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Susanna Tamaro
Lo shopping nelle domeniche vuote che sottrae tempo alla vita
22 Novembre 2012
Territorio del commercio
Dopo le camere da letto e le mutande del prossimo, certo fanatismo autoritario si insinua nella gestione del tempo con la scusa dell’eternità.

Dopo le camere da letto e le mutande del prossimo, certo fanatismo autoritario si insinua nella gestione del tempo con la scusa dell’eternità. Corriere della Sera, 22 novembre 2012, postilla (f.b.)

Domenica prossima, nelle piazze italiane, avverrà una raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Confesercenti e Federstrade. L'obiettivo è l'abolizione della liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali, rimandando alle Regioni la possibilità di decidere in base alle esigenze locali. Il decreto salva Italia introdotto un anno fa non ha prodotto, infatti, i benefici sperati. Secondo il presidente di Confesercenti, Marco Venturi, 80.000 imprese sono destinate a chiudere con una perdita di più di 200.000 posti di lavoro. A dar retta agli studi di settore, solo il 3,12 della popolazione ha fatto acquisti la domenica ed è chiaro che solo i grandi centri commerciali possono reggere un simile impegno a scapito delle imprese più piccole e dei negozi familiari.

Accanto a questa iniziativa, si affianca la protesta dei lavoratori del commercio che hanno dato via al gruppo «Domenica, no grazie!». È un movimento nato dal basso, in Toscana, che si sta diffondendo in tutta Italia. Contrariamente a quello che si potrebbe supporre, infatti, queste aperture domenicali non portano vantaggi economici per i lavoratori, come emerge dalle molte testimonianze riportate nel loro sito. Lavorano di più con una paga, in proporzione, minore del dovuto. Naturalmente, esistono delle categorie che, a rotazione, operano anche la domenica: le forze dell'ordine, gli infermieri, i medici, i pompieri, i vigili del fuoco — tutte le realtà che sono necessarie al funzionamento della società. Non credo però che queste funzioni possano venire omologate a quello dello shopping festivo. Shopping che, in questi tempi di profonda crisi, si trasforma soprattutto in un frustante looking.

Queste proteste ci spingono a riflettere su cosa sia davvero la domenica, che senso abbia — o meglio aveva — questa interruzione del tempo che tutte le civiltà riconoscono come fondamentale e necessario per l'essere umano. Se ritorno alla mia infanzia e penso alle domeniche — quelle degli anni Sessanta in città — la prima sensazione che mi viene in mente è la noia. Non appartenendo a una famiglia religiosa, non c'era neppure il rito della messa; il tempo scorreva lentissimo e gli unici diversivi in cui noi bambini potevamo sperare era un pranzo dai nonni o un eventuale cinema nella rumorosissima sala di quartiere. Domenica voleva dire stare sdraiati sul pavimento a guardare il soffitto, aggrapparsi a un fumetto o a qualche gioco tra fratelli. La televisione era ancora assente dalle nostre vite o, anche se c'era, rimaneva spenta in salotto. Domenica dunque era soprattutto silenzio, rotto, nel pomeriggio, dall'ossessivo gracchiare delle radio dei vicini che trasmettevano le cronache delle partite.

Negli anni 80, quando già vivevo a Roma, passavo spesso le domeniche con Alberto Moravia. Andavamo in giro in macchina per la città, parlando del nostro argomento preferito: gli animali. Succedeva soprattutto d'inverno, quando le giornate erano grigie e corte. Ad un certo punto, lui sospirava rumorosamente, dicendo: «Je m'ennuis» ed io pronta rispondevo: «Moi aussi». Ma quella noia non era che un primo stato d'animo di quella improvvisa diversificazione del tempo perché, sotto la noia, covava in realtà il tizzone ardente dell'inquietudine. Quando penso al nostro mondo, un mondo che non si ferma mai, che vuole costringerci a non fermarci mai, penso a un mondo in cui non c'è più spazio per l'inquietudine costruttiva. E che cos'è l'inquietudine se non la spinta a muoversi, a cercare, a interrogarsi, ad andare sempre avanti, senza accettare passivamente il presente? Senza questa dilatazione infinita di tempi morti non si sarebbe mai sviluppata l'arte e neppure la scienza perché l'immaginazione — che sta alla base di entrambi i processi — esiste e si sviluppa soltanto nel momento in cui irrompe una diversa concezione del tempo.

È sempre noia quella che spinge folle di persone a invadere i centri commerciali, la domenica. La noia e l'imbarazzo di avere un tempo interno che ormai si è incapaci di gestire. Ma questo tipo di noia è sterile, perché, anziché aprirsi all'inquietudine e dunque alle domande, trova un immediato anestetico nella compulsione dell'acquisto. Una compulsione che non è molto diversa dal supplizio di Tantalo: appena si riesce a tacitare la paura del vuoto con un nuovo oggetto, subito ne compare un altro davanti ai nostri occhi, altrettanto urgente e allettante, in un moto di perpetua frustrazione. Alla base della disperazione attuale — questa disperazione cupa, distruttiva, che prende sempre più spesso il volto della depressione, dei pensieri ossessivi e degli attacchi di panico — c'è il totale smarrimento del senso della diversità temporale. Se il nostro tempo, il tempo della nostra vita, è solo quello del consumo, del possesso, dell'essere continuamente distratti da cose che ci chiamano fuori e che ci definiscono attraverso l'avere, quando la vita a un tratto irrompe con dimensioni diverse — quella della malattia, dell'imprevisto, della morte — rimaniamo preda di un addolorato stupore. Non sappiamo più come affrontare questi eventi perché abbiamo smarrito la capacità di riflettere sul senso e sulla complessità della nostra vita.

Nel nostro Paese, ossessionato dall'antagonismo clericale/anticlericale dovuto alla presenza della Chiesa, si tende a pensare che il rispetto del giorno di riposo sia un anacronistico piegarsi alle esigenze delle gerarchie vaticane, come se la domenica fosse esclusivamente un tributo dovuto ai preti. Che tragico errore! La domenica non è per i preti, ma più semplicemente lo spazio in cui l'uomo può realizzare il suo radicamento. Non a caso, nella laicissima Olanda, come in Francia, in Belgio, in Germania, in Spagna, i negozi restano rigorosamente chiusi la domenica. Sanno bene, infatti, questi Paesi non confessionali che il giorno di riposo è un'occasione per stare insieme, per creare relazioni, per costruirle. È il momento, per i genitori, di fare qualcosa con i figli, per gli amici, di stare insieme, per tutti noi, il tempo da dedicare a quelle piccole cose che fanno la nostra vita ricca e unica e che negli altri giorni non abbiamo mai il tempo di fare. Il tempo sospeso del non acquisto ci apre all'incontro con l'Altro. L'Altro da noi e l'Altro in noi. E solo quest'apertura sull'altro è in grado di dare un respiro diverso ai nostri giorni.

Ricordo che negli anni 80, quando ero in Israele, avevo organizzato una gita con degli amici per andare a vedere dei grifoni sulle alture del Golan. Siamo partiti di venerdì pomeriggio ma ahimè sul raccordo di Haifa, vicino alle grandi raffinerie, la nostra scassata macchina ci ha abbandonato. Forse anche lei aveva deciso di rispettare il sabato. Così abbiamo passato una notte e un giorno accampati sotto i piloni di cemento mangiando scatolette, parlando della vita e della morte e aspettando il successivo tramonto. Proprio lì, in quel luogo poco idilliaco, mi sono venute in mente le parole — che poi ho messo in Per voce sola — con le quali un nonno aveva spiegato a un bambino il significato del sabato. «Il sabato è importante perché vedi tutto con occhi doppi, vedi le cose come appaiono e come sono in realtà». Non è di questi occhi forse che abbiamo bisogno? Far tornare la domenica un giorno di silenzio, di riposo della mente e del corpo, di possibilità di stare insieme non sarebbe forse un importante segno per invertire la rotta, rimettendo la ricchezza dell'umano alla base della nostra civiltà?

Postilla
Si potrebbe ancora partire dal solito semplificatorio dimmi con chi stai e ti dirò chi sei, anche indipendentemente dalle tue intenzioni: la gentile signora Tamaro sostiene le iniziative dei bottegai che si sentono minacciati dalla potenza organizzativa della grande distribuzione, e mobilitano penne prestigiose e cervelli acuminati per la resistenza ad oltranza. Anche a costo di sommergerci di gigantesche balle, in elegante confezione letteraria. La più grossa non è tanto l’auspicio della signora Tamaro di una pausa coatta di tipo arcaico, sul modello del sabato ebraico, che sola apre le porte su sé stessi. No, la balla più grossa è quella insinuata dagli uffici stampa dei promotori, uguale e opposta alle loro strategie commerciali, ovvero che uscire di casa certi giorni e frequentare certi ambienti piuttosto che altri costituisca una disumana spinta al consumo compulsivo. In breve, dopo decenni di chiacchiere distintivo e altro sulla cosiddetta esperienza dello shopping, e naturalmente dopo decenni paralleli di attivo adattamento dei nostri ritmi circadiani, abbiamo raggiunto almeno una prospettiva di equilibrio. Entro il quale, ce lo dice indirettamente anche la Tamaro, c’è molta più esperienza che shopping, e le navate o arterie urbane a ciò destinate assomigliano sempre più nella fruizione alle comuni piazze tanto decantate anche da certo tradizionalismo retro. E poi: non è consumo anche la partita? Non è consumo anche il cinema? Non è consumo anche la pizza dopo la partita e/o dopo il cinema? Non è consumo, estremizzando, me ne rendo perfettamente conto (ma dall’altra parte, scusate, si tira in ballo il sabato ebraico!), anche comprare i fiori al chiosco del cimitero o davanti all’ospedale prima di andare in visita a un malato? La finestra sull’eternità della signora Tamaro non è per caso accessibile anche con un percorso tutto interiore, senza interferire con la vita altrui? Ci sono come minimo parecchie decine di migliaia di ebrei di stretta osservanza, sparsi in decine e decine di metropoli mondiali, che da generazioni si fermano per scelta, non per forza, mentre attorno a loro prosegue per la sua strada il fiume della vita. Insomma a ognuno il suo, non quello che decide qualcun altro per il suo bene. Il resto sono balle (f.b.)

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