiudere i negozi del centro di Mestre, ora si stanno cannibalizzando tra loro. Non c’è più spazio». E, soprattutto, non ci sono più i clienti di una volta.

Caso unico in italia

Lo chiamano il “triangolo della merce”. E il parco Porte di Mestre ne è uno degli angoli. Nel raggio di dieci chilometri dall’ufficio di Zanon ci sono tre poli — a Mestre, Marghera e Marcon — sorti attorno a quattro enormi centri commerciali. Due, il Nave De Vero (55.000 mq) e il Panorama (12.000mq) di Marghera, distano duecento metri. È un caso unico in Italia. Bastano dieci minuti di macchina, percorrendo svincoli e tangenziali, per passare da uno all’altro. Attorno a questi grandi scatoloni di cemento e vetro sono spuntati una cinquantina di megastore. Altri scatoloni. Sempre le stesse 7-8 insegne delle grandi catene, sempre gli stessi prodotti. Per un bacino di utenza che non supera i 300.000 cittadini. Una densità che non ha eguali e che spinge la media veneta del consumo di superficie occupata dalla Grande distribuzione organizzata a 484,6 mq ogni mille abitanti (in Lombardia è 466,4, in Piemonte è 414,6). Dei 27.668 punti vendita italiani della Gdo (Iper e Supermercati, outlet e libero servizio) 4.791 sono in Veneto. Vanno cercate anche qui le risposte alle domande che gli operatori del settore si fanno da un paio d’anni, da quando hanno visto l’utile netto scendere sotto lo zero (—0,1 per cento nel 2013, — 0,5 per cento nel 2014): ha ancora senso aprire un centro commerciale? Quanto è grave la crisi che ha colpito il luogo simbolo del consumismo, dove si è sfogata l’ansia dell’acquisto compulsivo degli anni Ottanta e Novanta?

Negozi semivuoti

A giudicare dai corridoi semivuoti dell’ipermercato Auchan di Mestre la crisi è forte. Segna un punto di non ritorno. «Provi a contare le casse aperte», suggerisce Paolo Baccaglini, delegato Filcams Cgil impegnato in una vertenza con il gruppo francese che aveva annunciato 1.426 esuberi in 32 dei 49 centri a suo marchio, 65 dei quali a Mestre. Sono le 15 di lunedì: le casse sono 48, di cui 12 automatiche. Quelle in funzione appena 3. Il dato è suggestivo e qualche indicazione la dà. Delle due, l’una: o i clienti sono davvero pochi come sembra, oppure questo enorme contenitore di merce in vendita è fuori scala. Forse anche fuori tempo massimo, visto quello che certificano i bilanci del gruppo francese: dal 2010 al 2014 il giro di affari in Italia si è ridotto da 3,2 miliardi a 2,6 miliardi di euro. «Dopo 25-30 anni di grande sviluppo — spiega Patrick Espasa, presidente e ad di Auchan Italia — assistiamo a una fase di maturità del format ipermercato». Fuor di parafrasi, vuol dire crisi del modello centro commerciale. Dovuta a cosa? «La contrazione dei consumi, l’attacco dei punti vendita “non food”, l’esplosione degli hard discount e la diffusione della spesa via Internet». Insomma, la torta si è ridotta. E le bocche sulla piazza sono troppe.

È il cuore del centro commer- ciale a soffrire. I negozi reggono, c’è movimento soprattutto nei weekend e a pranzo e a cena nei ristoranti e nei fast food onnipresenti. «La visibilità che le mie erboristerie hanno qui — sostiene Doriano Calzavara — è dieci volte superiore rispetto a qualsiasi altro punto della città. Certo, la pago questa visibilità: 8mila euro al mese per l’affitto, la quota per l’aria condizionata, la vigilanza e la pubblicità. I centri stanno cambiando: si allargano le gallerie laterali con i negozi, si riducono gli spazi dell’ipermercato, le cassiere vengono sostituite dagli apparecchi automatici».
Accade lo stesso negli altri due poli del “triangolo della merce”. Alla Coop di Nave de Vero una cassa aperta (con sei persone in fila) su 22 totali alle 17.30 di lunedì, al Carrefour del ValeCenter di Marcon 4 casse aperte su 34 alle 18.30. Accade lo stesso un po’ ovunque, in Italia.

Lo spazio è saturo

A Cinisello Balsamo, per dire, si incontrano 17 centri commerciali in un’area che si copre in 20 minuti di macchina. Nel 77 per cento dei casi le insegne si ripetono, sono sempre le stesse: Bluvacanze, Fiorella Rubino, Intimissimi, Kasanova, Salmoiraghi, Wind, etc. Ma di clienti ce ne sono pochi in giro. Daniela Ostidich, sociologa dei consumi e dirigente della M&T, la spiega così. «Le grandi superfici di shopping funzionavano perché massificavano la merce, ma i consumatori del dopo crisi comprano solo quello che reputano giusto per prezzo, utilità e valore intrinseco: adesso vanno i mercatini online o a chilometro zero, le botteghe, i gruppi di acquisto». Dunque si frena, è inevitabile. Nel 2005 in Italia si aprivano 57 centri commerciali, nel 2014 appena 5 e siamo a quota 870. I punti vendita della grande distribuzione negli ultimi decenni crescevano sempre, sono arrivati a 29.366 nel 2011. Poi il calo, fino ai 27.668 di oggi. L’utile netto è passato dall’1,4 per cento del 2006 a - 0,1 per cento del 2013 e nel 2014 le vendite si sono ulteriormente ridotte dello 0,4 per cento. Si parla di migliaia di esuberi a Carrefour, MediaWorld, CoopEstense. «Speriamo nella ripresa. Nel Mezzogiorno per incentivare nuovi investimenti è necessario combattere la concorrenza sleale, intervenendo sull’evasione e il lavoro irregolare », è l’opinione di Giovanni Cobolli Gigli presidente di Federdistribuzione. Il format va rivisto, e alla svelta.

Sempre più grandi

Anche perché quasi mai i centri commerciali che non tirano più, chiudono. Al massimo cambiano marchio. Alle amministrazioni comunali fa comodo averli sul proprio territorio: un ipermercato di grandi dimensioni a Milano paga di Imu e tasse per i rifiuti qualcosa attorno al milione di euro all’anno. Da quando il settore è stato liberalizzato, nel 1999, le licenze edilizie sono state date a pioggia. Si è fatto costruire ovunque, anche in zone già ingolfate. E ora ci sono migliaia di contratti con i negozianti interni da rispettare. Dunque non chiudono, ma sono costretti alla metamorfosi per sopravvivere. Diventando sempre più grandi. «In futuro aumenteremo le dimensioni — è la ricetta di Patrick Espasa, numero uno di Auchan — offriremo servizi alternativi, zone wi-fi, i nostri punti vendita saranno sempre di più luoghi dove socializzare, integrandosi con lo shopping online. Non temiamo la concorrenza, ma non ci va bene la concorrenza non organizzata». Quella dei grandi scatoloni di cemento ammassati in pochi chilometri quadrati, che diventano cannibali.

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Non stupiscono leattese di tutti quanti perché «una volta superata la crisi contingente» tuttotorni felice e cretinamente suicida come prima. Non stupisce, neppure, chesicuramente anche strofinando sul muso degli amministratori le centinaia diarticoli scritti tanto tempo fa, che avvertivano esattamente di questoincombente ovvio destino, la risposta sarebbe «certo all’epoca noi non potevamosapere». Quello che stupisce davvero è che non si colga – da parte di chidovrebbe rappresentarci - la logica consequenziale di un certo andamento dellecose. I pensosi manager che rispondono evasivi e settoriali alle interviste, daattenti lettori quali sono della stampa specializzata internazionale, erano benconsapevoli di cavalcare una piccola onda (quella della crescita indefinita edella polarizzazione suburbana) già ampiamente esaurita altrove, e destinata afar lo stesso anche qui. E però rivendevano ai soliti gonzi scenari di crescitainfinita, posti di lavoro a valanghe, e naturalmente un territorio dove la«esperienza dello shopping» diventava weltanschauung onnivora, sia in terminidi aspirazioni che di risorse territoriali. E poco importava che, come giàavvenuto altrove, prevedibilmente, le stesse risorse si esaurissero, in un modoo nell’altro: l’importante era incassare, e andare a raccontare ballepromozionali al prossimo sprovveduto. Tanto per timbrare il cartellinotecnico-scientifico, vorrei concludere questa postilla con lo slogan, facilefacile, del quartiere urbano multifunzionale, che è in ogni senso l’oppostoassoluto dello scatolone introverso monouso posato su spazi aperti extraurbani.Ecco: distinguere fra queste due distinguibili entità, sarebbe piccolo segno dibuona fede, perlomeno di «non potevamo sapere, ma ci siamo mossi con prudenza».Oppure avanti così, alla prossima sorpresa che non è tale, di crisi ciclica delcentro commerciale (f.b.)

Un caso esemplare di danni dell’imbecillità amministrativa nella gestione del territorio, ben oltre gli aspetti criminali di infiltrazione che ahimè piagano certe trasformazioni metropolitane da tempo. Corriere della Sera Lombardia, 24 maggio 2015, postilla (f.b.)

Muggiò - Un campus universitario; un parco giochi per i bambini; una cittadella dello sport; un outlet che promette di salvare pure le sale cinematografiche. Per il Magic Movie Park, la multisala più sfortunata della Brianza, un ritorno al futuro sembrava impossibile. E invece ora, sul tavolo del sindaco di Muggiò, Maria Fiorito, ci sono ben quattro progetti. «Sono uno più bello dell’altro — commenta —. E tutti offrono una certezza: riusciranno a integrare in modo armonioso un enorme “scatolone” di cemento armato di 25 mila metri quadrati con quello che lo circonda: il Parco del Grugnotorto, un’area naturale protetta. E nemmeno un centimetro in più sarà rubato al verde».

Il conto alla rovescia per la nuova asta è iniziato. E, quando tra poche settimane sarà fissata, «siamo fiduciosi — assicura Fiorito — che su uno dei capitoli più tormentati della storia recente della Brianza, si volterà pagina». Certo, guardando oggi quel che resta del Magic Movie Park, un domani che non sia la demolizione sembra impossibile. Quello che era stato uno dei multiplex più attrezzati e avanzati della Brianza, è ridotto a una «città fantasma». Faccendieri cinesi e napoletani hanno portato alla chiusura del cinema, precipitato in uno dei più rovinosi crac finanziari della Brianza. Ma ora, all’opera di imprenditori senza scrupoli si è aggiunta quella dei vandali che stanno distruggendo l’ex multisala. Sull’area all’aperto dove c’erano la piscina, i laghetti per la pesca e una palestra en plein, ora c’è una vera e propria discarica a cielo aperto. Sulle piste su cui si faceva sport all’aria aperta, ora ci sono quintali di rifiuti. Gli ampi parcheggi sono stati riconquistati dalle sterpaglie.

Ma una desolazione ancora più grande regna all’interno. Una volta c’erano 15 sale cinema, una per i film d’autore, due sale per spettacoli teatrali per corsi di recitazione, spettacoli di burattini, presentazioni di libri, ristoranti bar, sale giochi, le vetrine dei negozi. Ora ci sono solo vetri in frantumi, mobili sfondati, muri imbrattati, porte sfondate. Un vero e proprio luna park per bande di teppisti notturni, che si aggirano per gli immensi spazi vuoti, spaccando tutto quello che capita loro a tiro senza che nessuno li fermi. Le scale mobili sono distrutte, e perfino le sale cinema sono state deturpate e ridotte a tristi magazzini impolverati. Un «cimitero del cinema», abbandonato da quasi dieci anni. «Pensare a un riutilizzo per un “non luogo” come questo non è stato facile — spiegano i curatori fallimentari — . Ma non è stato possibile fare miracoli. Per attrarre operatori commerciali è stato necessario in pratica regalare l’ex cinema.

Alla prossima asta, una struttura che era costata 60 milioni sarà battuta ad appena tre milioni di euro». Una somma ridicola per una multisala da 4100 posti la cui sola area parcheggi è vasta oltre 37 mila metri quadrati. Alla prima asta, l’immobile fu proposto a 30 milioni. Risultato: zero compratori. Ora, quasi «regalandolo», si spera di trovare un acquirente. Il prezzo è ghiotto. Ma chi lo acquisterà dovrà ristrutturare da cima a fondo un immobile semi distrutto. E poi ci sono i debiti: un buco di 52 milioni di euro.

postilla

Questa vicenda, come tante altre, merita qualche complemento informativo di carattere generale che suona più o meno al solito: bastava ascoltare chi ne capisce, maledetti idioti! Perché l’operazione dai soliti contenuti di scambio urbanistici-economico-occupazionali e livello minimo pareva da subito caratterizzata anche da notevole ingenuità, come del resto tante altre legate ai grandi contenitori commerciali.

Ovvero si riponeva una disinformata fiducia (ripeto, al netto dei risvolti criminali) in questo formato rigido del multisala, analogo agli altri che si chiamino outlet, retail park e compagnia bella. Semplicemente, come indicano da lustri le tendenze dei contesti dove i grandi contenitori commerciali suburbani hanno più sedimentazione, la vita funzionale dei colossi è molto breve, bisogna da subito pensare sui tempi lunghi a funzioni e attori in grado di garantire l'inevitabile riuso evitando vuoti e degrado, e comunque nel terzo millennio della scarsità di suolo agricolo e spazi aperti puntare su nuove urbanizzazioni, in una superficie a parco metropolitano (teoricamente inclusa nella sottile delicata discontinua greenbelt settentrionale milanese), pare davvero fuori luogo. E invece, a furia di leggere i conflitti del commercio soltanto in termini di prezzi e guerre di basso profilo fra supermarket e bottegai dell’angolo, si combinano anche pasticci del genere. In cui, è il caso di aggiungere, poi gli interessi illeciti e la criminalità organizzata volendo trovano sempre il modo di inserirsi, come in tutte le strategie deboli (f.b.)

Il capitale punta sugli italiani ricchi e spendaccioni. Intanto, chi paga è il territorio. Il Sole-24 Ore, 2 marzo 2015

I centri commerciali scommettono contro la crisi e proseguono nei loro piani di sviluppo con oltre venti progetti. Nel prossimo triennio sono in arrivo circa un milione di metri quadri di spazi commerciali che avranno un valore a portafoglio tra i 4 e i 5 miliardi
«Sono ripartiti i cantieri e il 2015 sarà l' anno della svolta», dice Massimo Moretti, presidente del Consiglio nazionale dei centri commerciali. Un piano da circa un milione di metri quadri di spazi affittabili. I centri commerciali scommettono contro la crisi e inseguono lo sviluppo del comparto con 22 nuovi progetti in essere, di cui nove in fase di costruzione e i restanti allo stato progettuale.
Operazioni che una volta ultimate avranno un valore finale a portafoglio tra i 4 e i 5 miliardi.

Questa la stima di Massimo Moretti, presidente di Cncc, il Consiglio nazionale dei centri commerciali, che raggruppa anche i parchi commerciali e i factory outlet, commentando l' elenco dei progetti: «Negli ultimi due anni sono ripartiti i cantieri e il 2015 sarà l' anno della svolta, con l' inaugurazione di importanti centri, in uno scenario ben intonato». È l' atteso rimbalzo dopo il tracollo subìto all' inizio della crisi, quando il comparto ha accusato le conseguenze del credit crunch.
Quando questa ondata di nuovi shopping center sarà ultimata il settore supererà i 18 milioni di metri quadri di superfici disponibili con un aumento del 6 per cento. La maggior parte delle operazioni sono promosse da capitali esteri. «L' 80% degli investitori sono stranieri, anche se fanno fatica a muoversi tra le autonomie locali e le leggi regionali del commercio che frenano lo sviluppo - aggiunge Moretti -.Per operare serve maggiore omogeneità».

Tra tutti i progetti spiccano due mall che si preannunciano colossali. Il primo è il Westfield Milan, promosso da Arcus Real Estate (controllata da Stilo immobiliare finanziaria, holding delle attività immobiliari di Percassi) e il colosso australiano Westfield. Sorgerà a pochi chilometri dall' aeroporto di Linate e inizialmente si svilupperà su una superficie di circa 170mila metri quadri, che diventeranno circa 250mila nella fase 2. Nel complesso un progetto da 1,3 miliardi di euro: un villaggio del lusso con circa 50 boutique, oltre al department store Galeries Lafayette, il primo in Italia. C' è poi il centro commerciale Pescaccio a Roma, oltre 135mila metri di spazi commerciali, a cui si aggiungeranno un cinema multisala e aree multifunzionali. Nella capitale si lavora anche al Centro commerciale Laurentino e all' area di Selva Candida.
Nei dintorni di Milano sono in fase avanzata i lavori dell' Arese shopping center, progetto del Gruppo Finiper di Marco Brunelli, che sorgerà negli spazi della ex fabbrica dell' Alfa Romeo. Un investimento da oltre 300 milioni per creare un polo dello shopping con 200 negozi e un tratto distintivo forse unico al mondo: un circuito automobilistico storico. «A maggio verrà inaugurato il tracciato della pista di collaudo» anticipa Francesco Ioppi, direttore real estate del Gruppo Finiper. Lo shopping center verrà invece inaugurato nel primo semestre 2016.
«La fase di prenotazione degli spazi è avanzata e prevediamo di chiuderla a giugno - continua Ioppi -. Ci saranno brand innovativi, non ancora presenti in Italia». Oltre a riqualificare un' area industriale il mall avrà un bassissimo impatto ambientale «grazie alla certificazione Leed gold».
Anche nel Mezzogiorno si stanno sviluppando diverse iniziative, ma di dimensioni inferiori, in media tra i 30 e i 45mila metri di spazi commerciali. Due i centri in Puglia, a Bari e a Foggia; in Campania è previsto il Policentro Afragola, nei dintorni di Napoli, mentre a Catanzaro è prevista La Perla shopping center. È entrato nella fase 2 il Sicilia outlet village (Gruppo Percassi), che così raggiungerà i 145 store.
Altri centri commerciali sono previsti a Trento, a Faenza, in provincia di Ravenna, e ben tre nei dintorni di Verona. Come in una partita a dama il commercio moderno sta conquistando tutte le province della penisola.


Una concentrazione di interessi che rischia di ripetere, se non adeguatamente percepita e valutata, gravi squilibri fra centro e periferia, solo di natura inedita rispetto al passato della terziarizzazione novecentesca. Corriere della Sera Milano, 21 dicembre 2014, postilla (f.b.)

Duomo, Galleria, via Manzoni, piazza dei Mercanti, Cordusio, piazza Affari, piazza Castello. È qui che si gioca la partita sulla nuova anima commerciale del centro città sempre più ostaggio di palazzi vuoti, quasi fantasma?

I protagonisti del riassetto immobiliare della metropoli ne sono certi: «Sull’asse Castello-Duomo passano 20-25 milioni di turisti l’anno, spesso interessati allo shopping . Far scappare gli investitori stranieri che hanno acceso i loro riflettori sulla zona sarebbe un errore, è un caso unico in Italia». Che, tradotto, significa una richiesta a chi governa: «Più strategia, visione, incentivi, pedonalizzazioni, servizi». In una città che a eccezione delle nuove aree come Porta Nuova e Citylife sta dicendo basta al consumo di suolo — restano in ballo ancora il Portello e lo scalo Farini —, di fatto si apre in via definitiva il fronte del riutilizzo del patrimonio immobiliare storico, occasione per una ristrutturazione degli immobili.

«Milano non ha mai fatto riqualificazioni edilizie. Si tratta di un’occasione da non perdere» dicono dal mercato immobiliare. Ma tra cambi di destinazioni d’uso, vincoli architettonici da rispettare o superare, le «battaglie» con burocrazia e regole — da sempre il disincentivo all’approdo di capitali esteri in Italia —, la grande shopping area del centro resta uno scenario piuttosto lontano. La trasformazione dei palazzi a cui s’interessano i fondi sovrani asiatici (Gic di Singapore) e mediorentali (Qatar e Abu Dhabi) e i fondi americani (come Blackstone), è una partita tutta da giocare. Anche per i «capitani coraggiosi» dell’investimento.

postilla

Qualcuno si ricorderà sicuramente il termine “terziarizzazione strisciante” applicato ai centri storici, quando nella seconda metà del'900 in ampie aree urbane, vuoi senza trasformazioni edilizie di rilievo, vuoi con qualche anche importante manomissione del tessuto tradizionale, avveniva uno svuotamento e successivo riempimento con altre funzioni. Si tratta in fondo del medesimo processo che ancora oggi spesso rende difficile applicare decentemente politiche ambientali, del traffico, o la semplice promozione di una maggiore articolazione funzionale. Ecco, forse continuare a vivere la grandi manovre di questi operatori interessati a “valorizzare il centro”, come se fossero avulse da ciò che accade altrove nelle aree metropolitane, per esempio nell'assetto degli ex “superluoghi” ovvero i classici scatoloni extraurbani, potrebbe far perdere di vista una importante occasione. Perché appare ovvio come, ad esempio, la possibilità di abbondantissimi spazi nelle zone più pregiate del nucleo metropolitano, fa diminuire di interesse la localizzazione nei vari shopping mall o outlet classici da svincolo autostradale, con buona pace di chi pensava a quegli scatoloni come strumento di rilancio anche economico di un certo rilievo. Meditiamo: evitare il dirigismo astratto in materia commerciale andrà anche benissimo, ma considerare qualunque strategia diversa dal puro plauso al “mercato” come strisciantemente incostituzionale sarebbe stupido. Una prospettiva di città metropolitana in fondo significa anche quello, riflettere sul rapporto fra spazio e commercio (f.b.)

Per adesso solo un progetto pilota della multinazionale svedese, me è innegabile che gli effetti della riurbanizzazione anche su stili di vita e relativo mercato si facciano sentire. Bloomberg, 30 giugno 2014 (f.b.)

Titolo originale: Ikea Goes Urban With First High Street Store in Hamburg – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Ikea è riuscito a diventare il principale negozio di arredamento del mondo convincendo la clientela a guidare fino a enormi centri ai margini delle aree metropolitane, da Stoccolma a Shanghai. Ma da oggi gli abitanti di Amburgo potranno andarci a piedi in una normale via della città. Il colosso svedese apre il suo primo negozio urbano nella zona di Altona, la circoscrizione più a ovest delle sette che compongono Amburgo, in un progetto pilota rivolto ai sempre più numerosi residenti delle città che detestano le lunghe trasferte verso i punti vendita tradizionali giallo blu. Una inaugurazione che (al costo per l'azienda di 80 milioni di euro) rappresenta un esperimento per Ikea, e apre nuove frontiere al mercato, secondo Johannes Ferber, direttore generale che guida l'espansione in Germania. “Un esperimento molto costoso per noi,ma vogliamo capire se funziona il formato del negozio urbano. E quello di Altona può servire da modello per altre grandi città come Berlino”. Si tratta di un'idea in linea con altri tentativi di altre catene di colonizzare gli ambienti urbani, da Tesco a Carrefour, con formati di dimensioni minori e relativamente centrali. I centri città sono anche l'ultima tendenza per le case automobilistiche, come la Daimler che ha appena aperto sempre a Amburgo un negozio Mercedes completo di bistrot, passeggiata commerciale e che mostra una sola auto.

Un sito dismesso

L'Ikea ha 356 punti vendita al mondo, 49 in Germania. Il progetto di Altona è il terzo nella città portuale, terza per dimensioni nel paese e prima per il reddito pro capite, secondo le statistiche della camera di commercio locale. La decisione di localizzarsi a Altona nasce nel quadro di una ricerca per un terzo negozio, racconta Ferber, e la municipalità ha di propria iniziativa messo a disposizione un sito dismesso abbandonato da oltre sei anni. La compagnia calcola che nel negozio potrebbero passare mediamente 4.000 clienti al giorno, anche il doppio nei fine settimana e altre occasioni particolari, contro i 12.000 nei negozi di Monaco o Berlino. “Molti residenti delle città non possiedono un'auto, e non sono disposti a guidare fuori città per far shopping” continua Ferber, e la speranza è che oltre la metà dei clienti di Altona verrà qui coi mezzi pubblici o a piedi.

Biciclette in prestito

Ikea mette a disposizione delle cargo bike per i clienti che possono così trasportare gratis i propri acquisti a casa, salvo restituire il mezzo entro tre ore. In alternativa è possibile chiedere a un corriere sempre in bicicletta, prezzo di partenza 9,90 €, di farsi consegnare la spesa a domicilio. “Per noi è una sfida, dobbiamo contare su un buon movimento per servire rapidamente la clientela a casa”. Ikea ha anche modificato la propria offerta di prodotti per il negozio di Altona, secondo la possibile domanda dei potenziali 150.000 clienti che risiedono in un raggio di tre chilometri, dalle scaffalature agli accessori. Incaricati dell'azienda hanno visitato 200 appartamenti della zona a valutare le necessità specifiche, racconta Ferber. “Ci sono tantissimi abitanti di Amburgo che si portano una costosa bicicletta fino in casa perché non hanno altro posto per metterla, e abbiamo una soluzione per loro”, si tratta di un gancio da muro particolare. E a differenza dei classici enormi contenitori Ikea senza finestre, al piano terra di Altona un'ampia vetrina mostra vari prodotti fra cui la sedia girevole Skruvsta a 99 euro, o le lampade Maskros a 39 euro.

‘Kill Billy’

All'interno, Ikea offre la zona esposizione e quella in cui il cliente può caricare i prodotti sui trolley o sistemarli altrimenti. Nei negozi tradizionali queste due aree sono su piani diversi. “Un modo innovativo di proporre cose come le cucine insieme ai relativi accessori, vetreria, porcellane, pentole, per poi passare alle sale da pranzo o sedie” continua Ferber. L'apertura del negozio ha suscitato opposizioni con lo slogan “Kill Billy” attaccato con adesivi ai lampioni e cestini della carta straccia, che cita ovviamente la famosa libreria simbolo del marchio: secondo gli oppositori la riqualificazione farà impennare quotazioni immobiliari e affitti.

In un referendum tenuto nel gennaio 2010 a Altona, il 77% dei votanti si è espresso a favore del negozio. “Se i favorevoli fossero stati una maggioranza del 51% forse ci avremmo ripensato, ma con una margine tanto ampio abbiamo deciso di proseguire” conclude Ferber. “Certo per Ikea deve essere molto diverso dall'organizzare un punto vendita in aperta campagna, dato che bisogna confrontarsi coi quartieri”commenta Florian Kroeger, gestore di un esercizio di ristorazione all'altra estremità dell'area pedonale. La sua famiglia è proprietaria di Claus Kroeger da 90 anni, si offrono bevande calde scelte e vini. Secondo Kroeger, 41 anni, il grande negozio farà bene, portando un po' di necessaria vita nel quartiere tradizionalmente operaio.

L'ennesimo scontro globale locale sull'insediamento della grande distribuzione, letto come misera baruffa di interessi di bottega, e probabilmente percepito come tale anche dai protagonisti. Corriere della Sera, 9 novembre 2013

«Non fateci chiudere». Battaglia tra la Confcommercio milanese e l’Ikea sull’insediamento di un nuovo centro commerciale a Rescaldina, a 30 chilometri da Milano e a 5 da Legnano: 74 mila metri quadrati di cui 22 mila destinati ad ospitare mobili e arredamenti della ditta scandinava e gli altri 52 mila finalizzati a realizzare una galleria che offrirà differenti merceologie. I negozianti: overdose di centri commerciali. Possiamo già chiamarla la battaglia di Rescaldina perché il conflitto che si è aperto tra la Confcommercio milanese e l’Ikea è di quelli destinati a segnare quantomeno una stagione. La querelle verte sull’insediamento di un nuovo centro commerciale nel comune di Rescaldina a 30 chilometri da Milano e a 5 da Legnano. Si parla di 74 mila metri quadrati di cui 22 mila destinati a ospitare mobili e arredamenti della ditta scandinava e gli altri 52 mila finalizzati a realizzare una galleria commerciale che offrirà differenti merceologie. È il nuovo format dell’Ikea che ha visto una prima realizzazione a Villesse, in provincia di Gorizia e a ridosso della autostrada A4 e ora sbarca nell’Alto Milanese per poi puntare su Brescia. Rischiando di creare però quella che i commercianti denunciano come «un’overdose di centri commerciali» perché sull’asse Rho-Gallarate ne esistono già 13 oltre a un altro centro shopping sempre nel territorio di Rescaldina che occupa 46 mila metri quadri.

La contestazione dei progetti svedesi è iniziata ieri con un’assemblea di un centinaio di commercianti a Legnano e con la presenza di un paio di sindaci della zona, assessori e consiglieri regionali. Ma siamo solo all’inizio, da qui alla fine di novembre ne sono previste altre due a Saronno e Gallarate sempre con la regia dell’associazione che fa capo a Carlo Sangalli. Oltre ai danni che il centro Ikea provocherebbe per il tessuto dei dettaglianti costretti a chiudere i battenti, nel corso dell’assemblea è stato denunciato «un consumo di suolo di ulteriori 280 mila metri quadrati sottratti al verde e all’agricoltura in un’area già fortemente urbanizzata». La Confcommercio contesta anche i dati sull’occupazione, secondo il suo ufficio studi per 840 nuovi posti di lavoro creati con l’insediamento Ikea se ne distruggerebbero 1.085 nelle piccole imprese della zona e quindi il saldo sarebbe negativo.

La battaglia di Rescaldina scoppia in una congiuntura drammatica per il settore del commercio, la contrazione dei consumi ha messo in gravissima difficoltà i piccoli esercenti ma ha creato problemi anche ai centri commerciali. Non è un caso che le nuove aperture siano quasi esclusivamente da parte di operatori specializzati come Ikea, Decathlon o LeroyMerlin mentre i punti vendita generalisti soffrono e non pensano certo di espandersi. Se a Rescaldina si pensa di varare una nuova galleria commerciale lo si fa solo in virtù del traino Ikea perché altrimenti non avrebbe speranze di audience. Il tempo dello sviluppo esagerato dei centri commerciali in realtà è già terminato, il consumatore privilegia gli acquisti frazionati e non più la «spesona» e ovviamente questa tendenza al ribasso colpisce in primo luogo gli ipermercati. È vero poi che in Lombardia la grande distribuzione è cresciuta più che in altre regioni (ha una quota di mercato attorno al 70%) e l’orientamento programmatico della giunta regionale di centrodestra è considerato nettamente a favore dei Piccoli.

L’Ikea per ora non ha intenzione di replicare direttamente, ha affidato all’università di Castellanza uno studio sull’impatto del nuovo insediamento e quindi si appresta a una battaglia a colpi di slide e che non potrà non avere risvolti politici. Si sa che l’investimento sarà di 250 milioni di euro e che gli 840 saranno i soli posti di lavoro diretti ai quali va aggiunto il potenziale indotto. L’operazione non sarà tutte sulle spalle degli svedesi ma sono previsti dei partner immobiliari che si suddivideranno, ad esempio, i costi di realizzazione di nuove infrastrutture di viabilità stimati in 25 milioni. Per andare avanti sarà necessario però quello che in gergo si chiama un accordo di programma che dovrebbe prevedere le varianti urbanistiche, la licenza di vendita e l’assetto della nuova viabilità e alla fine richiederebbe le firme dei sindaci dei due comuni coinvolti (Rescaldina e Cerro Maggiore), della Regione e della Provincia di Milano. Se tutto dovesse filare liscio questo documento potrebbe vedere al luce non prima della primavera 2015 mentre per l’inaugurazione del centro bisognerebbe comunque attendere il 2018. Come si può arguire dalle date l’investimento guarda lontano ed è considerato strategico dai manager Ikea. Ma mentre sul fronte dei commercianti trapela come ipotesi di mediazione un ridimensionamento del progetto (solo il magazzino Ikea e niente galleria commerciale), l’azienda scandinava non sembra disposta a esaminare subordinate. O tutto o niente, ma siamo solo alla prima puntata.

Man mano cresce anche nel nostro paese la consapevolezza e l'applicazione pratica del contenimento del consumo di suolo, spunta automaticamente un altro problema: la ri-colonizzazione degli spazi urbani da parte dei vari soggetti: chi prevale?

Alcuni anni fa, ero a Catania per un convegno, e alloggiavo in un albergo sulla centralissima via Etnea. Uscendo diretto all'università, avevo in mente tutt'altro che la contemplazione del panorama, visto che dovevo tenere una relazione da lì a una manciata di minuti, e me la stavo mentalmente ripassando già sull'ascensore. Beh, devo dire che quella volta il mio ritorno ad un rapporto fisico diretto e consapevole con la città, è avvenuto in modo assai più brusco del solito: sono andato a tutta velocità a sbattere la faccia contro un muro. Il perché è presto spiegato. Giusto dopo l'insegna del tale marchio di abbigliamento avevo imboccato la via trasversale … ma non c'era alcuna via trasversale da imboccare, solo una solida parete di muratura. Né ero stato vittima di improvvisi lavori pubblici o privati iniziati nella notte: subivo solo nel modo più patetico gli effetti della cosiddetta Città Clone.

Si tratta di un fenomeno piuttosto noto, e stigmatizzato da tempo dagli studiosi della britannica New Economics Foundation: soprattutto quando le politiche urbanistiche e commerciali provano a contenere la dispersione e i grandi contenitori extraurbani a forte orientamento automobilistico, le catene della distribuzione organizzata trasferiscono dentro il tessuto della città consolidata il proprio modus operandi classico, organizzandosi in una specie di shopping mall all'aperto, che ricalca pari pari sulle vie cittadine accostamenti e complementarità che di solito sperimentiamo dentro ambienti ad aria condizionata. Io in particolare avevo confuso addirittura una città con l'altra, scambiando via Etnea con una familiare via Manzoni un migliaio di chilometri più a nord. Da qui il brusco incontro con quell'intonaco che non stava dove doveva stare. Un incontro brusco che, in un modo o nell'altro, può però riguardare molte altre persone e interi sistemi socioeconomici locali: la grande superficie non necessariamente atterra in città nelle forme che diamo per scontate nei territori della dispersione.

Cosa che ha anche potenziali risvolti positivi, a ben vedere. Perché di sicuro se il panettiere dell'angolo non ce la fa più per motivi di età, e il figlio invece di imparare a stare dietro al banco ha preferito studiare violoncello, ben venga magari la catena in franchising La baguette d'aujourd'hui invece di lasciar vuoti i locali o riempirli con l'ennesima sede di finanziaria o agenzia immobiliare, che di solito durano poco e non danno alcuna vivacità al quartiere. Però esiste, come provavo a riassumere con la mia tragicomica esperienza di scontro frontale, anche il rischio di uno shopping mall virtuale, tale cioè da riprodurre sia il tipo di concorrenza che di solito fa uscire dal mercato gli esercizi non di catena, sia il rischio che a un solo abbandono seguano rapidissimamente come pedine del domino tutti gli altri, desertificando di colpo un'intera via o zona, e rendendo poi molto difficile una rigenerazione efficace.

Questa nota trae spunto dall'articolo firmato oggi su la Repubblica da Francesco Merlo e intitolato “Benvenuti a Souvenir City quella strada che unisce il nuovo mondo globale”, dove, come spesso succede alla nostra stampa nazionale, si scoprono certi fenomeni non solo in ritardo, ma da una prospettiva a dir poco folkloristica. Racconta Merlo, sostanzialmente, della sua delusione nello scoprire che la maglietta con la scritta curiosa, faticosamente recuperata scarpinando per una strada di Singapore, poi si trova in una via diventata del tutto identica e con la medesima offerta commerciale, a qualche centinaio di metri da casa propria. Il disappunto del borghese un po' fighetto è di aver perso un vantaggio di posizione e prestigio rispetto alla massa internazionalpopolare. Mentre passa del tutto in secondo piano come questo genere di colonizzazione non solo finisca per minare certe particolarità urbane locali che sono la base su cui si regge il turismo, ma metta a rischio la stessa risilienza minima delle aree interessate.

Ergo ci sono due problemi distinti, che spesso colpevolmente si confondono nella solita contrapposizione manichea fra esercenti locali (buoni per definizione) e grandi catene o marchi (cattivi perché invasori alieni): grande superficie, grande organizzazione. Il primo tema è quello classico, legato alla dispersione insediativa, al modello di trasporto e consumo a orientamento automobilistico che oggi si mette sempre più in discussione per motivi ambientali, energetici, sociali. Il secondo tema non salta così immediatamente all'occhio, come dimostra la prospettiva scelta dall'articolo de la Repubblica, ma può rappresentare uno sbocco automatico delle politiche tese ad arginare il consumo di suolo: possiamo intervenire anche su questi aspetti? E in che modi? Difficile dirlo senza sperimentare modelli di intervento, come quelli tentati proprio in Gran Bretagna da una agenzia pubblica (Commissione Portas) che non solo elargisce sostegni ai piccoli operatori, ma lavora soprattutto in termini di immagine per il consumatore e di integrazione col resto delle attività urbane. In pratica costruendo in forma di rete ciò che le grandi catene fanno agendo in proprio coi potenti mezzi a loro disposizione.

Prima, però, occorrerebbe separare i due aspetti, dell'occupazione di spazio urbano, e del tipo di organizzazione che si insedia. Solo così si inizia a valutare davvero chi induce vitalità o meno, chi accresce o diminuisce identità locale, chi può accompagnare virtuosamente processi di riqualificazione, o garantire in qualche modo che non ce ne sia affatto bisogno. Come dimostrano ad esempio le lotte infinite delle associazioni di esercenti contro pedonalizzazioni o limitazioni simili, non sempre essere piccoli e locali significa essere automaticamente virtuosi. Allo stesso tempo, senza una chiara politica pubblica ad esempio di coordinamento della partecipazione di piccoli e grandi soggetti a iniziative di gestione congiunta (sul modello modificato dei Business Improvement District internazionali) la trasformazione in shopping mall virtuale dominato da pochi grandi soggetti e poco resiliente, con parallela desertificazione delle zone adiacenti, pare un destino segnato. Il che è sicuramente più grave sia del mio scontro col muro, sia dello sconcerto del giornalista per aver perso l'esclusiva dei prodotti esotici.

QUI scaricabile il citato articolo di Francesco Merlo da la Repubblica 6 luglio 2013

La moratoria, pur positiva in sé, sulle nuove concessioni commerciali, sembra nascere da una filosofia sostanzialmente protezionista e reazionaria, senza troppo futuro. Corriere della Sera Milano, 26 giugno 2013, postilla (f.b.)

Stop ai nuovi super e ipermercati in Lombardia. Da qui alla fine dell'anno. L'obiettivo in questi sei mesi è mettere a punto una riforma della legge regionale del commercio. Restrittiva rispetto alla grande distribuzione.

Il congelamento dei nuovi progetti ieri è stata votato all'unanimità. Tutti favorevoli, dal Pdl alla Lega, passando per Pd e M5S. Il testo iniziale è stato addirittura reso più severo: bloccati anche gli ampliamenti delle strutture già esistenti. Si fermano gli accordi di programma di Cinisello Balsamo (Immobiliare Europea spa); Cerro Maggiore e Rescaldina (Cr Sviluppo); Como (Esselunga, area Camerlata); l'ampliamento Esselunga a Calco (Lecco); il progetto di Curtatone, in provincia di Mantova (Comet spa); Marmirolo (sempre Mantova, Cgi srl); Leroy Merlin a Solbiate Arno; Locate Triulzi (Locate District srl). Potrà andare avanti, invece, il progetto nel nuovo quartiere milanese di Citylife, «salvato» da un emendamento che preserva le iniziative legate a Expo.

A nessuno sfugge che la vera partita inizia ora. Con il confronto per arrivare a una nuova legge regionale sul commercio. La Lombardia di Roberto Maroni non ha nessuna intenzione di spingere sull'acceleratore della concorrenza. I segnali sono inequivocabili. Da una parte mercoledì 19 giugno il consiglio regionale ha invitato con una mozione la giunta a intervenire presso il governo per una revisione delle disposizioni in materia di liberalizzazioni degli orari. Dall'altra è stata bloccata la sperimentazione che permetteva di ribassare i prezzi anche nel mese prima dei saldi.

«Quello di ieri è un primo passo verso la valorizzazione dei negozi di vicinato — chiarisce l'assessore regionale al Commercio, Alberto Cavalli —. E' evidente a tutti che oggi a essere in difficoltà sono i punti vendita di vicinato. Anche in vista di Expo non possiamo permetterci centri cittadini desertificati». Determinante per l'evoluzione della partita lombarda saranno gli esiti in parlamento del dibattito sulla normativa del commercio. Sempre più il decreto Salva Italia varato dal governo Monti è sotto assedio. Una sua revisione, nella direzione di una maggiore libertà a ciascuna Regione di stabilire le proprie regole, lascerebbe alla Lombardia le mani libere. «Il nostro obiettivo è salvaguardare l'occupazione nel settore e nello stesso tempo garantire un modello commerciale sostenibile. Salva Italia permettendo», puntualizza Angelo Ciocca, Lega, a capo della commissione Commercio del Pirellone».

La grande distribuzione sa di dover nuotare controcorrente: «Contro la restaurazione del commercio andremo in tutti gli antitrust di questo mondo». Dal canto suo Confesercenti fa pesare in ogni sede le 150 mila firme raccolte contro il Salva Italia. Sul fronte delle dinamiche interne al consiglio, da segnalare l'approvazione dell'emendamento che blocca anche gli ampliamenti di super e iper, nonostante il parere contrario della maggioranza. Soddisfatto il Pd. «Abbiamo chiesto noi il voto segreto — fa notare Dario Violi del M5S —. Questo ha evitato che il provvedimento venisse annacquato».

Postilla

Da quanto emerge dall'articolo, e da segnali precedenti comparsi sulla stampa, appare abbastanza chiaro che si stia girando attorno al solito nodo: il commercio tradizionale di vicinato, inteso come piccoli operatori al dettaglio (che portano più voti) contro i grandi contenitori prevalentemente periferici o extraurbani della distribuzione organizzata. In modo complementare e collegato, rientra anche la questione dei tempi di apertura, i festivi, i notturni e via dicendo. Insomma, invece di un percorso decisamente orientato, per quanto nelle difficoltà, verso la riqualificazione invece dello spreco di suolo, la valorizzazione delle economie urbane e locali (dell'Expo si parla a proposito di tutto, salvo delle produzioni agricole regionali distribuite localmente), la rivitalizzazione di quartieri, rieccoci al vetusto muro contro muro di modernizzatori e conservatori. Anche se nel caso specifico poi destra e sinistra politica si mescolano parecchio negli schieramenti di merito. Certo da una presidenza della Lega non era lecito aspettarsi chissà cosa, ma la speranza è l'ultima a morire. Se dal letame nascono i fior, magari anche dall'ennesima baruffa tra bottegai di quartiere e spietati manager globalizzati potrebbe venire qualcosa di buono, chissà (f.b.)

Con buona pace dei puristi della cultura e delle loro anche condivisibili ragioni, la vitalità urbana passa sempre dalla composizione funzionale, anche stravagante se serve. Corriere della Sera Milano, 22 maggio 2013, postilla (f.b.)

E per dessert: il teatro. Tra le cucine degli chef, gli scaffali dei millesimati e il banco dei prosciutti dop, buon appetito e godetevi lo spettacolo: «Proporremo concerti dal vivo tutte le sere e straordinari ospiti a sorpresa». Là dove c'era lo Smeraldo, il salotto per il dopocena della gente comune, in autunno entrerà Eataly, il supermarket dei cibi alti e certificati. Un megastore di 3.500 metri quadri, l'itinerario del gusto che gira su una «U» e sale per tre livelli. La novità sarà inserita tra il primo e il secondo piano, nel punto di massima visibilità. Un palcoscenico. Annuncia il patron Oscar Farinetti: «Conserviamo la memoria viva del teatro popolare». Se il centro enogastronomico di Firenze è un omaggio al Rinascimento, se il punto vendita di Roma è dedicato alla bellezza e il gemello di Bari celebrerà il fascino del Levante, l'Eataly di piazza XXV Aprile farà suo l'immaginario del pop e del rock. La parabola è compiuta: dallo Smeraldo dei Legnanesi allo smeraldino del piemontese Farinetti.

«Stiamo allestendo una roba enorme, nello spirito culturale del teatro che ci ha preceduti»: il patron di Eataly l'aveva anticipato al Corriere tre mesi fa, facendo lezione di marketing, servendo pochi dettagli e lasciando furbescamente inappagata la curiosità. Ora il format è definito: un palco a unire verticalmente i primi due piani dell'edificio; un cartellone di ospiti annunciati e qualche comparsata fuori programma. Infine, per fortificare il legame col passato, Farinetti ha chiesto la «collaborazione» di Gianmario Longoni, storico direttore dello Smeraldo: «Mi diverte l'idea di riproporre la tradizione del teatro del 700 — sorride Farinetti, l'imprenditore che ha conquistato New York e prepara lo sbarco a Chicago —. Il teatro in cui si beveva, si mangiava e si ascoltava buona musica».

Lo Smeraldo di Cats e del Boss, la sala del Fantasma dell'opera e del riservatissimo Bob Dylan, insomma, il palazzo al 10 di Porta Garibaldi è chiuso dal 30 giugno scorso, martoriato dai lavori e ucciso dai ritardi del parcheggio interrato. Oscar Farinetti da Alba — 58 anni, già proprietario di UniEuro, ideatore di Eataly e ambasciatore del made in Italy — ha rilevato il teatro, ha progettato il market, avviato i cantieri e programmato 3-400 assunzioni. Ieri l'altro, da Palazzo Marino, ha ricevuto il preventivo degli oneri di urbanizzazione (la tassa sulla ristrutturazione): un milione e 240 mila euro. Letta la cifra, ha vacillato: «Ho pensato di lasciar perdere». Ci ha ripensato? «Apriamo, apriamo... Al Comune di Milano si son sbattuti da matti, hanno accelerato l'iter, l'istruttoria è stata completata in meno di un anno. E però, ora basta: le leggi di questo Paese sono assurde, puniscono chi produce lavoro. Vanno cambiate».

Il megastore sarà inaugurato tra fine settembre e ottobre, nonostante la stangata degli oneri e le scommesse perse. Ricordate il voto di Farinetti alla vigilia delle elezioni? «Se vincesse Maroni mi verrebbe voglia di fare un mostruoso kebab allo Smeraldo, anziché Eataly». Roberto Maroni è il nuovo presidente della Lombardia. Eppure, dopo Porta Garibaldi, Eataly dovrebbe arrivare anche a San Babila.

Postilla
Certamente l'idea di avvolgere la cultura dentro un cartoccio di patatine fa storcere il naso, così come l'ha fatto storcere comprensibilmente sostituire a una storica piazza antistante un teatro un parcheggio da supermercato, ma proviamo a guardarla da un'altra angolazione. Dove prima c'era una sola funzione, tra l'altro abbastanza elitaria, per vari motivi – di cui non è il caso di discutere qui – abbandonata se ne insediano varie, con un mercato decisamente aperto e potenziale, diciamo sperimentale. Non ci sono i presupposti per osservarlo con attenzione, l'esperimento? Verificare quanti flussi di utenti genera, il tipo di mobilità preferito, le debolezze così come i punti di forza da sviluppare magari in altre esperienze simili. C'è nell'aria anche una moratoria dei grandi complessi commerciali extraurbani, concorrenti diretti di questi modelli di riqualificazione centrali mixed-use, che sono da sostenere, magari con maggiore attenzione a ruoli ed equilibri centro-periferia. E certo senza continuare a rimpiangere un'età dell'oro, vuoi commerciale, culturale, o anche sociale, che spesso esiste solo in una memoria vaga e distorta (f.b.)

Politiche urbane e dei tempi distinguono un approccio privatistico e uno progressista (con tutte le imperfezioni del caso) agli ambienti del consumo come spazi pubblici. Corriere della Sera Milano, 22 aprile 2013 (f.b.)

Apertura prolungata fino alle 22, diffusione di musica classica e lirica in determinate fasce orarie, pagamento degli straordinari ai vigili per un maggior controllo negli orari notturni, iniziative per incentivare i giovani. Rivoluzione in Galleria. Comune ed esercenti hanno trovato l'accordo per rivitalizzare il salotto di Milano al netto di tutti i problemi che bisogna ancora risolvere(leggi rivisitazione delle convenzioni e proposte come quelle di Altagamma). L'assessore alle Attività produttive, Franco D'Alfonso ha incontrato a Palazzo Marino tutti i rappresentanti dei commercianti della Galleria. La collaborazione ha funzionato

Quattro i punti su cui si è trovato l'accordo. Il primo: tenere le serrande aperte almeno fino alle 22. Tanti pubblici esercizi (leggi bar e ristoranti) lo fanno già. Tutti gli altri chiudono inesorabilmente tra le 19 e 30 e le 20. «È assurdo - attacca l'assessore - che un luogo del genere, frequentato da milioni di persone, chiuda perché la struttura commerciale è antiquata. La risposta è arrivare a un'apertura concordata fino alle 22». «Comprendiamo bene la richiesta dell'assessore D'Alfonso - replica il consigliere delegato dell'associazione il Salotto, Pier Galli - e ci stiamo muovendo gradualmente. Prima l'apertura sarà su base volontaria, poi verrà inserita come condizione nei nuovi contratti».

Altra iniziativa: la diffusione di musica in Galleria. In certe fasce orarie e con dei limiti ben precisi. Solo classica e lirica. Niente rap o rock. Magari con un link diretto con la vicina Scala. «Sarà un impianto - continua Galli - che non sarà minimamente impattante sul complesso monumentale e che diffonderà musica solo in certi momenti della giornata». E arriviamo al capitolo sicurezza, soprattutto nella fascia notturna. In un primo momento i commercianti avevano pensato di ingaggiare degli steward privati in contatto diretto con le varie forze dell'ordine. «Poi - prosegue il rappresentante di Confcommerio - abbiamo optato per un'altra soluzione: contribuire al pagamento degli straordinari della polizia municipale. Anche perché gli steward possono avere un potere dissuasivo, ma non possono intervenire direttamente o sequestrare la merce degli abusivi».

Ultima decisione: «Una delle grandi pecche della Galleria - attacca D'Alfonso - è che allontana i giovani. Per due motivi: ha un'immagine un po' fané e i costi dei pubblici esercizi sono molto alti. Bisogna fare delle iniziative per attrarre i giovani. La Galleria deve tornare quella di un tempo, dove andavi a discutere e non solo a comprare». Prima iniziativa: menù scontati per i più giovani.
Commercianti e Palazzo Marino hanno trovato anche un altro punto d'intesa. Riguarda la proposta che Altagamma starebbe (ri)preparando per la gestione della Galleria: «Ci siamo molto meravigliati - continua Galli - che Altagamma non tenga in nessuna considerazione chi c'è già in Galleria, chi paga gli affitti al Comune, chi risiede nel complesso monumentale e a cui piacerebbe rimanere. È una mancanza di rispetto».

Una prima risposta arriva dallo stesso D'Alfonso: «Bisogna mettersi bene in testa che la Galleria è un bene civico ed esclude tutte le privatizzazioni o le gestioni separate di cui si favoleggia. Noi siamo per operazioni molto "milanesi" e non per quelle di chi arriva e si vuole portare via la roba».
Dove l'accordo non c'è e difficilmente si troverà è invece la questione nodale delle concessioni e dei subentri. Dove girano milioni di euro tra privati e il Comune, proprietario dell'area, si deve accontentare del canone raddoppiato. Come nel caso di Versace pronto a subentrare all'argenteria Bernasconi con 15 milioni di euro. «La delibera del 2012 - conclude Galli - parte dal presupposto che queste forme di subentro esistono in tutto il mondo, Milano compresa. E proprio per questo motivo ha messo dei paletti. L'ultima parola spetta a Palazzo Marino. Inoltre chi subentra ha un canone raddoppiato e ha la stessa scadenza di chi ha lasciato. Quindi il pubblico ha sicuramente una convenienza economica. Altro che danno erariale. La Corte dei Conti dovrebbe intervenire se operazioni del genere venissero bloccate».

Un ennesimo racconto di serrande abbassate per sempre, di quartieri che si desertificano, e la solita ottusità a capire, a dare la colpa al destino cinico e baro. La Repubblica, 20 marzo 2013, postilla (f.b.)

TORINO - C’ERA il rumore leggero delle saracinesche ben oliate che si alzavano girando una chiavetta. C’erano i saluti allegri fra chi cominciava una giornata di lavoro. «Buongiorno, buona giornata ». Le eleganti ragazze del negozio con abiti da duemila euro e i più anziani commessi della rivendita di pantofole si incontravano con i ragazzi pronti a passare la giornata cuocendo hamburger e patate fritte. Adesso c’è troppo silenzio, in via Amendola. Troppe serrande sono state abbassate per l’ultima volta. Sono state tolte anche le insegne. Via il nome dalle tre vetrine di Trussardi, via un nome antico, Vindigni, dove i torinesi andavano a comprare l’abito della festa. «Prossimamente aprirà enoteca », annuncia un cartello. Spente e rottamate le friggitrici e le piastre del Burger King, che un tempo attirava giovani anche dalle periferie, perché era il primo fast food aperto nella città dei Savoia. Adesso, per conoscere «chi c’era qui», devi chiedere all’uomo che porta fuori il cane o alla commessa della tabaccheria.

Un centro Tim ha trovato un’altra strada, si è trasferita anche l’ottica Cavalli. Arrivi in piazza Cln e anche qui ci sono i buchi neri. Se ne sono andati la profumeria Piera Giordano, il Plaisir che vendeva tutto per “la salute del corpo”, e anche “Pantaloni e pantaloni”. Svolti in via Roma — la via Condotti di Torino — e vedi i segni lasciati dalle insegne divelte. “Affittasi”, annuncia un grande cartello su quello che era il negozio di Cartier. Chiuse le vetrine sfavillanti di due gioiellerie, Fasano e Palmerio, dove migliaia di torinesi avevano comprato le fedi per il matrimonio e lasciato gli occhi sugli altri gioielli.

«E stiamo parlando — raccontano Antonio Carta e Morena Sighinolfi, presidente e direttore della Confesercenti sotto la Mole — delle strade più ricche della città. Immagini cosa succede nelle periferie». I numeri parlano chiaro. Nei soli due mesi di gennaio e febbraio nel capoluogo il saldo fra aperture e chiusure è stato di meno 231 per i negozi e meno 250 per le «somministrazioni», vale a dire bar, ristoranti, pizzerie, kebab… Ogni giorno 15 serrande non vengono rialzate. «In centro la crisi è provocata dal caro-affitti e dal fatto che i clienti sono attratti dai grandi centri commerciali che, da gennaio, hanno deciso di restare aperti tutte le domeniche ». La vicenda degli affitti in centro ricorda la favola della rana di Fedro, che si gonfiava per sembrare grossa come un bue. I proprietari dei muri hanno continuato ad aumentare i prezzi — in via Roma e dintorni 150 ma anche 200 euro al metro quadro ogni mese, e così per 100 metri si debbono pagare fino a 20 mila euro — con il risultato di avere centinaia di proprietà «scoppiate» e senza reddito.

«Ormai solo i grandi marchi — dice Antonio Carta — riescono a resistere in centro. I negozi appartengono per il 90 per cento ad assicurazioni e banche che — mi ha spiegato
un loro dirigente — preferiscono lasciarli sfitti piuttosto di abbassare i prezzi, per “non deprimere il mercato”. Fino al 2011 c’erano tante chiusure ma il numero di chi apriva era superiore. Questo perché i genitori, con la liquidazione della Fiat e la pensione, costruivano un posto di lavoro per il figlio, aprendogli un negozietto o una videoteca. Ora quei soldi sono finiti. E migliaia di operai in cassa integrazione, con il 30 per cento di reddito in meno, non possono certo fare investimenti: fanno fatica a fare la spesa».

Le strade con le serrande bloccate ci sono «anche perché alcuni commercianti hanno fatto degli errori». «C’è stato qualche collega — racconta Franco Orecchia della Vestil, negozio di abbigliamento di tre piani in piazza Statuto — che per ridurre i costi ha abbassato la qualità. Ed ha pagato caro. Se uno è abituato a cenare in un buon ristorante, con la crisi non va al fast food. Torna al ristorante, ma solo quando se lo può permettere. Così succede nell’abbigliamento. Se sei servito bene, compri meno capi ma non cambi negozio». Diciassette dipendenti più quattro della famiglia. «Qui trovi abiti da 480 a 3.500 euro. Solo per la taglia 50, ad esempio, lei può scegliere fra 200 pantaloni diversi. Investire nell’offerta è un obbligo: il cliente che non trova ciò che vuole va a cercarlo da un’altra parte». Vetrine illuminate dal 1957 ma aperte al nuovo. «Al secondo piano ho un angolo dedicato a pasta, salse e vino di alta qualità. È un’offerta che funziona nelle librerie. Perché non provare anche noi?».

C’è anche chi, pur puntando sulle eccellenze, si deve arrendere. «In tutta la mattinata — dice Luciano Ferrarese, con mini market in via Cibrario — ho incassato 40 euro. Ho frutta e verdura biologiche e anche se siamo a marzo i primi meloni di Mantova. Le colombe pasquali sono di pasticceria. Fino a due anni fa in questi giorni le avevo esaurite, quest’anno non ne ho venduta una». Luciano Ferrarese, negli anni buoni, si è comprato i muri. «Anche senza pagare l’affitto, devo chiudere. Con gli incassi troppo magri, uso la mia pensione per pagare le spese generali. E me ne vado senza “liquidazione”, perché la licenza con la legge Bersani non si vende ma si riconsegna gratis in Comune. L’avevo comprata nel 1985, con 50 milioni di lire. Allora avrei potuto comprarmi due piccoli appartamenti. Ma non oso lamentarmi, c’è chi sta peggio. Vedo dei miei ex clienti che all’alba vanno a cercare nei cassonetti…».

«Lo spartiacque — dicono Antonio Carta e Morena Sighinolfi della Confesercenti — arriverà a Pasqua. Se non ci sarà una ripresa dei consumi, altre centinaia di saracinesche si abbasseranno in pochi giorni. Sarà un disastro. Noi curiamo i bilanci delle imprese e nell’ultimo anno abbiamo rilevato un dato allarmante: non chiudono solo le aziende con problemi — mutui troppo alti,
esposizioni bancarie, merci sbagliate — ma anche quelle finanziariamente sane e con una buona clientela. Questo significa che le famiglie stanno davvero finendo i soldi: hanno rinunciato prima al voluttuario (scarpe, jeans ...) poi agli alimentari, con tagli alla carne, alla verdura, al pesce. Ora chiudono bar e pizzerie: devi fare i conti prima di andare a prenderti un caffè».

C’è chi la crisi la può pesare a quintali. «Prima vendevo — racconta Luigi Frasca, titolare della “Bottega della carne, Da Natalino” — due mezzene di vitello piemontese, 260 — 270 chili l’una — alla settimana. Adesso ne vendo solo una. Chi vendeva una mezzena, ora vende un quarto. I miei genitori e i miei nonni con la macelleria si compravano le case e le macchine e facevano studiare i figli. Noi facciamo fatica a stare in piedi». A Porta Palazzo, nella galleria Umberto I, Gianni Berteti dice di avere cambiato mestiere. «Vendo profumi ma soprattutto faccio lo psichiatra. Vengono in bottega colleghi e clienti che mi raccontano che così non si può andare avanti, che se devi scegliere fra la pastasciutta e un profumo ovviamente scegli il cibo. Si sta qui a parlare e il registratore di cassa resta muto». Qualche serranda è chiusa (un ristorante, il negozio del primo cinese arrivato a Torino…) e le altre vetrine sono ancora illuminate. Ma nessun passo di cliente viene a disturbare il silenzio nella galleria.

Postilla

Dare la colpa al destino o alla crisi? La cosa che più colpisce, di questa ecatombe commerciale, è la sua perfetta, banale, assoluta prevedibilità: cambia il ruolo dei centri urbani, si afferma quello delle periferie automobilistiche e della dispersione, con relativa supremazia degli scatoloni. E non perché sono scatoloni, o (solo) perché siano gestiti da una specie di Spectre globalizzata all'assalto della bottega familiare buona e brava. Ma perché sono organici alla forma insediativa, sociale, di consumo e comportamento prevalente. Si poteva fare qualcosa? Si può fare qualcosa? Sicuramente, e ci provano da decenni in tutto il mondo. La vera sciocchezza, la cosa più frustrante e fastidiosa, è dover assistere a questa agonia dei quartieri impotenti, con tutti, nessuno escluso, che danno la colpa ad altri, e non alla propria incapacità di riflettere sulla mutazione del commercio urbano, e sull'indispensabile avvio di politiche pubblico-private diverse dalla solita tutela corporativa dei bottegai (f.b.)

La mamma dello sprawl è sempre incinta se non si sta attenti: l'ingresso della grande distribuzione nel mercato oggi coperto dal bed & breakfast familiare e i rischi impliciti di dispersione. Corriere della Sera, 6 marzo 2013, postilla (f.b.)

La notizia è stata lanciata addirittura dalle colonne del Wall Street Journal: gli americani della Marriott e gli svedesi dell'InterIkea hanno deciso di lanciare insieme una nuova catena di hotel economici. L'obiettivo è di aprirne in Europa 50 in cinque anni (che potrebbero diventare 150 in 10 anni) e il primo ad essere inaugurato sarà quello di Milano, già nel corso del 2014. La catena si chiamerà Moxy e l'investimento di InterIkea — che fa capo alla famiglia Kamprad, quelli di Ikea, attraverso la Interlogo Foundation — sarà di 500 milioni di dollari. I nuovi alberghi non avranno mobili o design della compagnia svedese ma usufruiranno di nuove tecniche di costruzione (camere prefabbricate) con l'intenzione di abbassare i costi

Non si punterà ai centri storici ma Marriott e InterIkea dicono di preferire per la loro nuova creatura siti vicini ad aeroporti e stazioni. Il costo al cliente per la camera dovrebbe aggirarsi attorno ai 60 euro. Nell'anticipazione di stampa non si usa il termine low cost ma di fatto il formato alberghiero che si vuole lanciare assomiglia a una Ryanair degli hotel. «Vediamo grandi opportunità di espandere la nostra quota di mercato in Europa» ha commentato Amy McPherson, presidente di Marriott Europe.

Con la scelta dell'Italia come debutto Ikea va a battere di nuovo «dove il dente duole». Gli scandinavi sono stati, infatti, i protagonisti dello più straordinario contropiede commerciale che si sia visto dalla nostre parti. Il Belpaese è fiero dei mobili che costruisce in Brianza e in tanti altri distretti ma ha completamente sottovalutato il tema della grande distribuzione, gli svedesi hanno fatto il contrario e hanno costruito una multinazionale delle vendite al dettaglio che ci ha dato la paga. Noi italiani abbiamo dei prestigiosi negozi monomarca ma le nostre catene, come Mondo Convenienza, faticano, per dirla con eufemismo, a reggere l'urto dell'Ikea. Che, adesso, ci vuole insegnare anche come si aprono alberghi per i giovani. Si ripeterebbe per certi versi quello che è successo dopo i mobili anche nel caffè, dove gli italiani vanno famosi per la qualità della bevanda nera ma gli americani hanno creato una grande catena come Starbucks.

Eppure anche nella specialità delle vacanze a basso costo l'Italia ha una tradizione nobilissima, che riporta agli anni '60 e al miracolo della Riviera romagnola capace di vendere all'estero (ai tedeschi) pacchetti vacanze a prezzi competitivi con standard di buona qualità. Non c'era nessuna multinazionale dietro quel miracolo ma solo tante imprese familiari che agivano come una rete sistemico-organizzativa e riuscivano in questo modo a collegarsi con tutti i servizi aggiuntivi (dal posto in spiaggia alla balera).

Oggi l'Italia conta 34 mila alberghi, il doppio della Spagna, ma molti di essi sono, per dirla con il linguaggio degli economisti, «marginali». Ovvero non sono in grado di rivolgere al mercato un'offerta competitiva per prezzo e soprattutto moderna. «Detto che l'Italia deve puntare strategicamente a un turismo di fascia alta come ha fatto la Francia — commenta Massimo Bergami, coordinatore del piano strategico elaborato dal ministero del Turismo — si possono tranquillamente fare delle operazioni intelligenti per coprire gli altri segmenti di mercato, proprio a partire dall'ampio patrimonio di strutture alberghiere di cui disponiamo». In sostanza si tratterebbe di favorire l'uscita/rottamazione dei piccoli operatori, ammodernare il format e aggregare a rete nuovi soggetti imprenditoriali aiutati da una dotazione comune di strumenti (a cominciare da un unico centro prenotazioni).

«Penso alla Puglia — continua Bergami —. Fatta eccezione per alcune masserie di extralusso tutte le altre potrebbero organizzarsi come rete di imprese capace di fare al mercato un'offerta combinata». E i bed and breakfast? Non dovevano rappresentare proprio loro quell'offerta «democratica» rivolta ai giovani che oggi manca? «Lo sviluppo di questa formula dimostra una vivacità imprenditoriale nel settore — spiega Bergami —. Ma c'è troppa frammentazione, come dimostra l'assenza di un rating (le stelle, ndr) comune a tutte le Regioni. Il risultato è che il sistema dei nostri bed and breakfast oggi non si presenta sul mercato internazionale come un'offerta competitiva».

Postilla

Allora, un breve riassunto per chi si fosse perso le puntate precedenti: entra un nuovo operatore, grande e potente e organizzato, in un settore finora dominio di imprese a dimensione locale, micro, familiari ecc. Cos'è successo sinora? Che la pura contrapposizione tra vecchio e nuovo abbia prodotto da un lato una simpatia per i deboli, che chiedono vantaggi competitivi in varie politiche pubbliche (pensiamo ai NO anche violenti dei commercianti alle pedonalizzazioni nei centri storici), dall'altro un relativo degrado del territorio con le localizzazioni in luoghi non presidiati da una concentrazione sufficiente di questi piccoli operatori, ovvero nello sprawl mertropolitano. Dato che prevenire è meglio che curare, le amministrazioni pubbliche prima di accettare come gran novità o respingere per lo stesso motivo il modello albergo low cost dovrebbero valutarne appunto i non troppi low costs sociali, economici, ambientali, insediativi. Speriamo in una non-riedizione delle battaglie di retroguardia (perché quelle avevano un segno di fatto reazionario) contro i fast food solo perché facevano concorrenza alle pizzerie (f.b.)

La forzatura della sicurezza aeroportuale e lo sfruttamento dell'emergenza fanno emergere le distorsioni del modello shopping mall chiuso. Le Monde Diplomatique – il manifesto, febbraio 2013 (f.b.)

A metà degli anni 2000, nel sud della Norvegia. L’aeroporto di Kristiansand è appena stato rinnovato. Il volo è in ritardo: il tempo di bere un bicchiere con i miei accompagnatori? «Non è più possibile: bar, tavoli e sedie si trovano ormai dall’altro lato dei controlli di sicurezza...». Passa un’ora. Niente aereo, nessuna notizia né il bancone di un bar. Per ottenere delle informazioni, bisogna raggiungere la porta di imbarco ma l’accesso è scomparso. Toh, il duty free è controllato da un agente: «Accedere alle porte di imbarco? Da qui, attraverso il negozio. È dopo le casse!» Buffo. Ma perché no? «È giusto per avere qual- che informazione? Torno subito, si ricorderà di me?» L’agente risponde premuroso: «Certo, ma non potrà tornare indietro. Dovrà ripassare dalla dogana...»

Preparare i passeggeri all'atto dell'acquisto

Così, invece di imboccare il corridoio pubblico di accesso, si attraversava un negozio pieno di giochi, di profumi, di scatole di cioccolatini e di bottiglie di gin. Il terminal che una volta consisteva in un’unica grande sala, in occasione della sua «modernizzazione», viene frammentato in tre parti il passaggio tra le quali risulta ormai rigidamente controllato. Il mese seguente, nello stesso aeroporto, mio figlio di 2 anni e mezzo ciondolava verso l’aereo, con la sua giacca appesantita da alcuni pacchetti di caramelle e da una boccetta di Chanel N° 5, discretamente prelevati nel duty free, diventato passaggio obbligato per tutti i viaggiatori diretti all’imbarco.

Così nasce il progetto «Duty free shop», presentato in queste pagine. Strategie inedite di organizzazione dello spazio, nuovo orienta- mento del flusso delle persone: mani invisibili avevano trasformato radicalmente la natura e l’uso di un luogo pubblico. Hanno avuto inizio lunghe settimane di osservazione negli aero- porti europei, trascorse a scrutare i movimen- ti, gli oggetti, gli atteggiamenti del personale, l’arredamento, le luci, il design e la segnaletica, per carpire il significato dei cambiamenti, di- segnarli in mappe destinate a far comprendere quello che è in gioco qui. Cosa, o chi, c’è all’origine di queste trasformazioni? Le autorità aeroportuali, i ministeri dei tra- sporti e le società a cui hanno delegato la gestione degli spazi commerciali, o forse si dovrebbe dire di servizio. Tutti lavorano di concerto per modellare il paesaggio interno dei terminal.

Come in una messinscena teatrale, inseriscono anche attori e comparse: agenti di sicurezza, personale dei duty free e delle compagnie aeree, doganieri, poliziotti e... passeggeri. Stabiliscono gli arreda- menti, le luci e i campi visivi, le «aperture» o le «chiusure». Il tutto con un solo obiettivo: preparare i passeggeri all’atto dell’acquisto. Le autorità aeroportuali, interrogate su queste trasformazioni, giurano di non averci nulla a che fare. «I direttori dei negozi decidono da soli le loro strategie commerciali», affermava (distogliendo lo sguardo) Jo Kobro, ex direttore dell’ufficio stampa dell’aeroporto di Oslo. In realtà, gli uni fanno soldi, gli altri ottengono delle percentuali.

Il conforto dopo la prova dei controlli di sicurezza

Dagli anni '50, la sicurezza del trasporto aereo è oggetto di particolare attenzione dopo che nel 1949, e poi nel 1955, delle bombe nella stiva avevano fatto esplodere in volo due aerei in nord America. All’epoca si era trattato di lugubri storie di adulterio e di assicurazione sulla vita... Ma quei primi attentati avevano mostrato la vulnerabilità dell’aviazione civile. Nonostante tutto, per circa mezzo secolo, gli aeroporti sono rimasti dei luoghi relativamente aperti, in cui recarsi con la famiglia per passeggiare, sperimentare la magia del mito aeronautico, ammirare i passeg- geri per i quali le compagnie stendevano il tappeto rosso, sognare davanti ai manifesti di destinazioni esotiche.

«Città nelle città» con supermercati, duty free, parcheggi

Se gli spettacolari attentati contro il Boeing della Pan american airlines (1989) e contro il Dc-10 dell’Union de transports aériens (Uta, 1988) hanno segnato l’inizio del rafforzamento dei sistemi di controllo e di sicurezza, quelli dell’11 settembre 2001 aprono una nuova era. Il traffico subisce un crollo durevole (solo nel 2005 recupererà il livello precedente agli attentati); le compagnie aeree e gli aeroporti affrontano una crisi senza precedenti.

In un primo tempo, molte basi aeroportuali e compagnie aeree hanno ricevuto massicci aiuti pubblici, soprattutto in nord America. Ma, rapidamente, gli aeroporti hanno dovuto farsi carico delle spese di funzionamento. Equazione ancor più difficile da quando le tasse pagate dai passeggeri insieme al biglietto sono state sensibilmente ridotte, a volte temporaneamente soppresse, per tentare di rilanciare il traffico. Gli stati recedono dal loro coinvolgimento diretto: la gestione degli aeroporti viene esternalizzata e affidata a delle società società (private, pubbliche o miste).

Questi nuovi gestori trovano «la» soluzione : trasformare le zone aeroportuali in spazi commerciali. Alcuni diventano delle «città nella città», con supermercati, duty free, parcheggi, alberghi, centri d’affari e di conferenze. Sull’insieme di queste attività, l’aeroporto percepisce degli utili – il cui importo rimane segreto – calcolati sulla base del giro d’affari.

Parallelamente, dopo lo shock dell’11 settembre, viene rivoluzionato l’approccio al controllo e alla sicurezza. Ormai, il «mondo esterno» si contrappone al «mondo interno». Per varcare il confine che separa le due realtà, bisogna accettare di esser sottoposti al metal detector, per- quisiti, palpati ed eventualmente privati di qualsi- asi oggetto «minaccioso», compresa la bottiglietta di acqua minerale...

Così, il terminal si trasforma in uno spazio al contempo ipercommerciale e ipercontrollato, di cui i viaggiatori diventano prigionieri. Chi gestisce gli spazi progetta una diversa organizzazione dei flussi; creano un sistema di circolazione forzata che converte gli aeroporti in laboratori. Vengono testati sottili piani di riorganizzazione spaziale per determinare quale strategia permetta di spremere meglio il passeggero. Quest’ultimo è manipolato come un burattino, condotto attraverso un per- corso predisposto in suo onore: una caverna di Ali Baba in cui scintillano merci e tentazioni.

In questo spazio «interno», tutto è limitato, dalla libertà di raggrupparsi a quella di fotografare o filmare. Non ci si può lamentare né scegliere i propri itinerari. È un’economia capitalista (far la maggiore quantità possibile di soldi) e monopolistica: alcune società multinazionali gestiscono le centinaia di negozi, di ristoranti, di bar e i servizi aerei a terra, affidati a subappaltatori. Il diritto all’informazione è spesso ridicolizzato: i manifesti che elencano i «diritti del passeggero» sono posti dove si vedono meno, in punti scuri, negli angoli morti, dietro le colonne, o in senso opposto al flusso generale. Le pubblicità sui temi del sogno, del viaggio, della donna o dell’uomo perfetti, del viso perfetto, della sensualità, del sesso... mimetizzano una strategia di assimilazione e di appropriazione dei luoghi pubblici.

Prima tappa: spiazzare il passeggero sovvertendo i suoi punti di riferimento. Gli agenti di sicurezza e i commessi dei duty free sono vestiti praticamente nello stesso modo. Gli addetti alle vendite sono inoltre pregati di assicurare il mantenimento dell’ordine nei negozi e nelle loro vicinanze, e gli agenti di sicurezza assumono il ruolo di procacciatori di clienti per i punti vendita. A Kristiansand Kjevik, la guardia indica con autorità una delle due porte situate dietro di lui: «Di là!». I passeggeri del volo proveniente da Copenhagen, ossia ottanta persone, sono condotti verso il duty free. Nessuno ha visto né oltrepassato la porta adiacente che con- duce direttamente all’area preposta alla riconsegna dei bagagli.

Il passeggero crede di iniziare un viaggio ma in realtà consuma

La segnaletica utilizza gli stessi codici grafici per indirizzarvi verso la porta d’imbarco e per vantare la qualità dei prodotti venduti nei negozi. Il passeggero pensa di ricevere delle informazioni invece legge una pubblicità; crede di iniziare un viaggio ma in realtà consuma. All’aeroporto di Londra-Gatwick, i bagni principali sono stati installati all’interno del duty free – clientela redditizia. Per imbarcarsi a Bruxelles, bisogna passare per i negozi di cioccolata, di gioielli, di gadget elettronici. Un modo per trovare conforto dopo uno sgradevole passaggio all’accettazione prima e al metaldetector dopo...
Meno di dieci anni prima, gli spazi commercia- li (in cui tutto è a pagamento) erano separati dagli pazi pubblici (in cui tutto è gratuito). Ormai, la sfera del consumo e la sfera del pubblico si sono fuse. A Londra, Oslo, Bergen o Milano, i passaggi pubblici «liberi» sono semplicemente scomparsi.

Due spazi che coabitano nello stesso ambiente

In alcuni casi, i due spazi coabitano. Nel primo trionfa un mondo artificiale dalle luci abbaglianti, dal design ricercato, con la sua massa di merci ben ordinate. Bianco accecante, giallo e rosso acceso dominano. Nel secondo, grigio verdastro, il passeggero, dopo esser stato condotto attraverso il primo, può infine sedersi, sempre se trova ancora una sedia: molte sono state eliminate per far posto a ristoranti e negozi, come all’aeroporto di Copenhagen. Nelle scomode zone di pre-imbarco non ci sono lustrini, perché per ora sono considerate «inutili»...

Questi cambiamenti preannunciano quelli di altri spazi pubblici ben più frequentati (solo il 10%-15% della popolazione europea infatti viaggia regolarmente in aereo): stazioni, centri città, metropolita- ne, ma anche strade e isolati. In Francia, la stazione Saint-Lazare si è trasformata in centro commerciale; a Bodø, nel centro della Norvegia, la strada principale è stata interamente privatizzata.

Ancora una volta c'è un'amministrazione locale che non sa proprio fare il suo mestiere, e si tira la zappa sui piedi per puro vuoto culturale e approccio contabile. Il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2013, postilla (f.b.)

Il fatto era stato già denunciato su questo giornale in un articolo a firma di Tomaso Montanari: nonostante a quasi quattro anni dal sisma il centro storico de L’Aquila sia ancora “una città fantasma” e le pratiche relative alla ricostruzione siano “ferme e confinate in un limbo istituzionale”, il sindaco Massimo Cialente (Pd) di recente ha presentato un progetto per costruire, sotto la grande Piazza del Duomo, un centro commerciale sotterraneo con negozi “di lusso” e con annesso un parcheggio da 500 posti, il tutto, per intendersi, in stile “Galleria Alberto Sordi”, che è a Roma di fronte a Piazza Colonna.

Il progetto agli occhi degli esperti appare come “l’ennesima negazione di una corretta ricostruzione del centro storico, sia dal punto di vista storico-culturale, sia per quanto riguarda la sua rivitalizzazione, indice di una gestione della città che fin dall’inizio ha rifiutato una visione d’insieme e si è invece adagiata in una posizione inerziale, disponibile a ogni sorta di proposte avanzate da chicchessia”. E proprio per evitare che ciò avvenga, perché “L’Aquila si merita di essere più di un ‘salotto’ commerciale di lusso scavato sotto un centro monumentale in rovina” è stato lanciato in Rete l’“Appello per L’Aquila”, sottoscritto da personalità e urbanisti di fama nazionale, per chiedere al Comune il ritiro immediato del progetto.
Irritata la risposta del sindaco Cialente: “Delle due cose, l’una: o non si sa cosa sia un project financing, con la relativa normativa, oppure si sta facendo di tutto per strumentalizzare le mie parole – perché, prosegue – questo è il primo vero project financing del dopo terremoto che ci viene presentato, un progetto che impegna l'amministrazione, per legge, a dire se sia di interesse pubblico o meno, entro 150 giorni”. Il progetto presentato da Cialente, invece, per i sottoscrittori dell’Appello è in perfetta continuità culturale con la distruzione del tessuto civile provocato dalle new town di Berlusconi e Bertolaso: “Se in quel caso si rimuoveva il cadavere della città storica andando a cementificare la campagna, qui sembra gli si voglia scavare la fossa, letteralmente e metaforicamente”.
Postilla
Se solo non ci fosse sempre questo atteggiamento pronto all'individuazione del salvatore della patria, che si materializza (come ovvio) nelle forme di un prodotto preconfezionato chiavi in mano, perché così funziona il suo modus operandi! E se si provasse a riflettere, e guardarsi attorno, a proposito della differenza abissale fra l'ambiente a vuoto pneumatico extraurbano (dove è stato allevato il format) e la delicata cristalleria della città tradizionale! E invece sulla base di conti di solito truccati ci si tira in casa entusiasti, alla Nando Mericoni, lo slogan del project financing. Il quale non è cattivo come metodo in sé, ma deve essere riplasmato sulle specifiche esigenze spaziali e socioeconomiche di un tessuto diverso. Ad esempio: che squilibri induce nelle attività consolidate? Qualcuno l'ha verificato l'impatto? E quello sul traffico? Insomma, prima di mangiarsi un bue intero, il consiglio della zia è almeno, prima, di arrostirlo, salarlo, tagliarlo a fettine. Non trangugiarlo in un boccone entusiasti perché l'insegna al neon ci propone il fantastico "Beef Gulping"! (f.b.)

Promesse elettorali, di solito a vanvera o regressive, sull'insediamento dei negozi: conta l'urbanistica, rigorosamente dimenticata. La Repubblica Milano, 29 gennaio 2013, postilla (f.b.)

È il mondo delle imprese e del commercio, che ieri ha lanciato il suo grido di dolore, che è diventato terreno di caccia nella corsa al Pirellone. Sono loro i grandi corteggiati dai principali candidati presidenti. Che cercano di gettare ponti e parlare il linguaggio delle imprese infarcendo le liste di nomi acchiappavoti che arrivano dalle stanze di Confcommercio. Candidature civiche, soprattutto, nelle formazioni che portano il nome di Umberto Ambrosoli (Alfredo Zini), Roberto Maroni (Anna Lucia Carbognin e Piergiorgio Trapani), nella lista di Gabriele Albertini (Costante Persiani) e in quella, apparentata con Pdl e Lega, di Giulio Tremonti (Alessandro Prisco). Ma anche, naturalmente, dettando le loro promesse. A cominciare dalla più ardita, quella del leader del Carroccio, che ingaggia una battaglia contro i giganti al grido di una «moratoria sulla costruzione di nuovi centri commerciali», per valorizzare «il piccolo commercio e i negozi di vicinato». Un nuovo tormentone scandito però, in quella stessa Lombardia governata negli ultimi 18 anni da Pdl e Lega. In cui, dal 2005 al 2012, i metri quadrati delle grandi strutture di vendita sono passati da 3 a 3,8 milioni: il 25 per cento in più.

Numeri e insegne. Spuntate alle periferie delle città. Dalla Bergamasca a tinte azzurro-verdi a Tradate. Nella culla del Carroccio, il Comune ha approvato la costruzione di un mega polo da 80mila metri quadrati. Manna per le casse del Comune (8,5 milioni di oneri di urbanizzazione) e un entusiasta (correva l´anno 2006) sindaco leghista: «Un progetto che cambierà il volto del territorio», disse Stefano Candiani, fedelissimo di Maroni e oggi responsabile della sua lista civica. Segrate (sindaco Pdl, vicesindaco leghista) sta aspettando il cantiere del "Westfield Milan", descritto come uno degli spazi vendite più grandi d´Europa. «L´accordo urbanistico porta anche la firma dell´allora assessore regionale Boni», spiega il sindaco Adriano Alessandrini. E, nonostante un voto contrario del Carroccio in Consiglio comunale nel 2009, assicura: «La maggioranza è a favore di un piano che porta servizi». Damiano Di Simine di Legambiente ricorda la battaglia (vinta) contro un grande punto vendita a Brugherio spinto «da un sindaco leghista». Perché, alla fine, i "sì" arrivano. Di ogni colore politico.

È la Regione ad avere voce in capitolo sugli spazi più vasti. Solo nell´ultimo anno, dalle conferenze di servizio sono arrivate 20 autorizzazioni per nuove costruzioni o allargamenti. Senza tornare al passato e ai casi giudiziari (ancora aperti), con l´ex assessore Boni coinvolto nell´accusa per una presunta mazzetta per l´ok della Regione alla «realizzazione di un centro commerciale in località Albuzzano (Pavia)». «Basta ipocrisia», protesta Arianna Cavicchioli del Pd. «Basta guardare quanti nuovi imponenti centri sono fioriti sotto l´era Formigoni-Gibelli per rendersi conto che la Lega non ha difeso gli interessi dei commercianti». Sel ricorda un ordine del giorno presentato a febbraio 2012 per «una moratoria di cinque anni per l´autorizzazione alla realizzazione di nuove strutture della grande distribuzione». Bocciato dal Consiglio.

Davide (che tutti i candidati vogliono tutelare) contro Golia. Il suo stop, Maroni l´ha lanciato proprio durante il convegno di Rete Imprese Italia. È sempre lì che Albertini (anche lui scandisce «lavoro, lavoro, lavoro») ha chiuso la porta alla proposta: «Anziché bloccare gli investimenti economici che comunque sono sviluppo, bisognerebbe cercare di favorire l´unione dei piccoli in consorzi». Ambrosoli, che la scorsa settimana è andato anche ad ascoltare le richieste di Confindustria, ha inviato un messaggio: «Ho deciso di puntare tutto sul lavoro, voglio mettere in moto un circuito virtuoso fatto di una ricchezza sana e duratura che riesca a non lasciare indietro nessuno», la sua promessa. Alla voce "commercio" del programma la necessità di un nuovo «impianto normativo» (tra i punti: «compatibilità con gli indirizzi urbanistici, salvaguardia ambientale, tutela della salute e del lavoro») per i centri commerciali con l´obiettivo di arrivare a un giusto equilibrio. E incentivi ai Distretti urbani del commercio.

Postilla
Ovvio, che in campagna elettorale si faccia di tutto per catturare consensi, ma colpisce egualmente che in un lungo articolo che trabocca di dichiarazioni (a vanvera, appunto) grondanti di temi territoriali, ambientali, urbanistici, trasportistici, nessuno si azzardi mai, nemmeno per scherzo, a nominare il territorio, l'ambiente, l'urbanistica, i trasporti. Le balle di settore per quei temi se le tengono per il convegno elettorale di domani, dove il tuttologo immancabile ci racconta la sostenibilità. A quando un po' più di rispetto per l'intelligenza dei cittadini, che magari frequentano entrambi i convegni? (f.b.)

Dopo le camere da letto e le mutande del prossimo, certo fanatismo autoritario si insinua nella gestione del tempo con la scusa dell’eternità. Corriere della Sera, 22 novembre 2012, postilla (f.b.)

Domenica prossima, nelle piazze italiane, avverrà una raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Confesercenti e Federstrade. L'obiettivo è l'abolizione della liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali, rimandando alle Regioni la possibilità di decidere in base alle esigenze locali. Il decreto salva Italia introdotto un anno fa non ha prodotto, infatti, i benefici sperati. Secondo il presidente di Confesercenti, Marco Venturi, 80.000 imprese sono destinate a chiudere con una perdita di più di 200.000 posti di lavoro. A dar retta agli studi di settore, solo il 3,12 della popolazione ha fatto acquisti la domenica ed è chiaro che solo i grandi centri commerciali possono reggere un simile impegno a scapito delle imprese più piccole e dei negozi familiari.

Accanto a questa iniziativa, si affianca la protesta dei lavoratori del commercio che hanno dato via al gruppo «Domenica, no grazie!». È un movimento nato dal basso, in Toscana, che si sta diffondendo in tutta Italia. Contrariamente a quello che si potrebbe supporre, infatti, queste aperture domenicali non portano vantaggi economici per i lavoratori, come emerge dalle molte testimonianze riportate nel loro sito. Lavorano di più con una paga, in proporzione, minore del dovuto. Naturalmente, esistono delle categorie che, a rotazione, operano anche la domenica: le forze dell'ordine, gli infermieri, i medici, i pompieri, i vigili del fuoco — tutte le realtà che sono necessarie al funzionamento della società. Non credo però che queste funzioni possano venire omologate a quello dello shopping festivo. Shopping che, in questi tempi di profonda crisi, si trasforma soprattutto in un frustante looking.

Queste proteste ci spingono a riflettere su cosa sia davvero la domenica, che senso abbia — o meglio aveva — questa interruzione del tempo che tutte le civiltà riconoscono come fondamentale e necessario per l'essere umano. Se ritorno alla mia infanzia e penso alle domeniche — quelle degli anni Sessanta in città — la prima sensazione che mi viene in mente è la noia. Non appartenendo a una famiglia religiosa, non c'era neppure il rito della messa; il tempo scorreva lentissimo e gli unici diversivi in cui noi bambini potevamo sperare era un pranzo dai nonni o un eventuale cinema nella rumorosissima sala di quartiere. Domenica voleva dire stare sdraiati sul pavimento a guardare il soffitto, aggrapparsi a un fumetto o a qualche gioco tra fratelli. La televisione era ancora assente dalle nostre vite o, anche se c'era, rimaneva spenta in salotto. Domenica dunque era soprattutto silenzio, rotto, nel pomeriggio, dall'ossessivo gracchiare delle radio dei vicini che trasmettevano le cronache delle partite.

Negli anni 80, quando già vivevo a Roma, passavo spesso le domeniche con Alberto Moravia. Andavamo in giro in macchina per la città, parlando del nostro argomento preferito: gli animali. Succedeva soprattutto d'inverno, quando le giornate erano grigie e corte. Ad un certo punto, lui sospirava rumorosamente, dicendo: «Je m'ennuis» ed io pronta rispondevo: «Moi aussi». Ma quella noia non era che un primo stato d'animo di quella improvvisa diversificazione del tempo perché, sotto la noia, covava in realtà il tizzone ardente dell'inquietudine. Quando penso al nostro mondo, un mondo che non si ferma mai, che vuole costringerci a non fermarci mai, penso a un mondo in cui non c'è più spazio per l'inquietudine costruttiva. E che cos'è l'inquietudine se non la spinta a muoversi, a cercare, a interrogarsi, ad andare sempre avanti, senza accettare passivamente il presente? Senza questa dilatazione infinita di tempi morti non si sarebbe mai sviluppata l'arte e neppure la scienza perché l'immaginazione — che sta alla base di entrambi i processi — esiste e si sviluppa soltanto nel momento in cui irrompe una diversa concezione del tempo.

È sempre noia quella che spinge folle di persone a invadere i centri commerciali, la domenica. La noia e l'imbarazzo di avere un tempo interno che ormai si è incapaci di gestire. Ma questo tipo di noia è sterile, perché, anziché aprirsi all'inquietudine e dunque alle domande, trova un immediato anestetico nella compulsione dell'acquisto. Una compulsione che non è molto diversa dal supplizio di Tantalo: appena si riesce a tacitare la paura del vuoto con un nuovo oggetto, subito ne compare un altro davanti ai nostri occhi, altrettanto urgente e allettante, in un moto di perpetua frustrazione. Alla base della disperazione attuale — questa disperazione cupa, distruttiva, che prende sempre più spesso il volto della depressione, dei pensieri ossessivi e degli attacchi di panico — c'è il totale smarrimento del senso della diversità temporale. Se il nostro tempo, il tempo della nostra vita, è solo quello del consumo, del possesso, dell'essere continuamente distratti da cose che ci chiamano fuori e che ci definiscono attraverso l'avere, quando la vita a un tratto irrompe con dimensioni diverse — quella della malattia, dell'imprevisto, della morte — rimaniamo preda di un addolorato stupore. Non sappiamo più come affrontare questi eventi perché abbiamo smarrito la capacità di riflettere sul senso e sulla complessità della nostra vita.

Nel nostro Paese, ossessionato dall'antagonismo clericale/anticlericale dovuto alla presenza della Chiesa, si tende a pensare che il rispetto del giorno di riposo sia un anacronistico piegarsi alle esigenze delle gerarchie vaticane, come se la domenica fosse esclusivamente un tributo dovuto ai preti. Che tragico errore! La domenica non è per i preti, ma più semplicemente lo spazio in cui l'uomo può realizzare il suo radicamento. Non a caso, nella laicissima Olanda, come in Francia, in Belgio, in Germania, in Spagna, i negozi restano rigorosamente chiusi la domenica. Sanno bene, infatti, questi Paesi non confessionali che il giorno di riposo è un'occasione per stare insieme, per creare relazioni, per costruirle. È il momento, per i genitori, di fare qualcosa con i figli, per gli amici, di stare insieme, per tutti noi, il tempo da dedicare a quelle piccole cose che fanno la nostra vita ricca e unica e che negli altri giorni non abbiamo mai il tempo di fare. Il tempo sospeso del non acquisto ci apre all'incontro con l'Altro. L'Altro da noi e l'Altro in noi. E solo quest'apertura sull'altro è in grado di dare un respiro diverso ai nostri giorni.

Ricordo che negli anni 80, quando ero in Israele, avevo organizzato una gita con degli amici per andare a vedere dei grifoni sulle alture del Golan. Siamo partiti di venerdì pomeriggio ma ahimè sul raccordo di Haifa, vicino alle grandi raffinerie, la nostra scassata macchina ci ha abbandonato. Forse anche lei aveva deciso di rispettare il sabato. Così abbiamo passato una notte e un giorno accampati sotto i piloni di cemento mangiando scatolette, parlando della vita e della morte e aspettando il successivo tramonto. Proprio lì, in quel luogo poco idilliaco, mi sono venute in mente le parole — che poi ho messo in Per voce sola — con le quali un nonno aveva spiegato a un bambino il significato del sabato. «Il sabato è importante perché vedi tutto con occhi doppi, vedi le cose come appaiono e come sono in realtà». Non è di questi occhi forse che abbiamo bisogno? Far tornare la domenica un giorno di silenzio, di riposo della mente e del corpo, di possibilità di stare insieme non sarebbe forse un importante segno per invertire la rotta, rimettendo la ricchezza dell'umano alla base della nostra civiltà?

Postilla
Si potrebbe ancora partire dal solito semplificatorio dimmi con chi stai e ti dirò chi sei, anche indipendentemente dalle tue intenzioni: la gentile signora Tamaro sostiene le iniziative dei bottegai che si sentono minacciati dalla potenza organizzativa della grande distribuzione, e mobilitano penne prestigiose e cervelli acuminati per la resistenza ad oltranza. Anche a costo di sommergerci di gigantesche balle, in elegante confezione letteraria. La più grossa non è tanto l’auspicio della signora Tamaro di una pausa coatta di tipo arcaico, sul modello del sabato ebraico, che sola apre le porte su sé stessi. No, la balla più grossa è quella insinuata dagli uffici stampa dei promotori, uguale e opposta alle loro strategie commerciali, ovvero che uscire di casa certi giorni e frequentare certi ambienti piuttosto che altri costituisca una disumana spinta al consumo compulsivo. In breve, dopo decenni di chiacchiere distintivo e altro sulla cosiddetta esperienza dello shopping, e naturalmente dopo decenni paralleli di attivo adattamento dei nostri ritmi circadiani, abbiamo raggiunto almeno una prospettiva di equilibrio. Entro il quale, ce lo dice indirettamente anche la Tamaro, c’è molta più esperienza che shopping, e le navate o arterie urbane a ciò destinate assomigliano sempre più nella fruizione alle comuni piazze tanto decantate anche da certo tradizionalismo retro. E poi: non è consumo anche la partita? Non è consumo anche il cinema? Non è consumo anche la pizza dopo la partita e/o dopo il cinema? Non è consumo, estremizzando, me ne rendo perfettamente conto (ma dall’altra parte, scusate, si tira in ballo il sabato ebraico!), anche comprare i fiori al chiosco del cimitero o davanti all’ospedale prima di andare in visita a un malato? La finestra sull’eternità della signora Tamaro non è per caso accessibile anche con un percorso tutto interiore, senza interferire con la vita altrui? Ci sono come minimo parecchie decine di migliaia di ebrei di stretta osservanza, sparsi in decine e decine di metropoli mondiali, che da generazioni si fermano per scelta, non per forza, mentre attorno a loro prosegue per la sua strada il fiume della vita. Insomma a ognuno il suo, non quello che decide qualcun altro per il suo bene. Il resto sono balle (f.b.)

Ancora sulla sacralità della giornata di riposo per i lavoratori del commercio, ma stavolta la prospettiva è chiara, perché è quella della chiesa. La Repubblica 10 novembre 2012, postilla (f.b.)

IL SETTIMO giorno Dio si riposò. L’uomo invece andò a fare shopping. «Ma guardali. Al sabato dicono “oh finalmente domani mi riposo”, e poi eccoli lì al centro commerciale. Non capiscono che è un altro lavoro, il lavoro del consumatore? Non capiscono che ci stanno rubando la domenica?
Padova, parrocchia del Buon Pastore, quartiere Arcella, zona difficile. In canonica Rita, catechista con grinta, fotocopia i “moduli di boicottaggio” da far firmare ai parrocchiani, domenica prossima, all’uscita da messa. C’è scritto: «Mi impegno a non andare a fare la spesa di domenica, per non sostenere con i miei consumi l’apertura dei centri commerciali nei giorni festivi». Scusa Rita, e se mi manca il burro? «Bussa alla porta del vicino. Così magari ti fai anche un amico».

La sfida è partita. Un’intera diocesi, una delle più grandi d’Italia e forse la più solida, quella di Padova, la città del Santo, si mette in marcia contro il furto del giorno del Signore. Con la benedizione del vescovo Antonio Mattiazzo. E senza timore di usare quella parola così forte: boicottaggio. Sette mesi di campagna all’insegna delle «tre R: Relazioni, Riposo, Risorto», tutte le parrocchie e le associazioni mobilitate.

Non è più la solita predica. Fin dal Vaticano Secondo la protesta della Chiesa contro il lavoro domenicale non necessario è severa, non c’è Papa che non l’abbia ribadita dal più alto soglio, ma questa volta si passa dalle parole anche illustri ai fatti, minuti e probabilmente efficaci. La raccolta di impegni individuali firmati di boicottaggio è solo il primo. Poi le parrocchie compileranno “liste bianche” di negozi che rispettano la festa, le affiggeranno sui sagrati, le pubblicheranno nei bollettini, le contrassegneranno con adesivi da esporre in vetrina invitando i fedeli a fare spesa solo lì. Poi le cattedrali della fede beffeggeranno le cattedrali dei consumo esponendo sulla facciata lo striscione polemico: “Questa chiesa è aperta anche alla domenica”. Poi i giornali diocesani, con un certo sacrificio economico, rifiuteranno inserzioni pubblicitarie di negozi che non rispettano il riposo domenicale. «La cosa più difficile sarà convincere il rettore del santuario di Sant’Antonio a chiudere il negozio di souvenir alla domenica, ma se non diamo noi il buon esempio... », sorride padre Adriano Sella sulla soglia della cappellina di san Giuseppe Lavoratore, in piena zona industriale.

Ex missionario in Brasile, tornato in Veneto perché «ormai la terra di missione è qui», direttore della “Commissione diocesana per i nuovo stili di vita”, padre Adriano è l’uomo che ha ideato e coordina la mite ma decisa offensiva. «Non è una crociata contro i supermercati. È la riscoperta del valore del tempo del riposo, della famiglia, delle relazioni umane. La domenica non è l’ultimo giorno del weekend, e non è neanche soltanto il giorno del Signore, anche noi, Chiesa, dobbiamo evitare di riempirla di riti e cerimonie. Il giorno senza lavoro è una necessità primordiale, antropologica dell’uomo, non solo un comandamento del credente. Il riposo infrasettimanale non compensa nulla, perché ciascuno ha un giorno diverso e non ci si incontra più: mentre la domenica è della comunità, è di tutti ed è assieme», spiega mentre guida sulle strade della provincia a distribuire il vedemecum di 24 pagine con le istruzioni dettagliate per la campagna e a incoraggiare le sue truppe disarmate.

Nell’anno 304 ad Abitène, oggi in Tunisia, 304 cristiani affrontarono il martirio al grido di «senza domenica non possiamo vivere!». Ai boicottatori dello shopping, padre Adriano chiede molto meno sacrificio ma più fantasia. E la trova. A Due Carrare Caterina, responsabile del patronato di San Giorgio, ha coinvolto l’amica professoressa Anna Chiara, e domenica si porta tutto il paese a passeggio tra le sconosciute memorie storiche della zona, l’abbazia di Santo Stefano, il ponte romano, la villa veneziana: «La gente scappa nei centri commerciali perché ha paura del vuoto della domenica. Bisogna offrire alternative ». A Cazzago Gianni Simonato, tecnico informatico, sta ridipingendo il vecchio circolo Acli: «Offriremo il caffè dopo la messa, per continuare a stare insieme », come si fa in certe chiese anglicane. In sala biliardi un monitor sempre acceso pubblicizza il boicottaggio. Qui la minaccia è seria, si chiama Veneto City, progetto di megacentro commerciale in piena campagna, «già adesso la domenica il paese si svuota, vanno tutti a Padova o a Mestre a fare spese, figuriamoci dopo». A Maserà, nella sua curiosa chiesa-pagoda, don Francesco Fabris è preoccupato: «Vengono le mamme commesse di negozio a chiedermi aiuto, “fate qualcosa voi, il sindacato ha già firmato l’accordo per il lavoro domenicale”, cosa posso fare per queste persone?». Il 4 marzo scorso a Padova le commesse sfilarono per strada con il codice a barre appuntato sui grembiuli per dire “la domenica non ha prezzo”. Bene, don Francesco farà qualcosa: domenica 18 metterà una tenda davanti alla chiesa per pubblicizzare il boicottaggio. Antonio fa il cassiere in un ipermercato di un grosso centro della provincia, «tre domeniche al mese obbligatorie, sto per sposarmi, penso ai miei figli: potrò stare con loro solo un giorno al mese?», allora ha organizzato un boicottaggio privato e controllato: ha imposto a parenti e amici di non farsi vedere
da lui in negozio alla domenica, «qualcuno poi passa lo stesso, arrossisce e mi chiede scusa... «.

Battaglia difficile, Rita la catechista lo sa. «Vanno a fare shopping perché così anche la domenica possono evitare di parlare con altri esseri umani: parlano solo con le scatolette di pomodoro». Don Vlastio, il suo parroco, cerca di contenerla un po’: «Non dobbiamo colpevolizzare nessuno... ». Ma a sorpresa, la campagna che sta per partire conta già un convertito eccellente, nientemeno che il comandante del campo avverso, il presidente dell’Ascom di Padova Fernando Zilio, lui che per un anno ha bisticciato sui giornali locali con il vescovo proprio per le aperture domenicali, ma che si è ricreduto quando, con le liberalizzazioni del governo Monti, ha visto la potenza di fuoco delle grandi catene dell’“aperto ogni domenica!” abbattersi disastrosamente sul fatturato dei suoi “piccoli”, i negozi a conduzione familiare: «Aveva ragione monsignor Mattiazzo, ha visto più avanti di me. Qualche negozio nei centri storici, per il turismo, può anche aprire alla domenica, ma questo sistema non è giusto, e forse non rende neppure». Padre Adriano si attende molti altri folgorati sulla via dello shopping.

postilla
Se non altro stavolta le cose sono chiarissime: la contrarietà all’apertura domenicale dei negozi arriva dall’unica direzione in qualche modo autorizzata, ovvero quella del sacro. E non, per esempio, da quella parecchio fuorviante della tutela dei diritti dei lavoratori, che spesso accampa purtroppo argomentazioni troppo simili, perdendo di vista la luna per guardare troppo attentamente il dito. Ha senso, nel ventunesimo secolo, imporre per legge a tutti quanti di starsene per una giornata a contemplare l’infinito o quel che si preferisce? Ha senso, imporre per legge che una giornata, la stessa giornata per tutti intendo, sia interamente sottratta allo spazio-tempo della contemporaneità, obbligando giovani, vecchi, lavoratori e pensionati, studenti, e chissà quante altre categorie sociologiche si possono evocare, al momentino di riflessione obbligatorio? No, che non ha senso, perché come ci insegnerebbe lo storico Jacques Le Goff esiste un tempo del sacro e un tempo del terreno, che con tanta fatica abbiamo cominciato goffamente a distinguere quando nella teocrazia medievale qualche inventore cominciò a pasticciare seriamente con gli orologi. Per scoprire che l’eternità poteva essere fatta a fettine precise, magari pure capita meglio, lasciando anche all’adorazione più spazio specifico, e all’uomo momenti adeguatamente ritagliati per pensare alle proprie terrene faccende. Il primo simbolo delle città, svettante sull’aria libera che vi si iniziava a respirare, furono le torri dell’orologio. Il fatto che poi quegli orologi fossero montati sui campanili, vicino alle campane che scandivano le ore, anche quelle dedicate al sacro, è solo un caso. Non confondiamo le cose, per favore, anche con le migliori intenzioni progressiste (f.b.)

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