Leggo il programma per la Scuola di Eddyburg 2006. I temi da discutere per “costruire la città pubblica” sarebbero la casa, la mobilità, l’ambiente. Penso al primo tema, a quello che negli anni dell’impegno ‘dei professori’ verso i sindacati dei lavoratori e degli inquilini si chiamava Il problema della casa. Sono passati trent’anni dall’affollato seminario con questo titolo al Politecnico milanese nei mesi di maggio e giugno 1976. Erano ancora vivi gli effetti culturali dello sciopero generale per la casa che nel 1969 aveva bloccato l’intero paese. La condizione abitativa non poteva essere cambiata sostanzialmente; ma i risultati delle elezioni amministrative del 1975 e delle elezioni politiche del 1976, con il primato democristiano messo in discussione dal successo del Partito comunista, contenevano anche la convinzione dei lavoratori di poter finalmente ottenere una maggior giustizia sociale quindi anche il diritto all’abitazione equa, equa per qualità e prezzo ma anche per posizione rispetto al luogo di lavoro.
La storia del paese era già corsa in un altro senso e così procederà. Le storie particolari dell’urbanistica e dell’architettura sono storie di crisi degli ideali e, per questo, di alienazione all’interesse privato e al traffico politico. La “casa”, come avrebbe potuto corrispondere alle vecchie rivendicazioni e aspettative?
Pochi mesi fa i politici e molti fra sociologi e urbanisti erano propensi a ritenere il problema risolto grazie alla diffusione della proprietà dell’abitazione, infatti sembravano accettare stime non credibili, come quella enunciata da Berlusconi nelle sue disperate esplosioni, 86 %. La proprietà all’ultimo censimento riguardava il 71% delle famiglie, non può essersi tanto estesa in soli quattro anni. Intanto i fatti hanno mostrato la verità indipendentemente dalla diatriba intorno, come recita la burocrazia, al “titolo di godimento dell’abitazione”. I cittadini privi delle risorse necessarie per comprare o vessati dagli affitti esosi o comunque privi di un alloggio decente sono tornati in piazza per rilanciare i vecchi proclami sul diritto alla casa. Certi politici e amministratori locali si svegliano e riconoscono la crisi abitativa emergente soprattutto nelle città maggiori, sanno che non la si può nascondere dietro la scusa che essa riguarda una minoranza della popolazione. A Milano entrambi i candidati alla carica di sindaco hanno indicato questo problema come centro del loro impegno. L’imprudente Letizia Moratti ha promesso addirittura la costruzione di 45.000 alloggi popolari, una cifra assurda, fuor di ogni effettiva possibilità di realizzazione, tuttavia di per se stessa segno di un mercato edilizio pieno di offerte d’affitto del tutto sfasate rispetto alla domanda proveniente dai lavoratori, in particolare gl’impiegati sia stabili sia precari che nel settore terziario delle aree urbane metropolitane rappresentano il ceto operaio del nostro tempo: per salario, fatica, stress da lavoro e da insensato pendolarismo.
La radicale separazione fra i mercati del lavoro e dell’abitazione è il cuore del problema nelle metropoli. Diritto alla casa giusta, scontata la ragione del prezzo equo – affitto o ammortamento del mutuo – significa in definitiva per i lavoratori diritto a risiedere nella città pubblica in modo da ridurre a una misura umanamente accettabile, com’è concesso ai ceti dtentori di alti redditi, tutte le componenti penose: totale incongruenza fra luogo di residenza e luogo di lavoro, perdita di ore negli spostamenti, appartenenza della casa a contesti edilizi brutti e carenti di servizi, insufficienza dimensionale e bassa qualità funzionale e architettonica dell’alloggio.
Il tema della casa nella città pubblica coincide col progetto di restituire alla città la sua natura residenziale sottrattagli dal processo economico sociale liberistico. L’ente pubblico ha favorito il processo invece di controllarlo: per non aver adottato l’ottica dei diritti dei lavoratori e invece aver accettato la sudditanza a una trasformazione terziaria finanziaria in buona parte speculativa. Un immobiliarismo produttore di rendite gigantesche distrugge la residenza urbana nella città madre del contesto metropolitano e ne getta al di fuori gli abitanti. Si dirà che, oggi, è alla dimensione più ampia che dobbiamo guardare. Ma è proprio tale visione che ha permesso di evidenziare la negazione del compito storico della città.
Uno sguardo alla storia della città e del territorio offre subito un buon appiglio: tra tipo di città (o di territorio) e forma di sviluppo sociale esiste una sicura relazione. Si potrebbe rileggere il famoso saggio di Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, 1858 (in Scritti storici e geografici, Le Monnier, Firenze 1957, vol. II, pp.393-437) e il primo bellissimo saggio della Storia d’Italia Einaudi dovuto a Lucio Gambi, Valori storici del quadri ambientali (in vol. I, I caratteri originali, Torino 1972, pp. 5-60).
La piena espansione del capitalismo attraverso la rivoluzione industriale – il modello abituale cui ricorriamo è l’Inghilterra dal XVIII secolo – procede specialmente per concentrazione in aree relativamente ristrette dopo la fase primitiva della manifattura nelle campagne, una sorta di lavoro a domicilio diremmo oggi (noi italiani ricordiamo come la prima industria delle seta nascesse nelle masserie dedite all’agricoltura povera della pianura asciutta a nord di Milano). Alla concentrazione territoriale della produzione e del lavoro consegue una domanda di concentrazione delle abitazioni che di fatto è un comando cui gli operai devono sottostare e diventare così oggetto del doppio sfruttamento, nel lavoro e nell’abitazione.
Da questo momento il problema urbano può essere considerato anche come problema dell’abitazione dei lavoratori. Del tutta secondaria l’avvertenza che allora il lavoro prevalente fosse da operaio e oggi da impiegato di mediocre livello.
Mentre fino al XVIII secolo i motivi che spingono la popolazione ad ammassarsi (sappiamo che prima nelle città viveva una piccola minoranza) non sono collegati strettamente alle necessità di un modo specifico di produzione, con la città industriale capitalistica esigente il pieno controllo e sfruttamento della forza di lavoro la scelta circa il modo di abitare e il tipo di abitazione si riduce fino ad annullarsi. Ripassando l’analisi sociale e urbana di Engels in La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845 (Editori Riuniti, Roma 1973), magari aggiungendo l’interpretazione di Renzo Stefanelli nell’introduzione di La questione delle abitazioni in Italia (Sansoni, Firenze 1976), troviamo logico che il limite fosse la perdita della salute, la degradazione sociale se non la morte.
Possiamo arrischiare un qualche principio, una teoria valida per allora e, riguardo alla essenza di una condizione sociale che nell’insieme non osiamo paragonare, per oggi? Sì, anzi possiamo scrivere una specie di equazione non vergognandoci di ricorrere a uno schema di tipo storico dialettico:
remunerazione del lavoro dipendente uguale alla sommatoria dei mezzi di sussistenza, comprendendo in quest’ultimi l’abitazione, ossia una componente indispensabile della riproduzione, questa necessaria, benché di misura variabile, per assicurare la produzione, in qualsiasi maniera vogliamo considerarla per l’allora e per l’oggi.
Peggiore abitazione, peggiore salario
La peggior abitazione, come il peggior salario, appunto il limite di cui sopra, è relativa alla condizione storica dei rapporti riproduttivi e produttivi, compreso il livello raggiunto dalle conquiste sociali dei lavoratori. È grande la differenza di situazioni medie distanti due secoli e mezzo, ma è innegabile che l’odierno capitalismo mondiale presenta geografie talmente differenti entro la famigerata globalizzazione da sbatterci in faccia anche modelli salariali e abitativi persino travalicanti il confine della sopravvivenza, come nelle miniere inglesi del Settecento o, per il merito del tema qui in causa, nella Manchester studiata da Engels: anche nel nostro paese, per il quale un Engels nostro contemporaneo potrebbe ricavare narrazioni terribili da come molti immigrati abitano nelle nostre città. E non solo qui se posso citare, fra mille casi, quello di Cassibile in Sicilia dove immigrati africani, come schiavi destinati alla raccolta delle patate, lavorano dodici ore al giorno per trentacinque euro e “abitano” in un boschetto in condizioni peggiori che nella più atroce delle bidonville africane o sudamericane – vedi in “la Repubblica” del 6 giugno. Ad ogni modo la realtà storica dimostra che operai e altri lavoratori consimili hanno sempre avuto un salario al di sotto della soglia d’accesso a un’abitazione nella città “privata” coerente ai bisogni.
Un esclusivo mercato delle abitazioni nelle mani dei proprietari fondiari e degli stessi industriali è stata la preminente causa strutturale che ha promosso fin dalla prima metà del XIX secolo gli atti di governo (stati, municipi, altri enti pubblici d’ogni tipo, associazioni assistenziali e morali) finalizzati alla costruzione di abitazioni pubbliche. La cultura delle riforme incentrata sulla politica sociale per la casa e la città si espanderà decisamente in Europa nel XX secolo, in certi periodi e in relazione a specifiche situazioni politiche. E sarà parte fondamentale della cultura socialdemocratica europea fino a oggi; anche quando si esalterà su posizioni più radicali, esempio doveroso il riferimento teorico all’austromarxismo che ispirerà le scelte del Comune di Vienna negli anni Venti per la realizzazione di grandi corti di abitazione sociale dentro al corpo vivo della città, senz’altro decisive per il ribaltamento del mercato.
Si è detto che la politica della casa e dei quartieri pubblici, salvo casi eccezionali come nella “Vienna rossa”, ha svolto il compito che le classi dominanti intrise di occorrente illuminismo gli hanno assegnato. Lo scopo, assicurare la riproduzione della città capitalistica, entità sociale e fisica dove i rapporti di forza e di potere fra le classi sarebbero inevitabilmente favorevoli al profitto e alla rendita. Insomma, occorreva impedire gli effetti di un eccessivo disordine sul funzionamento dell’economia, evitare le pericolose ripercussioni sociali derivanti dalla mancanza di una qualche risposta all’insopportabile condizione abitativa dei lavoratori. L’evoluzione della realtà ha messo in gioco ben altre motivazioni e complicazioni. Anche laddove si ponga l’obiettivo di mediare fra i diversi strati sociali l’intervento pubblico detiene un’importanza indiscutibile; persino, secondo Stefanelli, indipendentemente dalla quota assoluta di abitazioni che contribuisce a edificare poiché esprime comunque condizioni nuove. Ho qualche dubbio. Se l’iniziativa pubblica vuole incidere in maniera significativa sul mercato della casa, la quantità, unita all’adeguatezza dell’ubicazione urbana e dell’architettura, è essenziale.
L’abitazione pubblica in Italia nella prima metà del novecento
Le vicende dell’abitazione pubblica in Italia si discostano da quelle in altri stati europei che la cultura urbanistica italiana ha spesso citato come esempi desiderabili.
Il regolamento di attuazione della Legge Luzzatti (1904) instaura criteri minuziosi relativi alla Casa economica e popolare pubblica, e privata qualora l’imprenditoria scelga di costruire case di quel tipo (standard per le parti fondamentali dell’abitazione, piani particolareggiati per i quar-tieri). Le precisazioni del Testo unico del 1908 creano le basi per realizzazioni come le Borgate di Roma e i Villaggi di Milano mentre comincia ad affermarsi l’attività degli Istituti autonomi per le casi popolari (Iacp), concentrata soprattutto nelle due grandi città.
Da ora in avanti l’intervento pubblico, entro un’apparente unificazione dei diritti definita dal tetto qualitativo della tipologia sovvenzionata, appare differenziato secondo il tipo di istituzione e tende a selezionare i gruppi sociali fra quelli che possono permettersi l’onere di un mutuo finalizzato alla proprietà dell’alloggio e gli altri che possono pagare solo un canone modico.
Lo schema selettivo si raffinerà col celebre Testo unico del 1919, responsabile della chiarezza, per così dire, con cui si attua la divisione classista dei destinatari secondo procedure le cui conseguenze saranno irreversibili. Punto di snodo è la scissione della precedente definizione unica della casa in due spezzoni, Casa economica e Casa popolare, insieme alla separazione fra ceto operaio e ceto medio impiegatizio. Alle due categorie attengono differenze secondo tre titoli: ente realizzatore, modo di assegnazione/utilizzo dell’abitazione, caratteristiche tipologiche e funzionali. Al ceto operaio spetteranno in Case economiche a proprietà indivisa alloggi del Comune, dell’Iacp, eccetera, assegnati in locazione, dotati al massimo di tre locali, di servizi ridotti, di finiture scadenti; all’altro ceto, appartamenti in Casa popolare cooperativa assegnati ai soci anche in proprietà individuale, ampiezza fino a sei vani, accesso da ripiano scala (negazione del disimpegno “collettivista” a ballatoio), rifiniture di ottima qualità.
Gli sviluppi successivi non potranno che confermare la tendenza. Le politiche economiche delle classi dirigenti e il consolidamento del fascismo premuroso verso i ceti medi provocheranno l’inversione del peso dei ceti sociali destinatari degli alloggi Iacp. A Milano fra il 1909/10 e il 1926/27 gli utenti operai delle case dell’istituto diminuiranno dal 67% del totale al 47 % (dati in D. Franche e R. Chiumeo, Urbanistica a Milano in regime fascista, La Nuova Italia, Firenze 1972, una ricerca esemplare).
Il regime fascista attua piani regolatori caratterizzati dagli sventramenti nelle parti centrali e popolari della città coerenti alla propensione dell’economia urbana a spostarsi dalla produzione alla finanza e soprattutto, o in ogni caso, alla speculazione immobiliare. Ne fanno le spese le famiglie operaie residenti nel cuore urbano: “i lavoratori vengono respinti dal centro della città alla periferia, le case operaie, e comunque i piccoli appartamenti, diventano rari e cari, e spesso non si trovano affatto”. Scritto da qualche storico in epoca post-fascista? No, da Engels, ancora, nel 1872 (La questione delle abitazioni, edizione italiana Rinascita, Roma 1950, parte seconda, I).
L’attività degli Iacp, ancorché lontana da una risposta alle esigenze quantitative nemmeno sommandovi quella del Comune e di altri istituti, pende, si è visto, verso un ruolo classista e lo accentua selezionando i destinatari anche mediante la localizzazione. A Milano gl’insediamenti di buona qualità in zone anche appena oltre la circonvallazione “spagnola” oggi delimitante il centro storico, sono riservati agli impiegati. Saranno questi gli alloggi a essere messi in vendita o a riscatto massicciamente a partire dalla fine degli anni Settanta grazie alla nuova politica degli Istituti e del Comune, decisi a entrare nel mercato anziché a contenderlo come avrebbe dovuto suggerire la loro natura originaria pubblica e sociale.
Per parte sua il Movimento moderno, pur al corrente della rivoluzione razionalista europea, non riesce a sperimentare in concreto ed estesamente una nuova urbanistica e una nuova architet-tura della casa popolare. Quante volte ci siamo trovati a “salvare” la città fascista di Sabaudia? Non riuscivamo a trovare altro. E poi verrà il bravo Ferreri ad ambientarvi un film dove la città pontina apparirà, oltre che metafisica, davvero bella… I veri problemi urbanistici della città e il problema della casa nella città per i lavoratori restano aperti, drammatici. (vedi Avere non avere casa a Milano la citazione dell’Indagine sul problema delle abitazioni operaie in provincia di Milano di Piero Bottoni e Mario Pucci, pubblicata sorprendentemente nel 1939 dall’amministrazione provinciale: operai delle fabbriche urbane, residenti milanesi o pendolari settimanali, costretti ad “abitare” in stalle di cascine abbandonate e fatiscenti, baracche, tettoie ai confini comunali e nei comuni prossimi).
Il dopoguerra
Nel dopoguerra certi spunti ritenuti ancor oggi positivi offerti dalla prima autentica legge urbanistica italiana, 17 agosto 1942, saranno smentiti dai fatti. La ricostruzione edilizia nelle città bombardate sulla base di una serie di decreti a cominciare dal marzo 1945 e infine della legge del 27 ottobre 1951 scatenerà gli speculatori fondiari e i costruttori avidi di enormi cubature aggiuntive. La questione delle casa per i lavoratori, il principio di nuovi quartieri popolari di qualità troveranno poche occasioni per trasformarsi in risultati soddisfacenti. Ci siamo ridotti a nominare sempre gli stessi casi che non voglio riproporre qui. L’attività degli istituti susseguitisi dal dopoguerra, Pioo (Piano incremento occupazione operaia), Ina-casa, Gescal…, oltre ai precedenti Iacp, Incis e via a elencare, le scarse iniziative dei Comuni – per tacere dell’assenteismo sociale delle grandi aziende verso i dipendenti – quando approderanno a insediamenti di edilizia sovvenzionata di un certo rilievo quantitativo li accetteranno come mal progettati, ultra-periferici, privi di buoni servizi, scadenti d’architettura.
Il direttore di “Urbanistica” Giovanni Astengo sul primo numero della nuova serie dopo la guerra (luglio-agosto 1949) lamenta il troppo magro attivo del bilancio urbanistico, “disorganica sequenza di opere pubbliche… disordinata e maldestra ricostruzione dei centri urbani grandi e piccoli… massimo sfruttamento… poco felici e purtroppo numerosi esempi di costruzioni del Genio civile e di altri Enti… precisamente quella situazione di disordine che una seria e positiva azione di programmazione urbanistica avrebbe potuto facilmente prevenire e superare”. Astengo indica la causa del fallimento nella “impreparazione psicologica e tecnica dei politici, degli amministratori, del pubblico”, nella arretratezza della maggioranza degli urbanisti che “nell’anteguerra correvano dietro alle lusinghe degli sventramenti o delle piazze imperiali… e dei puri tecnici che si occupavano unicamente di strade e di allineamenti”, e anche nella polemica razionalista “che non ha molto giovato a preparare la strada all’urbanistica moderna”. Giuste lamentele e denunce, ma insufficienti. Astengo probabilmente non può ancora avvedersi dei cambiamenti nella società che avrebbero determinato l’evolversi della situazione urbana, e in particolare della “casa”, in senso contrario alle speranze coltivate dagli architetti di sinistra dopo la Liberazione. È già in azione l’alleanza fra i detentori delle posizioni urbane di potere economico, industriale finanziario fondiario, e la Democrazia cristiana, che deve d’altronde gestire coerentemente la vittoria del ’48 conseguita su posizioni anticomuniste/antisocialiste e restauratrici dell’ordine sociale dell’anteguerra: sicché deve assicurare mediante sia i bassi salari sia la completa libertà di sfruttamento edilizio i massimi livelli del profitto e della rendita e le nuove opportunità di lucro aperte dalle manovre congiunte su entrambi. Non sarà difficile costruire attorno a un tale programma un blocco sociale comprensivo di altri ceti oltre alla borghesia imprenditrice-renditiera agendo lungo due linee politico sociali: creare assenso o acquiescenza con mezzi clientelari permessi dai forti margini delle operazioni speculative, approfittare dell’oggettivo bisogno di casa incanalandolo specialmente verso una domanda di casa in proprietà.
Nei decenni successivi il modello non subirà modifiche significative. Quando le lotte operaie del 1962-63 riusciranno a rompere la logica dei bassi salari (esemplare il contratto strappato all’Alfa Romeo) rendendo un po’ più incerta la cuccagna dei facili profitti senza il minimo impegno negli investimenti per la ricerca né tanto meno per l’abitazione sociale, sarà il piatto della rendita che si sposterà più in alto. Non saranno la prima legge moderna per l’edilizia economica popolare, quella del 18 aprile 1962, ampiamente elusa o applicata malamente in Piani di zona urbani periferici perfettamente idonei a non impedire ai padroni del territorio di continuare a mettere le mani sulla città come e dove vogliono, o la cosiddetta legge ponte del 6 luglio 1967 (col famoso, rovinoso anno di franco) a impedire che entro gli anni Sessanta lo sfruttamento capitalistico della città e del territorio diventi puro e semplice saccheggio.
Quando nell’ottobre 1971 sortirà in funesto ritardo una legge esplicitamente rivolta alla “casa” (la 865, chi la ricorda più, a destra e a sinistra?) si potranno coltivare ben poche speranze di riparazione a una lunga storia di misfatti urbanistici ed edilizi che hanno stravolto tutto il nostro stare, vivere, appunto sperare.
Così il cerchio si richiude su quella memoria dell’estate 1976 e si riapre ai cenni sull’attualità. Nonostante tante famiglie proprietarie la casa equa della città pubblica non c’è per i lavoratori soggetti alle nuove forme di sfruttamento. Persino ciò che avrebbe potuto costituire la base per nuove proposte puntando sul patrimonio pubblico esistente nelle maggiori città, Roma e Milano in testa, ha tradito l’attesa, anche per l’incredibile noncuranza se non silenziosa condivisione della sinistra. La vendita di intere case d’abitazione pubbliche in posizione urbana strategica preferibilmente a un unico imprenditore, cacciandone i vecchi inquilini dietro la scusa della ristrutturazione, dopo le prime prove alla fine dei Settanta – vedi sopra il cenno relativo a Milano – è diventata ben presto la regola (Avere non avere casa a Milano, 18 marzo 2006). Anche il cambiamento in ogni regione del titolo degli enti deputati alla realizzazione e gestione di alloggi teoricamente pubblici, da Istituto ad Azienda, ha un netto significato, certo non solo simbolico. Sono sparite le parole giuste, “casa”, “popolare”, “economico”. Per esempio A l e r, Azienda lombarda per l’edilizia residenziale: un’azienda come un’altra dentro il calderone della privatizzazione, del liberismo, della società antisociale. Chi se ne frega della città pubblica?
0. Rientrare a casa
Il tema della casa, ed in particolare il problema abitativo che interessa le aree deboli della domanda sociale, sembra essere tornato, dopo anni di silenzio e di scarsa attenzione, nella discussione pubblica.
Si tratta di un ritorno non ciclico che trascina con sé profondi cambiamenti. Cambiamenti che costituiscono una premessa imprescindibile sia per la costruzione di quadri di comprensione appropriati che per la progettazione di percorsi di trattamento efficaci: un nuovo campo e nuove regole, mentre rendono superati i modelli di risposta utilizzati in precedenza, aprono a possibili e necessari nuovi giochi.
1. Ripresa rispetto a cosa e ripresa perché?
La questione abitativa entra nell’agenda pubblica tra la fine del 1800 e l’inizio del secolo ventesimo come aspetto non marginale da affrontare per restituire alla città dignità, decoro, igiene. Dal 1860 al 1902 Milano passa da 186.000 abitanti a 442.000.
La trasmissione di malattie e di pestilenze, il rischio di contagio e di diffusione di infezioni rendono gli insediamenti fatti di baracche, gli accampamenti provvisori e autocostruiti, le strutture abitate in stato di abbandono focolai pericolosi e insalubri, una minaccia da eliminare e comunque da evitare. Il modo in cui la questione abitativa si presenta ed è costruita all’inizio del Novecento porta a tenere insieme interessi pubblici e privati: lo IACP viene costituito nel 1908 con Regio Decreto, dopo approvazione del Consiglio Comunale e dietro istanza presentata dal Sindaco, come organismo “i cui scopi e fondamenti risultano essere quelli di un ente morale prevalentemente di indole sociale e di assistenza pubblica, esulando completamente il concetto del profitto con l’obiettivo di dare alle classi popolari alloggi quanto più possibile sani e comodi a prezzi quanto più possibile limitati” (Guerrieri 2000).
Partecipano alla fondazione del nuovo Ente il Comune di Milano con denaro liquido e attraverso l’apporto di aree e immobili, la Cassa di Risparmio, il Monte di Pietà, la Banca Popolare, la Banca Commerciale, la Banca Cooperativa Milanese. L’Istituto, nel 1920 arriva a coinvolgere Pirelli e Breda per la costruzione di villaggi operai. Ospita inoltre il ‘consiglio degli inquilini’, organo di rappresentanza degli abitanti della case pubbliche e parte integrante dell’assetto organizzativo-istituzionale dell’ente.
Nel 1923 l’Istituto viene commissariato dal Prefetto; un nuovo regime si profila per l’Istituto (e non solo per l’Istituto) che fino all’inizio degli anni Trenta procede instancabilmente nell’opera di realizzazione di nuovi alloggi: tra il 1926 e il 1929 sorgono venti nuovi quartieri: i vani passano dai 13.100 per circa 6.000 famiglie circa a 30.850 vani per 13.500 famiglie (Broglio 1929).
Si tratta di una seconda fase della storia della casa popolare che vede negli anni venti e trenta un periodo importante di crescita e di diversificazione tipologica (alla casa popolare si affianca la casa economica, gli alloggi ultrapopolari definite anche case per gli sfrattati, le ‘case minime’ dei quartieri Trecca, Baggio, Bruzzano e Vialba).
Il riordino delle strutture deputate alla realizzazione e alla gestione delle case pubbliche porterà ad una articolazione ‘provinciale’ degli Istituti e alla creazione di un organismo che andava a centralizzare l’attività dei diversi Istituti (non più così autonomi): il Consorzio nazionale a carattere obbligatorio fra gli istituti autonomi per le case popolari, ente intermedio fra le articolazioni periferiche e il Ministero dei Lavori Pubblici.
Spinto anche dalla retorica fascista antiurbana e dall’intenzione mussoliniana di sviluppare una politica di bonifica sociale e di contenimento dell’espansione urbana l’attività dell’Istituto milanese si sposta decisamente nei comuni dell’hinterland e delle aree semirurali (Lodi, Legnano, Monza, Sesto San Giovanni, Legnano, Lainate).
La terza fase si apre con la stagione della ricostruzione postbellica e del rilancio socio-economico di un paese piegato dalla povertà.
Nel 1951 a Milano risiedono 1.243.000 abitanti, 160.000 sistemati in alloggi di fortuna, 20.000 i baraccati, 50.000 le famiglie che vivono in coabitazione. Gli immigrati, nello stesso anno, risultano essere 17.000.
Nel 1949 il ‘Piano Fanfani’ rilancia l’attività di costruzione utilizzata come leva per avviare il processo di ripresa economica e occupazionale in Italia. L’attività di costruzione di ‘case per i lavoratori’ viene potenziata al massimo. Nasce l’INA-Casa come struttura centrale di gestione dei finanziamenti finalizzati all’edilizia pubblica in locazione o a riscatto.
I nuovi piani di investimento e le nuove leggi portano l’Istituto, in particolare nella città di Milano, considerata nodo strategico nella geografia della rete che guida la crescita economica dell’intero paese, a trasformarsi in agente inserito a pieno titolo nel processo di costruzione e attuazione delle politiche di sviluppo urbano e considerato sempre meno per la sua funzione sociale e assistenziale. Lo Iacp è attore centrale nella definizione degli indirizzi di piano e avvia la realizzazione di interi quartieri; un modello di azione e un ruolo che porterà l’ente all’idea dei quartieri autosufficienti nei quali si provvederà a realizzare non solo le case ma anche strutture di servizio, il commercio, lo spazio pubblico, le infrastrutture di collegamento (quartiere Comasina, Mangiagalli, Varesina, Harar, …).
Tra gli anni ’50 e ’60 la nuova legislazione e le disponibilità finanziarie determinano una articolazione e una diversificazione dei soggetti incaricati di aumentare il patrimonio abitativo pubblico: l’Incis, l’Ina-Casa, l’Unra-Casa, l’Ente edilizio per i mutilati, case per ferrovieri, per i postelegrafonici, per i senza tetto, per i profughi, il Fondo per l’incremento edilizio, le Cooperative di dipendenti statali, gli Istituti per case popolari aziendali.
Un sistema che viene a complicarsi progressivamente e che porta, dentro ad un quadro normativo in continua trasformazione, in un clima sociale teso e fortemente conflittuale, all’interno di un rapporto non chiarito tra amministrazioni Comunali e governo centrale, dentro ad un gioco di forze in cui sempre più consistenti appaiono gli interessi che spingono verso l’edilizia economica (agevolata e convenzionata) per l’accesso alla proprietà, alla paralisi del sistema pubblico di produzione di abitazioni popolari.
Nel 1960, a Milano, vengono realizzati 9.000 alloggi di edilizia popolare; nell’intera provincia, tra il 1978 e il 1995, vengono realizzati in media 620 alloggi all’anno.
Dal 1981 al 2001 le famiglie che abitano in affitto (pubblico e privato) nei Comuni capoluogo della Lombardia passano dal 58% al 22%.
Mentre si chiude la stagione gloriosa dell’edilizia pubblica in locazione i cui alloggi prodotti nel tempo vengono progressivamente alienati e stralciati per tentare di colmare il deficit di bilancio degli Istituti (nel 1985 a Milano lo IACP è costretto a vendere le case per poter pagare lo stipendio ai suoi dipendenti) determinando una perdita consistente di patrimonio pubblico, si vengono a delineare le coordinate che definiscono il sistema della domanda abitativa vecchia e nuova e il meccanismo deputato a governare e organizzare il meccanismo di produzione dell’offerta pubblica.
2. Qualcosa è cambiato
Le trasformazioni riguardano tanto le condizioni di contesto - la configurazione della domanda e il tipo di bisogno espresso (chi domanda cosa), l’emergere di aree di esclusione, il blocco e la scomparsa dei canali tradizionali di finanziamento pubblico - quanto le prospettive di intervento e le dinamiche che regolano i processi di costruzione delle risposte – il trasferimento alle Regioni delle competenze in materia abitativa chiamate a definire gli indirizzi delle politiche pubbliche e a programmare la spesa (riferimento al PRERP 2002-2004), i nuovi assetti organizzativi che hanno interessato gli ex Istituti Autonomi Case Popolari , la recente riforma delle locazioni abitative e degli sfratti (Rossini, Cattaneo, 2000), la revisione della disciplina che governa l’assegnazione delle case popolari e che definisce le linee per la determinazione dei canoni relativi all’edilizia residenziale pubblica.
Spostamenti di superficie che si appoggiano su una piattaforma non meno instabile. In modo differente la questione della casa interagisce e ha relazioni con il nuovo assetto del sistema locale dei servizi sociali ridisegnato dalla legge 328/00, con le prospettive di riforma degli strumenti di governo del territorio, con l’irrigidimento delle politiche di accoglienza e di integrazione rivolte alla popolazione immigrata che trovano nella triangolazione casa-lavoro-permesso di soggiorno della legge Bossi-Fini un meccanismo di controllo e di limitazione e sempre meno un sistema di sostegno all’inserimento e di tutela del nuovo abitante.
La necessità di un cambiamento non è solo dettata da una insoddisfazione generale per le forme ordinarie di intervento pubblico messe in atto in particolare dal secondo dopoguerra (Tosi, 1994) ma anche dalla impossibilità pratica di proseguire su quella strada.
I modelli di riposta costruiti attorno alla politica abitativa pubblica non solo non rappresentano più una possibile via d’uscita ma sono col tempo diventati una parte del problema. Domande emergenti e istanze rimaste per troppo tempo senza risposta si combinano andando a definire un quadro di sollecitazioni che se non riesce più a fare breccia nella politica interpella in forme nuove le politiche e coloro che, a diverso titolo, si trovano a ricoprire un ruolo nel processo di costruzione degli interventi; “le condizioni sono cambiate: progettare vuol dire oggi affrontare problemi, utilizzare metodi, esprimere intenzioni differenti da un pur recente passato. (…) Tutto ciò vuol dire sottoporsi ad una notevole dose di rischio intellettuale, forse anche ritrovare un motivo di maggiore impegno etico-politico” (Secchi, 1984).
3. Dalla domanda di casa alle domande sulla casa
Intanto nella città, provando a leggerla con gli occhi di chi, disoccupato, la guarda dal suo balcone di casa, sempre più simile ad una baracca in cui si tenta, con un celophan trasparente, di rimediare alla mancanza di una cantina e di un ripostiglio senza però perdere il prezioso affaccio che apre su viale Molise e rimedia in parte al taglio ridotto dell’alloggio, il processo di integrazione e di cucitura tra gli insediamenti popolari costruiti nel corso del secolo appena trascorso e il resto del tessuto urbano non si è compiuto e, quando è avvenuto, è stato prevalentemente fisico: strade, collegamenti, fermate degli autobus e delle metropolitane, qualche servizio di quartiere. Milano sembra aver escluso il problema delle connessioni forti, dell’integrazione; ha seguito e subito un modello di crescita per frammenti, pezzi di città che riescono ad ignorarsi reciprocamente. Ciascuno insegue la sua città dentro ad uno spazio dilatato e opaco che non riesce a produrre processi leggibili di sensemaking, che fatica ad organizzarsi, a strutturarsi come luogo collettivo, come luogo (in) comune (Weick 1995), come luogo in cui si conosce e si riconosce la società che abita.
Mentre guardiamo alla regione metropolitana ci troviamo a fare i conti con una città per parti, separata, isolata al suo interno, anestetizzata. Una città che forse preferisce guardare fuori, pensarsi altrove, piuttosto che guardarsi dentro.
L’interrogativo sui destini dell’edilizia pubblica e della casa popolare riporta l’attenzione sulla città come spazio dell’abitare, dell’abitare plurale, fatto di diverse strategie. In particolare sposta l’attenzione su quelle storie e su quei percorsi faticosi, che con grandi difficoltà trovano il modo per dimorare, svilupparsi o per resistere. Di queste storie sembra non esserci traccia nell’agenda pubblica: queste storie restano marginali, sconosciute, invisibili. Non esistono.
Come affrontare il processo di riemersione, ammesso che ci interessi?
Una prima questione intercetta il livello politico e culturale: la questione abitativa non è risolta. Sicuramente è cambiata ed è chiamata ad affrontare problemi nuovi, in forme nuove.
La capacità di risposta pubblica al problema casa si appoggia a Milano su un patrimonio di circa 60.000 alloggi; 2/3 di proprietà Aler, 1/3 di proprietà comunale. Con una lista di attesa di circa 32.000 domande (17 mila risultanti dai tre bandi precedenti e 12.500 domande derivanti dal bando 2001) nella città sono stati realizzati, dal 1995 al 2001, 470 alloggi pubblici. Ogni anno il Comune si ritrova 1.000 alloggi liberi (i cosiddetti alloggi di risulta) che rappresentano l’unica possibilità attraverso cui soddisfare le richieste di case popolari. Non solo non si riesce ad assegnare alloggi ma quei pochi che vengono assegnati intercettano la quota più problematica della domanda: sfratti esecutivi, ex pazienti degli ospedali psichiatrici, anziani e invalidi con redditi inesistenti, donne sole senza lavoro con minori a carico.
Per queste ragioni è un problema non aver la casa ma è un problema (differente) anche averla senza essere nelle condizioni di poterla mantenere e gestire (Irer 2001), di riuscire a con-vivere nello stesso stabile con gli altri inquilini, di stare nei cortili di quartieri abitati da 1500, 2 mila persone lasciate a se stesse; senza portineria, senza regole, senza supporti. Stiamo andando incontro ad una città che ha pochi pensieri, poche risorse ed energie, pochi progetti da rivolgere ai suoi abitanti (Balducci, Rabaiotti 2001). Una città che non riesce a costruire politiche pubbliche intendendo con questo quelle politiche che se non vengono promosse e sostenute dal pubblico non le fa nessun altro. La quota pubblica nelle politiche appare sempre più spesso affidata ai residui di politiche altre. In questo senso la casa ci aiuta: funziona da spia, da segnale, da avvertimento.
Una seconda questione è di natura scientifica, disciplinare. Per diversi anni non si è più parlato di casa, nelle università, nelle scuole, negli istituti di ricerca. Il vuoto non è solo nelle agende pubbliche. Abbiamo anche noi smesso di interrogarci, di voler capire, di provare a conoscere. Un pezzo di storia della città è sfuggito anche alle discipline che hanno fatto del territorio il loro centro di attenzione: le analisi economiche, sociali, geografiche, politiche, antropologiche, la progettazione urbanistica, edilizia. E’ necessario riprendere una riflessione che si è fermata alcuni decenni fa: esistevano allora riviste, pubblicazioni, corsi e discorsi.
Il cambiamento che segna oggi la questione abitativa, profondamente diversa per le trasformazioni che hanno interessato la struttura del meccanismo di regolazione tra domanda e offerta, chiede che si riprenda il tema, che la casa torni ad essere oggetto di attenzione e di studio. Da una parte vi è infatti una emergenza sociale che chiede di essere disarticolata: una domanda che va specificata iniziando da un ragionamento che chiarisca “chi chiede cosa” e poi provi a dimensionare, ad organizzare, ad orientare; dall’altra vi è lo spiazzamento delle istituzioni deputate a governare la questione. Regioni e Comuni sono per la prima volta di fronte a problemi e temi inediti. Mentre hanno a disposizione le risorse trasferitegli dal governo centrale (forse le ultime) tendono a riprodurre un modello di intervento tradizionale senza potersi permettere la disponibilità economica e finanziaria quasi illimitata quale è stata, per diversi decenni, quella rappresentata dal fondo Gescal.
La prima preoccupazione degli Enti Locali è diventata quella della rigenerazione dei capitali: la rigidità dei bilanci pubblici chiede che le riserve destinate all’edilizia popolare siano in grado di auto-alimentarsi, che il capitale investito oggi rientri domani: il canone sociale si estende verso l’alto con l’introduzione del canone moderato. Invece che intercettare la domanda più bassa e svantaggiata o esclusa si dà la possibilità ai redditi medi di entrare nell’edilizia pubblica pagando un canone di locazione più elevato. Le Aler si trovano nella necessità di portare in pareggio bilanci che sono spesso sfuggiti al controllo e per farlo intervengono sull’unico capitolo di cui possono disporre: la valorizzazione del patrimonio esistente e il suo incremento (privilegiando appunto l’introduzione di alloggi a canone moderato).
Compare in questi anni un timido terzo settore abitativo il cui ruolo appare per il momento ancora incerto ma non privo di potenzialità.
Servono indicazioni, progetti, indirizzi alla cui definizione e costruzione la ricerca non può sottrarsi.
Ha ancora senso parlare di affitto sociale? Dove conduce la strada che vuole tutti i cittadini proprietari di casa dentro ad un quadro che, ridotte le protezioni sociali, espone sempre più persone al rischio di caduta rendendole vulnerabili? Quali effetti sta producendo sul meccanismo dell’offerta l’ingresso di operatori internazionali della finanza immobiliare? Siamo in grado di riformulare un discorso sulla casa che porti pubblico e privato ad identificare un terreno comune e a verificare la possibilità di sviluppare un ragionamento congiunto intorno all’abitare sociale? Cosa sta accadendo nei quartieri popolari che mancano di presidi, che vengono gestiti illegalmente, che per diverse tipologie sociali rappresentano l’unico modo per avere un tetto? Quali diventano i nodi sensibili da attivare in un contesto profondamente mutato?
Un terzo livello del ragionamento è quello associato al governo, alle forme attraverso cui si sta affrontando il problema e alle modalità attraverso le quali si potrebbe diversamente affrontare (Tosi, a cura di, 2003). E’ il livello su cui si gioca anche l’assistenza tecnica e l’intervento di consulenza. Con la riforma del titolo V della Costituzione anche la materia abitativa è passata dallo Stato alle Regioni.
Il Programma Regionale per l’Edilizia Residenziale Pubblica (PRERP) 2002-2004 ha definito, in Lombardia, gli indirizzi per le politiche del triennio e la programmazione della spesa.
Siamo nel mezzo della prima parentesi attuativa del documento di programmazione e stiamo assistendo all’affanno delle Amministrazioni locali interessate, in alcuni casi, a concorrere per poter ottenere le risorse messe a bando. Ad oggi sono stati attivati e si sono concluse le operazioni relative a 5 delle 10 misure di intervento previste nel PRERP. Sono in corso di svolgimento i bandi relativi ai Contratti di Quartiere e ai Programmi Comunali per l’Edilizia Residenziale Sociale.
Con riferimento ai Contratti di Quartiere il nostro Dipartimento si trova impegnato in una attività di consulenza richiesta dal Comune di Milano.
Chi di noi è impegnato in questo lavoro sa cosa voglia dire affiancare l’Amministrazione di questa città su un tema così delicato e in una congiuntura così particolare.
Ci rendiamo conto di quanto le istituzioni si trovino a dover rincorrere problemi sconosciuti o dati per scontati, avvertiamo quanto sia difficile costruire azioni non banali dovendo rispettare le scadenze e i vincoli del bando, constatiamo quanto sia urgente e necessario utilizzare paradigmi differenti e grane analitiche più sottili nel momento in cui avviciniamo chi abita negli edifici che si dovranno ristrutturare, modificare, recuperare.
Nel ritmo accelerato in cui ci troviamo a lavorare si avverte il rischio che, alla fine, anche questa esperienza andrà ad affiancarsi alle altre occasioni che abbiamo avuto e che, anche per la paura di aprire un percorso di confronto e di valutazione interno e tra noi e la città, la lasceremo cadere senza che possa fare storia e insegnarci qualcosa.
Forse impropriamente vengono richieste a noi capacità, competenze, ruoli che spetterebbero ad altri (come mai la Regione non ha pensato ad accompagnare l’attuazione di questo primo Programma con la costituzione di un gruppo di assistenza tecnica in grado di sostenere lo sforzo dei Comuni chiamati per la prima volta a giocare ad un gioco che non hanno mai praticato? Perché il Comune non si attiva per portare i diversi settori chiamati in causa a convergere per aggiungere risorse e competenze nel lavoro su questi quartieri? Come mai non si ritiene opportuno giocare al rialzo e rendere evidente lo sforzo che in questo momento si sta compiendo per mettere mano alla disastrosa situazione in cui versano alcuni isolati di case popolari?).
Avvertiamo il pericolo, l’imbarazzo e il limite di questa posizione ed è invece più difficile cogliere l’opportunità: quella di poter riavviare un discorso sulla casa, di essere nelle condizioni di riprendere una riflessione interrotta. Anche questo vuoto è parte della penuria.
4. Il riconoscimento e la ripresa
Sappiamo che politiche e piani di intervento sono parte del racconto che ci parla della domanda abitativa e dell’offerta, ci dicono della retorica e della strategia, delle intenzioni esplicite e di quelle non dette, delle regole e delle priorità, dei successi e dei fallimenti (Olmo 1992). Un’altra parte del racconto è quella che sfugge dalle maglie delle iniziative ufficiali: è rappresentata dalle voci deboli di chi abita, di chi ancora trova la forza per parlare, di chi sostiene quelli che la forza l’hanno persa (Comitato Inquilini Molise-Calvairate Ponti 2003). Molte voci si incrociano, si confondono e, nella disattenzione urbana, si perdono. Essere stati lontani rende oggi difficile ascoltarle, riconoscerle, considerarle.
“Esprimere è essenziale per scoprire e per scoprirsi.
Studiare è necessario per crescere, identificarsi, maturare,
ma i libri sono soltanto una fonte dell’apprendere.
Occorre saper leggere anche rocce, alberi, voli, creature,
il mare, le nuvole, le stelle. Leggere nel lavoro”
(Dolci 1993)
Da qualche anno a questa parte la casa è sparita dai dibattiti sulla città.
E’ questo il tempo della ripresa. Di una ripresa che sia fatta di saperi e conoscenze plurali, articolate, ibride; questa è la condizione necessaria per mettere mano all’agenda e provare a fissare un primo appuntamento.
Un passo in questa direzione possiamo e dobbiamo farlo anche noi.
Mariarosa Vittadini, Aree urbane abbandonate al traffico
Le aree urbane sono divenute il luogo della congestione stradale, del deterioramento da traffico dell’ambiente, dell’inquinamento dell’aria, dell’insicurezza, cioè sono uno dei fattori più critici del funzionamento del paese. Tanto che il disagio complessivo del muoversi è divenuto uno dei motivi importanti di peggioramento della qualità della vita quotidiana. Congestione e insicurezza si riverberano poi su tutto il sistema dei trasporti, comprese le infrastrutture per le lunghe distanze, con un danno economico diretto e indiretto di amplissime proporzioni.
La gravità del problema si comprende meglio se si considera che la mobilità di breve raggio costituisce la grandissima maggioranza della mobilità dei passeggeri. Il rapporto Isfort-Asstra del 2005 fotografa la situazione in questi termini: tra il 2000 e il 2004 la mobilità delle persone in Italia sarebbe in netto decremento (-6 per cento degli spostamenti e -25 per cento delle percorrenze), mentre la mobilità interna ai perimetri urbani continuerebbe a crescere. (1) Nei perimetri urbani si concentrerebbe così, al 2004, poco meno del 90 per cento della totalità degli spostamenti di persone e poco meno del 60 per cento delle percorrenze (passeggeri-km). (2)
Il declino del trasporto pubblico
Tutte le componenti del trasporto pubblico urbano, con pochissime eccezioni, fanno registrare una situazione di ristagno, quando non di perdita di quote di domanda. Sempre l’indagine Isfort-Asstra quantifica nella modesta proporzione del 12,7 degli spostamenti e 15,2 delle percorrenze la quota percentuale di mobilità urbana servita dal trasporto pubblico. Tali quote salgono rispettivamente al 23 per cento e al 31per cento nelle città di maggiori dimensioni, ma restano comunque inferiori a quelle delle città centro-europee. I principali problemi ruotano intorno alla antica e tuttora irrisolta questione degli investimenti per i trasporti locali. Abbandonata alla fine degli anni Settanta l’idea di addossare gli investimenti per lo sviluppo del trasporto pubblico ai fragili bilanci comunali, lo Stato ha finanziato direttamente, di volta in volta, questa o quella componente infrastrutturale o tipologia di mezzi. Provvedimenti e leggi frammentarie, ad hoc, spesso emergenziali e al di fuori di qualsiasi visione programmatica hanno finanziato, a singhiozzo, opere mai sottoposte alle necessarie valutazioni.
Il risultato è l’evidente sottodotazione delle città italiane rispetto alle città europee.
Quantità e qualità
Le modalità di organizzazione della circolazione consentono tuttora all’ automobile, nella maggior parte dei casi, di vincere la competizione sulla velocità e la sicurezza dei tempi di viaggio. Le profonde trasformazioni nella organizzazione del territorio degli ultimi venti anni si sono accompagnate a un mutamento altrettanto profondo della struttura degli spostamenti, sempre meno sistematici e sempre meno destinati alle zone centrali. Il trasporto pubblico ha invece mantenuto la tradizionale impostazione orientata al servizio dei centri, lasciando sostanzialmente all’auto le altre relazioni.
Rivedere questa impostazione comporta un enorme sforzo organizzativo, finanziario e anche culturale. Significa passare da politiche "modali" a politiche di integrazione (dei servizi, degli orari, delle tariffe, dell’uso delle infrastrutture, anche dell’automobile, utilizzando ampiamente politiche di pricing delle strade opportunamente mirate. Il trasporto pubblico locale italiano si distingue in Europa per la più bassa quota di trasporto su ferro: 35 per cento contro il 55 per cento della Francia, il 53 per cento della Germania, il 52 per cento dell’Inghilterra. (3)
La quota di trasporto su ferro è un buon indicatore di qualità del servizio. In Francia, Germania e Inghilterra tram e ferrovie locali hanno per lo più sedi proprie, frequenze elevate, e hanno beneficiato di notevolissimi investimenti in innovazioni tecnologiche delle infrastrutture e dei mezzi. In molti capoluoghi regionali italiani il potenziamento infrastrutturale per lo sviluppo di servizi ferroviari regionali e metropolitani è da anni in via di realizzazione con tempi lunghissimi e discontinuità di finanziamento defatiganti. E i servizi di trasporto ferroviario regionale effettivamente prodotti non hanno dato finora brillante prova di sé.
Una cura che può uccidere il paziente
Per ottenere qualche risultato in termini di alleggerimento della congestione lungo gli assi stradali e autostradali che attraversano le aree dense occorre, insieme allo sviluppo dei servizi ferroviari, procedere alla integrazione ampia di tutti i mezzi di trasporto, automobili comprese, ripensare tutte le reti infrastrutturali (strade incluse) e le loro tariffe d’uso con l’obiettivo di far funzionare il sistema integrato, ripensare alle modalità di sviluppo degli insediamenti e alla localizzazione dei grandi attrattori. Stiamo invece assistendo al processo inverso. Forti della esasperazione per la congestione endemica degli assi che attraversano le aree dense sono nati ovunque progetti di grandi bypass autostradali e di nuovi anelli tangenziali sempre più esterni. Milano, Bologna, Firenze, Roma, Venezia e molte altre città si misurano oggi con simili proposte.
La logica è quella di spostare il traffico di attraversamento su nuovi assi esterni lasciando i vecchi al traffico locale. È del tutto evidente che questa cura ammazza il paziente. Perché la nuova capacità stradale incentiva ulteriore speranza di muoversi verso la città e nella città con l’automobile e si satura con incredibile rapidità. Con il risultato che i nuovi assi autostradali non si pongono, per loro natura, il problema dell’integrazione modale, mentre la strada vecchia dal punto di vista dell’integrazione resta inadeguata come prima.
Speranze per il futuro
Qualche speranza per il futuro potrebbe venire dalla effettiva elaborazione e realizzazione dei Piani urbani della mobilità introdotti con il Piano generale del trasporto locale. Perché i Pum sono strumenti di pianificazione dei trasporti come "progetti di sistema", si pongono in una prospettiva di lungo periodo, considerano le infrastrutture come componente fondamentale dell’assetto territoriale e delle sue trasformazioni e assegnano all’amministrazione che pianifica la piena responsabilità delle sue scelte. Il che equivale a dire che devono essere elaborati insieme ai piani per il governo del territorio e sulla base di valutazioni economiche e ambientali più rigorose di quelle che hanno accompagnato le opere della Legge 211/92. Tuttavia, dei mille miliardi (dell’anno 2000) che ogni anno avrebbero dovuto essere dedicati al loro finanziamento non vi è traccia. Mentre una buona quota di risorse della Legge obiettivo è dedicata alla realizzazione dei bypass autostradali.
Sembra dunque urgente cambiar rotta. Il problema delle aree dense e della loro infrastrutturazione ha ormai una dimensione e una gravità troppo a lungo sottovalutate nelle politiche nazionali.
(1) Si veda Isfort-Asstra Avanti c’è posto? Rapporto annuale Asstra-Isfort sulla mobilità urbana: i bisogni dei cittadini, le risposte della città, aprile 2005. L’indagine è condotta mediante interviste a un campione significativo di persone con età compresa tra 14 e 80 anni. Per "spostamenti urbani" si intendono quelli destinati allo stesso comune di residenza dell’intervistato e inferiori a 20 km.
(2) Il condizionale è d’obbligo perché molte altre fonti di informazione fanno registrare invece una crescita forte delle distanze percorse e della mobilità con origine in un comune e destinazione in un altro comune: dunque esterna ai perimetri urbani come definiti dall’Isfort.
(3) Si veda l’analisi di benchmark europeo condotta da Earchimede per Asstra e Anav.
“Case di carta e nuova questione abitativa” era stato il titolo del contributo trattato alla scuola di Eddyburg nel settembre 2005 e di un articolo scritto e pubblicato su eddyburg.
La lettura dell’editoriale di Carlo Olmo e la pagina che il giornale dell’architettura dedica al tema (si riporta di seguito l’articolo di Francesco Toso) ripropongono l’attualità di quell’analisi. Dalla quale emergeva che lo scenario di fondo che sta producendo un progressivo impoverimento delle famiglie in affitto non è conseguenza di eventi esterni (la crisi della new economy o la tragedia delle Torri gemelle o ancora l’economia di guerra nella quale sembra siamo precipitati).
La crescita del mercato immobiliare data ormai dal 1998 e trova la sua origine nel processo di ristrutturazione del nostro sistema produttivo (grandi imprese ma non solo). Tramite le banche questo processo di ristrutturazione è stato fatto pagare alle famiglie (quelle in affitto, ma anche quelle che contraggono i mutui per l’acquisto della casa, ormai le banche concedono mutui anche a 40 anni). In una spirale poco virtuosa le banche sostengono tramite la concessione di mutui la domanda di casa, la domanda fa mantenere alti i valori immobiliari. I canoni di affitto, invece, saltato con la legge 431 del 1998 qualsiasi tetto sono ormai (quasi unico paese in Europa) senza limiti: il proprietario chiede e l’inquilino se ce la fa paga altrimenti si arrangia.
Se è così, è urgente intervenire per far fronte alla vera emergenza sociale del nostro paese che riguarda non tanto chi non ha una casa ma soprattutto quelli che troveranno sempre più difficile pagare il canone di affitto. Il Cresme ci dice che saranno circa 1.760.000 le famiglie in difficoltà nel 2007.
Le ricette non sono facili. In campagna elettorale la casa ha fatto capolino per qualche settimana a seguito della proposta di Berlusconi di regalare il patrimonio pubblico agli inquilini. Il centro sinistra non ha seguito la boutade tentando una risposta articolata, complessa come la situazione richiede. Adesso si aspetta con ansia un segno di vita in questa direzione.
Vogliamo evidenziare due questioni che ci sembrano irrinunciabili, data l’analisi che ormai è condivisa da tutti i ricercatori e gli osservatori.
1. Il mercato da solo non basta, c’è bisogno di una intelligenza di processo del soggetto pubblico che intervenga non alla vecchia maniera, un programma massiccio di edilizia pubblica per la quale non ci sarebbero le risorse, ma favorendo tutte le iniziative indirette (fiscalità, incentivi nella ristrutturazione,…) che favoriscano l’immissione nel mercato di alloggi in affitto a canone calmierato.
2. Avviare un progetto di valenza nazionale, soprattutto nelle aree a forte tensione abitativa, destinato a favorire, nelle diverse forme possibili, la realizzazione di housing sociale. Si tratta di realizzare alloggi destinati solo all’affitto ricorrendo a risorse economiche di mercato ma non speculative da realizzare in aree pubbliche o acquisite dal soggetto pubblico per queste finalità e destinate all’utenza più vulnerabile: lavoratori precari, famiglie monopersonali, giovani coppie, … . Alloggi che potrebbero servire anche per aiutare le metropoli come Roma e Milano a favorire la presenza di giovani, di nuovi talenti, quelli che si spostano nelle grandi metropoli del mondo contribuendo in modo crescente al loro sviluppo sociale ed economica.
In alcune città italiane qualcosa in questa direzione sta già avvenendo e ci sono delle sperimentazioni interessanti ma, data la consistenza del problema, è necessario uno sforzo di valenza strategica del paese. L’Italia riparte anche da qui.
L’affitto: quante famiglie non ce la fanno.
di Francesco Toso
da il Giornale dell’architettura
L'ultima fase espansiva del mercato immobiliare ha prodotto un generale aumento del volume di ricchezza patrimoniale fra le famiglie italiane. Ciò non significa che abbia automaticamente favorito la diffusione del benessere, anzi, come spesso accade, le dinamiche di forte e persistente accelerazione dei mercati -nel caso immobiliare otto anni di fase espansiva, in cui si è avuta la compravendita di circa 7 milioni di case-indeboliscono sempre una quantità più o meno contenuta di popolazione. Sicuramente, il settore che esce più debole e redditualmente più povero di prima dalla lunga crescita del mercato immobiliare è quello dei locatari: il Cresme ha misurato in oltre 1,3 milioni le famiglie in affitto che, a fine 2005, soffrivano uno stato di tensione economica causato, o aggravato, dall'aumento dei canoni. Ma ancora peggio sarà quest'anno e il prossimo: si stima che nel 2007a causa dei rincari, dei rinnovi contrattuali e dei nuovi contratti, quasi 1,8 milioni di nuclei (oltre la metà delle famglie in affitto presso privati) patirà delle conseguenze fortemente negative dall'aumento dei prezzi che si è verificato in questi anni.
Prezzi che oggi, a ridosso del picco più espansivo (collocabile fra il 2005 e l'anno in corso) registrato nell'ultimo ciclo immobiliare, risultano cresciuti in misura assolutamente non comparabile con la dinamica delle retribuzioni: negli ultimi sei anni, i valori immobiliari di compravendita, mediamente a livello nazionale, sono aumentati del 51%; nelle grandi città del 65%. Con punte del 139%a Firenze; 97% a Roma; 77% a Torino.
Al riguardo c'è da osservare, sfiorando appena l'argomento, che l'esuberanza dei mercati ha prodotto degli ambiti di fragilità economica anche nell'area della proprietà (si pensi soltanto ai frequenti livelli di indebitamento ai limiti delle proprie capacità, soprattutto in un quadro occupazionale dove prevale la percezione di instabilità e insicurezza). Ora, rimanendo nell'ambito dell'affitto, la crescita del valore di mercato delle abitazioni ha trainato le attese di rédditività per i proprietari di alloggi da locare. Anzi, questa fase sembra essere connotata da un carattere speculativo se si considera che il tasso di rendimento dei nuovi affitti (in particolare nelle città dove è più consolidato) è aumentato rispetto a qualche anno addietro: i nuovi canoni di locazione sono incrementati del 49% nella media nazionale e ben dell'85% nelle grandi città. Con picchi del 140% a Venezia; 105% a Napoli; oltre i1 90% a Milano e Roma. Insomma, tassi di crescita superiori a quelli registrati dai prezzi degli immobili. È già qui evidente come il rapporto fra il costo dell'abitare e la retribuzione da lavoro abbia oltrepassato per molti il limite della sostenibilità. Ma per quanti?
Un rapido calcolo: se il livello attuale medio dei canoni di locazione sullo stock delle abitazioni in affitto è stimato pari a 5,3 euro/mq al mese ne deriva che, per un alloggio di 75 mq i canoni di locazione medi sono pari a 400 curo al mese. In relazione al reddito netto e al numero delle famiglie in locazione risulta che l'incidenza media del costo dell'affitto sul reddito netto è intorno al 24%, con un picco medio del 47% per coloro che rientrano nella classe di reddito fino a 10.000 euro. Usualmente si considera un'incidenza dell'affitto sul reddito pari al 30% come limite massimo entro il quale una famiglia entra in tensione finanziaria.
Un calcolo sulla base di informazioni ISTAT (sulla povertà relativa e assoluta) e Banca d'Italia (sulle fasce di reddito per titolo di godimento) ci porta a stimare nel 2005una situazione di difficoltà economica per 1.355.000 famiglie in affitto presso proprietari privati. Non solo: laddove si stimi che in funzione delle durate contrattuali nel settore privato si abbiano annualmente oltre 750.000 rìnnovi contrattuali a valori tendenti a quelli del mercato, si presume che fra il 2005 e il 2007, con un incremento annuale in linea con quelli recenti (8%), l'incidenza dei canoni sui redditi delle famiglie in fase di rinnovo contrattuale si attesti in media al 32,2%, con un picco del 65,9%per le famiglie con redditi inferiori ai 10.000 euro. Se queste considerazioni diventassero, com'è probabile, effettive, la media degli affitti dello stock abitativo nel 2007 si attesterebbe al 26% con punte del 52% per le classi di reddito familiare netto fino a 10.000 euro e del 31% per le classi di reddito comprese tra 10 e 20.000 euro (con crescita del reddito stimata in base al tasso di inflazione previsto).
Ma il dato ancor più drammatico riguarda coloro che per la prima volta entreranno nel mercato della locazione nel prossimo biennio. Costoro troveranno una situazione nella quale l'incidenza dei canoni di locazione sul mercato libero (7,4 euro/mq al mese in media) sarà pari al 32% del loro reddito medio familiare netto, ossia a un livello definibile «fragile» ai fini del mantenimento di un livello di vita dignitoso. In altri termini, prevedibilmente nel 2007, saranno circa 1.760.000 le famiglie in condizione di forte inadeguatezza reddituale rispetto alla spesa per la casa in locazione.
NO SPRAWL. Perché é necessario controllare la dispersione urbana e il consumo di suolo, a cura di Maria Cristina Gibelli e Edoardo Salzano, Alinea editore, Firenze 2006. Scritti di: Mauro Baioni, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Fabrizio Bottini, Piero Cavalcoli, Antonio di Gennaro, Alfredo Dufruca, Georg Frisch, Maria Cristina Gibelli, Edoardo Salzano, Luigi Scano, Massimo Zucconi. In appendice: la proposta di legge elaborata da un gruppo di amici di Eddyburg: “Principi fondamentali in materia di pianifi cazione del territorio” (maggio 2006)
I testi sono stati elaborati in occasione della prima edizione della scuola estiva di pianificazione di eddyburg che si è svolta nel settembre 2005, presso la sede del Parco archeominerario di San Silvestro, a Campiglia Marittima. La scuola estiva è stata ideata come il luogo dove gli amici di eddyburg con una maggiore esperienza alle spalle – come urbanisti, amministratori, docenti universitari, giornalisti – sono stati invitati ad illustrare di persona il proprio punto di vista e fornire ai partecipanti un ventaglio di informazioni, riflessioni critiche e proposte sul tema prescelto. Così concepita, la scuola estiva non ha avuto la pretesa di affiancarsi o inserirsi nel circuito ufficiale della formazione scolastica, già ricco di offerte qualificanti, ma una duplice, differente ambizione.
Innanzitutto, è stata un’occasione di incontro per tutti coloro che sono interessati alle questioni che compaiono quotidianamente sul sito eddyburg.it. Non è un caso che tra i partecipanti – quasi tutti frequentatori abituali del sito, come lettori o come collaboratori – si sia creata spontaneamente una buona osmosi, favorita dal comune sentire e arricchita dalla diversa età, provenienza e formazione dei partecipanti. In secondo luogo, la scuola ha offerto l’opportunità di compiere una valutazione critica, ad ampio raggio, sui fenomeni del consumo di suolo e della dispersione urbana, strettamente legati tra loro, ed entrambi rivelatori di carenze e crisi più generali.
Il libro No sprawl raccoglie le riflessioni compiute e documenta l’ampiezza delle ragioni che inducono ad opporsi con forza alla crescita scomposta degli insediamenti: scarsa efficienza complessiva, elevati costi collettivi (economici, ambientali, sociali), compromissione del paesaggio e dell’ambiente, anche in contesti particolarmente delicati. Il modo in cui sono cresciute e tuttora si espandono le città riflette un’idea anonima e volgare della modernità, assai poco attenta alle specificità locali, alla qualità, all’innovazione. Per questo, a tutti coloro che hanno contribuito a scrivere il libro, è apparsa evidente la necessità di porre un freno alla crescita sregolata – seguendo l’esempio di numerosi altri paesi d’Europa e persino d’oltreoceano, dove pure la densità degli insediamenti è di gran lunga inferiore.
Per rispondere ai problemi pregressi e alle esigenze di oggi, riorganizzando e riqualificando gli insediamenti esistenti, servono politiche complesse, molto più incisive di quelle attuali. Prima di ogni altra cosa, occorre ridurre il peso degli investimenti immobiliari e infrastrutturali (cioè dalle varie forme di rendita) nel determinare l’uso e la trasformazione del territorio, offrendo alle amministrazioni pubbliche opportuni strumenti di indirizzo e di regolazione. La proposta di legge nazionale promossa da eddyburg, pubblicata in calce al libro, costituisce il primo indispensabile passo in questa direzione, ma è fin troppo evidente che molte altre iniziative possono e debbono essere intraprese, puntando ad un recupero della costruzione pubblica del territorio. Ed è proprio attorno quest’ultimo tema che è in preparazione la seconda edizione della scuola, nel luogo e con le modalità dell’anno passato, nella convinzione che possa avere lo stesso esito positivo.
L'ultimo raccolto?
La perdita di suolo agricolo è un problema non solo a Parma. Escludendo dal computo l’edilizia abusiva, ogni giorno in Italia vengono cementificati 161 ettari di terreno. A livello mondiale si calcola un tasso di incremento delle superfici urbanizzate del 2,7%: 128.000 kmq in un anno, tanto quanto la Grecia!
Il suolo coltivabile, che si forma grazie a processi naturali a velocità dell’ordine di un millimetro di spessore ogni secolo, viene progressivamente sostituito da aree residenziali, industrie, centri commerciali, strade ed altre infrastrutture. Dopo avere sostenuto lo sviluppo della società umana dall’inizio della Storia, anno dopo anno, il terreno agricolo viene trasformato definitivamente in quello che è stato definito l’”ultimo raccolto”: una superficie impermeabile e sterile.
In questo Pianeta così maltrattato c’è un posto chiamato “Food Valley” dai suoi abitanti. Una ragione c’è, perché la provincia di Parma si trova in uno dei luoghi più fertili al mondo, dove il comparto agroalimentare risulta essere il settore più rilevante sotto il profilo industriale, con 5.500 milioni di euro di fatturato, pari al 35% del totale e 15.500 occupati (dati anno 2000).
Ma l’esame degli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale, che da anni ci vede impegnati come associazioni ambientaliste, prefigura un quadro ben diverso da quello che viene spacciato sui pieghevoli patinati, nei siti internet ufficiali e alle iniziative enogastronomiche, mirati a diffondere un’immagine artefatta di tutela del territorio e dei suoi prodotti. La Food Valley sta rapidamente consumando il bene più prezioso che ha: il suolo. Tra le varie occasioni di discussione sul futuro del territorio, quella del nuovo PSC di Parma ci è sembrata particolarmente utile, per richiamare l’attenzione su interessi collettivi di lungo periodo, anziché lasciar guidare le scelte urbanistiche e territoriali da interessi particolari e di corto respiro.
Fino a quando potremo sostenere lo sviluppo che oggi viene proposto? L’analisi presentata in questo opuscolo vuole richiamare l’attenzione sulla necessità di questa domanda e dimostrare che uno sviluppo diverso non solo è possibile, ma è anche necessario.
Il caso di Parma: un'analisi storica dell'espansione urbana
Ancora oggi, per promuovere quello che viene chiamato “sviluppo economico”, a Parma – città demograficamente stabile ormai da qualche decennio - si prevedono nuovi insediamenti industriali, nuovi centri commerciali, aree residenziali ed infrastrutture viarie. Il fabbisogno di cemento e asfalto sembra non diminuire, anzi… Ma quali benefici ha portato l’espansione urbana finora? E che futuro stiamo preparando, continuando a ragionare come quarant’anni fa? Per rispondere a queste domande, abbiamo studiato l’andamento dell’espansione urbana nel territorio comunale di Parma, utilizzando come riferimento i rilievi cartografici e fotografici che si sono succeduti dalla fine dell’ottocento al 2003.
Un comune in crescita o in crisi d’identità?
Un’idea più precisa dal punto di vista quantitativo, si può ottenere dal grafico seguente. L’ampliamento dell’area urbanizzata nel comune di Parma, molto lento fino al 1960, ha subito un’accelerazione che ha portato al suo raddoppio nei primi anni ’90 anni e ad aumentare di un ulteriore 28% dal 1994 al 2003, facendo così registrare in questi ultimi nove anni un tasso di espansione mai visto prima. Meno abitanti, più edifici Se in una prima fase l’aumento di insediamenti rispondeva ad un incremento demografico, è sorprendente notare come dal 1976 in poi questa relazione viene meno: l’espansione urbana prosegue a ritmi sostenuti, mentre la popolazione diminuisce del 3%! Inoltre, considerato l’attuale costo delle case, si può affermare che l’aumento dell’offerta non ha portato neppure ad un beneficio in termini di riduzione dei prezzi.
Chi ci ha guadagnato?
Facciamo un confronto tra il 1994 e il 2003. Dopo altri nove anni di espansione sostenuta, possiamo dire di avere una città migliore? L’ulteriore peggioramento della qualità dell’aria, la sempre maggiore vulnerabilità idrogeologica, la perdita di nuove ampie porzioni di campagna periurbana, che cosa ci hanno dato in cambio? Difficile dirlo. L’unico dato certo riguarda il settore dell’edilizia, comparto “Costruzioni”: nel triennio 2000-2002 in provincia di Parma si è avuto un ulteriore aumento netto di imprese, pari a 963 unità. Intanto, nello stesso periodo, il comparto “Agricoltura e Silvicoltura” in provincia è diminuito di 789 imprese. Fino a quando potremo chiamarla “Food Valley”?
Anno 2060: il limite di uno sviluppo senza limiti
Nei nove anni dal 1994 al 2003 l’espansione urbana nel comune di Parma è proseguita ad un tasso del 3% annuo. Pur senza tenere conto dei problemi di vivibilità, di regimazione delle acque, di inquinamento o altro ancora, esiste un limite definitivo ed invalicabile a questa espansione: i 26.100 ettari della superficie comunale. Ebbene, continuando a questi ritmi, arriveremmo a ricoprire l’intera superficie agricola del comune già nel 2060!
Un’elaborazione matematica basata sull’andamento dell’espansione urbana degli ultimi quarant’anni conferma questo dato, collocando la data di cementificazione totale del comune tra il 2040 ed il 2079.
A quel punto, dopo avere compromesso, abbruttito e degradato completamente il nostro territorio, dovremo necessariamente fermarci e abbandonare questo modello di sviluppo senza limiti. Ma allora, non è meglio fermarci ora e dedicarci piuttosto a interventi di qualificazione, mitigazione e recupero, per migliorare la qualità della vita a Parma?
PSC 2006: ancora cemento e asfalto
Purtroppo, a guardare le previsioni del Piano Strutturale Comunale (Documento preliminare), non sembra che si intenda frenare l’impermeabilizzazione del territorio. Non solo; mentre si ragiona nell’ambito del PSC sul futuro della città, questo viene in parte ipotecato, approvando diverse varianti che accelerano l’espansione urbana, prima dell’adozione di questo importante strumento urbanistico. Ecco alcuni esempi di cementificazione prossima ventura.
* Espansione industriale a nord della città. Prevista dal PSC, consente di ampliare ulteriormente l’attuale area industriale, determinando una saldatura con l’area di S. Polo, quando una parte consistente degli edifici industriali in zona sono vuoti o sottoutilizzati.
* Polo logistico. Pur avendo già un interporto di notevoli dimensioni in comune di Fontevivo, si ritiene indispensabile un’altra ampia area a pochi chilometri.
* Parco scientifico tecnologico. A sud della città, in quella che ncora oggi è in parte considerata “area rurale”, il PSC prevede un insediamento “dove concentrare le funzioni rare che presentano un esteso bacino di potenziali utenti.” (?). Ne sentivamo la mancanza?
* Multisala cinecampus. Quel poco di verde che resta attorno al Campus universitario di via Langhirano è destinato a lasciare il posto ad un super cinema da 11 sale e 2.300 posti a sedere. Fuori dall’anello delle tangenziali e quindi da raggiungere possibilmente in auto, come si desume dalla dotazione di un parcheggio da circa 600 posti.
* IKEA. Probabilmente sorgerà tra via Burla e via Ugozzolo un grande centro commerciale occupato principalmente dall’IKEA, che avrà una superficie di 23.663 mq e porterà a Parma un flusso notevole di traffico: nei fine settimana sono previste 70.000 presenze al giorno!
*Nuova Ipercoop. Sorgerà su via Traversetolo, non lontano dalla già esistente Esselunga: 18.500 metri che conterranno un supermercato alimentare da 4mila mq (il più grande del Parmense).
*Nuova Esselunga. L’unico aspetto positivo di questa ulteriore “centrocommercializzazione” della città, è che andrà ad occupare,almeno in parte, un’area già edificata: quella della Battistero.
*Via Emilia bis. Non prevista inizialmente nel PTCP, è stata richiesta ed ottenuta dal Comune di Parma, il quale ritiene di convincere le persone ad utilizzare meno l’auto in città, aumentando la superficie di suolo asfaltato.
*Via La Spezia Bis. Il carico di traffico sulla città è diventato insostenibile? La soluzione, per il PSC, è quella di costruire nuove strade, dimenticando che sono proprio le strade a incentivare il traffico e che una nuova Via La Spezia, come altre infrastrutture dedicate al trasporto su gomma, si contrappone al modello di trasporto ferroviario metropolitano
prospettato da Provincia e Comune.
*Parmacotto. A sud della città, in area agricola e al di fuori di qualsiasi previsione di piano, il Comune consentirebbe la costruzione del nuovo megastabilimento della Parmacotto, considerato di “pubblica utilità”.
La situazione in provincia Allargando lo sguardo dal comune di Parma al resto del territorio di pianura della provincia, la situazione non è migliore. Pur non avendo analizzato in modo sistematico e dettagliato questa vasta area, l’analisi del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale e alcune segnalazioni raccolte dal territorio forniscono un quadro poco confortante. Ad esempio nel comune di Fidenza tra il 1976 e il 2003 l’area urbanizzata è cresciuta da 854 a1161 ettari e il nuovo PSC prevede di raggiungere addirittura i 2264 ettari, con un ulteriore incremento del 95%!.
Ecco alcuni esempi di come stanno per essere cancellate per sempre porzioni significative di terreno agricolo della provincia.
1. Bretella autostradale Tirreno-Brennero. Collegherà l’Autocisa con il Brennero, facendo passare una quota considerevole di traffico pesante nei comuni di Fontevivo, Parma, Trecasali e Sissa. La Coldiretti di Parma ha definito questa inutile autostrada un’”opera fortemente impattante e devastante uno dei territori agricoli storicamente più importanti e forti d’Europa per le vocazioni a produzioni d’eccellenza e per la qualità del paesaggio e dell’ ambiente circostante, con gravi danni per numerose imprese agricole”.
2. Via Emilia Bis. Una nuova strada che attraverserà l’intero territorio provinciale, passando a nord dell’attuale via Emilia e creando così ulteriore consumo di suolo, frammentazione di fondi agricoli, nuova urbanizzazione ed inquinamento.
3. Cispadana. Secondo la Provincia di Parma (Valsat del PTCP) con questa infrastruttura
“la mobilità su gomma viene favorita aumentando tendenzialmente tutti i tipi di
pressione ambientale”. Inoltre, il fatto che consenta un raccordo rapido con l’Autobrennero all’altezza di Reggiolo, non risulta sufficiente ad evitare la costruzione della Tirreno-Brennero (vedi sopra).
4. Pedemontana. L’aumento della pressione sui sistemi ambientali incide su un’area vasta e su aree di interesse naturalistico, sia per l’occupazione del suolo, sia in termini di emissioni atmosferiche.
5. Polo del freddo. Si tratta di magazzini per lo stoccaggio di surgelati che occuperanno
una superficie complessiva di ben 29 ettari, garantendo un numero limitato di posti di lavoro, consumando enormi quantitativi di energia elettrica in una situazione già di forte sofferenza della rete e con un sicuro aumento del traffico pesante e dell’inquinamento sul territorio.
6. Ponte Collecchio-Medesano. Poteva essere l’occasione per riqualificare un’area a rischio di esondazione; invece la Provincia ha preferito il tracciato che taglia in due il parco in una zona di pregio naturalistico. Nessuna risposta è stata data ai numerosi dubbi sollevati dall’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica.
7. Insediamento produttivo a Medesano-Noceto. Sorgerà nei pressi del nuovo ponte Collecchio-Medesano, con una superficie di ben 60 ettari.
8. Insediamento residenziale a S. Michele Tiorre. E’ solo uno dei vari esempi di progetto di cementificazione della pedemontana. Per realizzare 52 unità abitative si mettono in gioco 25 ettari di suolo agricolo, lontano dal nucleo abitato frazionale e in cambio il Comune riceve 1.200.000 Euro per realizzare una scuola altrove e, forse, incrementare le possibilità insediative fra qualche anno.
Città diffusa, città a perdere
“Sono ore che avanzi e non ti è chiaro se sei già in mezzo alla città o ancora fuori” (I. Calvino, Le città invisibili , Milano, 1993)
Che ne è della “città”, oggi? Sempre di più assistiamo ad un fenomeno che potremmo qualificare della “dissipazione” urbana, fenomeno della città che non finisce e di una campagna che non inizia. Le città “si perdono”, uscendo da sé, attraverso la proliferazione selvaggia delle periferie, che tendono non solo a fagocitare spazi, ma anche ad annichilire le condizioni antropologiche vitali della città intesa come luogo. Vengono meno i punti di riferimento e i contenuti della città, che si muta sempre di più, in quanto diffusa, in un “vuoto a perdere”: la dispersione è così anche il tramonto della città terrena, cioè umana. Scrive M. Augé: “Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo” (M. Augé, Non Luoghi, Milano, 2002). La città è nonluogo perché ormai priva d’identità, e perché non più in grado di favorire, creare identità. Tale nonluogo non è compensato però da una nuova dimensione di pienezza, che venga a costituire altrove uno spazio rinnovato di relazioni e storia condivise. La città, infatti, vuole essere “globale”: un puro involucro, possibilmente planetario, specchio del nulla.
“Il fenomeno dell’esplosione urbana nasce proprio dal successo storico della città, nicchia ecologica costruita dall’uomo. Ogni epoca ha fornito un ambito funzionale diverso ed il processo di trasformazione ha a che fare con l’evoluzione economica e sociale.
Dal successo della città deriva la sua valorizzazione, esasperata da un settore agricolo che ha perso la sua valenza economica. Ma mentre nella città costosa il “povero” continua a vivere, occupandone gli interstizi, la classe media non ce la fa e, aspirando ad un modello abitativo soddisfacente, pensa che il sogno sia realizzabile in campagna.
Così nasce l’illusione da costo, rotta dalla successiva scoperta del grande prezzo dei servizi che non ci sono. Anche le imprese subiscono i costi delle città, perciò vendono e costruiscono fuori, disseminando la produzione nel territorio, alla ricerca di mercati a basso costo. Ma la crisi della grande fabbrica e del processo produttivo è stata determinata anche dall’avvento delle nuove tecnologie. Queste, e un’accresciuta mobilità (da 500.000 auto del ’51 a 25 milioni di oggi) hanno causato il passaggio all’agglomerazione all’articolazione. L’origine di questi fenomeni risiede dunque nell’eccessiva valorizzazione della città e nell’assenza di governo della stessa. La questione va innanzitutto capita per essere poi governata e arginata. Le città devono diventare convenienti, altrimenti la speculazione e i grandi interessi economici determinano una struttura sicuramente dissipativa del territorio, a forte consumo energetico, con problemi di organizzazione dei servizi ecc.” (F. Indovina, dialogo durante la conferenza “Città diffusa, Città a perdere”, Parma, novembre 2005)
“L’uomo della città diffusa è felice? La diffusione e gli stili di vita dettati dalle nuove tecnologie comportano un grande problema di identità e di estraniamento (es. se siamo al cellulare o collegati ad internet, non siamo consapevoli di quello che ci succede intorno). Una modernità liquida e globalizzante toglie qualcosa. Anche un contesto costruito come quello della città, forniva importanti riferimenti per creare quell’identità che assicura stabilità all’interno di un contesto. In una città diffusa, gruppi di persone a macchia di leopardo costruiscono le loro identità, che in breve tempo svaniscono. Anche la figura del pianificatore è cambiata. Oggi l’etica della responsabilità che dovrebbe far parte del suo ruolo, non trova più la comunità di riferimento; ne trova molte e non sa più come muoversi all’interno di questa nuova complessità”. (E. M. Satti, dialogo durante la conferenza “Città diffusa, Città a perdere”, Parma, novembre 2005)
La qualità dell’abitare
L’attività edilizia è uno dei settori industriali a più alto impatto ambientale anche per il consumo energetico, per le emissioni in atmosfera ad esso connesse e per il sempre più diffuso utilizzo di materiali di origine petrolchimica che, oltre a rendere l’aria nelle abitazioni molto più inquinata di quella già pessima che respiriamo fuori, determinano gravi problemi di inquinamento ambientale durante tutto il loro ciclo di vita. Consumano energia l’estrazione delle materie prime, la produzione e la lavorazione dei materiali e i relativi trasporti, l’esecuzione e la manutenzione delle opere, nonché la demolizione e lo smaltimento degli edifici.
In Europa il settore edilizio è responsabile:
- del 45% del consumo di energia;
- del 50% dell'inquinamento atmosferico;
- del 50% delle risorse sottratte alla
natura;
- del 50% dei rifiuti prodotti.
Il concetto di sostenibilità nel campo delle costruzioni edili mostra i suoi limiti: un’attività è infatti considerata sostenibile se attuabile senza limiti di tempo e di risorse per un territorio illimitato. Il punto è dunque capire entro quali limiti e riferimenti è possibile combinare la sostenibilità con l’attività edificatoria. Oggi però è possibile, mediante l’approccio della bioarchitettura, fare della casa un ambiente sano dove trovare il massimo benessere psicofisico, rispettando nel contempo l'ambiente. Ecco alcuni utili consigli per una migliore qualità dell’abitare.
* La costruzione della casa dovrebbe partire da considerazioni bioclimatiche, come peraltro si è sempre fatto nei tempi passati, sfruttando il clima, l'orientamento della casa rispetto al sole e tenendo presente i venti principali.
* La luce solare non solo scalda l'aria, ma la ionizza ed è battericida. Esistono sistemi solari passivi che raccolgono e trasportano il calore con mezzi non meccanici. La sensazione di benessere e comfort è maggiore in edifici riscaldati in modo passivo che è possibile realizzare con materiali facilmente reperibili.
* È necessario impiegare materiali naturali e non nocivi. Per esempio materiali naturali per la costruzione di edifici, per tinteggiare, per intonacare ed incollare, invece di quelli soliti di sintesi anche se meno costosi. Da non sottovalutare la possibile presenza di radon in materiali da costruzione di origine naturale o provenienti da lavorazioni industriali. È
bene quindi accertarsi circa i livelli di radioattività.
* Una muratura sana dovrebbe costituire un buon volano termico ed essere perciò realizzata con materiali e spessori tali da assicurare un lenta dispersione del calore, in modo da consentire un microclima interno relativamente costante.
* Inserire dove possibile del verde in grado di migliorare il microclima e assorbire una parte dell’inquinamento dell’aria. Rivolgendosi alla bioarchitettura, oltre ad avere un ambiente interno più sano e a rispettare l’ambiente si può migliorare l’efficienza energetica e il risparmio energetico degli edifici.
Gli edifici che normalmente vengono costruiti oggigiorno, consumano circa 200 kilowattora al metro quadrato per anno, mentre quelli a basso consumo arrivano a circa 50. Confrontando i consumi complessivi di un’abitazione tradizionale di 100 metri quadrati con quelli di una casa ecologica, è stato evidenziato un risparmio del 38%.
Di fronte a dati che indicano come l’abitare ecologico possa costituire un beneficio, sia per le tasche del cittadino che per l’intera collettività, qual è l’atteggiamento da parte di chi amministra il bene comune rispetto al “mattone verde”?
Da una recente indagine condotta da Confocooperative-federabitazione, in collaborazione con Anci, Istituto Nazionale di Bioarchitettura e Legambiente si evince un impegno, seppur minimo, da parte dei Comuni italiani per la promozione della casa ecologica.
Finalmente si fa avanti l’idea che la trasformazione della città, attuata in prospettiva di sostenibilità, possa avere ricadute positive sulla maggiore disponibilità energetica nazionale, sulle emissioni di anidride carbonica, sull’effetto serra e sul benessere collettivo.
Meglio tardi che mai.
Alcune proposte per ridurre il consumo di suolo
Ed ecco qui di seguito, alcune chiare e concrete proposte di lavoro. Si tratta in fondo di semplici questioni di buon senso. Ma dietro questa apparente immediatezza ci sono in realtà due questioni non scontate. La prima questione di fondo è che come cittadini abbiamo smesso da molto tempo di chiederci che territorio vogliamo, a quale idea di Parma stiamo lavorando e contribuendo. Vogliamo una città ancora più grande o piuttosto migliore? Vogliamo una città che garantisca maggior opportunità e spazi a chi li ha già o che assicuri condizioni di vita minimamente decenti a chi fa più fatica? Vogliamo strade più grandi e trafficate o vogliamo più spazi per camminare, per lasciar liberi i bambini, per incontrare e intrattenersi con altre persone? Vogliamo consegnare al futuro solo ettari di superfici cementificate non più riutilizzabili o garantire a noi e a chi verrà dopo il patrimonio di un suolo fertile ed in buone condizioni?
La seconda questione è il rifiuto di ricascare nella retorica dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita. Se proponiamo di abbandonare questa retorica e questo immaginario, non è certo per promuovere un atteggiamento conservatore o reazionario. Conservatore e reazionario è semmai quell’atteggiamento che ci riduce tutti a ingranaggi di una macchina che continua a produrre, a investire, a bruciare risorse passando sopra le persone e l’ambiente, in nome solamente della pura conservazione del sistema. Lo sviluppo non è più quel passepartout utile per congelare ogni dubbio e valutazione critica, per screditare le proteste dei cittadini e per giustificare qualsiasi cosa e qualsiasi intervento, compresi i più devastanti.
Oramai la gente ha capito che ci sono cose che possono crescere e svilupparsi e cose che invece devono essere ridotte e limitate. Altre ancora che possono essere fatte ma solo a certe condizioni. L’intelligenza politica dovrebbe servirci a distinguere le une delle altre. Non proponiamo dunque di arrestarci e non fare più niente, ma di pensare in termini di significati sociali e quindi di un’economia al servizio della qualità della vita.
L’invito al dibattito che queste proposte contengono è quello di considerare le cose con un respiro più ampio, che tenga conto dell’ambiente in cui viviamo, delle condizioni di unicità del nostro territorio, della complessità delle interazioni tra attività umana e processi naturali e quindi della fragilità della nostra ricchezza. Occorre ricordarci infatti che i soldi, l’efficienza, l’intraprendenza, i cantieri sono nulla, anzi possono diventare addirittura pericolosi se non si esercita contemporaneamente la facoltà di scelta e di discrimine, che è poi semplicemente la facoltà dell’intelligenza. E l’esercizio dell’intelligenza critica è in fondo l’unica garanzia contro la cementificazione del pensiero.
* Prima di consentire nuove costruzioni, valutare attentamente la disponibilità dei numerosi edifici non occupati, delle aree dismesse ed eventualmente incluse in ambiti ormai urbanizzati, non edificate, ma ormai sottratte definitivamente all’agricoltura.
* Verificare l’economicità della realizzazione di nuovi insediamenti (solo se assolutamente necessari), tenendo conto di tutti i costi esterni: dalla perdita di terreno agricolo, alla regimazione delle acque, al degrado del paesaggio.
* Coordinare maggiormente la distribuzione di funzioni con i comuni attorno alla città, che in alcuni casi sono ormai saldati anche fisicamente con il capoluogo.
* In occasione dell’adozione di nuovi piani urbanistici, revocare le previsioni non attuate, quando se ne inseriscono di nuove.
* In futuro, compensare la trasformazione di suolo da rurale o naturale a urbanizzato con la contemporanea naturalizzazione di suolo urbanizzato.
* Attivare strumenti economici e fiscali, che favoriscano un uso efficiente degli insediamenti già realizzati, scoraggiando il fenomeno di realizzazioni edilizie necessarie al solo investimento immobiliare.
* Indirizzare i nuovi interventi verso aree che in seguito agli usi precedenti o per la loro stessa natura giocano un ruolo secondario nel bilancio naturale complessivo.
* Utilizzare tutti gli strumenti per mitigare l’impatto nella costruzione di nuovi edifici e nella trasformazioni di edifici esistenti.
* Introdurre nelle norme del PSC l'obbligo di mantenere una quota pari al 70% di area permeabile rispetto a tutte le aree classificate come edificabili, utilizzando anche metodologie adeguate a garantire la permeabilità.
* Utilizzare, compatibilmente con i criteri estetici del paesaggio, tipologie edilizie che privilegiano la verticalità.
Titolo originale: Call me a Nimby, but it's madness to concrete vast tracts of countryside – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il consenso trasversale fra i due schieramenti politici praticamente su tutto – l’Iraq, la giustizia penale, le pensioni del parlamentari – invariabilmente tradisce l’interesse collettivo. Dopo la dichiarazione di Gordon Brown sul suo sostegno al rimpiazzo del sistema missilistico Trident prima ancora di qualunque vaga giustificazione, prego di notte perché David Cameron salti fuori con un’altra delle sue sorprese dicendo che non impegnerà i suoi Tories a nulla finché non avrà sentito qualche argomentazione.
Allo stesso modo, il partito Conservatore dovrebbe reagire contro un’altra delle sciocchezze di Brown: il suo piano per tappezzare l’Inghilterra in generale, e il sud in particolare, con nuove case, nell’erronea convinzione che ciò riduca i prezzi a sufficienza da fargli guadagnare voti.
Il progetto di Brown si basa sul rapporto del 2004 redatto per il Tesoro dall’economista Kate Barker. La quale propone scenari con quantità di costruzioni residenziali talmente spropositate da provocare indigestioni anche all’insaziabile lobby del settore. E ha confortato tutti quanti credono che il principale ostacolo per dare una casa di campagna a tutti gli infelici abitanti cittadini siano i nostri orrendi urbanisti, noiosi, e quanto lontani dal XXI secolo! Si teme che un nuovo rapporto della Barker, atteso da un giorno all’altro, entri nei particolari della proposta di smantellare il tradizionale sistema di pianificazione, che il cancelliere considera un ostacolo per rendere la Gran Bretagna competitiva nell’economia globale.
Non sorprende, il fatto che il Tesoro promuova l’edificazione all’ingrosso della campagna, perché questo governo si distingue anche per l’indifferenza, o l’attiva ostilità a qualunque forma di vita non asfaltata. La parte deprimente, è che anche chi dovrebbe conoscere le cose abbia sottoscritto la medesima visione.
Il Guardian accumula sdegno per questi nimbies rurali, che presumo comprendano anche il sottoscritto, in quanto presidente della Campaign to Protect Rural England (CPRE). Il centro studi Tory, Policy Exchange, ha pubblicato una serie di opuscoli che sostengono la realizzazione di case su larga scala. Lo Adam Smith Institute vuole 95.000 nuove abitazioni l’anno nelle campagne, in gran parte sulle green belts: presumibilmente da aggiungere alle più o meno 50.000 che si costruiscono già ogni anno su terreni non urbanizzati.
“Non è compito legittimo del governo dirci quali vestiti dobbiamo mettere, cosa mangiare o che macchina guidare” dichiara un recente libretto del Policy Exchange; né, credono, il governo può negare a chicchessia una nuova casa in un nuovo sprawl suburbano, se la vuole.
David Cameron sembra stia muovendo i Tories nella stessa direzione. Sostiene la voglia Brown-Barker di cambiare le leggi urbanistiche, di rendere più facile costruire. Il leader Tory ha etichettato la pianificazione come “Banana”: Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anyone, una battuta degna di Nicholas Ridley in una giornata no. Cameron si è autoispirato alle memorie popolari dei trionfi di Harold Macmillan, ministro costruttore di case negli anni ‘50. Sono queste, crede, le cose che hanno tenuto al governo i Tories per tredici anni: e possono farlo ancora.
Dunque, c’è una ampia alleanza da destra a sinistra che vuol vedere costruire più case su spazi aperti, e insieme infrastrutture e comodità extraurbane che, si dice, renderanno la Gran Bretagna più competitiva nell’economia globalizzata.
Ma alcuni di noi continueranno a resistere. Il ragionamento Brown/Barker/Cameron/ Guardian/Policy Exchange/Adam Smith sembra compatto come una forma di gruyere, e molto meno verde. La CPRE ha appena pubblicato un opuscolo che respinge le argomentazioni del Policy Exchange, molte delle quali rispecchiano il punto di vista del governo. Afferma, il centro studi conservatore, che “La Gran Bretagna non è sovraedificata, se paragonata ad altri paesi”. Cita a sostegno della sua affermazione un rapporto del 1981. E pure recenti indagini dell’Unione Europea mostrano che soltanto Olanda e Belgio sono costruite più densamente dell’Inghilterra.
Policy Exchange deride lo stock residenziale britannico, che definisce “misero”. Eppure, quando si prevede il 72% di crescita per le famiglie di un solo componente, sembrerebbe ragionevole costruire solo una piccola quantità di case singole con quattro stanze da letto. PE afferma che “il tradizionale giardino inglese è diventato un lusso costoso per pochi”, ma l’82% dei proprietari in Inghilterra abita case unifamiliari, quasi tutte con un giardino.
I politici, di tutti i partiti, si sono fissati sull’idea che abitare in questo paese sia particolarmente costoso. In realtà, la spesa Britannica per la casa come incidenza su quella complessiva familiare si colloca attorno alla media europea, e ben al di sotto di quella della Svezia, della Germania e della Francia. L’inflazione sui prezzi delle case nel 2004-5 è stata significativamente inferiore a quella di molti altri paesi.
Dopo il rapporto Barker del 2004, la CPRE ha commissionato ampie ricerche indipendenti. Esse hanno posto in evidenza il grande mito su cui si basano la corsa del governo all’edificazione e il suo assalto alla pianificazione territoriale: che i prezzi delle case siano conseguenza della fame di terreni edificabili. I prezzi, in Australia e negli USA – paesi dotati di spazi infiniti –sono aumentati in linea coi nostri, e per lo stesso motivo: bassi interessi, redditi in crescita, entusiasmo in caduta per gli investimenti in titoli.
Nessuna persona sana di mente può mettere in discussione il fatto che ci sia bisogno di costruire nuove case, e che una parte di esse vada realizzata su spazi aperti. Ma sembra folle cementificare enormi distese di campagna solo per rispondere a stravaganti e del tutto teoriche previsioni di domanda. In un’epoca in cui il centralismo è percepito come miserabile fallimento nell’erogare istruzione, sanità, politiche sociali, appare anche più deplorabile castrare il potere delle amministrazioni locali di influenzare la pianificazione del territorio.
Ruth Kelly, in una notevolmente sciocca dichiarazione rilasciata quando ha assunto la responsabilità che era di John Prescott per la pianificazione, dopo essere stata espulsa dal Department for Education, ha affermato che le persone sono “spesso ... protettive riguardo al proprio spazio”. Ma finché il governo non lascerà perdere il suoi tentativi di avocare più poteri a Whitehall, finché non restituiremo alle comunità locali qualche potere sullo spazio in cui vivono, la democrazia in Gran Bretagna resterà una mistificazione, con l’opinione pubblica mai consultata salvo nei plebisciti nazionali ogni quattro anni.
Gordon Brown crede di sapere cosa è meglio, per tutti e su tutto. I Tories devono sfidare questo punto di vista, sostenere una devolution che non sia per il Galles o la Scozia, né per assemblee regionali indesiderate, ma per le uniche entità locali in cui tutti ci identifichiamo: le città, i centri minori, le contee.
David Cameron si farà molti nemici fra i potenziali elettori Tory nel sud dell’Inghilterra, se sostiene questa libertà di costruire per tutti. Ci sono molti più proprietari di case rurali e suburbane che saranno colpiti dalle conseguenze di una politica del genere, di quanti elettori urbani che passeranno a Cameron perché credono che offrirà a ciascuno di loro una prebenda.
“Non è esagerato affermare che la pianificazione sia ormai assoggettata al controllo della vociante CPRE” afferma il Policy Exchange. Fosse vero. La realtà è che gli urbanisti, dopo aver servito tanto bene gli interessi di questo paese per gran parte del secolo scorso, oggi sono una specie in pericolo. La CPRE non ha il potere di salvarli, a meno che una parte della politica si scordi il filisteismo e abbracci la loro causa.
Non so voi, ma a me non piacerebbe vivere in un paese dove la qualità estetica e ambientale è decisa dalla Federazione Costruttori di Case e da Ruth Kelly. Lo schieramento che oggi sembra sul punto di capitolare davanti a queste forze, appare pernicioso come tutte le forme di vasto consenso politico, e per la cosa sbagliata.
Nota: Il citato rapporto di Kate Barker scaricabile anche dalla versione originale di questo articolo sulle pagine di eddyburg_mall ; gli effetti della revisione Barker sono vistosi anche in altri aspetti della pianificazione, come i grandi insediamenti commerciali extraurbani, lo sottolinea questo articolo dall' Observer (f.b.)
E' ufficiale. L'Anas entro la fine di luglio chiuderà 300 cantieri disseminati lungo le strade della Penisola, dal Piemonte alla Sicilia. Salvo l'intervento in extremis del governo. Per non sospendere i lavori servono entro 30 giorni almeno 2 miliardi di euro.
Il presidente dell'Anas, Vincenzo Pozzi ha ricevuto il mandato dal Consiglio di Amministrazione della Società «di avviare le procedure per la sospensione dei cantieri».
La partita coinvolge 150 mila lavoratori.
Anche le Ferrovie sono con l'acqua alla gola per mancati finanziamenti promessi dal precedente Governo. Complessivamente tra treni e strade occorrono circa 12 miliardi di euro, che non ci sono.
Nelle stesse ore Prodi rassicura la signora De Palacio della Commissione europea che la Tav si farà comunque. Montezemolo sollecita di fare in fretta. I ministri Bianchi (trasporti) e Di Pietro (infrastrutture) dichiarano «inaccettabili i veti anti-tav» e che «l'opera avrà priorità assoluta», mentre la presidente della Regione Piemonte Bresso, lancia un ultimatum: «Basta rinvii, dateci una data certa d'inizio dei lavori».
Grazie al prezioso lavoro dell'ingegner Ivan Cicconi, già docente alla Sapienza di Roma e al Politecnico di Torino, consulente del ministero dei Lavori pubblici nella XIII legislatura e attualmente direttore generale di Nuova Quasco una delle più importanti società di ricerca perché «qualità degli appalti e la sostenibilità del costruire», siano riusciti a mettere assieme un sintetico, ma esplosivo, studio sulla Tav da un punto di vista esclusivamente economico e finanziario che offriamo alla riflessione di Prodi, Bianchi, Di Pietro, Montezemolo, Bresso e a tutti i cittadini italiani dotati di un tasso medio di capacità intellettiva.
Per realizzare le 7 tratte dell'Alta velocità in Italia, nel 1991, con regolari contratti firmati, fu previsto un costo complessivo di 9.203 milioni di euro.
A distanza di 15 anni dalla firma dei contratti (secondo dati forniti da Tav Spa e Fs Spa) il costo è salito a 38.520 milioni di euro, con un aumento del 418%.
Gli oneri finanziari per l'operazione sono passati da 767 mila euro a 8700 milioni di euro, con una lievitazione di oltre il mille per cento.
Il progetto presentato e contrattualizzato nel 1991 definiva anche i costi per realizzare i cosiddetti «nodi», il materiale rotabile e le infrastrutture aeree.
Alla data odierna (sempre sulla base di dati ufficiali forniti da Tav, Rfi e Fs, il costo dei «nodi» è passato da 1064 milioni di euro a 8700 milioni (+818%); quello del materiale rotabile da 2454 milioni di euro a 8500 milioni (+ 346%); quello per le infrastruture da 614 milioni di euro a 3100 (+ 505%).
Ma ci sono ulteriori costi relativi alle «opere compensative e indotte» concordate con gli enti partecipanti alla Conferenza dei servizi.
Per la prima voce la stima è pari a 3900 milioni di euro, e per la seconda è di 9200 milioni.
Il costo del progetto, presentato il 7 agosto 1991, stimato e contrattualizzato per una cifra complessiva (tratte, nodi, materiale rotabile, infrastrutture aeree e interessi intercalari) pari a 14153 miliardi di euro (dato ufficiale), è cresciuto a 88.150 milioni di euro, con un aumento del 623%,
Domanda: dove sarà reperita questa montagna di soldi? Per sette anni (dal 1991 al 1998) è stata raccontata la favola della partecipazione nella Grande Opera Tav del capitale privato in misura del 60% del fabbisogno, caricando sul pubblico solo il 40%.
Poi il 23 marzo del 1998 l'allora ministro dei trasporti Claudio Burlando denunciava che si trattava di un clamoroso falso. «Quando siamo andati a vedere - disse il ministro diessino -abbiamo constatato che era una cosa falsa. E' bene che si sappia che è finita la quota pubblica del 40%, mentre il 60% dei privati non si è mai visto».
Ecco perché è indispensabile fare chiarezza subito sia sull'architettura contrattuale e su quella finanziaria fondata su presupposti falsi.
Di più. I cosiddetti privati sono stati rimborsati della loro quota di partecipazione ed il pubblico si è fatto interamente carico della truffa ai danni delle casse dello Stato. Prima ancora di accertare ciò che interessa agli abitanti della Valle di Susa (amianto, impatto ambientale, compatibilità con la linea ferroviaria storica, percorso alternativo, lunghezza della galleria, ecc.) urge, subito, nell'interesse di tutti gli italiani, una commissione d'inchiesta parlamentare su la vicenda Alta Velocità, comprese le infiltrazioni camorristiche nei fatti assegnati nella tratta Roma-Napoli e le tangenti elargite in modo trasversale dalle imprese che hanno sinora vinto gli appalti.
Ci sono gli elenchi dei beneficiari.
Per lo Stato italiano, siamo di fronte ad un vero baratro economico e finanziario. «Vorranno i nostri eroi» che ci governano rendersene conto?
Confidiamo nella saggezza e nella competenza dell'attuale ministro del tesoro. Padoa Schioppa, salvaci tu!
Uno dei temi sui quali si è maggiormente insistito durante la campagna elettorale che si è da poco conclusa è quella relativa alla costruzione delle grandi opere, indicate come soluzione obbligata per innovare e ammodernare il nostro sistema economico.
Cosa è necessario comprendere per analizzare il Piano delle grandi opere? E, soprattutto, cosa è implicitamente inteso con un piano di grandi opere?
- con la definizione “apertura dei cantieri” non si considera l’effettiva realizzazione dell’opera;
- con le opere previste dal Piano decennale delle Grandi opere si stanno producendo due effetti: si sta nascondendo debito pubblico; si stanno accumulando ingenti debiti per il futuro.
I problemi posti da una politica delle infrastrutture
basata sulle aperture dei cantieri
Dall’analisi dello stato di attuazione del Piano delle grandi opere (cfr. L. Ricolfi, Tempo scaduto. Il «Contratto con gli italiani» alla prova dei fatti, Il Mulino, 2006) è opportuno trarre alcune conclusioni relative, più in generale, alla politica adottata dal Governo Berlusconi in materia di infrastrutture e, soprattutto, di politica dei trasporti:
A) Un problema di sostenibilità economica, posto dal fabbisogno delle risorse necessarie a realizzare le opere inserite nel Piano, che, stimato nel 2001 era pari a 126 mld di Euro, è oggi, nel 2005, stimato in 250 mld, a fronte di risorse già stanziate fino al 2005, pari a 20 mld (Ricolfi p. 97). A questo proposito Ricolfi propone una stima del fabbisogno per il periodo 2006-2016 con evidenti aggravamenti del bilancio dello Stato e il rischio di non poter rivedere le opere inserite nel Piano a meno di accettare di versare penali a favore dei soggetti che si sono aggiudicati le commesse.
Si è, di fatto, ipotecato circa l’1% del PIL per i prossimi 10-15 anni, escludendo la possibilità di rendere realmente strategico il Piano delle opere, funzionale ai fabbisogni del Paese. (a questo proposito si veda Marco Ponti, Grandi infrastrutture e granitiche certezze, in www.lavoce.info, ).
B) Un problema di sostenibilità ambientale, dato che acquisisce come obiettivo soltanto le “grandi opere” contenute nel Piano decennale, evitando di affrontare la materia delle infrastrutture con un approccio che consideri la mobilità come una priorità fondata su un mix di strumenti.
Si è deciso di puntare su “grandi opere”, di difficile realizzazione e, soprattutto come evidenziato dal punto precedente, con un pesante fabbisogno di risorse. Manca una visione che consideri le infrastrutture non soltanto come un grande “appalto” ma con un’azione continua, costante, dove la manutenzione, l’ammodernamento, la messa in sicurezza, sono aspetti da non tralasciare. In aggiunta a questa distorsione, culturale e di visione, è da evidenziare come per la realizzazione delle grandi opere siano state adottate normative di accelerazione e di semplificazione dei controlli e delle valutazioni: con la Legge-obiettivo le “grandi opere” sono state sottoposte a una Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) attraverso i soli progetti preliminari, privi delle descrizioni tecniche necessarie per valutare effettivamente impatti e pressione.
Conclusioni (con un warning sul futuro)
Un problema, più complessivo, di gestione delle commesse pubbliche, di valutazione e di monitoraggio delle opere commissionate e, soprattutto, di reale attuazione di quanto dichiarato dovrebbe essere posto all’attenzione .
Il recente saggio di Nicola Rossi, Mediterraneo del Nord (Laterza, 2005) è molto interessante, sotto questo punto di vista. Molte azioni, finanziate anche con i fondi strutturali, risultano avviate, cantierate, ma alcune non sono completate, alcune sono ferme, alcune non corrispondono ai progetti.
Questo punto è di particolare interesse perché pone l’accento su una questione molto più diffusa e complessa del solo Piano delle Grandi opere. Si tratta infatti di comprendere come sono stati spesi fondi, nazionali e comunitari, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno, con quale grado di raggiungimento degli obiettivi prefissati e in coerenza con quanto viene esposto in rapporti ufficiali pubblicati dal Ministero dell’Economia, Dipartimento politiche di sviluppo.
Sarebbe utile, a questo punto, compiere un’analisi più complessiva, non soffermando l’attenzione alle sole “grandi opere” ma, verificare tutta la politica di investimento compiuta dal Governo nel periodo 2001-2006, anche in rapporto alla Programmazione dei fondi strutturali 2000-2006, che, soltanto per l’Obiettivo 1 (6+1 regione), ammontavano a 51 miliardi di Euro.
Il lavoro svolto da Nicola Rossi e, soprattutto, la necessità di considerare l’esperienza della programmazione 2000-2006 per introdurre miglioramenti e una maggiore efficienza dei programmi, in vista dell’avvio del periodo di programmazione 2007-2013, rappresentano due punti da non mettere in secondo piano, nella fase attuale.
Esiste il rischio che, a fronte di risorse più scarse, per il necessario riallineamento con i parametri di stabilità, una quantità di risorse consistenti risultino ipotecate in programmi infrastrutturali né coerenti con le linee di governo né con l’esigenza di innovare le politiche della mobilità e di aumentare l’efficienza energetica.
Infatti nel 2007-2013 le risorse messe a disposizione dell’Italia dall’Unione europea saranno in quantità inferiore, in considerazione dell’avvenuto allargamento dell’Unione da 15 a25, a 27 (dal 1° gennaio 2007) paesi membri e in virtù dell’accordo siglato dal Consiglio europeo del 15 dicembre 2005.
Appendice per future riflessioni:
… tante piccole opere, per rendere competitiva l’Italia
In conclusione una riflessione, non solo di sostenibilità ambientale, ma con riflessi sulla competitività reale dell’Italia e sul grado di inclusione sociale che può essere inserito tra gli obiettivi di una politica di opere pubbliche.
Le grandi opere, le infrastrutture di trasporto per esempio, il TAV (e non la TAV), hanno un’utilità se il rapporto costi-benefici è realmente in grado di indicare vantaggi per la collettività e per il sistema economico, comprendendo elementi che non siano esclusivamente quelli legati all’opera in sè. Questo approccio consente di comprendere l’effettiva utilità di proporre il rilancio del settore della produzione di energia elettrica con fonti nucleari: il costo da considerare è solo quello del Kw prodotto o devo considerare costi ambientali, sociali, di smaltimento delle scorie, di messa in sicurezza del sito, … ?
Il settore delle opere civili è tecnologicamente maturo (cfr M. Ponti), con tempi di realizzazione e oneri finanziari difficilmente sopportabili, impatti ambientali perlomeno discutibili.
Ben diversa potrebbe essere una strategia di mobilità che punti a rendere efficiente il sistema, nel suo complesso, prevedendo forme di intermodalità, di connessione tra linee veloci e linee di trasporto locale, di trasporto e logistica delle merci, di interventi volti a ridurre il traffico di veicoli nelle aree metropolitane.
Il quadro delineato oggi, con il Piano decennale è strettamente vincolato a grandi opere con un orizzonte temporale di oltre 10 anni: significa, in altri termini, legare il futuro dell’Italia, delle occasioni di innovazione e di competitività a un periodo lungo, durante il quale continuare a scontare ritardi e assenza di collegamenti.
Il 19 gennaio, sul Corriere della Sera, Francesco Giavazzi, ha pubblicato un editoriale “Meno ponti più taxi”: chiedendo l’individuazione di priorità su quali opere siano realmente necessarie e se sia opportuno adottare, per esempio, anche la liberalizzazione delle licenze di taxi a Roma, oltre ad aspettare 10-15 anni per risparmiare un’ora di viaggio tra Milano e Roma.
Questo è il punto sul quale è opportuna una riflessione: le opere pubbliche non devono essere, necessariamente, grandi, costose e inutili.
È inutile viaggiare con un treno veloce, tra due città, quando solo una minima parte della rete è a doppio binario, una parte non è neppure elettrificata e considerata ramo secco, da tagliare.
È altrettanto inutile considerare il grado di attuazione di un’astuta promessa firmata nello studio televisivo di Porta a Porta se rapportato ai disagi e ai rischi di chi si trova, oggi a viaggiare sull’autostrada Torino-Milano, oppure con chi ha perso la vita a Crevalcore o a Roccasecca.
I dati Eurostat sulle infrastrutture di trasporto ci dicono che la densità della rete stradale italiana, misurata dal rapporto tra chilometri di strade e 100 chilometri quadrati di territorio, è superiore alla media dei paesi dell'Unione Europea a 15 e inferiore solo a quella di Francia e Inghilterra. Nel rapporto tra chilometri di strade e mille abitanti, invece, l’Italia fa registrare un indice inferiore a quello della media europea, di Francia, Spagna e Austria, ma superiore a quello di Germania e Inghilterra. Se però si guarda soltanto alle strade "superiori", cioè autostrade e strade nazionali, scopriamo che il nostro paese ha una densità più elevata della media europea, anche rispetto alla popolazione.
Il mito delle carenze infrastrutturali
Le carenze sembrano dunque riguardare soprattutto le strade regionali. Ma l’Italia ha un’estensione enorme di strade provinciali e comunali, spesso di ottimo livello, per il 50 per cento destinate al traffico extra-urbano. Guarda caso, la stragrande maggioranza del traffico è costituito da percorrenze inferiori ai 50 chilometri, per le quali strade provinciali e comunali sono particolarmente adatte. Non esistono dati affidabili sulla congestione stradale, ma è ragionevole pensare che sia assai differenziata nelle diverse aree del paese e che, perciò, qualsiasi discorso "aggregato" sia fuorviante. Nel caso della rete ferroviaria, i due indici di densità sono rispettivamente uguale (quello per territorio) e inferiore (quello per popolazione) alla media europea ed entrambi inferiori a quelli registrati nei grandi paesi (a esclusione della Spagna). D’altra parte, le ferrovie tedesche portano 1,7 volte i passeggeri-km trasportati dalle ferrovie italiane, quelle francesi 1,6 volte. Anche il traffico merci risulta più intenso di quello registrato sulla rete italiana che, dunque, nel complesso non può definirsi congestionata. Assai più preoccupante è però la situazione delle reti ferroviarie regionali, soprattutto quando in una Regione siano presenti una o più grandi aree metropolitane.
Quanto agli aeroporti, in Italia se ne contano quarantaquattro (per uso civile), di cui solo diciassette hanno un traffico superiore al milione di passeggeri l’anno. Nel complesso (nel 2000) in Italia il traffico aereo interno e diretto ad altri paesi europei era di soli 24 miliardi di passeggeri-km l’anno, contro 50 dell’Inghilterra, 39 della Germania, 59 della Spagna e 29 della Francia. Quindi le potenzialità di crescita sono ancora molto ampie e, se si esprimeranno, la carenza della nostra capacità aeroportuale emergerà.
Le grandi opere sono sempre le più utili?
I problemi di congestione vanno risolti caso per caso. In alcune situazioni è necessaria la grande opera, in altre è molto più utile il piccolo intervento. Soltanto un esame preciso dei flussi di traffico presenti e di accurate previsioni su quelli futuri consente di impostare un’attendibile analisi dei costi e dei benefici dei vari progetti. (1)
A ciò va aggiunto che i tempi di realizzazione delle grandi opere sono, quasi sempre, molto lunghi: le soluzioni finiscono per essere disponibili dopo troppo tempo, quando i problemi potrebbero essere diventati altri. Indipendentemente dal rapporto tra costi e benefici nel lungo periodo – che pure dovrebbe contare qualcosa in un mondo di risorse scarse - è evidente il pregio delle "piccole opere", capaci di migliorare presto la qualità dei servizi, per le attività economiche che dipendono maggiormente dalle infrastrutture (come la logistica). Dunque, la Legge obiettivo, che si concentra quasi esclusivamente sulle grandi opere, non renderà un buon servizio al paese.
Mentre la "Legge obiettivo per le città" - inserita dal Governo nel disegno di legge per la competitività (articolo 5) - non sembra destinata ad avere effetti apprezzabili, per la prevedibilmente scarsa dotazione di risorse finanziarie.
Il debito che verrà
La storia delle opere pubbliche nel nostro paese, da circa quindici anni, è anche la storia della favola del project financing all’italiana. In Italia, purtroppo, il project financing ha finito per identificarsi con il " modello Tav", un complesso sistema messo in piedi nel 1991 per realizzare "rapidamente" le linee per l’alta velocità ferroviaria. La "Legge obiettivo" lo ha interamente recepito per tutte le grandi opere, escluse quelle realizzate dai concessionari autostradali. Non è il caso di entrare qui nei dettagli del modello Tav e nella sua storia. (2) Vale solo la pena di ricordare che, come osservava l’ Antitrust già nel 1996, attribuisce di fatto tutti i rischi allo Stato (direttamente o tramite Fs spa) e tutti i profitti ai cosiddetti general contractor (e alle banche creditrici). Un simile meccanismo è, di per sé, tale da far emergere rilevanti esigenze finanziarie pubbliche negli anni a venire. Inoltre, i contratti con i general contractor non creano alcun incentivo alla riduzione dei costi. Anzi, ne creano di significativi al loro incremento ben al di sopra del tasso di inflazione. Il costo previsto nel Dpef 2003-2005 per le ventuno opere prioritarie della Legge obiettivo era di 77,5 miliardi di euro. Nel Dpef 2005-2008 era già salito a oltre 85 miliardi (+ 9,75 per cento). Il costo previsto nei contratti del 1991 per le tratte ad alta velocità era di 5,67 miliardi di euro. Nei contratti rinnovati nel 2003, per le stesse tratte, arrivava a 23,4 miliardi di euro, con un incremento del410 per cento. Per gli interventi nei principali nodi ferroviari il costo previsto è aumentato del 325 per cento. E ci sono fondati motivi per pensare che, in realtà, le previsioni siano molto sottostimate, anche perché non sembrano tener conto degli interessi intercalari. (3)
Estrapolando queste tendenze, si può ragionevolmente prevedere l’effetto sul debito pubblico del modello Tav applicato ai più rilevanti progetti della Legge obiettivo.
Contro la strategia dell’inseguimento
Spesso l’opposizione accusa il Governo di essere incapace di realizzare le opere pubbliche approvate, lasciando intendere che, ove fosse messa dagli elettori nelle condizioni di governare, le realizzazioni sarebbero molto più rapide e numerose. Assai meno convinta sembra essere, l’opposizione, nella critica alla strategia delle grandi opere, mentre la stessa contrarietà alla Legge obiettivo è apparsa spesso più orientata a tutelare i poteri di veto delle Regioni e degli enti locali che non a svelarne i meccanismi di incentivazione perversa e il potenziale di devastazione dei conti pubblici. Si sono sentite critiche perché gli stanziamenti per investimenti pubblici non sono aumentati o sono stati ridotti per l’anno corrente. Meno voci si sono levate per opporsi alle opere che si intendevano finanziare, la cui utilità non è mai stata correttamente valutata. Del resto, anche nell’attuale opposizione la cultura della valutazione stenta ancora a farsi strada, nonostante l’approvazione, nel 2000, di un Piano generale dei trasporti che rappresentava una significativa innovazione sotto questo profilo. E il centrosinistra, quando era maggioranza, impiegò oltre quattro anni per rendersi conto che il modello Tav era potenzialmente molto dannoso, arrivando troppo tardi alla cancellazione dei contratti per le opere non cantierate, disposta solo con la Legge finanziaria per il 2001 (e immediatamente annullata dal governo Berlusconi I).
Una riflessione seria sul tema delle infrastrutture è invece necessaria. Soprattutto, l’alleanza guidata da Prodi dovrebbe evitare la tentazione di promettere qualcosa in più e di più mirabolante di quanto annunciato dal Governo in carica. Agli elettori (e agli operatori) si dovrebbe dire chiaramente che le scarse risorse disponili saranno concentrate su poche opere essenziali: grandi o piccole, volte, però, ad affrontare la crisi delle grandi aree metropolitane e le esigenze della logistica. E da realizzare in tempi brevi con finanziamenti trasparenti, sotto responsabilità amministrative precise e inderogabili. Sui guasti del modello Tav si impone una onesta "operazione verità", con la promessa di una nuova cancellazione dei contratti, per salvare la finanza pubblica.
(1) È utile ricordare che gran parte delle previsioni sui flussi di traffico su nuove infrastrutture risultano inaccurate: quelle relative alle linee ferroviarie quasi sempre per eccesso, quelle sulle strade sia per eccesso che per difetto. Si veda "How (in)accurate are demand forecasts in public works projects? The case of transportation" di B. Flyvbjerg et al., in Journal of the American Planning Association, n. 2, 2005.
(2) Una lettura istruttiva a questo proposito è Le grandi opere del Cavaliere, di I. Cecconi, Roma, KOINè Nuove Edizioni.
(3) Nella Legge finanziaria del 2001 gli interessi intercalari pesavano per 170 milioni di euro, saliti 230 nel 2002 e a 350 nel 2003.
Allegati
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Titolo originale:Second-home owners are among the most selfish people in Britain – scelto e tradotto per Eddyburg da Fabrizio Bottini
Quale maggior fonte di ingiustizia, del fatto che alcune persone non hanno casa, mentre altre ne hanno due? Eppure il commercio vampiro di seconde case continua a crescere – del 3% l’anno – senza alcuna interferenza del governo o da parte della coscienza dei compratori. Ogni acquisto di seconda casa priva un altro della prima. Ma parlar chiaro di questo significa qualificarsi come guastafeste e saccente.
Se si va a Worth Matravers – quel villaggio di bomboniere nel Dorset dove il 60% delle case sono di proprietà di fantasmi – non si trovano orde di homeless accampate sui marciapiedi dentro a scatole di cartone. Il mercato non funziona in questo modo. I giovani del villaggio, che non riescono a comprare qui, si sono spostati, contribuendo ad aumentare le pressione abitativa altrove. L’impatto del mercato fantasma può risultare invisibile agli acquirenti, ma ciò non significa che non sia reale. I proprietari di seconde case sono probabilmente le persone più egoiste del Regno Unito.
In Inghilterra e Galles ci sono 250.000 seconde case. In Inghilterra 221.000 persone sono classificate homeless o abitanti in ricoveri o sistemazioni temporanee (questi casi disperati comprendono il 24% della domanda di abitazione sociale). Non sto sostenendo che se trasformassimo in abitazione qualunque casa sottoutilizzata avremmo risolto il più grave problema dei senza casa. Dico solo che la condizione di senza casa è stata esacerbata dal fatto che il governo non assicura che le case siano utilizzate per viverci.
Si tratta di un problema che ha ricevuto una rara attenzione mediatica settimana scorsa quando la Affordable Rural Housing Commission ha pubblicato il proprio rapporto. Ipotizzava che si potessero tassare i proprietari di seconde case di certe aree in modo più pesante, o che fosse necessaria una autorizzazione urbanistica per trasformare un’abitazione in una casa fantasma. Queste idee, per quanto moderate e di prima ipotesi, sono state accolte con rabbia. “Se il governo adotta queste proposte” ha ruggito il Telegraph, “sarà per punire ancora gli elettori del ceto medio in base ad una cultura del risentimento piena di invidia”. Sul Guardian, Simon Jenkins ha ipotizzato che le proposte della commissione potessero negare “agli attuali proprietari il valore della proprietà e di conseguenza la mobilità per loro e i loro figli. É una folle tassa sulla proprietà applicata ai poveri rurali ... Pensare che chi porta nuovo denaro e, in molti casi, nuove attività economiche nelle campagne britanniche, sia un male sociale, è sinistrismo arcaico”.
Se preoccuparsi dei problema dei senza casa trasforma in dinosauri della sinistra, beh, alzo il mio artiglio. É vero che premere sulle seconde case diminuirà i prezzi nelle campagne, un poco. Questa è una parte della questione. Ma non è che i proprietari rurali soffrano di basse valutazioni. Il giorno prima di questo articolo, la Halifax ha proposto cifre che mostrano come la casa rurale media costi 208.699 sterline (ovvero 6,7 volte i guadagni medi annuali), mentre la casa media di città costa 176.115 sterline. Jenkins sembra chiederci di badare più ai profitti di chi è già ricco che a chi non ha altro che una scatola per dormirci dentro. É anche vero che nei fine settimana e durante la stagione estiva I proprietari di seconde case possono portare nuova attività per i negozi locali; specialmente il genere di boutique pittoresca che si affumica il proprio pesce e vende vasetti di marmellata con sopra cappelli di carta. Ma per il resto dell’anno, visto che il villaggio è mezzo vuoto, le attività muoiono.
Anche l’impatto ambientale deve essere magnifico. É già abbastanza arduo sistemare le case che ci servono nelle campagne, figuriamoci quelle finte per i frequentatori del fine settimana. Aprite le pagine di qualunque supplemento immobiliare e troverete annunci per “alloggi vacanze” in Cornovaglia, Dorset, Pembrokeshire o Norfolk. Spuntano aeroporti regionali (o tentano di spuntare) ovunque i finanzieri della City cominciano a spingere economicamente via gli abitanti del posto (chi ha seconde case all’estero fa anche più danni: un’indagine ipotizza che causino in media sei viaggi aerei di andata e ritorno l’anno). Per non parlare dei costi ambientali di mantenere due case, e senza dubbio di lasciar accese le luci di sicurezza e le apparecchiature in standby mentre si continua la vita altrove.
Per tutti questi motivi, credo che le proposte della commissione non siano sufficienti. Considerano il problema della seconda proprietà come questione locale, limitato alle aree più ambite della campagna. Non si conta il più vasto contributo di questo tipo di proprietà a produrre homeless, o alla distruzione dell’ambiente. Né si coglie il punto – quasi sempre mancato dai mezzi di comunicazione – che la maggioranza delle seconde case (155.000 su 250.000) stanno in città e cittadine, dove uomini d’affari di mezza età trasformano quella che potrebbe essere la prima casa di una giovane coppia in un pied-à-terre. Accetto il fatto che si tratti di una Commissione per la casa rurale, ma non posso fare a meno di chiedermi se per caso un riconoscimento del genere non avrebbe causato qualche turbamento a Elinor Goodman – capo della commissione- che ha una seconda casa a Westminster.
Vorrei vedere la proprietà di seconde case diventare proibitivamente costosa, ovunque si trovino. Continua ad essere più economico possedere una seconda, che una prima casa. Il governo ha ridotto la deduzione sulla tassa locale delle case fantasma dal 50% al 10%, ma pare offensive che possa comunque esistere una deduzione di qualunque tipo. Peggio, come ha sottolineato ieri una lettera al Guardian, la gente compra case da fine settimana come finti luoghi di vacanza e li usa come “attività in perdita” contro il fisco. Scappatoie del genere devono essere eliminate. Perché non applicare una tassa comunale del 500% per tutte le seconde case, che le amministrazioni locali siano obbligate a ipotecare: in altre parole a utilizzare per nuove abitazioni sociali? Non impedirebbe ai più ricchi di comprarsi altre, ma almeno chi sta ai gradini inferiori della scala sociale ne avrebbe qualcosa in cambio.
Spesso ci dicono che tasse punitive di questo tipo non funzionano, perché le coppie potrebbero registrare le case separatamente. Ma questo potrebbe funzionare soltanto per chi non è né sposato né in unione civile. Non impedisce al governo di prelevare la tassa sui capital-gains.
Il vero problema è che quasi ogni parlamentare col collegio fuori da Londra ha due o più case, e ci sono pochissimi giornalisti affermati che non stiano succhiando la vita di un villaggio da qualche parte, o un giornale che non dipenda dagli annunci immobiliari. Due settimane fa il Sunday Times ha scritto che la parlamentare del Labour Barbara Follett, proprietaria di una casa da 2 milioni di sterline nel collegio elettorale (a Stevenage), di un appartamento a Soho e altre case a Antigua e Cape Town, dichiara 76.357 di spese ai Comuni per gli ultimi quattro anni della casa londinese. Forse non è difficile capire perché i parlamentari non stanno chiedendo a gran voce che si faccia qualcosa. Venerdì, Peter Mandelson – l’uomo che dice ciò che pensa Blair – ha dichiarato a una conferenza stampa che la principale sfida del Labour è di trovare soluzione “alle ansie del ceto medio che lavora duro ... non è il vecchio territorio del Labour che abbiamo dimenticato e che si sta allontanando, ma il territorio del New Labour che occupiamo dal 1997 che è a rischio”.
In altre parole, le possibilità che il governo obblighi l’abbandono delle seconde case sono più o meno pari a zero. Ma questo non ci deve impedire di sottolineare come sia inaccettabile lasciare che i ricchi sottraggano ai poveri le loro case.
Nota: a proposito del rapporto della Commissione sulla Casa Rurale, più volte citato, su Mall articoli di Anne Perry, Beverly Goldberg, e l'intero documento scaricabile (f.b.)
D: Le banliues parigine, con i loro sommovimenti e le loro proteste, hanno evidenziato un aspetto specifico della crisi contemporanea della città. Qual è, secondo te, la lezione di carattere generale che si può ricavare da questi eventi così clamorosi?
R: Secondo me, l’esperienza francese è in larga misura diversa da quella italiana. Il caso francese dimostra che non sempre è sufficiente il “buon governo urbanistico” per avere risultati socialmente positivi. In generale, la periferia francese è figlia di una impostazione urbanisticamente all’avanguardia, che ha rappresentato un modello. Si pensi alle villes nouvelles. Si sarebbe potuto pensare che, da quell’impostazione, doveva derivare una buona ed alta qualità di insediamento e di vita. Invece, non è stato così, anzi! Il decentramento nelle periferie di attività commerciali e produttive di buona qualità, “l’effetto-città”, pur accuratamente progettato, una formidabile rete di trasporti su ferro: tutto ciò non ha salvato l’esperienza francese dalle vicende alle quali facevi riferimento. Probabilmente perché in Francia sono state dominanti ragioni che derivano dalla natura dell’immigrazione, in larga misura composta dalla seconda o terza generazione di immigrati dal Nord Africa. Un vasto strato sociale che non è mai stato veramente accolto dal resto della popolazione e dalla cultura francese.
D: Quindi si tratta un problema specifico di cultura della convivenza…
R: Penso di sì. In altre parole, in riferimento alla situazione francese, non credo che debba mettersi in discussione il tema delle periferie in senso strettamente e “tecnicamente” urbanistico. Ma si debba riflettere sul fatto che non è nata una vera cultura della convivenza. Bisogna insomma evitare di fare confusione tra queste ragioni sociali molto serie, molto profonde, con la crisi della città come modello spaziale. Né credo che si possano fare confronti con la situazione italiana. Da noi, per certi versi, c’è di peggio, vi sono fenomeni di degrado inauditi. Si pensi alla malavita concentrata nel quartiere Scampia, a Napoli, allo scandalo della estesa solidarietà manifestata nei confronti degli esponenti della delinquenza.
D: Hai anticipato la seconda questione che ti vorrei porre, con un riferimento specifico alla previsione che qualcuno aveva fatto, per cui sarebbero deflagrate anche le nostre periferie. E’ sempre difficile fare previsioni, ma è prevedibile una qualche precipitazione della crisi delle nostre periferie e delle nostre città?
R: Io non credo. Fenomeni di insofferenza per il degrado ci sono e ci sono stati, e non si può certamente escludere che, in qualche luogo, possano esplodere in forma violenta. Per esempio, intorno a questioni relative alle discariche o ai trasporti. Ma non mi pare possibile una reazione contemporanea e omogenea delle periferie italiane intorno a temi di natura sociale. Questo per ragioni riconducibili alle grandissime differenze tra le città, e soprattutto tra le periferie delle città, del nostro Paese. Prendiamo il caso di Roma. La periferia di Roma è in larghissima misura abitata da cittadini che non possono accedere al mercato degli alloggi nelle aree centrali, e sono costretti a vivere in luoghi sempre di più lontani. Ma è una periferia dai connotati molto diversi da quelli francesi, e anche dalle periferie disperate di altre città italiane come Scampia a Napoli o lo Zen a Palermo. La grande periferia di Roma è sterminata, informe, ma non esplosiva. Si tratta comunque di una realtà sociale non animata dal “rancore sociale”, “di classe”, si sarebbe detto una volta, presente in Francia.
D: In generale, sul tema della trasformazione della struttura e della configurazione della città - e quindi anche della crisi del modello di città – ormai è un luogo comune rilevare che non esiste più la città compatta, che c’è la “città di città”, l’”arcipelago” di città, un accentuato policentrismo delle dimensioni della città. Come è possibile andare a un’accezione positiva, a una pratica positiva, a una sperimentazione positiva di questo policentrismo che ormai è un dato di fatto nella città contemporanea?
R: Io di positivo ci vedo molto poco negli attuali processi di trasformazione delle città. Mi pare anche improprio parlare di policentrismo, almeno in riferimento alla situazione italiana. Come stavo dicendo prima a proposito della città di Roma, siamo di fronte a un’espansione sterminata, fatta prevalentemente di lottizzazioni abitative, alle quali si aggiungono attività commerciali e, più recentemente, attrezzature di divertimento e alcuni servizi. Gli abitanti della periferia continuano ad andare ogni giorno verso il centro della città, dove si concentrano le attività di lavoro. E’ questo il connotato patologico della situazione, certamente non solo italiana. Non è vero che è finita la dialettica centro-periferia. Il centro continua ad attrarre in forma anomala e patologica chi vive nelle periferie. Altro che policentrismo. Siamo di fronte al mancato decentramento dei fattori di qualità urbana. Qui è mancata l’azione di governo. Non mancano spregiudicati teorici, sociologi e urbanisti che vedono in tutto ciò elementi positivi. Io non li vedo.
D: È possibile, in una situazione come questa, rilanciare un’azione e una cultura di governo delle trasformazioni della città?
R: È una banalità se dico che la “questione urbana” è, più che mai, una questione politica. Cioè, non è un problema settoriale. Vi è stata, in Italia, una stagione irripetibile in questo senso: quella del primo centrosinistra. Quando si è provato seriamente ad affrontare il tema della condizione urbana. Si respirava un clima particolare, a livello nazionale e nelle città. Tu mi parli da Firenze. Pensa che cosa hanno significato a Firenze l’amministrazione di Giorgio La Pira e l’urbanistica di Edoardo Detti. C’era attenzione e interesse autentici per la città, sentita come un banco di prova decisivo per la politica in generale. Dopo di allora certamente ci sono stati episodi di buon governo, ma sono mancati un’attenzione, un’elaborazione, una filosofia, un interesse complessivi.
Adesso siamo all’avvio di una fase di svolta governativa, e spero che un dibattito e un’iniziativa su questi temi possano ripartire. Ricordo che proprio durante la presidenza Prodi nell’Unione Europea sono state messe a punto raccomandazioni comunitarie che riguardano la necessità di porre un freno allo sprawl urbano. Non nascondo, però, che ho tante perplessità. La teorizzazione e la pratica di un’urbanistica priva di regole e di vincoli sono molto radicate. Per fortuna si è chiusa l’esperienza del governo Berlusconi senza l’approvazione di quella micidiale proposta nota come legge Lupi (con molti sostegni anche nel centrosinistra), che sanciva in via definitiva la privatizzazione dell’urbanistica. L’opposizione a questa proposta è stata limitata a pochissimi settori del centrosinistra. L’argomento è stato ignorato dalla grande stampa e nei dibattiti pubblici. Abbiamo dovuto faticare veramente tanto per riuscire alla fine a farlo accantonare. Auguriamoci comunque che adesso il vento cambi.
D: Finiamo con due questioni di carattere generale. Siamo, per quello che riguarda la questione città – come tante volte viene sottolineato – a uno snodo storico, perchè in questi anni, per la prima volta nella storia umana, la popolazione urbana tende a pareggiare o addirittura a superare la popolazione rurale. Simbolicamente e culturalmente cosa rappresenta, secondo te, questo passaggio? Che tipo di universo sembra delinearsi nella vita e nelle relazioni umane?
R: Osservato dal nostro punto di vista europeo, questo passaggio storico rappresenta comunque, secondo me, un tendenziale miglioramento. Non condivido le analisi e le rappresentazioni apocalittiche che in merito vengono proposte. Sono analisi implicitamente nostalgiche e regressive dal punto di vista culturale ed antropologico. Non penso che questa forte spinta all’urbanizzazione debba necessariamente essere un fattore così terribile, come spesso si dice. Credo che continui a essere vero che “l’aria della città rende liberi”. Si va a vivere in città per migliorare le proprie condizioni, per avere nuove opportunità. La campagna è spesso sinonimo di immobilità e di passiva accettazione di condizioni disumane. Naturalmente, so bene che le megalopoli asiatiche hanno ben poco a che fare con la nostra storia e la nostra cultura europea della città. C’è la “città illegale”, ci sono sacche spaventose di povertà e devastanti sperequazioni. Perché la condizione urbana diventi accettabile, si devono fare sforzi smisurati e deve essere accelerata la messa a punto di strumenti e di misure di carattere organizzativo, finanziario e sociale (si pensi alla condizione sanitaria negli agglomerati del “terzo mondo”) per combattere la miseria e l’emarginazione. Con tutto questo, il “fattore città” in espansione ed in crescita non riesco davvero a vederlo come fatalmente negativo.
D: Il tema della città è questione veramente di portata enorme dal punto di vista culturale ed è al centro di un grande dibattito, oggi, tra sociologi, antropologi e urbanisti. C’è chi dice che nell’età delle megalopoli, nell’età in cui le città sembrano non avere più un centro, in cui la città tende a non avere più una dimensione definita, la cultura della città così come si è storicamente formata, sia arrivata al capolinea. Tu concordi con quest’analisi così drastica ?
R: Non so se si possano dare definizioni a senso unico, valide su scala planetaria. Secondo me non è possibile. In Europa è innegabile il peso positivo dei fattori urbani tradizionali. E penso che sarà sempre così. In questa parte del mondo, secondo me, nonostante le trasformazioni in corso, non vale l’ipotesi catastrofica e definitiva che dichiara conclusa l’”epoca delle città”. In certe regioni dell’Asia o del Sudamerica, dove, tra l’altro, il peso delle città è stato diverso rispetto all’Europa, si vivono sicuramente problematiche diverse.
Si è tornati a parlare di periferie anche in Italia. Dopo i recenti accadimenti nelle banlieues francesi, teatri di violente rivolte contro lo Stato assente e mossi dalla preoccupazione generalizzata per il futuro di questi luoghi del conflitto, il dibattito su quanto sta avvenendo o su quanto può accadere nelle periferie italiane ha trovato diverse occasioni di confronto. La notizia buona è che si torna a parlare di problemi reali della città e si esce fuori dal dibattito sterile su strumenti e modelli. La città torna ad essere il luogo di interesse per la cultura urbanistica, almeno di quella non ancora anestetizzata dal pensiero dominante. L’altra buona notizia è che in questi incontri si possono misurare e confrontare politiche e iniziative portate avanti negli altri paesi europei. Il confronto è spesso poco lusinghiero perché misura la distanza dagli altri e rende evidente le conseguenze di anni di dibattito autocentrato. E’ così ad esempio sul tema del recupero dei quartieri e sul tema della casa come diritto: della casa sociale.
Su questi temi si è soffermato nel corso di un recente incontro svoltosi a Venezia[1] Oriol Nello[2], segretario per la Pianificazione Territoriale della Catalunya. In particolare Nello ha aperto una finestra sullo scenario politico della Catalogna caratterizzato dalla recente approvazione della nuova legge urbanistica (legge 1/2005 del 26 luglio)[3], che all’articolo 154[4] prevede che almeno il 25% della nuova edificazione privata (residenze) deve essere destinato ad affitto moderato e, nel caso in cui il privato non dovesse adempiere a tale obbligo, lo Stato ha la facoltà di espropriare l’equivalente cubatura ad un prezzo più basso di quello di mercato.
Il riferimento a questo articolo, si inseriva nel racconto di un altro recente provvedimento della Regione della Catalogna che riguarda in modo specifico le periferie. Si tratta del “Programma dei quartieri e aree urbane d’attenzione speciale” (legge 2/2004 del 4 giugno) con il quale il governo socialista ed il Parlamento della Catalogna, cercano di rispondere alla "tendenza alla segregazione spaziale dei gruppi sociali determinata dal sistema di urbanizzazione capitalista". Gli ambiti di intervento di questo programma sono stati presentati da Oriol Nello in tutta la loro problematicità: aree in cui alle carenze urbanistiche – problemi di urbanizzazione, di attrezzature, di accessibilità – si accompagnano problematiche sociali – invecchiamento, spopolamento, basso livello di educazione e di occupazione – criticità dunque, che rendono necessaria un’azione integrata nelle dimensioni fisica, economica e sociale. L’obiettivo principale è la riqualificazione dei quartieri per interrompere il processo di degrado che investe tali aree urbane e per migliorare le condizioni di vita dei loro abitanti.
Il governo regionale ed i comuni in cui ricadono i quartieri e le aree degradate, finanziano, per la maggior parte delle risorse messe in atto, la riqualificazione prevista dai programmi di intervento che sono redatti e promossi dai comuni; la legge costituisce un fondo di finanziamento del Programma (di cui almeno il 50% proveniente dal soggetto pubblico) concepito come lo strumento finanziario destinato alla riqualificazione e alla promozione specifica di questi quartieri. Fino ad oggi sono stati finanziati programmi in 60 quartieri per un totale di 800.000.000 Euro ripartiti in interventi che vanno dalla riqualificazione degli spazi pubblici e la dotazione di spazi verdi, alla riqualificazione degli elementi comuni degli edifici, all’inserimento di tecnologie dell’informazione negli edifici, all’accessibilità e, ancora, all’eliminazione delle barriere architettoniche.
La pressione del processo di finanziarizzazione degli immobili e le trasformazioni urbane che possono comportare l’allontanamento dei residenti pongono, in definitiva, un tema più generale che ha a che fare con il diritto alla città, citato da Oriol Nello con un riferimento a Henry Le Febvre[5]. E’ questo il vero tema prima ancora delle periferie perché oggi il diritto alla città è negato proprio nelle aree centrali, come nei processi di recupero. In America per rendere chiaro questo aspetto, parafrasando il termine “urban renewal”, si è coniato il termine “black removal”.
Tornare a parlare di periferie è allora l’occasione per dire che le città devono essere una risorsa importante per la crescita sociale ed economica del nostro paese e che devono tornare ad essere oggetto di attenzione da parte della politica. La vita materiale di molti cittadini dipende dalle città, dalla loro efficienza e dalla loro capacità di costruire senso di sicurezza sociale e di progresso. Come dimostra il caso della Catalogna molti paesi europei sono impegnati su questa strada. Si può e si devono riportare, anche in Italia, le città al centro dell’agenda politica e farne un punto essenziale del programma del nuovo governo del paese.
[1]“Periferie come banlieus?", Dipartimentodi pianificazione dell'Università IUAV di Venezia, 30-31 marzo 2006
[2] Secretario para la Planificación Territorial, Departament de Política Territorial i Obres Públiques, Generalitat de Catalunya
[3] I contenuti della legge sono stati oggetto dell’articolo di Maria Lluisa Marsal in questo sito
[4] Acquisizione con esproprio di riserve di suolo per il patrimonio pubblico
[5]Lefebvre, Henri. (1974) Il diritto alla città. Padova. Marsilio
A chi serve il polo multifunzionale di Sestu?
di Antonietta Mazzette
(coordinatrice del Centro di Studi Urbani dell’Università di Sassari)
A chi serve un centro Multifunzionale che ha già costruito oltre 60.000 mq ma che - come rilevato dal sito web SARDINIA OUTLET VILLAGE (gruppo Policentro) -, punta ad avere ben altre superfici di struttura commerciale, Factory Outlet, hotel (2), parcheggi (posti auto 3.046), attività comprendenti Shopping Center, attività di Entertainment, attività di ristorazione, e ancora, di Ipermercato, Parco commerciale, e così via?
Serve ad una regione che, in termini di consumo, può essere paragonata, dato lo scarso peso demografico, ad un quartiere di Roma? Certo anche la Sardegna, come il resto del Paese, ha assunto il consumo come tessuto connettivo principale (in molti casi come unico) della produzione, del lavoro e della vita sociale. Consumo peraltro alimentato dalle nuove cattedrali quali quella in oggetto e tante altre ancora: la Sardegna si colloca ai primi posti tra le regioni italiane per superficie di vendita per abitante.
Serve a riqualificare il territorio? Ricordiamo che gli insediamenti commerciali sono stati collocati prevalentemente nei pressi delle grandi arterie stradali, sulla scia di altre esperienze (Milano, Genova, Torino, Firenze, Roma), per beneficiare dei flussi di traffico dall’hinterland verso i sistemi urbani (è il caso di Cagliari e Sassari) e nelle città a forte espansione turistica (come Olbia).
Serve alle imprese minori? Che difficilmente possono contrastare l’azione della grande distribuzione nel ruolo di attrazione principale, sia perché non c’è una tradizione di consorzi e associazionismo tra piccole imprese, ma soprattutto perché è pressoché impossibile adeguarsi alle formule commerciali affermate in campo internazionale e che stanno in un contesto fortemente competitivo, come nei casi delle multinazionali che rappresentano la spinta alla internazionalizzazione della distribuzione in Sardegna.
Serve per risolvere i problemi dell’occupazione? Problemi che l’Isola si trascina con crescente fatica? I sostenitori del polo commerciale utilizzano, anch’essi come molti hanno fatto in passato, la bandiera dell’occupazione, dimenticandosi però che, a fronte di qualche centinaio di occupati oggi, migliaia di persone in quei territori domani perderebbero sicuramente il loro posto di lavoro se si desse luogo per davvero all’apertura della CORTE DEL SOLE. Nome intrigante questo, forse perchè con esso si è voluto rinviare all’artificio della Corte del Re Sole, o chissà alla stessa Città del Sole di Campanella. Rinviando, in entrambi i casi, ad un’utopia nel nome e ad un’illusione di città nella pratica.
Serve ai comuni che gravitano nel sud della Sardegna? Comuni che cercano faticosamente di conservare tutte le loro qualità di insediamenti urbani, compresa quella del commercio. Naturalmente no, e gli amministratori di questi comuni lo sanno talmente bene che hanno unito le loro forze per protestare contro l’apertura del polo commerciale di Sestu.
Serve alla città di Cagliari? Che in questi ultimi anni sta tentando di riassegnare qualità e funzioni al suo patrimonio storico-culturale; di ridare un volto nuovo al suo centro storico; di attrarre visitatori, consumatori, turisti; attività economiche per lo più legate allo svago seguendo i dettati della “ golden age of entertaninment”? Sembrerebbe di no, anche perché un’illusione di città dell’acquisto finirebbe inevitabilmente per svuotare la città reale.
Noi sappiamo che l’assunzione del consumo come funzione centrale e la marginalizzazione della produzione materiale, sono le prime cause della crisi delle nostre città e del resto dell’Isola. Ma il decollo di un ulteriore polo commerciale alimenterebbe la crescita disordinata e le numerose fratture di cui è piena la Sardegna.
Non voglio entrare nel contenzioso formale tra la Regione e la società, ma, lo confesso, ho salutato con gioia il decreto di sospensione dei nuovi mega insediamenti commerciali che la giunta Soru aveva così coraggiosamente istituito all’indomani della sua vittoria elettorale. E ciò innanzitutto perché la Sardegna troppo spesso e altrettanto troppo rapidamente ha trasformato vaste superfici a ridosso delle aree urbane e metropolitane in Centri Commerciali Integrati, parodie delle città del consumo e del divertimento del Nord-America. Questa presenza massiccia è stata realizzata in poco tempo, a fronte di una popolazione a dir poco esigua e che appare destinata a non aumentare. E proprio per questo, ogni volta che si è messo su un centro commerciale, lo si è fatto in riferimento ai milioni di turisti che assocerebbero il caldo sole delle spiagge con l’ombra ad aria condizionata di questi centri. Non è un caso che anche stavolta i rappresentanti del polo commerciale si siano riferiti ai 3.500.000 turisti potenziali consumatori e clienti della mitica Corte del Sole, perché se l’avessero dovuta riferire ai residenti di quell’area avrebbero avuto ben poche ragioni per investirvi.
Tutti questi interrogativi ci danno come unica risposta che nessuno degli interessi sopra richiamati riguarda l’isola, anzi ognuno di essi rappresenterebbe un ulteriore elemento di impoverimento per la Sardegna perché le ricchezze prodotte andrebbero comunque altrove.
Soru sta facendo il suo mestiere, quello che le regole valgano per tutti e quello di rappresentare gli interessi dei sardi.
Modello culturale e contesto ambientale dell'Outlet
di Sandro Roggio
(Centro di Studi Urbani- Università di Sassari)
L’evoluzione delle tipologie dei grandi centri commerciali si relaziona ai modi recenti di espansione della città, quindi allo “sprawl”: il fenomeno dell’insediamento diffuso, “sdraiato”, che ne ha agevolato la crescita.
Qualunque sia il loro carattere, i grandi centri commerciali sono in antitesi alle città . Non hanno interesse a mettersi in continuità con il racconto urbanistico perché non traggono vantaggio dai sistemi urbani coesi. Sono altro dalla città perché è nei territori incerti, postmoderni, che allignano facilmente. Sono estranei alla città anche quando cercano di darsi un’immagine che richiama le piazze e le strade dei vecchi centri abitati (che le denominazioni – il borgo, il villaggio, il vialetto, il portico – enfatizzano con vezzeggiativi : un indizio su cui occorre riflettere ).
Se il modello si è diffuso con un ritmo intenso negli ultimi decenni, si deve alle strategie del commercio(e ai modi, sempre accuratamente osservati, con cui cambiano i consumatori). E all’uso abnorme dell’ automobile, il mezzo che ha consentito alla città di estendersi e frammentarsi assumendo forme dilatate, tentacolari.
La tendenza ben nota in America (le cui esemplari espansioni “sdraiate”, la coppia drugstore- autostrada, sono scenari di tantissimi telefilm), è arrivata in Europa.
Così anche in Italia i supernegozi hanno attecchito e specializzato il loro multiforme modo di essere ( tante le tipologie: mall, lifestyle, big-box, outlet) con diverse misure e strategie di dislocazione (di scala urbana, di quartiere, regionale e interregionale). Le norme statali e regionali e i piani delle amministrazioni locali ne hanno assecondato a lungo e acriticamente la diffusione per dare risposte tempestive alle richieste di modernizzazione.
Grave errore. Il commercio, intrecciandosi con la vita di tutti i giorni ha dato vita a luoghi che sono tra le invenzioni più suggestive dell’umanità: le piazze pensate per lo scambio di merci sono diventati luoghi per la socialità, per l’incontro di culture e esperienze diverse. Quando poi il commercio si è separato dalle altre funzioni urbane c’è stato uno scadimento progressivo della vita nei vecchi centri
Oggi si parla di saturazione del fenomeno e qualche osservatore ritiene che il loro gradimento da parte del pubblico stia diminuendo, ma come tutte le cose ben avviate e vantaggiose per il mercato sembra difficile intervenire per fermarne l’ascesa.
Le grandi strutture di vendita sono arrivate in Sardegna e ogni città grande o media ha dovuto farci i conti. Ora è la volta di Sestu. “La corte del sole” è un intervento di scala regionale di oltre 60.000 mq. di negozi e subito fa riflettere la sua dimensione a fronte di un piccolo bacino di utenti. I consumatori, la quota del popolo sardo acchiappabile, sarebbero poco più 800.000, suddivisi per “ fasce di avvicinamento” , ossia “isocrone” come fa sapere il gruppo PoliCentro. Un target neppure ricco come si sa, ma si fa conto da parte di chi lo realizza, sulle molte presenze di villeggianti nel sud dell’isola.
Questa impresa globale ( la società ha realizzato e sta realizzando cose simili oltre che in Italia, in Russia, in Croazia) contribuirà a depotenziare la vitalità non solo dei centri dell’hinterland cagliaritano ma di quelli dell’intera isola, intercettando i flussi turistici meno propensi a entrare in contatto con la Sardegna vera. Contribuirà, ma a questo siamo abituati e un po’ rassegnati, a omologare la Sardegna a quei luoghi che invece sarebbe meglio non prendere ad esempio.
Per questo l’iniziativa di Soru (per gli aspetti relativi alle autorizzazioni comunali) assume un valore simbolico che si collega alle altre iniziative sul governo del territorio. Una linea che va sostenuta, perché bisogna almeno provarci a governare la globalizzazione.
Non si capisce il consenso che da qualche parte arriva a “La corte del sole” che sarebbe fondato sui livelli occupazionali garantiti, dimenticando che nella migliore delle ipotesi per ogni nuovo addetto nella grande distribuzione se ne perdono tre della rete tradizionale. Si capisce ancora meno o nulla se, come sembra, la realizzazione di questa struttura è stata resa possibile dalla trovata di sommare tante piccole autorizzazioni per piccoli negozi che tutti insieme sono un negozio di sei ettari.
Nota: sullo stesso tema (con link ai materiali) un recente articolo di Nicola Pisu su Il Sardegna (f.b.)
La partita tra la Corte del Sole di Sestu e la Regione si sposta in Procura. Dopo i tavoli di viale Trento ora i documenti del blocco dell'apertura del mega centro commerciale sono stati consegnati da Renato Soru al procuratore Carlo Piana. La Policentro fa sapere di aver dato mandato a Luigi Concas di analizzare il caso. E, se dovesse ravvisare violazioni che sconfinano nel penale, di intentare una causa milionaria alla Regione. Dal tribunale al palazzo di via Roma il passo è breve. La guerra ha fatto rumore anche lì: il capogruppo dei Ds Siro Marrocu dice che «sarà presente all'inaugurazione di questa sera». Il suo collega Antonio Biancu preferisce disertare. La maggioranza di governo si spacca. In ballo ci sono grossi interessi. A questi elementi si aggiungono i 73 sindaci del Campidano capeggiati dal primo cittadino di Guspini Francesco Marras: «Siamo contrari all'apertura e solidali con il governatore». Un braccio di ferro sempre più aspro alla vigilia dell'apertura al pubblico. Soru non vuole sentirne parlare. Non esclude l'intervento della Forestale per bloccare l'evento.
IL PRESIDENTE della Giunta, è andato ieri mattina negli uffici al terzo piano di piazza Repubblica. Soru ha consegnato a Piana i documenti di annullamento delle licenze edilizie e delle concessioni rilasciate dal Comune di Sestu per la Città dellaModa.Non solo: anche il prefetto è stato informato sulla decisione dello stop dell'agglomerato commerciale. Dall'altra parte Antonio Sardu e Lino Iemi, amministratore delegato e presidente della Domus de Janas, continuano a rivendicare la legalità delle loro azioni e poi annunciano di aver affidato a Luigi Concas il mandato di verificare i provvedimenti di sospensione delle concessioni edilizie relative al colosso sulla ex 131.
Nota: per qualche informazione e materiali scaricabili sul progetto Corte del Sole, si veda questa pagina del sito della Policentro (f.b.)
ANTONIO MASSARI, Punta Perotti, ore contate per il mostro, il manifesto, 2 aprile 2006
BARI - Più che un’esplosione sarà una liturgia liberatoria: cinque secondi che potrebbero segnare la fine di un’era, di un sistema di potere, di decenni di politica fondata sul cemento. Cinque secondi per un nuovo inizio, in questa città che per vent’anni è stata soffocata dall’amianto della Fibronit, con la sua discarica in pieno centro; che di amianto ha trovato invasa pure la sua costa; che ha visto stuprare il teatro Petruzzelli, ancora oggi scheletrito, a quindici anni dal suo incendio. Una città che ha visto crescere, all’improvviso, un sipario di cemento a pochi metri dalla costa. Ma per Punta Perotti, simbolo nazionale dell’abusivismo selvaggio, oggi è l’inizio della fine.
Ieri è stata delimitata la «zona rossa», questa mattina all’alba inizierà una sorta di «coprifuoco », con blocco della circolazione di mezzi e pedoni. Poi si darà il via alla prima esecuzione, alle 10,30 del mattino. «E’ stata la battaglia giudiziaria più difficile della mia vita», dice il sindaco Michele Emiliano, ex pm antimafia. Una battaglia iniziata alla vigilia della sua elezione, quando dichiarò che, con lui sulla poltrona di primo cittadino, Bari avrebbe visto crollare lo scempio sulla costa. Promessa mantenuta. Oggi si comincia: 70 mila metri cubi sbriciolati dalla potenza di 150 detonatori, tre chilometri e mezzo di micce, 350 chilogrammi di tritolo, piazzati in più di mille fori, nei punti chiave dell’ecomostro più famoso d’Italia. Crollerà in diretta tv.
Non soltanto le emittenti locali, ma persino la Bbc si è accreditata per assistere all’evento, che sarà seguito da 250 giornalisti. Un evento che si spera simboleggerà un’inversione di tendenza, come dice il presidente di Legambiente Roberto Della Seta: «Dalla demolizione dell’ecomostro barese può e deve partire una nuova stagione della legalità, imperniata sulla necessità di rispettare le regole, non solo in campo edilizio e, di certo, non con la logica delle sanatorie».
In cinque anni, dal 2001 al 2005, in Italia sono stati realizzati 140 mila edifici completamente fuorilegge. Ecco perché quest’esplosione non riguarda soltanto i baresi: «E’ un giorno storico per Bari, per la Puglia, e l’Italia intera: il valore simbolico è enorme, siamo di fronte a una grande festa della legalità», dice Franco Chiarello, sociologo, membro dell’associazione «Città plurale », tra le prime a lottare contro Punta Perotti. Una festa della legalità anche secondo Alfonso Pecoraro Scanio, segretario dei Verdi, che ieri a Bari ha aggiunto: «E’ l’auspicio di ciò che porteremo nel programma del nostro governo: un cambio di legge che permetta la demolizione per direttissima di tutti gli abusi edilizi».
Il mostro, intanto, crollerà solo per un terzo: l’operazione si concluderà il 23 e 24 aprile, quando l’orizzonte a sud di Bari tornerà definitivamente libero: 300 mila metri cubi saranno svaniti nella polvere e dei tre palazzacci, di tredici piani ognuno, non resterà che una cicatrice sul terreno e un amaro ricordo. Il ricordo di una stagione che sembra al tramonto: quella del partito del mattone, della speculazione edilizia, della lobby che ha segnato per decenni i destini di questa città. E fino all’ultimo istante, in questa storia ultradecennale, la suspense è rimasta al massimo livello: l’ultimo ricorso di uno dei tre costruttori, i Matarrese, è stato presentato e discusso soltanto ieri mattina, di sabato, nella procura barese. Il passo finale per salvare l’ecomostro è stato un passo falso. L’ennesimo tentativo, questa volta, era fondato sul pignoramento, che i Matarrese avanzano sugli immobili, a garanzia di un credito pari a 6 milioni e mezzo di euro. Essendo pignorati, sostengono i costruttori, i palazzi non possono essere abbattuti. «Il reclamo proposto dalla spa Salvatore Matarrese è infondato», ha dichiarato invece, ieri mattina, il presidente della seconda sezione civile del Tribunale di Bari, Luigi Di Lalla. Ricorso respinto: oggi si procede all’abbattimento. E in questa storia fatta di ricorsi, controricorsi, sentenze e centinaia di fascicoli in carta bollata, non è mancato quasi nulla: persino la richiesta, da parte dei costruttori, di un risarcimento visionario di 930 milioni di euro. Ciò che manca, invece, è un colpevole.
Punta Perotti nacque infatti con tutte le carte in regola. Ottenne le concessioni edilizie e le autorizzazioni, sia dal comune di Bari, sia dalla Regione. E così venne su: dieci volte più grande del Fuenti, un altro mostro edilizio, altrettanto tristemente famoso, cresciuto e poi abbattuto sulla costiera amalfitana. Era l’11 maggio 1992, quando il consiglio comunale di Bari, guidato da una giunta socialista e democristiana, approvò i piani di lottizzazione. La magistratura, in seguito, così commentò la vicenda: «Il Comune adottò un disinvolto iter amministrativo. Il procedimento che portò all’improvviso rilascio dei provvedimenti autorizzatori e concessori fu scandaloso». Per quanto disinvolto, l’iter andò a buon fine e le tre imprese edilizie di Matarrese, Andidero e Quistelli, due anni dopo intrapresero la costruzione: nel 1995 venne rilasciata la concessione edilizia e Punta Perotti, nell’arco di pochi mesi, si stagliò sull’orizzonte chiudendo la prospettiva a sud della città. Due anni dopo, però, la procura di Bari, su richiesta dei pm Roberto Rossi e Ciro Angelillis, sequestrò gli immobili: secondo la magistratura erano abusivi, in quanto edificati in violazione della legge Galasso, che impedisce la costruzione a meno di 300 metri dal mare. E’ l’inizio di una saga giudiziaria e politica che ha tenuto banco per dieci anni. Il mito della Bari da bere, del lungomare stile Copacabana, delle dimore più «in» della città, iniziava a sgretolarsi, sotto i colpi della magistratura e di una fetta di cittadini e associazioni che vissero la nascita dell’ecomostro come un sopruso. Le speranze di veder crollare Punta Perotti, però, furono presto disattese: nell’ottobre 1997 la Cassazione annullò il sequestro disposto dalla procura di Bari. Di lì a due anni i costruttori e i progettisti, nel frattempo indagati, furono assolti con formula piena: «Il fatto non costituisce reato», disse il giudice per le indagini preliminari, Maria Mitola. Mancava sia il dolo, sia la colpa grave. Il tribunale ordinò però la confisca degli immobili, che passarono al Comune. I costruttori furono nuovamente assolti nel 2000, dalla corte di appello, che a sua volta ordinò la restituzione degli edifici. Da quel momento lo scontro diventa feroce: la procura barese ricorre immediatamente in Cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza di assoluzione, e la Suprema corte conferma la sentenza di primo grado: i beni tornano al comune che è costretto, da quel momento, a deciderne il destino. Siamo nel bel mezzo della gestione forzista del sindaco di Cagno Abbrescia, che resta al potere per ben 10 anni: la sua giunta firma la confisca, ma l’abbattimento slitta e i costruttori dilatano i tempi con una lunga sequela di azioni giudiziarie. «Di Cagno non sarebbe mai riuscito ad abbattere», continua Emiliano, «c’era un grande circolo di amici, questa è la verità, sarebbe stato impossibile per ciascuno di loro realizzare una mossa di questo livello. Invece ora il sindaco può fare l’arbitro: non è più tra i giocatori. E’ possibile», conclude Emiliano, «che anche l’amministrazione pubblica, quando cerca di ripristinare la legalità, debba andare incontro a battaglie che richiedono prestazioni eroiche? Mi chiedo quanti altri responsabili della cosa pubblica, e mi riferisco anche ai direttori dei lavori o ai geometri, avrebbero potuto sostenere il peso delle minacce, delle denunce, delle querele, che ha dovuto sopportare questa amministrazione ».
Intanto sul web, già da parecchi giorni, impazza la febbre da esplosione. Il sito www.perottipoint.it ha realizzato la versione virtuale dell’ecomostro mettendone in vendita gli appartamenti. Suite da 10 a 50 euro l’una: con il ricavato Legambiente acquisterà alberi destinati alla città. Tra gli acquirenti Massimo D’Alema, Fausto Bertinotti, il presidente della regione Nichi Vendola. Il progetto va oltre: i cineamatori sono chiamati a raccolta. Qualsiasi immagine dell’esplosione registrata dai videomaker sarà destinata a un unico cortometraggio, supervisionato dal regista Alessandro Piva, l’autore de La capagira: una sequenza di esplosioni ispirata a Zabriskie point di Michelangelo Antonioni.
Ora non resta che attivare i detonatori. Un’operazione imponente. La Capitaneria di porto impedirà a qualsiasi natante di avvicinarsi oltre un terzo di miglio dalla costa. Nel raggio di 200 metri dal luogo dell’implosione sarà impedito il passaggio, a chiunque, dalle 6,45 del mattino alle 19. Sarà bloccato il traffico dei treni, poiché i binari corrono a poche decine di metri dagli edifici. Tutto per un botto da cinque secondi. E per un riscatto atteso da troppi anni.
GUGLIELMO RAGOZZINO, La saracinesca salta in aria. Per esempio, il manifesto, 2 aprile 2006
Oggi, 2 aprile, verso le 11, è prevista la demolizione di uno dei tre edifici di Punta Perotti. Il calendario delle demolizioni indica il 23 e il 24 aprile come i giorni in cui avverrà il completamento dell’opera. A questo punto la «saracinesca» che sbarra il lungomare di Bari, non ci sarà più. Ma dietro appariranno tutti i problemi, di Bari e del resto d’Italia, tutto compreso: amate sponde, città turrite, colline apriche.
Bari è l’avanguardia, ma negli anni scorsi vi è stato il caso del mostro del Fuenti, la fungaia di Eboli, le case di Ostia: tutti episodi isolati; collegati, nella diceria popolare, più all’esagerazione di sindaci troppo zelanti che all’applicazione della legge.
Bari, con l’appoggio degli ambientalisti, per esempio di Legambiente, per una volta ha ottenuto un risultato. Promette di dare una sistemazione degna a quella parte di costa di cui i costruttori, i Matarrese e gli altri, cercavano di appropriarsi. Anche coloro che avevano acquistato un alloggio negli edifici della saracinesca sapevano di partecipare a un esproprio: essi toglievano alla città, a tutti i concittadini, un bene comune come la vista del mare, la costa, il paesaggio, l’aria di tutti, la spiaggia. Non erano quindi diversi tra loro: costruttori, progettisti, poteri pubblici conniventi e futuri inquilini. Tutti uguali, tutti nemici della città. A Bari in passato è stato fatto scempio della semplice e impareggiabile città murattiana, quella che prese nome da Gioacchino Murat. Quel poco che ne resta verrà conservato e valorizzato dai baresi? Nessuno più di loro ha il diritto e il dovere di farlo. Altrimenti la demolizione di Punta Perotti non sarà servita a niente, tranne che a spostare la speculazione edilizia un po’ più in là.
Legambiente ha fatto circolare in questi giorni alcune cifre inquietanti, elaborate insieme al Cresme/Si. (Cresme sta per centro ricerche economiche sociologiche e di mercato). Vi sarebbero in Italia 3 nuove costruzioni abusive all’ora, oltre 70 al giorno. In ogni ora del giorno e della notte, compreso Natale e Pasqua, compreso il giorno delle elezioni e ferragosto, si dà inizio a 3 nuove costruzioni che essendo abusive non saranno controllate da nessuno. Anzi le forze del bene chiuderanno entrambi gli occhi e si tapperanno la bocca e le orecchie per non sentire, non vedere, non dover parlare. Le moltiplicazioni si fanno in fretta. Nel 2004 e nel 2005 le costruzioni abusive nuove sono state 32 mila in entrambi gli anni. A tale cifra si è arrivati dai 22 mila nel 2001, 25 mila nel 2002, 29 mila nel 2003 in un crescendo ammirato e studiato dagli stessi esperti della Cina, detentori di tutti gli altri record mondiali. E’ facile collegare ai condoni l’aumento delle costruzioni abusive. E’ invalsa la convinzione che in ogni caso la costruzione abusiva sarebbe stata in seguito sanata e in questo modo avrebbe acquistato un’ulteriore pregio in termini di mercato, diventando più vendibile. E anche i grandi costruttori vendono il loro prodotto a «piccoli» acquirenti che si impegnano per uno o pochi alloggi. Un condono probabile o certo è gradito ai secondi e di conseguenza ai primi, i padroni delle città, per arroganti che siano.
Se dunque nel quadriennio berlusconiano -2002-2005 - le costruzioni abusive sono state 118 mila, Legambiente offre anche il dato sul quadriennio precedente che fu berlusconiano solo per la seconda parte del 2001. Nei quattro anni 1998-2001 le costruzioni abusive censite furono 96 mila. Siamo andati di male in peggio, ma il peggio che viene dopo non giustifica per nulla il male precedente, anzi ne è la necessaria conseguenza. Il nuovo governo, ogni nuovo governo, deve imparare a dire « basta». L’esplosione di Punta Perotti, il merito dei baresi può diventare un segnale per tutti.
STEFANO COSTANTINI, Sulle macerie soffia il vento della legalità, la Repubblica, ed. Bari, 3 aprile 2006
La nuvola che si è alzata dalle macerie di Punta Perotti ha portato via in pochi secondi undici anni di polemiche. Compresa quella, un po´ ipocrita diciamolo, di cui si è discusso negli ultimi giorni, ovvero se la demolizione fosse una festa oppure no. Inutile negarlo, festa è stata, come hanno dimostrato decine di migliaia di persone che per terra e per mare hanno voluto partecipare, seppure mestamente, alla condanna a morte dell´ecomostro. Sul lungomare di Bari si è sgretolato un incubo, è caduto un tabù: non esistono più interessi e persone intoccabili, le regole valgono per tutti e vanno rispettate. Questa è la vera notizia, non tanto quelle tonnellate di cemento cancellate dall´orizzonte del lungomare, che continuerà ad essere soffocato da altre brutture. Ma quegli scheletri erano diventati un simbolo, un simbolo da abbattere per ricominciare. Serviva un rito di purificazione e il tritolo l´ha compiuto. Del resto, non sempre le feste sono gioiose e ieri è stata una di quelle.
In pochi indimenticabili secondi non si è consumata una vendetta, non c´è stato un esproprio, solo il ripristino della legalità. Perché a Bari, in Puglia, da qualche tempo soffia un vento nuovo: dal Codice etico dell´università alla demolizione dell´ecomostro, dalla battaglia contro gli accessi negati al mare alla trasparenza degli appalti, c´è la consapevolezza che qualcosa è cambiato, può cambiare. Ora si tratta di vigilare sul futuro di Punta Perotti e di tutte le punte perotti possibili. E il sindaco ora ha il dovere di fare una promessa, di giurare su quei detriti: lì dovrà nascere un grande parco, sul mare. E ciò che si costruirà nella zona dovrà essere compatibile con il sogno di una città migliore. Imprenditori di tutto il mondo si affacceranno sull´orizzonte ritrovato, si scatenerà la caccia all´affare. Insomma, l´opinione pubblica, la magistratura, le associazioni ambientaliste, parte della classe dirigente di Bari che hanno combattuto finora la battaglia non depositino le armi, non ancora. La lezione di Bari al resto del Paese è proprio questa, in definitiva. Non esistono storie segnate e neppure infinite. La storia, qualche volta, siamo noi.
DAVIDE CARLUCCI, Da Mola a tutta la provincia sorgono i gruppi di sostegno alle demolizioni, La Repubblica, ed. Bari, 3 aprile 2006
A Mola di Bari il movimento civico "Mola Democratica" ha già un elenco di ecomostri: già realizzati, e quindi da abbattere, oppure da scongiurare. «C´è una vasta lottizzazione abusiva villette sotto sequestro sul litorale nord. Esito primo grado: condanna per lottizzazione abusiva e violazione della legge Galasso con confisca suoli, passaggio al Comune dei suoli e ordine di abbattimento. Per non parlare dello stabilimento ex-Iom sul litorale sud: abbandonato e in avanzato stato di degrado con probabile rilascio di amianto».
La caccia alle prossime demolizioni è già partita in tutta la Puglia. Lo confermano le decine di segnalazioni inviate per la campagna di Legambiente e Repubblica sulla "caccia agli ecomostri". Ma anche la mobilitazione di diversi comitati cittadini, ognuno dei quali individua, nelle proprie realtà, la «nostra Punta Perotti». Usano quest´espressione gli ambientalisti di Bisceglie che lottano contro un complesso immobiliare per cui l´ufficio tecnico del Comune ha disposto l´abbattimento. «Anche a Cassano Murge abbiamo un vecchio albergo abbandonato nel mezzo di una bella collina - spiega il sindaco Giovanni Gentile - lo abbatteremo a giugno per poi riqualificare l´area con interventi edilizi più soft». A Palagianello il sindaco Francesco Petrera, vuole buttare giù e riconvertire un capannone in pieno parco delle Gravine. È stato costruito grazie alla legge regionale 3 del ‘98 che permetteva di costruire in deroga a ogni vincolo paesaggistico. Fu finanziato con i fondi della Legge 488 per creare posti di lavoro, ma il proprietario non ha mai avviato alcuna attività e ora è rimasto solo lo sfregio ambientale. «Abbiamo aperto un contenzioso per entrare in possesso dell´opificio, realizzato su suolo pubblico», spiega Petrera.
FEDERICA CAVADINI intervista MASSIMILIANO FUKSAS, «E adesso abbattiamo Corviale e lo Zen di Palermo»,Corriere della Sera, 3 aprile 2006
Un ecomostro finito in polvere, finalmente cancellato dal Belpaese, non basta a restituire il sorriso a Massimiliano Fuksas in una domenica da cani, volo Alitalia per New York cancellato, dietrofront da Fiumicino, morale dell'architetto romano: «Questo è un Paese dal quale non si riesce nemmeno a partire».
La demolizione di Punta Perotti non la conforta, non è un passo nella direzione giusta?
«Ogni dieci anni ne buttiamo giù uno e ci mettiamo a posto la coscienza. Non credo ci sia molto da festeggiare. Abbiamo nove milioni di edifici abusivi, ed è una vergogna tutta italiana, in Europa questo fenomeno non esiste. Sono appena stato a Istanbul, gli abusi sono 4 milioni e mezzo in Turchia, la metà dei nostri».
Legambiente ha presentato una sua lista di edifici da eliminare. Lei cosa cancellerebbe dal panorama? Tre esempi.
«Primo: il quartiere zen di Palermo, luogo di disperazione, chiuso come una fortezza in cui regna il degrado. Ci sono stato l'ultima volta un anno fa e non sono sceso dall'auto. Bisogna trovare case e luoghi umani per gli abitanti e ridare loro un futuro. Secondo: dopo la storia infinita delle vele di Secondigliano, altro quartiere da cancellare, sopra Pozzuoli, è Monteruscello, un fortino chiuso e impenetrabile. Terzo: qui a Roma, Corviale, un blocco di cemento armato lungo un chilometro e il colmo è che ci sono "colleghi" che lo difendono».
Ma eliminare gli ecomostri non basta.
«Tanto gli abusi ormai sono tutti condonati. Il problema in Italia è quello che non si fa. Facciamo fatica a trovare fondi per realizzare nuovi musei, per esempio, penso al Maxxi. Per l'Auditorium a Roma ci sono voluti dieci anni, per il mio Palazzo dei congressi ce ne vorranno altrettanti».
Ma la «sua» Fiera di Milano è stata realizzata in tempi record.
«Ventisei mesi: sì, sono abbastanza contento. Ma temo che sia stato un caso, l'eccezione che conferma la regola. E comunque le infrastrutture che dipendevano dal governo sono ancora in ritardo».
Cosa non funziona?
«Nulla funziona. È un Paese alla deriva. Piccolo esempio: abbiamo aperto un nuovo studio nel centro di Roma, un restauro perfetto pronto da sei mesi. Ma stiamo ancora aspettando il gas».
Soluzioni?
«Incidere nella coscienza profonda del Paese. Far funzionare la scuola, dalle elementari all'università, finanziare la ricerca. Ma non abbiamo una classe politica all'altezza. Le intelligenze creative non vengono ascoltate, non parlo di architetti ma anche di sociologi, economisti».
Lei ormai vive fra Roma, Parigi e Francoforte. È una scelta non formalizzata?
«Vero, ho voglia di andarmene. Ma non amo abbandonare una battaglia. Comunque il colmo è che dall'Italia ormai è difficile anche partire. A proposito, a quest'ora avrei dovuto essere a New York».
Massimiliano Fuksas, ha ragione quando commenta che ogni dieci anni ne buttiamo giù uno e non c’è molto da festeggiare. Poi se la prende con lo Zen di Palermo e Corviale di Roma. Qui non si può essere d’accordo. Si tratta di progetti importanti, che hanno segnato un’epoca, gli anni Settanta e dintorni, quelli della casa come servizio sociale. Forse hanno sbagliato gli architetti nel fare le case popolari come monumenti. Ma sono errori generosi, figli della nostra cultura. Discutiamone, ma senza mettere mano alla dinamite. Lasciamo ai fascisti la demonizzazione dell’edilizia collettivizzata. Per memoria ricordo che a Roma le domande di condono relative agli anni dal 1994 al 2003 (sindaci Rutelli e Veltroni) sono state 85 mila. Le demolizioni poche decine. Ci sono intere città abusive. Altro che Corviale. (vezio de lucia)
L’intervento di Vezio De Lucia pubblicato su eddyburg Errori degli urbanisti? Non credo
Les banlieues secouent la République. Avec les violences urbaines d'octobre et novembre 2005, la France a redécouvert l'existence de ces "marges", de ces "périphéries", de ce qu'on a longtemps refusé d'appeler des "ghettos". Cinq mois après le déclenchement de la "crise des banlieues" - 10 000 véhicules incendiés, des centaines de bâtiments publics dégradés, des affrontements entre jeunes et forces de l'ordre - l'émotion est retombée, rendant possible une réflexion plus apaisée sur les défaillances et les réussites du modèle français. Tel était l'objectif du débat du Monde organisé lundi 20 mars au Théâtre du Rond-Point, dans le 8e arrondissement de Paris.
Cette crise n'a pas fini d'interpeller la société, mais l'impact de long terme sur l'opinion publique reste néanmoins difficile à évaluer. L'élément le plus important pourrait être le sentiment de "peur intense" des Français, relève Brice Teinturier, directeur du département politique et opinion de TNS-Sofres. Et donc la tentation du repli : "Nous vivons aujourd'hui dans une société où, incontestablement, le sens du collectif a tendance à se déliter, à régresser. Un slogan comme celui de la "France pour tous" (lancé par Jacques Chirac lors de sa campagne pour la présidentielle de 1995) ferait de moins en moins florès. Aujourd'hui, ce serait plutôt la "France de chacun", avec des groupes sociaux qui se vivent de plus en plus séparés", explique ce spécialiste de l'opinion publique.
La société française, plus individualiste que l'américaine, où le patriotisme sert de ciment, se fragmente. L'école ne parvient pas à réduire les inégalités. Les discriminations dans l'accès au logement ou à l'emploi sont considérables. Comment s'étonner alors que les jeunes des banlieues, situés à la marge de la marge, se révoltent ? Et usent de la violence physique contre la violence sociale subie au quotidien ? "C'était une jacquerie, une révolte sociale, estime Claude Dilain, maire (PS) de Clichy-sous-Bois, à propos des émeutes de novembre. Au moins, là, la société française est interpellée et va cesser les tartufferies sur les banlieues."
Une société profondément inégalitaire est instable, sous tension. L'ancien patron de Renault, aujourd'hui président de la Haute Autorité de lutte contre les discriminations et pour l'égalité (Halde), Louis Schweitzer, rejoint l'élu de terrain sur ce constat. "Tant qu'il y a de l'injustice, il y aura du désordre. Ce n'est pas la seule raison de combattre l'injustice, mais l'ordre passe par la justice. Si ceux qui ont fait l'effort d'avancer voient des portes fermées, je ne vois pas comment il n'y aura pas de révoltes", explique-t-il.
Jacques Attali ne craint pas de dire les choses plus crûment encore. "Il faut employer les mots qui conviennent : aujourd'hui, les problèmes portent sur les Noirs et les musulmans, point. Je ne pense pas qu'il soit plus difficile d'être quoi que ce soit d'autre que noir ou musulman." L'ancien conseiller spécial de François Mitterrand affirme que la très faible représentation des Noirs et des musulmans parmi les députés, les ministres, les préfets, les directeurs d'administration centrale paraîtra "effroyable" dans quelques années. Comme l'absence de droit de vote pour les femmes jusqu'en 1945.
A contre-courant du pessimisme ambiant, le sociologue Dominique Wolton veut voir une preuve de vitalité dans la crise de l'automne. "Il existe une colère, une révolte, une indignation. C'est important que les gens sachent dire "non"", martèle-t-il. Et dans la "demande d'égalité" de la jeunesse française à travers les violences urbaines et le refus du contrat première embauche (CPE), il voit un encouragement. "On aurait pu avoir une partie de la jeunesse qui joue la rupture avec la société. Cela n'a pas été le cas : ils demandent à être respectés et veulent un minimum de justice", estime M. Wolton.
Mais une fois toutes ces carences soulignées, que faire ? Paradoxalement, commencer par mettre en valeur les réussites de la banlieue afin de ne pas l'enfermer dans un statut de victime. "Les habitants des quartiers un peu oubliés nous disaient : "Nous ne comprenons pas pourquoi on ne parle que des échecs"", souligne la philosophe Blandine Kriegel, présidente du Haut Conseil à l'intégration (HCI), créé en 1989 et chargé de donner des avis au gouvernement.
Hinde Magada tient un discours similaire. Seule porte-parole directe des "jeunes de banlieue", ayant reçu le prix Talents des cités, décerné par le Sénat, elle démontre, par son itinéraire de "fille d'immigrée", "d'origine marocaine", "musulmane", qu'il est possible de réussir. Titulaire d'un BTS de commerce international, elle a dû faire des ménages, travailler en usine et dans un centre d'appel avant de devenir secrétaire médicale. Elle a alors choisi de créer sa propre entreprise, qui emploie aujourd'hui cinq salariés. "Avec une amie, on a mis nos motivations en commun. Et la motivation, c'est le principal", explique Mme Magada, âgée de 29 ans.
M. Attali souligne que la diversité est une ressource pour le pays. "Il y a toujours plus de difficultés d'intégration quand il n'y a pas de croissance, quand il y a une société qui se rabougrit, qui vieillit, qui regarde sur elle-même. A ce moment-là, les places sont rares et donc chacun se défend en s'enfermant, en interdisant aux autres de venir", concède-t-il. Mais il plaide pour une attitude complètement opposée : considérer les minorités comme une richesse essentielle dans un contexte de mondialisation. "Alors, tout devient possible", assure l'économiste, formant le voeu d'un Bill Gates à la française venu de banlieue. "La France mourra, disparaîtra comme nation si on ne sait pas exploiter ce formidable potentiel", ajoute M. Attali.
Une attitude "positive", un discours de valorisation des banlieues ne suffiront évidemment pas. Il faut aussi des moyens, une politique de soutien économique, social, éducatif. Mais deux logiques s'opposent. Celle d'une rupture avec l'approche républicaine traditionnelle. Patrick Lozès, président du Conseil représentatif des associations noires (CRAN), dénonce ainsi la tendance à euphémiser la réalité et à s'abriter derrière les "paravents de la République". M. Attali évoque, lui, des "mesures radicales", notamment l'instauration d'une "discrimination positive provisoire", mesure qui marquerait un "échec" mais qu'il juge aujourd'hui indispensable.
De l'autre côté, Bariza Khiari, sénatrice (PS) de Paris, et Mme Kriegel défendent les "outils de l'égalité républicaine". La philosophe défend les vertus de l'action engagée par Jacques Chirac, auprès duquel elle est chargée de mission, avec l'installation de la Halde, la création d'un musée de l'immigration, les expérimentations autour du CV anonyme.". "En France, le problème n'est pas la loi, mais la façon dont elle est appliquée", résume-t-elle.
Le travail reste immense. "J'ai entendu beaucoup de choses sur l'intégration, sur le sacro-saint débat sur la discrimination positive, mais cela m'apparaît en décalage total avec ce que vivent les habitants des quartiers", conclut, dépité, M. Dilain. L'élu cite un jeune de sa commune : "On veut être des enfants de la République à part entière et pas entièrement à part." Et rappelle que, bien plus que des moyens financiers, les jeunes veulent du respect : "Ils ont soif de reconnaissance." Chenva Tieu, administrateur du Club du XXIe siècle, promoteur de la diversité sociale et ethnique, est plus sévère encore : "Les débats, c'est bien, mais, en attendant, rien ne bouge."
Negli ultimi anni l’accentuazione e l’attenzione posta al ruolo sociale, di relazione che viene sempre più attribuito alle strutture commerciali è oramai un dato di fatto.
Dopo la sbornia di “macchine per vendere” fatta negli anni 80’, vi è stato un graduale e progressivo spostamento verso una visione più umanizzante dell’attività del vendere e del modo in cui è considerato il punto vendita tout court che, ci si è accorti, mette i consumatori in relazione tra loro, facendoli sentire, appunto, persone. Ciò in realtà non viene ricercato, è una “conditio sine qua non”, lo si vuole piuttosto conosciuto e controllato, gestibile e condotto per mano, da fili invisibili, in cui marketing emozionale, marketing relazionale, antropologia del consumo sono solo alcuni tra gli strumenti che insieme ad altri scrutano dentro di noi e fuori di noi per vedere cosa facciamo, cosa pensiamo, cosa desideriamo ma soprattutto come, cosa, quando e quanto consumiamo.
Mettere a proprio agio il consumatore riuscendo a dare familiarità allo spazio di vendita ha permesso di sviluppare approcci in cui l’effetto mercato, il negozio nel negozio, la confusione programmata e pianificata, l’individuazione di spazi che ricordano i “vuoti” delle città, sono tutti tentativi , anche ben riusciti in molti casi, in cui si è cercato di dare risposte al bisogno emergente di semplicità., di genuinità. Ripresi questi argomenti dalla pubblicità più attenta ne assaporiamo la visione costellata di un’aurea ecologica armonicamente inserita in un mondo felice e rilassato.
Architettonicamente si sono sviluppati concept idonei e in particolare nel mondo dei centri commerciali o delle tipologie a loro assimilabili si è sempre più tentato di imitare l’atmosfera, il clima del paese, del borgo, in cui tutti si è amici e in cui si vive felici . Lo spazio commerciale diventa un falso luogo pubblico che permette solo comportamenti codificati e predeterminati. Bisogna acquistare, ci si può sedere in panchine strategicamente posizionate e non per troppo tempo, si può girovagare a vuoto, meno lo si fa meglio è, un centro commerciale con mall, oppure open air o life style o new town center o altro potrà essere visitato difficilmente potrà essere vissuto.
I tentativi sono molteplici e diffusi oramai in tutto il mondo occidentalizzato, è il trionfo, sembra, di un modello di sviluppo, di uno stile di vita, di una socialità che si ritrova alla fine solo in ciò che è predefinito predeterminato preconfezionato e previsto. Si assiste in questo ultimo periodo al tentativo di dare “risposte” ai problemi del centro storico, sembra un’operazione tautologica, si pongono al centro storico domande, o gli si attribuiscono problemi, ai quali si riesce a dare risposte preconfezionate con un unico intento: rendere il centro storico simile al centro commerciale, carpendone però il fascino che solo la sua storia può esprimere. Un artifizio, una piroetta per avvalorare la superiorità di un mercato che sembra oramai in grado di sussumere tutto, fagocitare tutto e apparentemente, non sembra a corto di idee e di novità.
Commercio e cultura, dopo il sopraffare del primo rispetto il secondo, devono, pena il reciproco decadimento, ricomporsi ad un livello in cui uno favorisce lo sviluppo dell’altro.
Il soddisfacimento dei bisogni è un’attività sociale e come tale può essere strumento per favorire il progressivo distacco da quella mostruosa macchina che è il consumismo tout court.
Non è che per caso che il commercio abbia perso la sua vocazione, e assieme ad essa anche la propria anima? Ritrovare il filo conduttore della sua funzione e della sua storia non per nostalgiche e romantiche reminescenze che non porterebbero a nulla ma la capacità di coniugare la funzione propria dello scambio con le esigenze del mondo di oggi sono più individuabili tra i cercatori di sogni e gli inguaribili utopisti.
Il commercio può e deve rappresentare il nuovo che avanza, il desiderio di cambiamento, l’aspirazione a un nuovo ordine del mondo, quello che faticosamente si esprime nelle molteplici forme del desiderio di affrancamento e di giustizia sociale, questo il commercio deve esprimere, perderà sicuramente in profitto a favore di pochi ma guadagnerà nel segno dell’equità a favore di tutti .
In effetti rappresenta una attività ineliminabile tra quelle umane perché è l’essenza stessa del rapporto sociale mi sia concessa da non marxista una piccola citazione in “lingua” quando si nota che il rapporto di produzione connatura di se il rapporto sociale che diventa rapporto sociale di produzione che, a sua volta riproduce rapporti sociali di produzione, è tutto qui. Rompere questa catena è l’aspirazione di ogni uomo che aneli al progresso individuale e sociale. Può il commercio e, in modo particolare le forme aggregative che lo hanno sempre accompagnato, nelle diverse forme e culture, essere strumento attivo di questo possibile cambiamento? Fortunatamente non pianificato ma semplicemente desiderato.
Penso di si, se è vero che sono stati abili a trasformare i bisogni primari una volta soddisfatti in desideri, camuffandoli a noi stessi in bisogni spesso inutili e deleteri; dobbiamo tutti imparare a desiderare il necessario .
Nuove forme aggregative del commercio devono al proprio interno comprendere quei prodotti che oltre ad essere commercializzabili, quindi utili, siano soprattutto realizzati in modo da non risultare soggiogati dal principio nefasto del profitto. E’ molto difficile perché, occorre sottolineare, il lavoro deve produrre ricchezza, per definizione, ma quando questa è sociale è molto meglio e sopratutto quando il momento transativo relaziona tra loro soggetti che hanno valori di riferimento più alti e più ampi, socialmente condivisi, si realizza un piccolo passo verso la emancipazione sociale, non necessariamente violenta, ma determinata si.
Salteranno i ponti del Laurentino 38. Verranno giù tre degli undici cavalcavia che a Roma sono un emblema della periferia demoniaca, affetta, si ritiene, da mali endemici, uno scenario tenebroso nel quale quei ponti imprimerebbero il marchio di un’architettura cui si attribuisce forza criminogena, segnati da un destino senza possibilità di redenzione. La decisione, caldeggiata dall’amministrazione comunale di Walter Veltroni, appoggiata dalla Regione e sostenuta dall’Ater (l’ex Istituto autonomo case popolari), è entrata nella fase d’attuazione. È stata bandita una gara e chi demolirà potrà, in cambio, costruire edifici per 50 mila metri cubi lungo la strada una volta sovrastata dai ponti. Prima però, assicurano al Comune, si troverà una casa per le famiglie (chi dice ottanta, chi centoquaranta) che hanno occupato abusivamente i ponti, adattando ad abitazioni i locali che era previsto dovessero ospitare negozi, uffici, servizi per il quartiere.
La distruzione dei ponti del Laurentino 38 è uno dei tanti interventi programmati per riqualificare, si assicura, le periferie italiane. Per disinnescare le tensioni che potrebbero ripetere la rivolta delle banlieues parigine. È un progetto che coinvolge molte amministrazioni comunali e che risponde all’esigenza, spesso segnalata da urbanisti e architetti, di non espandere le città, immaginando che queste possano ricostruire se stesse e in particolare le parti peggio riuscite. «Le periferie rappresentano oggi la città», spiega Edoardo Salzano, a lungo professore di Urbanistica e preside della facoltà di Pianificazione a Venezia, «è qui che si gioca la scommessa sul futuro della civiltà urbana». L’obiettivo che più spesso ci si propone è quello di portare la città in questi luoghi nati come corpi separati. Due le indicazioni di un architetto come Vittorio Gregotti: «I grandi quartieri di edilizia popolare si possono risanare spostando lì attività pubbliche di pregio e creando le condizioni perché possano andarci ad abitare anche giovani coppie e ceto medio».
I propositi si rincorrono. E l’Italia tenta di infilarsi in un dibattito che all’estero è già avviato da tempo, come segnala Giovanni Caudo, giovane docente di Urbanistica alla terza Università di Roma: «Il ministro inglese Gordon Brown ha elaborato un rapporto nel quale si dimostra che le periferie possono rappresentare un fattore di grande crescita economica, valutato in una misura che è cinque volte superiore a quello del centro città».
La storia del Laurentino 38, la cui costruzione iniziò trent’anni fa, nel 1976, e terminò nel 1984, è comune a quella di molti insediamenti pubblici realizzati in Italia. È la storia dell’impegnativo proposito dello Stato, pieno di illusioni e anche di tantissimi sbagli, di costruire case per chi ne aveva bisogno proprio mentre dilagava l’abusivismo (nel 1981 a Roma 800 mila persone vivevano in case costruite illegalmente) e andava esaurendosi il boom edilizio. L’espansione delle città si era incagliata nella speculazione, negli interessi della proprietà fondiaria, ed aveva già prodotto periferie in molti casi disumane, come disumani erano gli insediamenti abusivi. I nuovi quartieri erano comunque inavvicinabili per milioni di persone, perché il capitale impiegato - capitale privato su suolo privato - esigeva una remunerazione che operai, ex contadini inurbati, ma anche piccolo ceto medio non potevano assicurare. L’edilizia pubblica rispose, talvolta bene, talvolta male, al bisogno di questi ceti. Ma la sua storia si è ormai chiusa: di case popolari in Italia non se ne costruiscono quasi più, nonostante da noi ce ne siano molto meno che in tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale e nonostante il bisogno sia di nuovo altissimo e per nulla soddisfatto dalle tante case che costruiscono i privati.
A Roma sono stati appena approvati i Pru (programmi di riqualificazione urbana), l’ultimo dei quali riguarda proprio il Laurentino 38. Si tratta di piani varati per le zone di residenza pubblica, undici in tutta la capitale (da Prima Porta a Tor Bella Monaca, da Fidene Val Melaina a San Basilio, da Primavalle a Corviale) e riguardanti un’estensione di 6 mila ettari, dove vivono 450 mila persone. Gli investimenti sono cospicui, 1.800 milioni di euro, di cui 1.620 privati e 183 provenienti dai bilanci di Comune e Regione. La filosofia la spiega Daniel Modigliani, architetto, dirigente del Campidoglio (dove ora guida l’ufficio del Piano regolatore) e che è stato la mente dei Pru: «Abbiamo realizzato piani che prevedevano servizi, infrastrutture, verde, parcheggi, insomma tutto ciò che avrebbe completato quei quartieri, ridotto il loro isolamento dalla città. La legge prevede che gran parte di queste opere possa essere finanziata con capitali privati. E così abbiamo chiesto a chiunque avesse capacità imprenditoriali di presentare progetti di nuova edificazione e con gli oneri che normalmente si pagano quando si ottiene la concessione a costruire, ma ulteriormente maggiorati, potremo realizzare asili e scuole».
Il coinvolgimento dei privati è un punto essenziale. Ma vengono avanzate molte obiezioni. Gli interventi al Laurentino, per esempio, sarebbero stati finanziati in parte con gli oneri ricavati dalla costruzione di 72 mila metri cubi nel Fosso della Cecchignola, un’area verde di grande pregio per la sua fauna e la sua vegetazione che unisce il parco dell’Appia Antica con la riserva di Laurentino Acqua Acetosa e che viene segnalato anche per i ritrovamenti storico-archeologici. L’area era inedificabile, ma il Pru ne aveva cambiato destinazione. Gli abitanti si sono riuniti in un comitato, hanno presentato osservazioni e hanno ottenuto dall’assessore all’Ambiente della Regione, Angelo Bonelli, che il Fosso della Cecchignola venisse compreso nel parco dell’Appia Antica, scongiurando la cementificazione. (Ma ora un altro pericolo incombe su di loro: una grande strada che squarcia il verde della Cecchignola). Altre proteste sono scoppiate al capo opposto della città, a Serpentara, dove da alcuni anni gli abitanti avevano attrezzato a parco un triangolo di verde infilato fra i palazzi di un altro grande insediamento popolare. Hanno piantato filari di betulle e montato giochi per bambini. Ma proprio davanti al parco sarebbe dovuto sorgere un quartiere di 130 mila metri cubi. Gli abitanti si sono opposti con veemenza, hanno raccolto migliaia di firme denunciando il paradosso di una periferia che si vuole risanare aggiungendo palazzi i quali avrebbero aggravato i carichi urbanistici già esistenti. La battaglia ha prodotto un risultato: quei 130 mila metri cubi non sorgeranno più lì (ma forse altrove).
I Pru, assicura Modigliani, verranno realizzati nel giro di alcuni anni. Ma sull’abbattimento dei ponti del Laurentino le posizioni sono diverse. Molto favorevole è l’amministrazione comunale. Contrario è invece Modigliani, il quale sostiene che i ponti si sarebbero potuti recuperare, installandovi uffici e negozi così come previsto nel progetto dell’architetto che disegnò l’intero insediamento, Piero Barucci. Non ha senso, aggiunge qualcun altro, costruire a terra edifici privati per servizi che possono essere ospitati sui ponti che invece sono pubblici.
Il Laurentino 38 conta quasi trentamila abitanti. È il maggior quartiere popolare di Roma, uno dei più difficili, temerario nella sua concezione fissata su gruppi di sei torri (alte da 14 a 8 piani) tenute insieme da grandi spazi comuni e, appunto, dai ponti. Questi erano il nucleo di una microcittà autosufficiente, il simbolo di una comunità che si sarebbe autoregolata. E che invece era polverizzata - disoccupati, ex baraccati, ma anche piccoli impiegati. I servizi promessi non arrivarono mai, i locali sui ponti vennero occupati e iniziò lì il declino del quartiere. La manutenzione è sempre stata scarsa, molte famiglie non hanno mai pagato l’affitto. Nel luglio del 2003 centinaia di persone si riversarono per le strade, bruciando cassonetti e macchine. Ma negli anni sono anche sorte associazioni culturali, comitati di cittadini, scuole popolari e polisportive.
Per molti suoi critici il Laurentino 38 è affetto da insopportabile gigantismo. La vita del quartiere si sarebbe dovuta svolgere in quegli spazi comuni che sovrastavano la strada: ma quando questi divennero inservibili, anche la strada apparve come un luogo ostile, chiusa da edifici incombenti, che comunicavano senso di smarrimento. Alcuni ponti, però, sono stati risanati (uno ospita la sede del Municipio), altri lo saranno e dovrebbero accogliere biblioteche, ludoteche. Verranno poi realizzate nuove strade, piste ciclabili e una piazza (per una spesa totale di 50 milioni). Ma gli ultimi ponti saranno demoliti, come in un rito purificatore.
Il dibattito ferve tra gli urbanisti. Il destino dei ponti è come uno spartiacque. Una via alternativa per le periferie è indicata da Giovanni Caudo, che ha condotto con i suoi allievi uno studio. «In poco più di trent’anni», spiega Caudo, «il Comune di Roma ha acquisito circa 7 mila ettari dove sono sorti i quartieri di edilizia popolare. Quasi metà di questo patrimonio doveva ospitare le attrezzature pubbliche e le strade. Ma poco è stato fatto ed estesissime sono invece le aree inutilizzate». Sono quei piazzali vuoti e disadorni, un altro dei simboli delle periferie italiane che ne raffigurano la sofferenza tanto quanto la vertiginosa altezza di certe torri. È uno spreco ingiustificato, che invece può trasformarsi in una risorsa preziosa, completamente gratuita. «A Serpentara, Val Melaina e Tor Sapienza abbiamo individuato circa tredici ettari immediatamente disponibili, già di proprietà del Comune: ci si possono costruire da seicento a novecento alloggi da affittare a basso costo per il ceto medio, i giovani, le famiglie di una persona. Di queste case a Roma c’è disperato bisogno. Ma si potrebbero anche realizzare asili nido, ambulatori, biblioteche. Stiamo ampliando la ricerca agli altri quartieri e una stima prudente indica in almeno 200 ettari la disponibilità di aree inutilizzate. Metà può essere adoperata per i servizi, nell’altra metà possono sorgere 5 mila alloggi».
Caudo auspica una stagione di politiche pubbliche innovative per le periferie italiane. Con un occhio rivolto, di nuovo, alle esperienze internazionali come quelle avviate dagli studi sulle periferie della London School of Economics. O tenendo presente il caso di Ballymun, quartiere a nord di Dublino, quasi diciassettemila abitanti in trecento ettari. Ballymun, che rimanda alla Barrytown dei romanzi di Roddy Doyle (e al più rappresentativo di essi, The Commitments), è stato per decenni il simbolo della periferia abbandonata, popolata di tossici e di delinquenti. Nel 1995 è stato avviato un piano di rigenerazione, non solo edilizia, ma anche sociale, che durerà fino al 2012. Il governo centrale e l’amministrazione comunale hanno inizialmente investito 260 milioni di sterline per demolire e ricostruire edifici, per alloggi sociali e per realizzare aree verdi, migliorare i collegamenti con la città, sviluppare attività economiche. Tutto con investimenti pubblici, che hanno già attirato capitali privati (su aree che restano di proprietà comunale) e fatto crescere gli indici di benessere. L’immagine di Ballymun sta cambiando, spiega Caudo, e la spia più evidente è che anche le classi sociali medie cercano casa in quel quartiere. Dove a fine del 2006 si calcola che le case costeranno quanto nel centro di Dublino.
Sulla sciocchezza della demolizione dei “ponti” del Laurentino, destinati alla realizzazione di negozi e uffici pubblici e privati integrati con la residenza e i percorsi, e della realizzazione in loro vece di nuovi volumi da destinare alle stesse cose, vedi anche l’articolo di P. Berdini, Sotto i ponti del Laurentino.
Titolo originale: New York Asks Help From Poor in Housing Crisis – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
La New York City Housing Authority, proprietaria di casa per oltre 400.000 cittadini poveri, è di fronte a un buco di bilancio di 168 milioni di dollari, e ha proposto di ridurre il disavanzo facendo pagare ai residenti nuove tariffe, e aumentandone delle vecchie per varie cose, dall’uso di una lavastoviglie al farsi sturare un gabinetto.
L’ente afferma che il suo deficit di gestione nasce dagli enormi aumenti dei costi dell’energia e delle pensioni, mentre i finanziamenti federali per le abitazioni pubbliche sono stati tagliati. Dal 2001, sostiene l’agenzia, sono stati spesi 357 milioni prelevati dalle riserve per compensare successivi disavanzi di bilancio; quest’anno, per la prima volta, non ci sono più riserve a sufficienza per coprire il buco.
Così è stato proposto di far pagare agli inquilini 5,75 dollari al mese per l’uso di una lavatrice, 5 per una lavastoviglie, 10 per un congelatore autonomo. Le tariffe per il parcheggio aumenteranno da 5 a 75 dollari l’anno a partire dal 1 aprile.
L’ente prevede di aumentare le tariffe esistenti per decine di servizi, come la riparazione dei danni agli appartamenti diversi dalla normale usura, di far pagare – per la prima volta – cose come recuperare le chiavi perse nella tromba dell’ascensore fuori dagli orari di ufficio. Le modifiche tariffarie saranno probabilmente efficaci, a parte quelle per i parcheggi, dopo il 1 maggio.
Il consiglio della Housing Authority ha chiesto al personale responsabile di predisporre un piano di ripianamento del bilancio conservando al tempo stesso alcuni servizi essenziali, riducendo al minimo l’impatto sulle categorie di residenti più vulnerabili e individuando quelle che vengono chiamate “modalità creative di articolare l’erogazione di servizi”. L’ente ha anche chiesto aiuto ai competenti uffici federali e cittadini.
”I nodi stanno venendo al pettine” ha commentato il deputato Jerrold L. Nadler di Manhattan, aggiungendo che il governo federale si sta prendendo meno responsabilità per le abitazioni pubbliche. “La Housing Authority ha, in un modo inventivo o nell’altro, tenuto tutto insieme con lo spago. Questo potrebbe essere devastante”.
I continui tagli delle spese probabilmente avranno un profondo effetto in tutto il paese, con le 1,2 unità di alloggio a livello nazionale a rischio di deterioramento, temono gli esperti del settore.
La New York Housing Authority, la più grande del paese, gestisce 345 complessi in tutta la città, con 2.700 edifici e 181.000 appartamenti. Metà del suo bilancio di gestione proviene da sussidi federali; la maggior parte del resto dagli affitti degli inquilini, il cui reddito familiare medio è inferiore ai 19.000 dollari l’anno.
Arlyne Allen, che vive nelle Amsterdam Houses sul West Side di Manhattan col marito e tre figli adolescenti, e si occupa professionalmente di day care, commenta le nuove tariffe: “Mi toccheranno parecchio. Non ci si può permettere neppure quelle di adesso”. Se potesse, dice, si trasferirebbe in Pennsylvania a cercare una casa che si può permettere sul mercato privato.
Secondo l’agenzia, le spese sono salite alle stelle. I contributi pensionistici per i dipendenti si sono incrementati dello 866%, sino a 62,6 milioni di dollari, fra il 2001 e il 2005, in parte a causa di fluttuazioni di mercato e nuove leggi statali, lo stesso problema di moltissime agenzie pubbliche. In più, i costi dei servizi sono aumentati del 45%, quelli sanitari del 42% e gli stipendi dei lavoratori del 39%.
Nel frattempo, affermano i funzionari dell’ente, i sussidi di gestione federali per le abitazioni pubbliche sono rimasti invariati, e il bilancio federale della authority si è ridotto di 14 milioni. L’agenzia è responsabile anche di 21.000 appartamenti prima finanziati dal comune e dallo stato, che ora non ricevono più alcun sussidio.
Di conseguenza, l’ente si è trovato di fronte buchi di bilancio ogni anno dal 2001. Il disavanzo totale per il 2006 è di 182 milioni di dollari, che si sostiene siano scesi a 168 grazie a provvedimento come una proposta riduzione del personale, accorpamento di funzioni ed eliminazione di alcune posizioni scoperte.
Secondo le norme federali, l’ authority deve mantenere un minimo equivalente al valore delle spese di gestione di due mesi, o circa 270 milioni, per far fronte a cambiamenti o ritardi. Negli anni recenti, questa riserva è scesa sino a 320 milioni, dagli oltre 800, sostengono i funzionari.
”È grosso, davvero grosso” dice Howard Marder, portavoce dell’ente, del disavanzo che non è più possibile coprire. “Non è mai stato così”.
Le tariffe per gli inquilini si prevede genereranno circa entrate per 1,5 milioni. L’agenzia sostiene che la maggior parte delle “ utility surcharges” sulle apparecchiature sono applicate senza aumenti da oltre dieci anni.
Gli inquilini dicono che ne sono state sempre imposte pochissime. “Solo in casi estremi quando una porta era bucata da proiettili o qualcuno prendeva a calci il portoncino di ingresso, e non si poteva parlare di usura” dice Gerri Lamb, presidente cittadina del Resident Council of Presidents, gruppo di inquilini. “E certo non con cifre così alte. Ho abitato nelle case pubbliche per oltre 35 anni e non cè mai stato un elenco di tariffe distribuito agli abitanti”.
Saul Ramirez, direttore esecutivo della National Association of Housing and Redevelopment Officials, individua il disavanzo di bilancio nel “costante disinvestimento” nelle abitazioni pubbliche da parte del governo federale. “O ovvio – dice – che ci sia stato un declino, sino ad un punto critico, nella gestione”.
ROMA. La prima immagine è quella di uno scontro: da un lato la modernità, l'ìnteresse europeo, il benessere dei viaggiatori, il traffico di merci che passa da fumosi tir a treni poco inquinanti; dall'altro un esercito di valligiani che protestano perché non vogliono opere «nel loro cortile», eccitati da capopopolo di estrazione no global. La seconda immagine è una scelta illustrata più o meno così: ìnsomma, volete i treni veloci oppure no?
Pochi- poco ascoltati, poco intervistati - hanno cercato di opporsi a questo modo di affrontare la questione Tav in Val di Susa e, in generale, la questione come si è sviluppata nel nostro paese. Facendo dei conti, verificando le prospettive del traffico (di passeggeri e di merci), svelando la bugia che sta alla base di tutto l'affare Tav. Uno di questi è di sicuro Ivan Cicconi, ingegnere bolognese, direttore di Quasco, una società mista pubblico-privata che si occupa, tra l'altro, di appalti e trasparenza. Dice Cicconi: «Il sistema Tav, solo per le nuove tratte, costerà oltre 50 miiardi di euro. La sua sostenibilità finanzíaria può essere garantita solo da uno Stato impazzito che voglia imporre, dal 2010 in avanti, manovre finanziarie di qualche miliardo di curo l'anno, ogni anno, per almeno trent'anni». Ma di questo, si è parlato? Magari per confutarlo? Secondo il ministro Lunardi la Tav in Val di Susa «è ormai solo una questione di ordne pubblico». Secondo molti altri, invece, è soprattutto una questione di soldi.
Tutto il sistema Tav italiano è basato su un equivoco. Nasce, infatti, sostenendo che le nuove linee ferroviarie saranno il frutto di investimenti pubblici (al 40 per cento) e privati (al 60 per cento). Facendo ancora un passo indietro, nasce con una decisione curiosa. Come ricorda Claudio Cancelli, docente del Politecnico di Torino, in un libro a più voci che uscirà a giorni ( Travolti dall'Alta Voracità, Odradek edizioni, Roma), «in Italia ci si era orientati su treni veloci ad assetto variabile, i pendolini». Con questi treni, tra l'altro frutto dalla creatività italiana, si potevano raggiungere i 200 chilometri all'ora riducendo del 30 per cento i tempi di percorrenza. Senza dover costruire nuove linee. Semplicemente, potenziando quelle esistenti. «Che, per guadagnare qualche altra decina di minuti, ci si lanciasse in un investimento di 50 miliardi di euro, sembrava incredibile» ricorda il professore. Invece è accaduto. «Un mistero: persone che hanno apparentemente programmato un disastro economico, sapendo di farlo». Qual è il trucco? Che le perdite venivano addossate alla comunità e i guadagni sarebbero andati a chi gestiva l'affare.
Infatti di quel 60 per cento di investimento privato non c'è ombra. «Privato» si considera l'apporto di una Spa, formalmente privata, le Ferrovie, che tuttavia ha un unico azionista, il Tesoro. Con un'aggravante: lo Stato si addossa gli interessi sui prestiti fatti alla società e li paga alle banche di anno in anno. E questa è la sola voce nel bilancio pubblico, il resto avviene «fuori», in un'area che è privata solo apparentemente.
L'ideatore del meccanismo è il ministro Cirino Pomicino, nel 1991. Ma i governi Berlusconi ufficializzeranno il metodo, legalizzandolo e rendendolo infallibile. Un metodo che si sintetizza così: le Ferrovie, attraverso la Tav Spa, danno incarico di costruire le linee a un general contractor, che poi appalterà i lavori a terzi. Il general contractor, tuttavia, non ha alcuna responsabilità nella gestione finanziaria, detto altrimenti: non mette soldì, non gestirà l'opera, non rischia sul rapporto costi-guadagni. E, dunque, ha tutto l'interesse - come osserva Ivan Cicconi - a far lievitare tempi e prezzi. Cosa che puntualmente accade: dal 1991 al 2005, le tratte Tav vedono crescere i tempi di anni e i costi - in media - del 316 per cento, come calcolato da Quasco sui dati forniti dagli stessi interessati e ritenuti ottimistici. Significa un aumento di oltre tre volte il previsto, contro una media europea di crescita pari al 30 per cento. Basta fare un raffronto: in Francia l'alta velocità costa 15 milioni a chilometro, in Spagna ancora meno. Da noi ? Trentotto a chilometro.
I privati sono una bugia. Lo scopre, con sconcerto, il ministro Claudio Burlando (con il governo Prodl), appena insediato, nel 1996: «Si è detto che c'erano privati disponibili a fare investimenti» dichiara «ma quando siamo andati a vedere abbiamo constatato che era una cosa falsa... È bene che si sappia che la quota pubblica è finita, e il 60 per cento dei privati non si è mai visto». Solo quattro anni dopo, il ministro Pier Luigi Bersani azzera i contratti, elimina il general contractor e toma alle gare per i lavori ancora non avviati, tre linee su sette. Ma dura poco. Il nuovo ministro, Pietro Lunardi, rimetterà tutto a posto, tutto come prima. A partire dal '93 lo Stato paga gli interessi bancari (interessi intercalari), che nel 2009-2010 arriveranno a otto miliardi di euro (Quasco). Ma quando il servizio sarà attivato, quando sarà per esempio completata la linea in costruzione, le banche chiederanno la restituzione del prestito, del capitale. A chi? Alla Tav Spa, cioè alle Ferrovie garantite dal Tesoro. In pratica, a noi.
Il meccanismo è criticato dall'Antitrust (nel '94 e nel '96). Dalla Corte dei Conti (nel 2004). Da tutti coloro che guardano ai numeri e non alle promesse di un brillante, e velocissimo, avvenire. Ma con la Torino-Lione si va anche oltre. Non si dà risalto, per esempio, al fatto che, per superare le perplessità francesi, Berlusconi e Lunardi si sono impegnati a sostenere ì due terzi della spesa per il tratto comune, quello internazionale, nonostante sia la parte francese a essere più lunga. «Si occultano così» rileva Cicconi, «spese aggiuntive per oltre 2 miliardi di euro». L'importante è fare l'opera. Ma c'è una complicazione.
L'alta velocità Torino-Lione sarebbe «mista», ma dedicata soprattutto alle merci. L'alta velocità francese, invece, esclude le merci, è solo per i passeggeri. Anche chi è favorevole, in linea di principio, comincia a porsi la questione. E non sono no global. Il sociologo Luciano Gallino, per esempio, chiede «quali siano le analisi economiche, quali gli strumenti legislativi, per assicurare che, una volta compiuta la grande opera, il traffico merci si sposti realmente, dalla strada alla rotaia». Ancora su Travolti dall'Alta Voracità, un altro studioso, il fisico torinese Angelo Tartaglia, fa due conti: sui Tgv francesi «i passeggeri sono quarantamila al giorno, con un esercizio grossomodo in equilibrio». Nel tratto più frequentato (in previsione) della Tav italiana, la Bologna-Firenze, se ne prevedono ventimila. La linea della Val di Susa ne raggiungerebbe cinquemila, considerando i treni sempre pieni e «favoleggiando un forsennato pendolarismo». Ma lì, si dice, viaggeranno soprattutto merci. Il che, però, presenta un altro problema: con quelle non si può viaggiare a velocità davvero alta, per via del peso. E, soprattutto, «non c'è alcuna domanda potenziale per trasportare merci a quella velocità», chiarisce Tartaglia.
I conti non tornano, come si vede. Almeno per noi. Tornano, conclude Tartaglia, «per tutti coloro che sono coinvolti nella progettazione, pubblicizzazione, realizzazione dell'opera». Loro vedono un interesse immediato e certo. «Un fiume di denaro fornito e garantito dallo Stato», Chi lo restituirà?
LA UE TOGLIE FINANZIAMENTI AL PROGETTO
BRUXELLES. La linea ferroviaria ad alta velocità tra Torino-Lione rischia grosso. La grande opera europea, parte dei corridoio Lisbona-Kiev, potrebbe infatti perdere molti dei finanziamenti europei. II colpo viene dalle nuove prospettive finanziarie (quello che I'Ue spenderà tra il 2007 e il 2013) approvate dai capi di Stato e di governo europei lo scorso dicembre, ora al vaglio dei Parlamento europeo. II premier britannico Tony Blair è infatti riuscito a imporre l'aumento dei fondi per la ricerca e lo sviluppo sottraendo risorse ad altri settori. E tra i capitoli più danneggiati ci sono le Ten, acronimo in inglese per Reti trans-europee. Sono le infrastrutture per i trasporti alle quali la Commissione Prodí aveva destinato venti miliardi di euro, ridotti a otto dal futuro bilancio Ue. Alla Commissione europea, e soprattutto nell'ufficio della coordinatrice per la linea Lione-Torino, Loyola de Palacio, sperano ancora che il progetto venga finanziato al cinquanta per cento dall'Europa. Ma la proposta dell'esecutivo comunitario formalmente prevede che l'Unione Europea possa concedere fondi «fino» al cinquanta per cento, lasciando quindi spazio a drastiche riduzioni. Questo significa che la Tav in Val di Susa potrebbe costare alle casse italiane più del previsto. Cifre alla mano, I'Ue parteciperà alle spese solo per la costruzione dei 79,5 chilometri dei tratto Bussoleno-Saint Jean de Maurienne (il tunnel), il cui costo totale previsto è di sei miliardi e settecento milioni di euro. (Sergio Cantone)
Nell'immagine Paolo Cirino Pomicino,inventore del "sistema TAV"
La rivolta popolare contro la linea ad Alta Velocità/Alta Capacità che dovrebbe, attraverso la valle di Susa, collegare la pianura padana alla Francia, mi ha spinto alla lettura del testo «Processi decisionali dell'Alta Velocità in Italia, il ruolo del Piemonte nel Corridoio Sud dello spazio alpino», curato da Fiorenzo Ferlaino e Sara Levi Sacerdotti per la Regione Piemonte (Franco Angeli, 2005), approdato sulla mia scrivania nel giugno di quest'anno e lì rimasto, fino ad ora, a prender polvere. Nel testo ho inutilmente cercato almeno un'ipotesi sulle ragioni che hanno portato, in questi giorni, a un'opposizione frontale tra abitanti della Val di Susa, polizia, governo regionale e nazionale, considerato che gli autori dedicano ben un capitolo ad «Attori, conflitti procedure e strumenti». Ho trovato un solo paragrafo sul costo della democrazia, piuttosto equivoco nella sua formulazione e un passaggio ove si sostiene che «il programma dell'Alta Velocità è stato il progetto che maggiormente è stato interessato dalla sperimentazione della normativa relativa alla "Via" e alla Conferenza dei Servizi». Un falso burocratico-amministrativo.
Guardando le altre tratte Tav
In questi ultimi dieci anni mi sono occupato, per e con enti pubblici, comitati di cittadini e partiti, delle valutazioni di impatto ambientale sulle tratte della Tav Milano-Bologna, Milano-Venezia, Torino-Milano e, nell'ambito della Commissione intergovernativa (Cig) della valutazione sulla tratta Torino-Lione. Ne ho tratto anche un libro pubblicato dalla Cuen di Napoli, «Alta Velocità. Valutazione economica, tecnologica ed ambientale del progetto», nell'ormai lontano 1997. Da quest'analisi risulta che, se pure vi è stata una sperimentazione della normativa, non certo voluta ma in qualche modo imposta, i risultati sono stati pessimi. Le valutazioni si sono configurate solo come analisi giustificative del tracciato e solo la costante pressione dei comitati di cittadini su amministrazioni locali sensibili ha portato a qualche risultato di revisione di parti del tracciato e di adeguate compensazioni nel caso di impatti difficilmente reversibili. Per il resto, solo una cupa aderenza alle esigenze progettuali. Lunardi e le sue sfide stavano già nello spirito gestionale del progetto ai tempi del centrosinistra, per cui, se guardo al futuro possibile di un centrosinistra vittorioso, mi vengono i brividi.
La cartina di tornasole
La Val di Susa con le sue lotte è la cartina di tornasole di questa situazione esplosiva prodotta da molti errori di analisi e valutazione. Proprio dalla Val di Susa ci viene un insegnamento in chiave storica. 150 anni or sono, la ferrovia giunse a Susa (1854) sul versante italiano e a St. Jean de Maurienne (1856) sul versante francese. Si pensò subito a un collegamento tramite tunnel tra i due capolinea, ma si considerò che il tempo di attesa, almeno 10 anni, era troppo lungo, per cui si ipotizzò un collegamento temporaneo superficiale attraverso le Alpi. Il collegamento in superficie, partendo da Susa, avrebbe sostanzialmente seguito il tracciato stradale, superando pendenze da brivido, con la difesa di alcune gallerie paravalanghe e la copertura dei binari con tunnel di lamiera anti neve. La linea si sarebbe addentrata nell'altopiano centrale verso il Moncenisio, oggi cancellato da un lago artificiale. Sarebbe poi scesa in territorio francese, quasi sempre posizionandosi al lato della strada, fino alla stazione di St. Jeanne, per un totale di 79,2 km. Il percorso si sarebbe compiuto in 5-6 ore, la metà del tempo impiegato dalle diligenze a cavalli, superando le forti pendenze grazie alla trazione di locomotive con terza ruota centrale, le quali avrebbero garantito una velocità di 15-20 km in salita e 17 in discesa. Un tracciato che, dal punto di vista paesistico, posso solo definire stupendo. Ancora oggi si possono ammirare i resti di piccole gallerie. Il treno, di completa progettazione inglese, chiamato treno Fell, iniziò il proprio servizio il 15 giugno 1868 e lo cessò il 1° novembre 1871, dopo che il 17 settembre era stata inaugurata la galleria del Frejus (http://www.moncenisio.com). Tutta l'operazione fu naturalmente in perdita, ma fu perseguita con la stessa forza e testardaggine con la quale oggi si vuole la Tav. Sarebbe forse utile, per una valutazione completa, comprendere le ragioni di un tale impegno economico in un tempo tanto breve. Dovremmo chiederci le ragioni di un progetto che, economicamente perdente in partenza, venne tuttavia realizzato a spese delle casse di quello che si stava definendo come Regno d'Italia e dell'allora impero francese di Napoleone III. Grandi opere impossibili per accreditare un proprio ruolo e una credibilità tecnologica nello scontro diretto con Prussia, e Austria-Ungheria.
Come un secolo fa
Oggi la storia si ripete e nell'Europa degli anni Novanta, dove il prestigio si tiene alto con le grandi opere infrastrutturali, si pone il problema del collegamento tramite tunnel ferroviario tra St. Jeanne de Maurienne e la Valle di Susa. Sarà il tunnel più lungo d'Europa, dai costi esorbitanti, dalle gigantesche difficoltà geologiche, con problemi ambientali posti dai cantieri e dallo smaltimento del materiale estratto dal tunnel, il cui approfondimento dovrebbe suggerire un completo ripensamento della funzione e dell'utilità dell'opera stessa. La scorsa primavera, la ex commissaria europea ai trasporti, ora coordinatrice europea della Torino-Lione, la signora Loyola De Palacio, il ministro Lunardi e la presidente della regione Piemonte, Mercedes Bresso, proclamarono a gran voce la sostenibilità del tracciato della Torino-Lione. Mi ha particolarmente stupito la posizione di Mercedes Bresso che, oltre a possedere una forte personalità politica, è mia collega in quanto insegnate universitaria, economista specializzata in valutazione di impatto ambientale. Se dovessimo utilizzare e applicare i metodi esposti in un manuale sulla valutazione di impatto ambientale redatto dai professori Mercedes Bresso, Alberico Zappetella e Rossana Russo - «Analisi dei progetti e valutazione d'impatto ambientale», pubblicato da Franco Angeli nel 1985, 1988 e 1990, con intervento di Paul Tomlinson nel 1988 e di Tomlinson e Gamba nel 1990, una vera bibbia per chi si occupa del settore - il progetto della Tav in Val di Susa non avrebbe ragione d'esistere, o sarebbe inesorabilmente da affossare sulla base della sequenza: insostenibilità dei costi, irreversibilità di alcuni impatti ambientali, negazione della partecipazione da parte della popolazione. Spero che l'atteggiamento della Presidenza della regione Piemonte non sia un indiretto assenso alla proposta bipartisan di Lunardi, il quale, il 5 novembre scorso, in occasione di un incontro a Verona dei ministri dei trasporti dell'Unione europea, ha chiesto all'opposizione una decisa adesione ai programmi infrastrutturali del governo, Alta velocità Torino-Lione e Ponte sullo Stretto di Messina compresi.
Ritengo comunque che esista ancora il tempo per dialogare e riflettere su due dei temi, centrali e irrisolti dal punto di vista ambientale, posti dal tracciato della linea Tav in Val di Susa: l'attraversamento della val Cenischia in uscita dal tunnel del Frejus a Venaus e gli effetti ambientali della cantierizzazione. Ho lavorato, con il mio collaboratore dr. Leonardo Marotta e con i laureati Enrico Tommasel e Marko Sosic, sui problemi ambientali posti dal tracciato della Tav all'uscita del tunnel in val Cenischia, utilizzando tecnologie dei sistemi informativi geografici per l'analisi ambientale e il supporto alle decisioni. Una ricerca svolta a seguito di un contratto tra la mia Università e la Lyon-Turin Ferroviarie (Ltf). I risultati della ricerca non sono stati apprezzati dalla Ltf. Abbiamo ipotizzato 4 scenari di attraversamento della valle Cenischia, svolto un'analisi multi-criteri e impostato una matrice valutativa utilizzando le tecniche Electre II e Promethee; analizzato gli impatti sugli ecosistemi utilizzando l'indice di Bio Capacità Territoriale (Btc), inserito il viadotto in un modello tridimensionale della valle, studiato la propagazione del suono. Insomma, abbiamo usato modelli di ecologia del paesaggio, identificato gli impatti cumulativi, compiuto un'analisi multi-criteri comprendente fattori tecnici, costi del progetto, impatti ambientali, costi ambientali, impostando un'analisi costi benefici su base ambientale. La soluzione proposta da Ltf per l'attraversamento della Val Cenischia non è risultata la più adatta, collocandosi al secondo posto di una classifica basata su 4 scenari. Lo scenario vincente avrebbe comportato ulteriori studi preliminari e un forte ritardo nella progettazione e nella realizzazione dell'opera. Ltf non solo ha segretato i risultati, ma non ha dato corso al successivo approfondimento della ricerca riguardante la valutazione del rischio del cantiere in uscita dal tunnel, per quanto esista un esempio analogico sul cantiere Alp-Transit per la nuova galleria del San Gottardo in Svizzera.
L'insegnamento viene dalla Svizzera
Se si visita il cantiere dell'Alp-Transit, alle porte di Biasca, Canton Ticino, ci si rende conto dei gravi problemi posti dallo smaltimento dello smarino (il materiale inerte estratto dal tunnel), si tocca con mano la problematica della depurazione dell'aria del tunnel e dell'acqua inquinata dalle attività di cantiere. Le superfici agricole e naturali perse sono enormi, il trasporto della maggior parte del materiale di risulta viene effettuato non su strada, ma con nastri trasportatori chiusi per evitare il disperdersi delle polveri in discariche ben definite, a pochi silometri dai cantieri. Alp-Transit non è in grado di fornire l'assoluta garanzia di protezione delle falde acquifere e la prevenzione dell'impatto è stata a lungo discussa con la popolazione interessata della Val Leventina. Ulteriori problemi sono posti dalla raccolta separata dei rifiuti del cantiere, dal riciclo dei materiali di risulta e dalla messa in discarica dei fanghi provenienti dagli impianti di depurazione.
Sono problemi che Ltf non ha completamente messo a fuoco nella fase preliminare di progettazione. Situazioni estreme di carattere ambientale non facilmente risolvibili. Come membro del gruppo «Ambiente e Territorio» della Commissione Intergovernativa della Torino-Lione (Cig), nel dicembre del 2000, ho presentato una relazione di minoranza nel rapporto finale «Nuovo collegamento ferroviario Torino-Lione, Rapporto del gruppo di lavoro Ambiente e Territorio», pag. 62-63, in cui si sosteneva: «Il lavoro svolto manca della verifica di uno dei parametri fondamentali della Via, quello del do nothing o non fare, come pure manca lo specifico approfondimento della valutazione ambientale nell'ambito delll'analisi costi-benefici (Ecba, Environmental Cost Benefits Analysis), cosa ben diversa dalla valutazione quantitativa delle esternalità ambientali nell'analisi costi/benefici». Sottolineavo che il rapporto non poteva fornire un contributo adeguato alle decisioni per ben 14 ragioni (smarino, cantieri, idrogeologia, sicurezza, varianti di tracciato, uscita su Venaus, conoidi di deiezione e detriti di falda, tunnel di base, Carrière du Paradis, impatto sull'ambiente biotico, urbanizzazione e vincoli, valutazioni di landscape ecology, reversibilità-irreversibilità di alcuni impatti e necessità della procedura di consultazione Delphy, scenario alternativo di tracciato).
In conclusione, ritengo che la popolazione della valle abbia ragioni da vendere nel suo pacifico atto di ribellione, confermando di non voler delegare a nessuno, tanto meno a istituzioni che hanno perso di credibilità, la tutela del proprio ambiente, della propria sicurezza, della propria salute.
Titolo originale: Letter from China: A tale of two cities: Shanghai and Osaka – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Chiamatelo spostamento, ascesa e caduta, scambio di luoghi, o quello che preferite, ma c’è qualcosa di enormemente importante che sta accadendo in Asia orientale: una tangibile mutazione nella posizione relativa di Cina e Giappone.
Certo, questa mutazione potete vederla nelle statistiche, che mostrano gli scambi con la Cina sempre più critici per il Giappone: il 21% del totale commercio estero, più di quello con gli Stati Uniti. Lo scambio del Giappone con la Cina, intanto, è enorme, ma si riduce a un pezzettino del boom generale del commercio cinese.
Per valutare in pieno quello che sta accadendo, però, si deve sentirlo sulla pelle, e il modo migliore per farlo è attraverso la vita delle due seconde città dei due paesi: Shanghai e Osaka.
Attenzione, queste non sono due seconde città comuni. C’è poco che può predisporre l’occidentale non iniziato sia al gigantismo che al dinamismo di queste due regioni urbane, e Shanghai e Osaka stanno al culmine di queste dinamiche.
Ma se Shanghai sta ancora crescendo, forse troppo in fretta per il suo bene, Osaka, il motore del vecchio miracolo asiatico, è impantanata da almeno un decennio, e l’odore dell’immobilità ristagna inconfondibile nell’aria.
La nuova dinamica della regione mi ha colpito direttamente in fronte in un recente volo da Shanghai a Osaka. Sono salito sull’aereo presto, ed ero seduto verso la coda, con una buona veduta su tutta la fusoliera. Poco dopo, sono entrate due giovani donne, che si sono sedute nell’angolo più lontano, vestite all’ultima moda, ma con gusto.
Certamente giapponesi, ho pensato, seguendo una regola pratica basata su vecchi e superati pregiudizi. Uno scrittore, Neal Stephenson, nel 1999 ha riassunto ciò in un romanzo, Cryptonomicon, che divideva l’Asia orientale fra persone che indossano buoni vestiti e altre che ne portano di meno buoni, il Giappone a rappresentare il primo e la Cina continentale il secondo.
Mi era dimenticato delle due giovani donne coi capelli leggermente tinti e le loro scarpe e borsette costose, fino alla coda per l’immigrazione all’aeroporto di Osaka, quando stavano davanti a me insieme agli altri stranieri, parlando animatamente in shanghainese.
Vagabondando per Osaka nei successivi due giorni, quello che mi ha colpito è stata la tranquillità.
Oltre al selvaggio traffico e rumore di clacson di Shanghai, scoprivo che qui mancava il rumore delle costruzioni, del tutto inevitabile nella capitale economica della Cina, dove le squadre di lavoratori sono dappertutto, radono al suolo magnifici vecchi quartieri e tirano su luccicanti foreste di grattacieli che non hanno eguali da nessuna parte, in Giappone o neppure negli Stati Uniti.
Non è che non ci siano automobili, a Osaka. Come la maggior parte delle altre cose in Giappone il traffico è ordinato, mai travolgente, e la Cina ha davvero ancora molto da imparare. Quello che mi ha colpito, però, erano le lunghissime file di taxi neri fuori dalle principali stazioni ferroviarie e della metropolitana di Osaka, che aspettavano tutte le sere invano qualche cliente.
Mi sono avvicinato a un autista della fila in attesa, Yuji Yamamoto, e presentandomi come un americano che vive a Shanghai, ho avuto una grossa reazione, forse qualcosa di simile a quella che avrebbe provocato in una piccola città interna americana qualcuno che tornava a casa dall’Europa un secolo fa, su una grossa nave da crociera.
”Pare che tutti gli affari se ne siano andati a Shanghai, e anche tutti gli uomini d’affari” dice Yamamoto, 58 anni.
”Dalle storie che ho sentito, Shanghai sembra una città straordinaria. Molti giapponesi ci vanno, e sembra che non ritornino più”.
Volevo sapere come andassero le cose a Osaka, e glie l’ho chiesto. “È esattamente come vede” ha risposto. “Si può aspettare qui per tre ore senza un cliente. La gente non spende più soldi”.
Anche una mia vecchia amica giapponese di Osaka mi ha riempito di domande su Shanghai, con lo stesso sguardo di meraviglia negli occhi. Quando ho finito di descrivere com’era la vita a Shanghai, coi suoi cambiamenti veloci, incessanti e assai poco sentimentali, ci ha pensato un attimo prima di rispondere. “Mi ricorda delle storie che mi raccontavano i miei genitori sullo sviluppo” dice. “Si guardava avanti. Tutto cambiava tanto in fretta, le cose andavano bene”.
”Mi pare che la gente di Shanghai stia vivendo ora la generazione dei miei genitori”.
Il governo giapponese non sembra ancora consapevole della mutazione che sta avvenendo, o forse questo è un elemento caratteristico dello schtick del primo ministro giapponese Junichiro Koizumi, che finge di ignorare il relativo declino del Giappone come parte del tentativo di far pesare di più il proprio paese.
Non si può dire lo stesso delle persone di Osaka, e presumibilmente di molti altri in Giappone. Alla domanda come mai l’umore sia tanto cupo a Osaka se i numeri della crescita economica del Giappone sono di nuovo positivi, un signore incontrato in treno dà una risposta interessante. “Ci sono solo due posti in crescita in Giappone, Tokyo, per via del settore finanziario, e Nagoya, per l’industria dell’automobile” sostiene Shinji Suzuki, broker assicurativo. “Se si va a Nagoya, si avverte la prosperità anche prima di uscire dalla stazione. Il resto del paese è semplicemente fermo”.
Se ha ragione, Tokyo e Nagoya, sede della Toyota, sono le ultime città del vecchio Giappone, il luogo che ha battuto il mondo per tanti anni in tanti settori. Il resto del paese ora guarda alla Cina con un misto di riverenza, paura e, per quelli nel settore giusto o col senso dell’avventura imprenditoriale, delle occasioni illimitate.
Ci sono così tanti giapponesi a Shanghai, che in città esistono più giornali in quella lingua di quanti non ne possa vantare in inglese una grossa città americana. Imprenditori e occasioni: tra l’altro chi le cercava stava in bella vista al mio ritorno a Shanghai dal Giappone, dove ho impiegato un’ora buona a passare l’ufficio immigrazione, non per inefficienza ma per via della folla immensa, dominata dai giapponesi portati qui dai 30 voli giornalieri per la città.
Non è certo un giudizio scientifico, ma non c’erano folle del genere quando sono atterrato a Osaka. Quello che c’era, sorprendente per chi ha abitato parecchi anni in Giappone chiedendosi come mai il turismo era così poco sviluppato, erano i cartelli di benvenuto e la letteratura turistica: in cinese.
Se si osserva il comportamento di molti leader politici sulla vicenda Tav non c’è da meravigliarsi che l’Italia sia finita al 40.mo posto nella classifica internazionale sull’onestà stilata qualche giorno fa da Transparency international. Da almeno un anno risuona incessante il ritornello: «Ce lo impone la Ue, se non si avviano i lavori l’Italia perderà i fondi». Lo hanno dichiarato uno dopo laltro molti ministri, lo hanno affermato con una sola voce Mercedes Bresso e il sindaco di Torino Chiamparino. Chi si oppone alla Tav sarebbe quindi anche un cattivo cittadino che non ha a cuore le sorti nazionali visto che mostra indifferenza al rischio che la patria possa perdere ingenti finanziamenti europei. L’importante è arraffare il malloppo, senza neanche perdere tempo a domandarsi se non sia possibile riuscire a utilizzarlo, almeno in parte, in qualche altro modo, come potenziare l’attuale linea ferroviaria e accettando che qualche container impieghi 30 minuti in più per raggiungere Lione da Torino, evitando così scempi ambientali e rischi sanitari.
La verità, però, è ben diversa: dei 20 miliardi di euro originariamente previsti, per il periodo 2007-13, dalla Commissione europea per le grandi opere, dopo il Consiglio europeo del 15 dicembre 2005 ne sono rimasti solo sei. Insufficienti per finanziare anche solo parzialmente (dal 20 al 30% per i tratti internazionali e 10% per le tratte nazionali) le 30 grandi opere originariamente previste e che quindi devono essere selezionate in ordine di priorità. La precedenza sarà data a quei progetti per i quali i lavori sono già in stato avanzato e nei quali la Ue ha investito oltre 2,5 miliardi di euro. Ben diversa è la sentenza della Tav: non solo i lavori non sono iniziati (fino ad ora laUe ha infatti stanziato solo il 5,11% della prevista quota comunitaria, fondi destinati alla fase progettuale e sull’utilizzo dei quali il governo avrebbe potuto chiedere, entro il 31ottobre 2005, una proroga), ma la Commissione europea ha avviato una procedura contro l’Italia per aver cancellato la Via (Valutazione di impatto ambientale) dai progetti definitivi sulle grandi opere, Tav compresa.
Inoltre due settimane fa la Commissione petizioni del Parlamento europeo ha richiesto all’unanimità un’ulteriore valutazione sui rischi ambientali e sanitari. A tutt’oggi appare improbabile che vi siano fondi europei per l’alta velocità in Val di Susa, e dall’Europa non arriva alcuna pressione perché si proceda con i lavori. Il governo italiano è da tempo consapevole di tale situazione, anzi ne è corresponsabile avendo partecipato alle decisione del Consiglio europeo del 15 dicembre. Quindi i ministri hanno dichiarato e continuano a dichiarare consapevolmente il falso. Ma poteva la governatrice Mercedes Bresso non sapere tutto ciò? Possibile che non si fosse consultata con il presidente della Commissione trasporti, onorevole Paolo Costa, oltretutto eletto nella sua stessa lista al Parlamento europeo? Il quale è talmente consapevole della situazione che il 15 febbraio in una lettera inviata all’onorevole Janusz Lewandowski, presidente della commissione budget, scrive: «Se la posizione del Consiglio europeo dovesse essere accettata, l’idea del network sarebbe distrutta e gli obiettivi del Tent (il network del trasporto trans-europeo) non sarebbero più raggiungibili e l’intero programma Tent sarà declassato a un insieme disordinato di lavori pubblici ». Qualcuno aveva almeno informato Prodi di quale era la situazione prima di continuare a invocare una sua presa di posizione giunta poi con l’infelice «decido io»? In tanti, e da parti diverse, hanno nascosto la verità ai cittadini non solo della Val di Susa; ma è più difficile perdonare chi ha sfilato a Porto Alegre parlando di bilancio partecipativo e del coinvolgimento delle popolazioni locali.
L’alibi degli obblighi europei è stato quindi utilizzato dal governo per realizzare attraverso la vicenda Tav uno scontro politico/ideologico in difesa del modello liberista della società. Modello che prevede: una sempre maggiore delocalizzazione produttiva fuori dall’Europa fondata sull’abbassamento del costo del lavoro e la negazione dei diritti; la rottura dei legami sociali e comunitari ancora esistenti in Europa; la trasformazione del nostro continente in una regione attraversata da grandi infrastrutture di trasporto, dove, a una sempre più selvaggia concentrazione di capitali, corrisponderà un aumento esponenziale della disoccupazione e del lavoro nero. Il principio guida del raggiungimento del massimo profitto possibile coniugato con il più assoluto (e suicida) disprezzo per ogni forma di bene comune.
Il mito dell’alta velocità ben sintetizza anche simbolicamente tutto ciò.Ma dietro le bugie spesso insieme a grandi «motivazioni ideologiche» si nascondono precisi interessi materiali. L’importante è assegnare gli appalti, distribuire contratti a aziende amiche, poi se l’opera non si farà, o non verrà conclusa, poco importa, le aziende riceveranno comunque le penali da parte pubblica e il denaro girando lascerà qualche alone attorno a sé!
La partecipazione di un’ampia fetta dell’opposizione a questa battaglia in favore della Tav rappresenta la condivisione culturale, prima ancora che politica, di un modello liberista della società, nella convinzione di poterne dominare gli effetti più deleteri e socialmente dannosi. Quest’opera di contenimento dovrebbe essere resa possibile dalla conquista della cabina di regia, identificata nel governo. E. la medesima logica che ha portato Ds e Margherita a sostenere la nuova versione della direttiva Bolkestein nel recente voto di Strasburgo. Ma l’essenza del liberismo è appunto il dominio dell’economia finanziaria sulle istituzioni politiche: anche per questo l’idea di gestire un liberismo dal volto umano è destinata a rimanere nel migliore dei casi un’illusione. Per il resto non vorrei nemmeno pensare che anche in questo campo la vicinanza di alcuni interessi economici possa avere un qualche peso.
La lotta per un’alternativa alla Tav, lungi dall’essere una rissa di cortile, rappresenta quindi un punto centrale di confronto sulla società e il futuro che intendiamo costruire. L’impegno comune per battere la destra, e in particolare questa destra, e per provare a governare con un programma che rappresenti il punto più alto possibile di mediazione dentro la coalizione, non può e non deve essere confuso con la consegna del silenzio. Non c’è motivo di scandalo nel dichiarare che dentro al centrosinistra è da tempo aperta una contesa sulla dimensione strategica dell’agire politico e in particolare sulla posizione da assumere verso le politiche liberiste.