L’urbanistica liberista è stata alimentata -al pari di altri segmenti del pensiero neoconservatore- di un forte impianto ideologico. Il principale di questi attributi è consistito nell’attribuire al piano urbanistico i vizi di rigidità e di scarsa aderenza al mercato. Solo l’iniziativa privata poteva avere gli strumenti per rendere realizzabili interventi altrimenti destinati al fallimento proprio per il vizio d’origine, e cioè quello di derivare da una matrice pubblicistica. Il caso che illustriamo dimostra finalmente che il re è nudo e che il castello di bugie su cui era costruita l’urbanistica contrattata si è dimostrato soltanto il modo più efficace per abolire qualsiasi discussione nella società e far trionfare la proprietà fondiaria.
“Laurentino 38” è uno dei quartieri di edilizia pubblica più grandi di Roma. Progettato all’inizia degli anni ’80 da un grande architetto come Pietro Barucci, esso è articolato su una serie di percorsi pedonali che attraversano per nove volte la sottostante strada carrabile che attraversa l’intero quartiere: sono i cosiddetti “nove ponti”, strutture che contengono spazi per negozi e uffici pubblici e privati, per raggiungere quella qualità e integrazione urbana che è alla base del pensiero urbanistico moderno.
Già sulla stessa volontà di ipotizzare un qualsiasi uso differente degli spazi pubblici si è concentrata la prima offensiva ideologica. Obiettivo principale della riqualificazione era “superare la logica parcellizzata costruita dall’impianto originario per insule cui fa riferimento l’elemento centrale del ponte; creare una dimensione urbana unitaria che consenta il formarsi di una vita sociale ed economica”. Proprio così, è scritto nel documento del comune di Roma.
Il secondo capitolo dell’offensiva neoliberista ha sfruttato al meglio lo stato di degrado in cui versano tre ponti. Essendo stati occupati da senza casa o da centri sociali, versano in uno stato di totale assenza di manutenzione. L’abilità è stata quella di dichiararli origine di ogni male e chiederne conseguentemente la demolizione, mentre necessitavano soltanto di una visione pubblica, di recupero sociale e fisico. E infatti, coloro che si opponevano alla demolizione argomentando che era sufficiente recuperarli e inserirvi funzioni pregiate, come uffici pubblici o servizi sociali, furono dipinti come esponenti dell’urbanistica pubblicistica ormai inutile. L’unica salvezza sarebbe stata quella di affidarsi ai privati. I tre ponti verranno demoliti, ma –per rientrare delle spese- al loro posto verranno costruiti (da privati) 50.000 metri cubi di nuove attività prevalentemente commerciali e per uffici.
Il bello lo scopriamo oggi. Il sito dell’Assessorato romano delle Periferie afferma che al fine di riqualificare il quartiere, in questi nuovi edifici troveranno posto le seguenti funzioni: la scuola infermieri gestita dal vicino ospedale S. Eugenio che già occupa uno dei ponti e i cui “locali attualmente in dotazione sono molto ridotti e avrebbe bisogno di espandersi”; un posto di Polizia e infine un Ufficio postale. Era proprio quello che proponevano coloro che si opponevano alle demolizioni! Riempire di alcune funzioni pubbliche i ponti degradati: la riqualificazione sarebbe venuta di conseguenza.
Oggi si tocca con mano quale sia stato il ruolo ingannevole dell’offensiva ideologica: mascherare dietro parole d’ordine vuote quanto accattivanti (la lotta al degrado e la liberazione delle forze private) una speculazione edilizia vecchia maniera in cui a pagare sarà l’intero quartiere Laurentino. La vicenda è dunque paradigmatica del fallimento delle teorie neoliberiste della privatizzazione delle città: speriamo soltanto che gli attori di questa vicenda abbiano almeno l’onestà intellettuale di riconoscere il fallimento e aiutare al ritorno ad una visione pubblica delle città.