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Lodo Meneghetti
Avere non avere casa a Milano
10 Maggio 2006
Lodovico (Lodo) Meneghetti
Stefano Fatarella, dopo aver apprezzato un servizio del 12 marzo su Rai 3,

Case! (non l’ho visto, ho abolito la televisione da anni), manda una breve nota, La città proibita, (riportata in calce) in cui accenna ai punti essenziali della trasmissione tra i quali l’ingiustizia del mercato milanese dell’abitazione e in particolare la scandalosa politica dell’Aler (Azienda lombarda edilizia residenziale). Danneggiati, anzi dannati e condannati soprattutto “gli anziani pensionati” e le famiglie a basso reddito. In Eddyburg ci sono numerosi miei interventi su Milano lungo gli anni di partecipazione al sito; diversi gli aspetti considerati, anche il problema dell’abitare. Ora voglio allargare la bozza di Stefano.

Milano, intendo lo spazio entro i confini comunali, presentava i cittadini residenti secondo classi sociali differenziate, agli estremi – se così posso dire – una borghesia produttrice ancora depositaria di una certa consapevolezza civile e una forte classe operaia con la quale la prima doveva confrontarsi. Persino durante il fascismo la città non poteva ignorare la sopravvivenza di una cultura locale popolare, doveva preservarne i luoghi deputati – le fabbriche e le case operaie – mentre riconosceva a qualche spezzone di borghesia e funzionariato non corrotti, memori delle tradizioni liberal-umanitarie e socialiste, la capacità di far funzionare la macchina urbana. Nulla tuttavia potette ostacolare l’attuazione di una grave politica demaniale riguardo a una grossa fetta del patrimonio pubblico in terreni, cioè la loro vendita o svendita. Invece nel campo dell’abitazione pubblica l’Iacpmf (Istituto autonomo case popolari milanese – la effe, fascista, apparve tardi), il potente istituto già operante estesamente prima della guerra mondiale, esibiva buoni risultati benché non potesse, o non volesse o glie lo impedisse l’alta gerarchia fascista, provvedere da solo alle condizioni abitative di quegli operai, in parte pendolari settimanali, costretti a vivere in stalle abbandonate, baracche e peggio ai margini della città e nei comuni limitrofi. (Forse per un’astuzia della storia le famose e impressionanti – specialmente grazie all’apparato fotografico – Indagini sul problema delle abitazioni operaie in provincia di Milano, di Piero Bottoni e Mario Pucci, furono loro commissionate nel 1938 dalla fascista amministrazione provinciale e pubblicate l’anno seguente).

Dall’immediato dopoguerra il pretesto dell’urgenza trasforma la ricostruzione in un’edificazione privata d’ogni genere e una speculazione immobiliare che non avranno mai fine, nemmeno quando la città sarà diventata tutt’altra, una sorta di pasticcio urbano, indistinguibile nel retaggio storico, dentro un enorme sprawl metropolitano deposito delle sue contraddizioni irrisolte. Gli architetti razionalisti vedono giusto. Subito, nel 1945, Ernesto Nathan Rogers avverte che “ricostruire con criterio significa rispondere con la tecnica alle esigenze della morale”. Un popolo può dirsi realmente civile se ricostruisce secondo un ordine di precedenze coerente agli interessi della società, ossia se risponde con chiarezza alla domanda per chi ricostruire. Rogers non ha dubbi, si deve ricostruire per i lavoratori, per i loro bisogni, casa e lavoro, ma anche scuole, ospedali, musei. Sulla stessa lunghezza d’onda e nello stesso momento Piero Bottoni pubblica da Görlich il libretto La casa a chi lavora, estensione di un lungo articolo apparso in “Domus” dell’agosto 1941, Una nuova previdenza sociale: l’assicurazione sociale per la casa. La mancanza di abitazioni per i lavoratori è la massima emergenza della ricostruzione e deve collegarsi ai problemi di settore, dall’agricoltura all’industria al commercio all’artigianato. Purtroppo, a chi credeva in un forte rilancio della politica sociale basteranno tre anni per decretarne il fallimento. Il decano dei razionalisti italiani Enrico Griffini, in un saggio su “Edilizia moderna” del dicembre 1948, scrive di orrendo disastro milanese, di decadenza morale e civile, di ordine edilizio sostituito dal caos: “Tutto il problema edilizio è deformato dalle speculazioni con abusi di ogni genere a dispetto delle soprintendenze, delle leggi, dei decreti”. Infine un’invettiva che altra volta invitai ad assumere attualmente per il suo attuale valore pedagogico rapportandola alla sessantennale storia di rovina edificatoria dell’intero paese: “una licenziosa e babelica febbre costruttiva che conduce questa nostra città a imbruttirsi oltre ogni previsione, perdendo tutta la sua organicità e l’unitaria bellezza formata e difesa dai nostri padri nella pazienza dei secoli”.

Eppure, grazie alla fiduciosa vocazione di qualche persona “resistente” in amministrazioni pubbliche o sul fronte della cultura urbanistica e architettonica, la casa popolare cercò, come una buona pianticella che riesca a spuntare e a vivere fra la sgradita lappolosa bardana, di farsi largo nella città. Non poteva contrastare e bloccare l’edilizia privata che sarebbe montata sempre più su se stessa come la marea – uffici di ogni tipo, non solo abitazioni – ma potette occupare quello spazio per così dire inevitabile e pubblico non ancora svenduto o ancora privo di attrattive per le bande armate della speculazione immobiliare. E si sarebbe potuto rilanciare il patrimonio pubblico esistente, anch’esso danneggiato dai bombardamenti o impedito durante la guerra. Tutto considerato, non c’era altra città italiana, forse esclusa Roma, che potesse vantarne proporzionalmente di eguale. Oltre alle case dell’Iacpm, quelle comunali, numerosissime, e degli altri istituti esistenti o nascenti delegati a possederne o a realizzarne. Doverosa, esemplare e bastevole, a questo punto, la citazione della nascita del QT8, il quartiere sperimentale dell’ottava edizione della Triennale, con la nomina di Piero Bottoni a commissario da parte del Comitato di liberazione l’11 maggio 1945. Troppo noto il QT8 per indugiarvi, va detto però che se fossero conseguiti negli anni altri interventi della stessa portata per localizzazione, dimensione e qualità, insieme a una dedizione degli amministratori pubblici uguale a quella che aveva permesso la rivoluzione della funzione stessa della Triennale, probabilmente non saremmo costretti a considerare come scritte oggi le denunce di Rogers e di Griffini. Nuovi quartieri di edilizia popolare se ne realizzarono specialmente negli anni Cinquanta e Sessanta grazie alle leggi note, ma gl’interventi furono ultra-periferici e malamente progettati; unica eccezione il quartiere Feltre, favorito sia da a una progettazione coordinata da Ignazio Gardella sia dalla prossimità del parco urbano del torrente Lambro. Nella raccolta di scritti di Aldo Rossi sull’architettura e la città tra il 1956 e il 1972 (Clup, 1975) troviamo del tutto logico leggere che “l’architettura dei quartieri non è andata oltre la proposta di Bottoni con il QT8 e il Monte Stella [la grande collina-parco costruita utilizzando le macerie dei bombardamenti e i materiali delle demolizioni], così che questi due fatti rimangono certamente come gli esempi più importanti, e senza seguito, della situazione milanese”.

Il drastico cambiamento sociale di Milano nel corso di mezzo secolo è mostrato da qualche dato dei censimenti semplice e chiato. Secondo il primo rilevamento del dopoguerra, 1951, nel territorio comunale risiedevano 1.274.000 persone. La città, pur sospinta verso l’accentuazione del proprio ruolo finanziario e commerciale già significativo negli anni Trenta, presentava una corposa quantità di operai e assimilati oltre che di posti di lavoro industriali: residenti attivi in totale 606.000, attivi operai e simili 329.000, addetti all’industria 366.000. Degli attivi in totale, 47,5% dei residenti, ben il 54,3 % erano operai; gli stabilimenti industriali in città, poi, dovevano richiamare un po’ di forza lavoro da fuori. Dieci anni dopo: forte crescita dei residenti, 1.582.500, diminuzione relativa dei tassi di attività, 45 % complessivo, per circa il 50% operaio (347.000 unità); aumento degli addetti all’industria sicché il tasso di industrializzazione urbano cresceva dal 28,5 al 31% (484.000 addetti. N.b: secondo un’altra fonte questi sarebbero stati addirittura 550.000, per un tasso di industrializzazione del 35%). Milano era (anche) città industriale a tutti gli effetti con notevole pendolarismo in entrata di lavoratori occupati nell’industria e abitanti fuori del comune magari molto lontano. La fotografia dopo altri dieci anni illustra sostanziali novità. La popolazione è tanta quanto non è mai stata e mai più sarà, 1.732.000 persone, gli operai residenti sono solo 288.000 (41 % degli attivi totali a loro volta avviati alla diminuzione), appaiono sintomi evidenti di deindustrializzazione sebbene gli addetti siano ancora quasi 435.000, segno della persistenza di una forte domanda verso l’esterno e dell’assurda estraneità fra i mercati del lavoro e dell’abitazione, è ormai molto intensa la domanda di lavoro del terzo settore che d’ora in avanti sarà sempre più travolgente e sempre meno risolta all’interno della città.

Nei decenni successivi a Milano imperversa il rivolgimento demografico, economico, sociale. Gli abitanti residenti continuano a diminuire, 1.605.000 nel 1981, 1.369.000 nel 1991, 1.182.000 nel 2001 (si darà un’inversione di tendenza negli anni recenti dovuta esclusivamente all’ottenimento della residenza di immigrati extra-comunitari, così che la città riconquisterà una consistenza demografica leggermente superiore a 55 anni prima). Gli operai stabili per abitazione, occupati in città o altrove, che a suo tempo superavano la metà della popolazione attiva e dunque imprimevano un potente marchio di classe lavoratrice “tradizionale”, diminuiscono molto più velocemente dell’intera popolazione e degli attivi totali, così che il loro peso classista e, se permettete, politico, già ridotto al 10 % della popolazione quindici anni fa, risulta oggi quasi trascurabile. L’industria sembra sparita da Milano, vuoi per abolizione pura e semplice vuoi per delocalizzazione, ma il processo di azzeramento lungo gli anni ha colpito molto più pesantemente il risiedere operaio che il lavorare, mentre si susseguivano ondate di terziario che allagavano spazi di ogni specie, in primis quelli residenziali.

I quartieri popolari di una volta non bastavano ma servirono. Al contrario: da un lato, amministratori comunali prima estranei a una cultura del tipo socialdemocratico europeo in materia di case popolari, poi, da tre quinquenni, fedeli interpreti dei principi fondiari ed edilizi ultraliberisti, vale a dire ostili ai diritti dei ceti meno ricchi, da un altro lato la terziarizzazione selvaggia: queste le cause essenziali che hanno provocato l’espulsione da Milano di famiglie e persone di quei ceti ma, ormai avvenuta la rivoluzione strutturale e occupazionale, hanno anche impedito nuovi ingressi in città per risiedervi ai lavoratori del terzo settore che avrebbero potuto diminuire la penosità del rapporto casa lavoro. Non da oggi non occorre essere operai per essere poveri o comunque inidonei a fronteggiare gli oneri imposti da una città come Milano. Il terziario milanese, si sa, è pieno di lavoro a termine, precario, faticoso anche se franco dalla tuta blu sporca d’olio di macchina; se non è provvisorio è comunque spesso sotto la minaccia del licenziamento.

Le famiglie e le persone a cui si riferisce Stefano Fatarella, residenti in città nonostante tutto, rappresentano il rimanente della classe d’antan, non più propriamente “classe” mancando uno specifico rapporto di produzione, infatti sono per lo più pensionati anziani – compresi gli ex occupati in lavoro non operaio ma a basso salario – soprattutto donne. La struttura della popolazione milanese è sbilanciata fortemente verso le fasce d’età elevate. Anni fa, quando la popolazione era maggiore, demografi e sociologi descrissero in maniera fulminante uno dei caratteri dominanti della struttura demografica milanese: essere donne, essere vecchie, essere sole: Le donne sole erano ben l’80 % dei residenti ultrasessantenni soli, a loro volta una presenza relativa forte, pur essendo ancora nettamente maggiore il peso della fasce giovanili in seguito man mano sempre più ridotte per le cause dette. Non disponiamo oggi di statistiche aggiornate. L’amministrazione comunale se ne frega di fornire dati certi per non farsi cogliere in fallo di rigore in relazione alle politiche sociali coerenti ai bisogni reali. A ogni modo sappiamo che entro la decadenza demografica milanese la struttura della popolazione è ancor più squilibrata nella stessa direzione (per ora è troppo scarsa l’incidenza dovuta ai giovani immigrati), la malaresidenza, oltre alla malasanità, infierisce più che nel passato; la proporzione conta più della numerosità assoluta e proprio per questo la città ne risente maggiormente l’effetto. I pensionati, le donne sole anziane, i nuovi poveri, gli ex affittuari di case popolari costretti all’acquisto o ad arrangiarsi in un mercato libero criminoso rappresentano il volto niente affatto oscuro di una Milano che crede di accecarci con le luci violente della moda, delle fiere, delle strade di negozi e atelier in buona parte in mano alla mafia “legale” degli investimenti commerciali e finanziari.

L’Aler (“Azienda” invece che “Istituto”) e il Comune: la prima, traditrice della migliore eredità dell’Iacp, coerentemente al cambiamento del nome, il secondo, guidato da un sindaco industrialotto lombardo, deciso da subito, disse dieci anni fa, ad amministrare il municipio come un condominio: l’Aler ha privatizzato le migliori delle sue case estromettendo i vecchi inquilini mentre ha lasciato degradare quelle affittate alle famiglie dal reddito per così dire inadeguato; la giunta comunale libera (mai verbo è stato così appropriato) begli edifici in zone pregiate affittati da decenni a “popolo” residente con il pretesto di ristrutturarli, poi, trascorsi persino due decenni come nell’incredibile caso dei 157 alloggi di Piazza Dateo, nega il diritto al rientro e decide di guadagnarci vendendoli a prezzi di mercato possibilmente a un unico imprenditore-speculatore: altro pretesto quello di reinvestire in alloggi popolari nell’estrema periferia “meno costosi di tre volte” dice, quando come dove non si sa.

Mi è rimasto impresso un principio sostenuto oltre trent’anni fa da uno studioso di programmi per la riduzione della mortalità nei paesi non ad alta ma a bassa mortalità. Poiché la grande maggioranza delle morti avviene oltre i 65 anni, occorre privilegiare i programmi sanitaricheaggiungono vita agli anni piuttosto che anni alla vita. Allora il problema principale, osservo, è quello di quale vita assicurare agli anni ancora da vivere. Per questo dobbiamo combattere non solo la malasanità ma anche, oggi a Milano soprattutto, la malaresidenza.

Milano, 17 marzo 2006

La città proibita, nota di Stefano Fatarella

Domenica 12 marzo, ore 21,30. Televisione. Rai 3. “Case !” di Riccardo Iacona. Della città proibita, dell’ingiustizia sociale, del diritto alla casa negato. Finalmente qualcuno si occupa di problemi veri, reali, concreti. Di anziani pensionati a 500/700 euro netti al mese e di lavoratori dai salari di fame che vengono buttati fuori dalle loro case dal “mercato”, questo sconosciuto senza volto, perchè poco redditizi. Ci parla di ALER (Azienda Lombarda Edilizia Residenziale) che sfratta e di una gestione del patrimonio abitativo pubblico indegno di un paese civile, di proprietà immobiliare privata che sfratta e che segrega gli sfrattati nelle periferie più squallide di Milano, allontanando uomini e donne dal diritto alla città, dal diritto alla dignità. Ci mostra di istituzioni assenti, di politiche abitative pubbliche di classe, che non si fanno carico di risolvere una questione sociale che solo lo Stato deve affrontare. Ci mostra violenza e sopruso, ci fa vedere il mercato che fa male e rovina gli uomini e le donne. Ci fa vedere la politica edilizia e urbanistica a-sociale e di classe. Qualcuno dirà che questo è un programma fatto apposta in prossimità delle elezioni. Ben venga se la politica tace. Ma non è forse scandalosa e provocatoria la questione dell'immoralità dell'assenza di una politica sociale dell'abiatazione ? Brava Rai 3, bravo Riccardo Iacona. W l’Italia scomoda

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