I limiti e gli errori di un'analisi meramente quantitativa di un processo territoriale, economico e sociale. A chi «farebbe bene» il land grabbing? Greenreport
, 27 giugno 2014, con postilla
Secondo lo studio “Food appropriation through large scale land acquisitions” pubblicato su Environmental Research Letters da un team italo-americano di ricercatori del Politecnico di Milano e dell’Università della Virginia, «La coltivazione delle terre coinvolte nel fenomeno del “land grabbing” nei paesi in via di sviluppo ha il potenziale di nutrire 100 milioni di persone, in aggiunta a quelle sfamabili nelle stesse terre con le attuali tecnologie. Il potenziamento delle infrastrutture derivante dagli investimenti in agricoltura potrebbe infatti incrementare la produttività dei terreni agricoli di sussistenza in paesi come la Papua Nuova Guinea, il Sudan, l’Indonesia etc. Gli investimenti alla scala globale riuscirebbero così a sfamare almeno 300 milioni di persone in tutto il mondo, paragonati ai circa 190 milioni che potrebbero essere nutriti da tali terre nelle condizioni attuali».
Lo studio che punta ad un quadro generale ma che sembra sottostimare le pesanti ricadute sociali ed ambientali a livello locale, analizza l’acquisto su vasta scala di terreni da parte di società e governi nazionali o esteri, cioè la controversa pratica del “land grabbing”, soprattutto in Africa dove moltissime acquisizioni sono avvenute in regioni con problemi di sicurezza alimentare e di malnutrizione.
I ricercatori del politecnico spiegano che «C’è chi sostiene che tali investimenti in agricoltura miglioreranno significativamente le rese colturali, genereranno nuovi posti di lavoro e porteranno nuove conoscenze e infrastrutture in aree spesso deprivate. Altri puntano l’accento sul fatto che i prodotti coltivati vengono spesso esportati dagli investitori in altri paesi, obiettando che queste acquisizioni potrebbero sottrarre alle popolazioni locali il controllo sui terreni, l’acqua e le risorse naturali, lasciandole in una condizione persino peggiore di quella attuale».
Lo studio italo-americano «Ha quantificato la massima quantità di cibo che può essere prodotta da colture coltivate nelle terre oggetto di acquisizione e il numero di persone che queste potrebbero sfamare. Tali risultati sono stati confrontati con la produzione agricola ottenibile con le pratiche colturali attuali e con il numero di persone nutribili con tali raccolti». Per ottenere loro risultati, i ricercatori dicono di aver «Utilizzato un database alla scala globale contenente le acquisizioni di terreni con una superficie superiore a 200 ettari, avvenute dal 2000 in avanti. Ogni acquisizione di terreno era corredata di informazioni relative alla superficie del terreno e alla coltivazione dominante, oltre che di indicazioni circa la tipologia dell’accordo: contratto firmato o verbale, oppure semplice intesa successiva a una manifestazione di interesse».
Poi hanno calcolato, per ciascuna acquisizione di terra, il massimo rendimento potenziale della coltura/e coltivata ed tilizzato le calorie dell’alimento per determinare il numero di persone che tale raccolto potrebbe nutrire. Secondo i calcoli prodotti nello studio «Se tutti i terreni acquisiti venissero coltivati al massimo del loro potenziale di resa colturale, la produzione di riso, mais, canna da zucchero e palma da olio aumenterebbe rispettivamente del 308%, 280%, 148% e 130%. Tenendo in considerazione le proporzioni delle coltivazioni che potrebbero essere utilizzate per la produzione alimentare, oltre che del fabbisogno necessario per una “dieta bilanciata”, i risultati hanno dimostrato che le colture prodotte su terreni acquisiti potrebbero nutrire tra 300 e 550 milioni di persone, contro i 190-370 milioni di persone che risulterebbero nutrite da tali terre con le attuali tecnologie».
Sempre secondo i risultati, «La classifica dei paesi più coinvolti nel fenomeno del “land grabbing” vede in testa l’Indonesia, seguita dalla Malesia, dalla Papua Nuova Guinea e dall’exSudan. Complessivamente questi paesi potrebbero fornire (nel caso di produzione massima) l’82% delle calorie ottenibili dalla coltivazione di tutte le terre acquisite. Studi precedenti riferivano che circa 32,9 milioni di ettari di terreni erano stati acquisiti tramite investimenti internazionali su vasta scala per varie finalità. Di questi, 22 milioni erano stati acquisiti a scopo agricolo».
Maria Cristina Rulli del Politecnico di Milano e Paolo D’Odorico dell’Università della Virginia commentano: «La nostra ricerca ha fornito una valutazione del quantitativo di cibo potenzialmente producibile in terreni soggetti al fenomeno delle acquisizioni di terreno su larga scala. Di conseguenza, deve esserci la consapevolezza del fatto che se questi alimenti venissero utilizzati per nutrire le popolazioni locali potrebbero alleviare la malnutrizione addirittura, nel caso in cui le terre acquisite non fossero state precedentemente coltivate, anche senza investimenti finalizzati all’aumento della resa colturale».
Il problema è che il land grabbing non punta a sfamare le popolazioni locali, ma a rifornire spesso i mercati esteri dei Paesi e delle imprese che acquisiscono i terreni. «Attualmente – concludono Rulli e D’Odorico vi sono ancora domande aperte le cui risposte potrebbero contribuire al dibattito su tale tema e cioè: come vengono gestiti i terreni acquisiti? Ovvero, che ne è degli alimenti prodotti? Vengono esportati dagli investitori? Questi terreni venivano già utilizzati per scopi agricoli prima dell’acquisizione e, se sì, per quali coltivazioni? Con quale resa colturale? Ottenere risposte a queste domande ci permetterebbe di quantificare la diminuzione degli alimenti disponibili per le comunità locali e ci aiuterebbe a trovare strategie di gestione per ridurre le possibili conseguenze negative delle acquisizioni su vasta scala sulle comunità locali».
Molto, troppo caute le riserve dei ricercatori sui risultati del loro lavoro, e stranamente neutrale il titolo attribuito da Greenreport all'articolo. La domanda chiave, a nostro parere, è la seguente: è ragionevole, dal punto di vista dell'equità e del rispetto dei diritti degli uomini, privare 180 milioni di poveri contadini del Terzo mondo della base della loro sussistenza per consentire un più ampio consumo di tea, caffè e altre leccornie ai già obesi ed energivori abitanti del Primo mondo? Poiché è questo che, oggi e storicamente, significa il land grabbing.
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Per adesso solo un progetto pilota della multinazionale svedese, me è innegabile che gli effetti della riurbanizzazione anche su stili di vita e relativo mercato si facciano sentire. Bloomberg, 30 giugno 2014 (f.b.)
Titolo originale: Ikea Goes Urban With First High Street Store in Hamburg – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Ikea è riuscito a diventare il principale negozio di arredamento del mondo convincendo la clientela a guidare fino a enormi centri ai margini delle aree metropolitane, da Stoccolma a Shanghai. Ma da oggi gli abitanti di Amburgo potranno andarci a piedi in una normale via della città. Il colosso svedese apre il suo primo negozio urbano nella zona di Altona, la circoscrizione più a ovest delle sette che compongono Amburgo, in un progetto pilota rivolto ai sempre più numerosi residenti delle città che detestano le lunghe trasferte verso i punti vendita tradizionali giallo blu. Una inaugurazione che (al costo per l'azienda di 80 milioni di euro) rappresenta un esperimento per Ikea, e apre nuove frontiere al mercato, secondo Johannes Ferber, direttore generale che guida l'espansione in Germania. “Un esperimento molto costoso per noi,ma vogliamo capire se funziona il formato del negozio urbano. E quello di Altona può servire da modello per altre grandi città come Berlino”. Si tratta di un'idea in linea con altri tentativi di altre catene di colonizzare gli ambienti urbani, da Tesco a Carrefour, con formati di dimensioni minori e relativamente centrali. I centri città sono anche l'ultima tendenza per le case automobilistiche, come la Daimler che ha appena aperto sempre a Amburgo un negozio Mercedes completo di bistrot, passeggiata commerciale e che mostra una sola auto.
Un sito dismesso
L'Ikea ha 356 punti vendita al mondo, 49 in Germania. Il progetto di Altona è il terzo nella città portuale, terza per dimensioni nel paese e prima per il reddito pro capite, secondo le statistiche della camera di commercio locale. La decisione di localizzarsi a Altona nasce nel quadro di una ricerca per un terzo negozio, racconta Ferber, e la municipalità ha di propria iniziativa messo a disposizione un sito dismesso abbandonato da oltre sei anni. La compagnia calcola che nel negozio potrebbero passare mediamente 4.000 clienti al giorno, anche il doppio nei fine settimana e altre occasioni particolari, contro i 12.000 nei negozi di Monaco o Berlino. “Molti residenti delle città non possiedono un'auto, e non sono disposti a guidare fuori città per far shopping” continua Ferber, e la speranza è che oltre la metà dei clienti di Altona verrà qui coi mezzi pubblici o a piedi.
Biciclette in prestito
Ikea mette a disposizione delle cargo bike per i clienti che possono così trasportare gratis i propri acquisti a casa, salvo restituire il mezzo entro tre ore. In alternativa è possibile chiedere a un corriere sempre in bicicletta, prezzo di partenza 9,90 €, di farsi consegnare la spesa a domicilio. “Per noi è una sfida, dobbiamo contare su un buon movimento per servire rapidamente la clientela a casa”. Ikea ha anche modificato la propria offerta di prodotti per il negozio di Altona, secondo la possibile domanda dei potenziali 150.000 clienti che risiedono in un raggio di tre chilometri, dalle scaffalature agli accessori. Incaricati dell'azienda hanno visitato 200 appartamenti della zona a valutare le necessità specifiche, racconta Ferber. “Ci sono tantissimi abitanti di Amburgo che si portano una costosa bicicletta fino in casa perché non hanno altro posto per metterla, e abbiamo una soluzione per loro”, si tratta di un gancio da muro particolare. E a differenza dei classici enormi contenitori Ikea senza finestre, al piano terra di Altona un'ampia vetrina mostra vari prodotti fra cui la sedia girevole Skruvsta a 99 euro, o le lampade Maskros a 39 euro.
‘Kill Billy’
All'interno, Ikea offre la zona esposizione e quella in cui il cliente può caricare i prodotti sui trolley o sistemarli altrimenti. Nei negozi tradizionali queste due aree sono su piani diversi. “Un modo innovativo di proporre cose come le cucine insieme ai relativi accessori, vetreria, porcellane, pentole, per poi passare alle sale da pranzo o sedie” continua Ferber. L'apertura del negozio ha suscitato opposizioni con lo slogan “Kill Billy” attaccato con adesivi ai lampioni e cestini della carta straccia, che cita ovviamente la famosa libreria simbolo del marchio: secondo gli oppositori la riqualificazione farà impennare quotazioni immobiliari e affitti.
In un referendum tenuto nel gennaio 2010 a Altona, il 77% dei votanti si è espresso a favore del negozio. “Se i favorevoli fossero stati una maggioranza del 51% forse ci avremmo ripensato, ma con una margine tanto ampio abbiamo deciso di proseguire” conclude Ferber. “Certo per Ikea deve essere molto diverso dall'organizzare un punto vendita in aperta campagna, dato che bisogna confrontarsi coi quartieri”commenta Florian Kroeger, gestore di un esercizio di ristorazione all'altra estremità dell'area pedonale. La sua famiglia è proprietaria di Claus Kroeger da 90 anni, si offrono bevande calde scelte e vini. Secondo Kroeger, 41 anni, il grande negozio farà bene, portando un po' di necessaria vita nel quartiere tradizionalmente operaio.
Alla scadenza della concessione, le autostrade potrebbero tornare gratuitamente allo Stato. Una norma semplice e mai applicata. Perché i concessionari cercano in ogni modo di ottenere rinnovi senza gara o almeno lunghe proroghe. Come utilizzare i pedaggi per risolvere il problema degli indennizzi. Lavoce.info, 27 giugno 2014, con postilla
Rinnovo o ritorno allo Stato?
La concessione di ogni autostrada prevede che, alla scadenza, l’infrastruttura venga devoluta gratuitamente al concedente, cioè allo Stato. Perché questa norma, così chiara, non viene applicata alle varie concessioni già scadute? È ben vero che l’Unione Europea impone che i rinnovi di concessione vengano assegnati per gara, ma certo non potrebbe obiettare se lo Stato, magari tramite l’Anas, si appropriasse dell’autostrada senza bandire alcuna gara. L’ostacolo maggiore è rappresentato dall’indennizzo che lo Stato dovrebbe pagare al “vecchio” concessionario per gli investimenti realizzati e non ancora ammortizzati.
Quando i concessionari fanno melina
Per aumentare le probabilità di rinnovo, con o senza gara, le concessionarie minimizzano nel tempo gli ammortamenti, aumentando così sia il profitto che l’importo dell’indennizzo in caso di subentro. Anche i nuovi investimenti (ad esempio, terze corsie) sono avviati negli anni a ridosso della scadenza, sempre per accrescere ulteriormente l’indennizzo di subentro. I concessionari poi, forti anche dei loro appoggi politici, fanno di tutto per ottenere rinnovi senza gara o per evitare che ne vengano fatte di “vere” e aperte. La conseguenza è che, sino ad oggi, non si è riusciti a concludere nemmeno una gara per il rinnovo di una concessione.
Per la Padova-Mestre è stata rinnovata senza gara a una società mista tra Anas e Regione Veneto. La Cisa e la Brescia-Padova hanno ottenuto lunghe proroghe con l’appiglio della costruzione di nuove tratte previste all’origine, in concessioni ormai vecchie di quaranta o cinquanta anni, ottenute al tempo senza gara e gratuitamente. Tre concessioni già scadute – Centropadane (settembre 2011), Autostrade Meridionali (dicembre 2012, Autobrennero aprile 2014) – continuano a essere gestite in proroga dalle stesse concessionarie.
Per la Centropadane una gara bandita nel 2012 è in “stallo” e la società minaccia di chiedere 320 milioni di danni allo Stato se non otterrà una proroga; a bilancio il valore dei beni devolvibili ancora da ammortizzare è di 260 milioni. Le Autostrade Meridionali indicano a bilancio un indennizzo di subentro di circa 400 milioni. In entrambi i casi, per evitare esborsi rilevanti da parte dello Stato, la scelta della gara per il rinnovo sembra appropriata, purché si riesca infine a fare delle vere gare, aperte anche a concorrenti.
Il caso Autobrennero
Ben diversa appare invece la situazione dell’Autobrennero. Una legge del 2010 prevedeva che l’Anas dovesse indire una gara entro l’anno. Bandita poi con un anno di ritardo, è stata contestata dalla concessionaria con vari ricorsi al Tar e dopo tre anni non pare vi sia ancora in vista alcuna soluzione, mentre continuano i tentativi di parlamentari della Regione di ottenere proroghe o lunghi rinvii mediante “colpi di mano” con emendamenti a leggi finanziarie inseriti all’ultimo momento. Nel bilancio (2012) i beni devolvibili ancora da ammortizzare sono indicati in 200 milioni. Non sappiamo se i piani finanziari (secretati) indichino cifre diverse, ci sarebbe comunque da aspettarsi semmai somme inferiori a quelle di bilancio, visto che non per tutti gli investimenti fatti dalle concessionarie c’è l’assenso dell’Anas. Se l’autostrada venisse devoluta allo Stato, senza bandire alcuna gara per rinnovo, l’esborso per l’indennizzo potrebbe essere finanziato a debito con grande facilità dall’Anas (o da un altro ente pubblico che subentri nella proprietà dell’autostrada) e rimborsato in poco più di un anno, considerando che l’autostrada produce un flusso di cassa operativo di oltre 150 milioni l’anno. Né sono previsti significativi nuovi investimenti.
Non si tratterebbe di una “nazionalizzazione” perché, con l’unbundling, tutte le (poche e semplici) attività gestionali (esazione, pulizia, manutenzione) potrebbero essere messe separatamente e periodicamente a gara e assegnate alle imprese private più efficienti (magari alla stessa vecchia concessionaria). Non ci sarebbero nuovi occupati nel settore pubblico, tranne i pochi addetti alla gestione delle gare. Il gettito dei pedaggi affluirebbe invece direttamente allo Stato (magari tramite l’Anas). Un esempio di questo sistema esiste già in Spagna.
I pedaggi furono introdotti per finanziare il costo delle nuove autostrade. Logica vorrebbe dunque che, terminato l’ammortamento e la concessione, com’è nel caso dell’Autobrennero, i pedaggi venissero eliminati o quanto meno riportati a quanto necessario per coprire i soli costi di manutenzione. Mantenendo invece i pedaggi al livello attuale si genera un cospicuo flusso di profitto che ha la natura di imposta. È preferibile allora che sia lo Stato stesso a riscuotere questa componente d’imposta, piuttosto che venderla a un nuovo concessionario che, nella determinazione del prezzo offerto, applicherebbe certo un forte sconto al flusso di profitti atteso.
Con la devoluzione, si potrebbe avere anche una notevole riduzione di costi perché nelle gare per l’assegnazione dei vari servizi (esazione, pulizia, eccetera) vi sarebbe ampia e vera concorrenza: per manutenzioni e nuove costruzioni si potrebbero assegnare appalti “aperti” senza doverle affidare a imprese controllate in house. E si eliminerebbero tutti i costi societari come ad esempio i pletorici consigli di amministrazione.
postilla
Riemerge finalmente l'antica battaglia dell'indimenticabile (per chi lo ha conosciuto) Guglielmo Zambrini, che per primo svelò la truffa delle concessioni autostradali e del loro sempiterno rinnovo, uno dei primi veicoli dello spostamento di risorse dal pubblico al privato, di accrescimento del debito pubblico e del suo trasferimento alle generazioni future.
Solo in Italia non c’è obbligo di sottoporre i progetti finanziati dallo Stato, come Mose o Expo, a valutazioni economiche di esperti indipendenti. Poi dicono che la corruzione è colpa di poche mele marce, o dei troppi controlli della burocrazia. Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2014
In Italia si costruiscono grandi opere, ma nessuno spiega perché. Il 6 giugno, al Politecnico di Milano, si è svolto un convegno sulla valutazione economica dei grandi investimenti nei trasporti. L’Italia è un paese peculiare: non ha mai valutato seriamente nulla, nonostante diverse norme lo prevedessero, in particolare quelle ambientali. O meglio, sono state fatte ma sempre con risultati positivi. Trovare tecnici e accademici “non eccessivamente pignoli” non è difficile, soprattutto se retribuiti dai promotori degli investimenti stessi. In Italia, al contrario di quel che avviene negli organismi internazionali e nei paesi sviluppati, non è richiesta alcuna “terzietà” alle analisi: ci si limita a chiedere all’oste se il vino è buono. Solo da pochi tecnici indipendenti, e di rado, sono arrivati dei “no” basati su analisi economiche e finanziarie. I risultati di queste iniziative isolate si sono visti. Ma a danno delle carriere di quegli incauti che hanno fatto le analisi.
Molte mazzette e poche analisi
Quello delle grandi opere pubbliche è uno dei pochi in cui il governo è autorizzato dalla normativa europea a trasferire risorse alle imprese nazionali. Infatti le gare per l’affidamento sono certo obbligatorie, ma sono sempre e solo vinte da imprese nazionali, e generalmente sempre le stesse. Poi, si sa, le imprese tendono a manifestare gratitudine. E quanto sia diffuso questo sentimento per gli appalti vinti lo vediamo quasi ogni giorno, dalle inchieste sul Mose di Venezia a quelle sull'Expo di Milano, alla stazione sotterranea Alta Velocità di Firenze. Tutte opere per le quali era stata da alcuni sottolineata l’eccessiva onerosità per le casse pubbliche. Ma se per molti attori non fosse esattamente l’economicità e l’utilità dell’opera l’obiettivo principale, si potrebbe leggere un nesso tra i fenomeni di corruzione e lo scarso interesse per valutazioni indipendenti. Oltre a un elevato tasso di corruzione, il settore ha ricadute occupazionali scarsissime per ogni euro pubblico speso (spesso si afferma il contrario, contro ogni evidenza fattuale). Secondo la Corte dei Conti, e viste le cronache giudiziarie, le grandi opere sono anche caratterizzate da straordinari livelli di penetrazione della malavita organizzata e da scarsa innovazione tecnologica (è un settore maturo).
Inoltre, forse anche in relazione all’assenza di valutazioni degne di questo nome, il settore ha dato uno straordinario contributo alla crisi del bilancio pubblico italiano, come dimostrato anche dal prof. Arrighi sulle pagine del Fatto. Ma per fortuna, questo disastro non riguarda tutti i modi di trasporto: le autostrade almeno in buona parte le pagano gli utenti con i pedaggi. Per gli investimenti ferroviari non è così: è tutto a carico dello Stato, e per importi straordinariamente elevati (in media tre miliardi di euro all’anno). Non certo per le linee minori: l’Alta Velocità, un eccellente progetto dal punto di vista degli utenti, ha scavato una voragine nei conti pubblici (si stima che sia costata tre volte di più di opere analoghe nel resto d’Europa). Alcune tratte sono ben utilizzate, altre semi-deserte (la tratta Roma-Milano è percorsa da circa 100 treni al giorno su 300 di capacità, che è un grado di utilizzazione discreto, ma le altre tratte molti meno). Gli utenti sono di categoria medio-alta, ma lo Stato, con straordinaria generosità, ha deciso di non caricare su di loro nemmeno un euro dei costi di investimento. La letteratura internazionale dimostra che l’impatto ambientale di opere ferroviarie di questi tipo varia dal modestissimo al negativo, considerando anche le emissioni in fase di costruzione.
E la festa non sembra affatto finita: sono alle viste una trentina di miliardi di euro a carico dello Stato in nuovi progetti ferroviari, molti dei quali di nuovo analizzati indipendentemente da alcuni studiosi (si veda LaVoce.info), e alcuni con livelli di utilizzazione prevedibili persino inferiori di quelli già realizzati. Oppure invece questa volta la festa sta per finire? Qualche segnale positivo c’è: l’intervento al convegno di cui si è detto di uno dei consiglieri di Matteo Renzi (il deputato del Pd Yoram Gutgeld) ha fatto chiaramente intendere che se i soldi pubblici nel settore dei trasporti vengono buttati dalla finestra come si è fatto finora, difficilmente ne arriveranno altri. Panico tra molti studiosi del settore, abituati a sentire promesse mirabolanti provenienti dai vari governi, e ad assecondarle con analisi molto “benevole”.
È ora di smetterla con i soldi buttati
Non ci sono più soldi pubblici da spendere con disinvoltura, e certo questa non è una motivazione che di per se possa rallegrare (rallegra però averlo sentito dire con forza da un consigliere di Renzi). E forse una motivazione che rafforza questa c’è: la nuova autorità indipendente per la regolazione dei trasporti sembra fortemente intenzionata a lasciare alla politica la scelta delle infrastrutture, ma senza consentire ai concessionari pubblici e privati chiamati a realizzarle, di sprecare soldi dello Stato o degli utenti, sia con opere sovradimensionate rispetto alla domanda, che con soluzioni irragionevolmente costose.
*professore di Economia dei trasporti al Politecnicodi Milano
In una intervista al neo nominato Provveditore agli Studi milanese si aprono nuove prospettive per i quartieri, chiarendo forse il senso del "rammendo" evocato da Renzo Piano, che in sé non ha nulla a che vedere coi metri cubi. La Repubblica Milano, 23 giugno 2014, postilla
In passato ha insegnato educazione fisica e ha fatto l’allenatore di basket. Adesso Marco Bussetti è il nuovo provveditore di Milano. Tanti i problemi che dovrà affrontare nei prossimi mesi, dal tempo pieno agli organici. Ma uno dei suoi pallini è lo sport: «Un grande strumento educativo spesso maltrattato». Il suo modello è la Francia, con le palestre patrimonio di tutti e le associazioni sportive scolastiche. La sua scuola ideale è aperta alla città e qui Milano è capofila del progetto nazionale. «Un’ottima idea, devono rimanere aperte ai quartieri non solo durante l’anno ma anche in estate». La sua nomina è arrivata durante gli scritti della maturità: è Marco Bussetti il nuovo provveditore di Milano. Cinquantadue anni, una laurea in scienze motorie, un passato da insegnante di educazione fisica e da allenatore di basket. È già stato provveditore a Monza e ha lavorato per sei anni all’ufficio scolastico regionale prima del nuovo incarico che gli è stato affidato dal direttore generale, Francesco De Sanctis.
Bussetti, durante la sua carriera da insegnante, ma anche in quella amministrativa, si è occupato a lungo di sport nelle scuole, argomento spesso trascurato o considerato di secondo ordine. Che cosa ne pensa?
«Lo sport è uno strumento educativo fondamentale in tutti gli ordini di scuola. Ma è vero: è una disciplina spesso messa nell’angolo. Eppure le famiglie la percepiscono come esigenza: i genitori apprezzano tantissimo quegli istituti che riescono a garantire attività sportive in maniera continuativa».
Ha un ruolo marginale soprattutto dove studiano i più piccoli: ci sono classi delle elementari che fanno ginnastica in classe.
«Parliamo fra l’altro dell’età dell’oro dal punto di vista motorio: è lì che i bambini dovrebbero sviluppare determinate abilità. Eppure non ci sono esperti a guidarli, perché sono le maestre di italiano o matematica a fare ginnastica. Ma l’attività fisica a scuola è maltrattata anche alle medie come alle superiori».
Che cosa farebbe lei?
«Bisognerebbe dare vita alle associazioni sportive scolastiche con più discipline che i bambini possono provare al di fuori dall’orario di scuola. Realtà complementari al mondo dello sport già esistente. È un modello che c’è già in Francia e in tanti Paesi d’Europa, con veri campionati di più discipline. Ho lavorato a lungo a questo progetto, ci punterò ancora nella mia nuova veste, non solo per le scuole milanesi. Le palestre delle scuole possono essere un patrimonio enorme per i nostri studenti».
A proposito di strutture: Milano è capofila di un progetto nazionale sulle scuole aperte che vorrebbe aule, palestre, biblioteche aperte alla città e ai quartieri. Palazzo Marino punta molto su questo. Che ne pensa?
«Un’ottima idea che appoggio e condivido pienamente. Le scuole potrebbero avere una nuova vita non solo durante l’anno, a lezioni finite. Ma sarebbero luoghi da aprire anche nei mesi estivi per tantissime attività. Una buon processo in cui è fondamentale coinvolgere il più possibile chi le governa ».
Quali sono i primi problemi che dovrà affrontare da provveditore?
«Prima di tutto devo prendere contatto con tutto il personale dell’Ufficio scolastico provinciale. Ora è il momento di ascoltare, di capire, di conoscere al meglio la realtà milanese. È già iniziata la discussione su organici e graduatorie, una delle priorità per questo ufficio. Solo dopo potrò prendere contatto con il territorio, con i dirigenti, con le singole scuole».
Qualche mese fa i sindacati sono tornati a lanciare l’allarme sulle elementari: insufficiente il numero di insegnanti inviati dal Ministero per garantire il tempo pieno, a fronte di una popolazione scolastica in crescita.
«Purtroppo non dipende da noi ma è un tema che dovremo affrontare. Io nel tempo pieno continuo a crederci molto come modello educativo. Mi rendo conto che ci sia una forte sofferenza su questo fronte».
Gli studenti alle prese con la maturità hanno finito ieri gli scritti e si preparano agli orali. Vuole dare un consiglio ai ragazzi?
«Il voto è sempre relativo. Mai giudicare le persone, o farsi mettere in crisi, da un voto».
postilla
E così fa un altro piccolo passo avanti quello che potrebbe rivelarsi il vero strumento cardine per il famoso “rammendo delle periferie” tanto frainteso da chi dovrebbe occuparsene, ma evidentemente lo fa soltanto con una idea parziale. I tanti sfottò che hanno accompagnato di recente l'ormai famosa frase di Renzo Piano, a volte anche grottescamente paventando improbabili colate di cemento (ormai nominare la colata di cemento pare diventato un modo per apparire più intelligenti e informati), forse non tenevano conto degli aspetti diciamo così immateriali del processo, ovvero quelli organizzativi e che operano su tempi e responsabilità, anziché sui soli spazi fisici. Significativo, anche, che il sostegno arrivi da un ambito come quello dello sport, vivacissimo e per propria natura giovanile e di massa: ottimo motore di sviluppo, per usare una metafora da altri campi di interesse. Il prossimo passo dovrebbe essere quello di chiarire il ruolo dei soggetti coinvolti, a partire da quelli istituzionali, perché la sola buona volontà di un singolo provveditore non basta, e occorre per esempio capire cosa possa fare l'istituenda Città Metropolitana. Ma aspettiamo con fiducia questi sviluppi, a ben vedere assai simili, forzando la mano, a quelli del successo del car-sharing, qui si tratta di neighborhood-sharing, e magari usare termini anglofoni aiuta a promuovere le iniziative presso un certo pubblico (f.b.)
Le buone leggi ci sono (c’erano), ma l’assenza di controlli rigorosi e la colpevole negligenza dei notai hanno consentito la privatizzazione selvaggia e iniqua del patrimonio pubblico. Il Fatto Quotidiano”, 4 giugno 2014
Se i sindaci di Roma di destra, centro e sinistra si fossero limitati a far rispettare la legge nella compravendita delle decine di migliaia di case della sterminata periferia romana costruite dalla fine degli anni Settanta sui terreni espropriati dal Comune, oggi le casse del Campidoglio non piangerebbero con un debito che ha sfiorato i 900 milioni di euro. Per decenni quel gigantesco patrimonio immobiliare che va sotto il nome di edilizia popolare è stato un Far West. Intorno a quelle case e sotto gli occhi di tutti è stato organizzato un mercato selvaggio con migliaia di atti di compravendita solo all'apparenza regolari, con perfino i timbri e le firme dei notai al posto giusto, ma effettuati aggirando la legge.
Una mastodontica giostra immobiliare su cui sono saliti in molti. I proprietari delle case popolari in primo luogo, gente in genere con redditi bassi, a cui il Comune aveva concesso di realizzare a poco prezzo il sogno di avere un tetto. Ma ai quali è stato poi regalato un terno secco, permettendogli di vendere quello stesso tetto non a un prezzo contenuto e concordato, considerando che si trattava di immobili che all'origine costavano poco proprio perché realizzati su terreni espropriati e quindi quasi regalati. Ma a prezzo pieno, di mercato. Con un guadagno eccezionale per i venditori, tre o quattro volte il prezzo iniziale. Case pagate a suo tempo meno di 200 milioni di lire, sono state rivendute di recente a 350 mila euro e anche più. Ci hanno guadagnato i politici romani che con le case di edilizia residenziale pubblica si sono fatti molti amici tra gli elettori delle periferie. Ci hanno guadagnato i notai che, fidandosi ciecamente delle attestazioni degli uffici comunali, hanno messo il bollo su atti che alla prova delle aule dei tribunali si stanno dimostrando per quel che sono: illegittimi. Ci hanno guadagnato anche molti tecnici comunali che hanno assistito imperterriti alla fiera e in alcuni casi l'hanno agevolata, se non promossa. E ci hanno indirettamente guadagnato i grandi immobiliaristi capitolini, da Francesco Gaetano Caltagirone in giù, perché se il prezzo delle case a Roma per decenni e prima che arrivasse la falce della crisi aveva toccato livelli di pazzia collettiva lo si deve anche al fatto che l'enorme serbatoio dell'edilizia convenzionata è stato scambiato a prezzo pieno, lasciando che andasse a farsi benedire ogni effetto calmieratore. Chi ci ha rimesso sono state le casse comunali e quindi tutti quei milioni di romani, la maggioranza, che non hanno partecipato alla sarabanda o perché non la ritenevano giusta o perché non erano nelle condizioni di poter partecipare, ma che alle tasse comunali non si sono potuti sottrarre neanche un po'. E ci hanno perso anche migliaia di famiglie romane sotto sfratto (una ogni 191) non più in grado di pagare affitti saliti in media del 160 per cento a causa della speculazione.
Secondo un calcolo prudenziale di Giuseppe Di Piero, presidente di Area 167, l'associazione che si è dedicata anima e corpo alla denuncia dello scempio, insieme all'avvocato che ha sostenuto la causa, Antonio Corvasce, il Comune di Roma ci ha rimesso almeno mezzo miliardo di euro. Il legale ha presupposto che il Comune rispettasse la legge facendo pagare ai trasgressori la multa prevista fino a 4 volte la differenza tra il prezzo giusto, calmierato, e quello realmente preteso dai venditori. Corvasce ha vinto alcuni giorni fa una causa promossa da una privata cittadina che si riteneva danneggiata dal sistema di compravendita usato a Roma per le case di edilizia pubblica. Il tribunale civile della Capitale ha accolto la tesi della cittadina e dell'associazione Area 167 secondo cui “concedere una sorta di patente speculativa in capo al primo acquirente/assegnatario di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, costruito su aree espropriate, non può essere considerato interesse pubblico”.
Quando un cittadino compra a buon mercato una casa popolare acquisisce la proprietà dell'immobile, ma con un vincolo forte: non può rivenderlo al prezzo massimo che riesce a spuntare, ma deve accontentarsi di un prezzo calmierato. A Milano, Firenze, Reggio Emilia, Torino, Pisa, Venezia, Ferrara, Bologna, Parma, Cagliari e in molte altre città la legge è stata rispettata. A Roma no. Ora la giunta Marino non sa che pesci prendere: per l'assessore all'Urbanistica, Giovanni Caudo, il problema c'è ma non sa da che parte cominciare per risolverlo. A scanso di equivoci l'associazione Area 167 gli ha spedito una diffida invitandolo a interrompere una volta per tutte la giostra delle case popolari.
«L'imbeccata è oggi della Corte dei Conti, ma sarebbe bastato ascoltare in questi anni la voce dei No Expo per capire dove saremmo andati a parare». Se la stampa facesse il suo mestiere...
Mancano poco meno di undici mesi ad Expo e finalmente - complice il fragore di un'inchiesta che ha portato in carcere 7 persone per corruzione - l'Esposizione universale in programma a Milano dal primo maggio 2015 può essere letta anche dai grandi media con spirito "critico". C'è da dire, però, che si arriva in grave e palese ritardo. Rendendo inutile, o sterile, il portato di editoriali o di inchieste giornalistiche (perché quando sono imbeccate dalle carte di una Procura, significa che il "danno" c'è già stato).
Avrebbero potuto, in particolare Il Corriere della Sera e la Repubblica, incalzare il "sistema Expo" nel lungo intervallo di una luna di miele iniziata nel marzo del 2008, dopo l'assegnazione a Milano dell'organizzazione di Expo 2015 e maggio 2014, con gli arresti che provano ciò che molti a Milano e non solo sostengono da tempo: questo Expo senz'anima (come lo ha definito Carlin Petrini di Slow Food nel corso di un convegno ospitato dall'ISPI) è stata solo una "grande opera", anzi un insieme di grandi opere che costeranno almeno 11 miliardi di euro.
Le parole di Petrini sono lo spunto per un corsivo pubblicato il primo giugno dal Corriere della Sera, ma chi lo firma, Giangiacomo Schiavi, meno di tre mesi fa sedeva a intervistare Sala, ad di Expo, Pisapia, sindaco di Milano, Maroni, presidente di Regione Lombardia, e Martina, ministro dell'agricoltura a Milano, e non ha incalzato nessuno dei quattro su ritardi (la cancellazione della linea metropolitana M4, la mancata inaugurazione di M5; i cantieri "indietro tutta" di Pedemontana), né sul rischio di una Expo "dimezzata": come scrive Lorenzo Bagnoli su Altreconomia di maggio 2014, i Paesi ospiti non dovranno pagare alcuna penale se rinunciano a realizzare il loro padiglione, e se continua così - per i cantieri "preliminari" della Piastra espositiva siamo a quasi due anni di ritardo - alcuni potrebbero rinunciare.
Schiavi, pur con distinguo, continua però a difendere Expo, definisce "rubagalline" gli arrestati, ma basterebbero due collegamenti - il dovere del giornalista è quello della "memoria"- per evidenziare la debolezza di questa lettura. In aiuto, arriva uno scoop di Repubblica, sugli extracosti legati a una gestione "commissariale" ed "emergenziale" degli appalti. L'imbeccata è - oggi - della Corte dei Conti, ma sarebbe bastato ascoltare in questi anni la voce dei No Expo per capire "dove saremmo andati a parare". A meno di non rinunciare a questa mega-macchina mangia soldi, pagando - fino ad aprile 2013 - una penale di poche decine di milioni di euro, irrisoria rispetto allo spreco di denaro pubblico che è già stata e sarà Expo.
Invece, siamo ancora qui, a 11 mesi dall'evento, ad ascoltare senza colpo ferire un ministro in carica parlare di Expo come di una "scommessa". Se è davvero tale, dopo sei anni, è già persa. Avvertite Maurizio Martina.
L'accaparramento dei beni comuni essenziali, dall'acqua alla terra, è una terribile realtà in tutto il mondo. Un'analisi e la proposta dei principi essenziali da assumere al più presto. Pressenza, International Press agency, 17 maggio 2014 (i.b.)
Intervento di Maude Barlow, presidente di Council of Canadians e Food & Water Watch nella sessione “A caccia di risorse. Gli effetti dell’accaparramento e il ruolo dell’Europa”, nell’ambito del Convegno Internazionale “Un futuro giusto o giusto un futuro? Ambiente, consumo e sviluppo: istruzioni per l’uso” avvenuto a Milano il 9 e 10 maggio 2014. Evento organizzato da Mani Tese in occasione del loro 50 esimo anniversario. Pubblicato su: http://www.pressenza.com/
In un mondo che sta esaurendo l’accesso all’acqua, la questione del controllo incombe. L’acqua è un diritto umano, un bene pubblico e un patrimonio comune o un prodotto da mettere sul mercato come il petrolio e il gas?
L’accaparramento dell’acqua
La paura della scarsità di cibo per il futuro ha portato paesi ricchi, investitori internazionali e operatori di commodities ad accaparrarsi grandi quantità di terra nel sud del mondo per sfamare le loro popolazioni o come investimenti speculativi. Un’area pari a quasi tre volte la dimensione del Regno Unito è stata “accaparrata” a prezzi stracciati. Gli investitori stanno facendo affari incredibili: alcuni affittano enormi pezzi di terreno per 99 anni pagando non più di 40 centesimi all’acro all’anno.
Oltre un quinto dell’area della Cambogia è stato concesso a interessi privati, spostando quasi mezzo milione di persone. L’Etiopia è uno dei paesi con il più alto livello di fame al mondo, eppure il suo governo sta offrendo enormi distese dei suoi terreni più fertili a speculatori per coltivare cibo da esportare.
Chi si accaparra terreni si appropria anche dell’acqua, poiché gli investitori hanno bisogno di garantirsi l’accesso all’acqua per quelle che sono essenzialmente colture da esportazione, devastando i bacini idrici locali. Non solo questi grandi agro-investitori scelgono il terreno migliore per le loro colture, ma bloccano anche il diritto di accesso a ruscelli, fiumi e falde idriche locali. Un numero allarmante di paesi sta cedendo i propri diritti all’acqua per i decenni a venire, la maggior parte a prezzi stracciati.
La quantità d’acqua necessaria in Africa per coltivare un terreno acquisito nel 2009 è da sola due volte il volume d’acqua usato per l’agricoltura in tutta l’Africa appena quattro anni prima. Se l’accaparramento delle terre continua al ritmo attuale, in cinque anni la richiesta di acqua fresca supererà le scorte di acqua rinnovabile in Africa. Alcuni lo definiscono “suicidio idrologico”.
L’acqua è anche la causa di altri spostamenti forzati. Alta tecnologia ad alta intensità di capitale e “zone economiche libere” su larga scala costringono ogni anno 15 milioni di persone a spostarsi. Inoltre terreni agricoli, zone di pesca, foreste e villaggi vengono convertiti in serbatoi, sistemi di irrigazione, miniere, piantagioni, autostrade, insediamenti urbani, complessi industriali e resort turistici. In questo modo e con l’autorizzazione dei governi, gli interessi privati assumono il controllo dell’acqua che un tempo sosteneva intere popolazioni.
L’acqua viene “accaparrata” e mercificata anche in altri modi. L’interesse delle aziende per le fonti mondiali di acqua pulita, ormai in via di esaurimento, è andato crescendo per tre decenni, ma è aumentato in modo vertiginoso negli ultimi anni. Le multinazionali considerano l’acqua un prodotto vendibile e negoziabile, non un patrimonio comune o un bene pubblico e sono decise a creare un cartello somigliante a quello che oggi controlla ogni aspetto dell’energia, dalla ricerca, alla produzione fino alla distribuzione.
Molti paesi poveri sono stati costretti a stipulare contratti sui servizi idrici con utenze private a scopo di lucro, una pratica che ha generato un’accanita resistenza da parte dei milioni di persone escluse a causa della povertà. Ora sotto la maschera dell’austerity anche l’Unione Europea sta promuovendo servizi per l’acqua privata e di scarico.
Altre lotte sono dirette contro le compagnie dell’acqua in bottiglia, che prosciugano grandi quantità di acqua dai bacini idrici locali per venderla. Alcuni paesi, come il Cile, vendono all’asta l’acqua non purificata di laghi e fiumi a interessi globali come le società minerarie, che oggi posseggono letteralmente l’acqua che prima apparteneva a tutti. Le aziende private controllano enormi quantità di acqua usata nell’agricoltura industriale, nell’industria mineraria e nella produzione di energia e possiedono la maggior parte delle dighe, dei canali, degli impianti di dissalazione e delle infrastrutture urbane del mondo.
Molti paesi, tra cui l’Australia, il Cile, gli Stati Uniti e la Spagna, hanno introdotto i mercati idrici e il commercio d’acqua; una licenza diventa così una proprietà privata e investitori privati e imprese del settore agro- industriale accumulano, comprano, vendono e commerciano acqua non purificata nel mercato, destinandolo a chi può permettersi di comprarla. In ognuno di questi casi, l’acqua diventa proprietà privata di chi ha i mezzi per comprarla e viene negata a chi non li ha.
Neanche i governi possono competere con il mercato. Quando il commercio dell’acqua è stato introdotto in Australia, gli investitori privati e i broker hanno portato il suo prezzo alle stelle. Quando il governo australiano ha provato a ricomprare l’acqua che aveva dato via gratis per salvare dal prosciugamento il fiume Murray-Darling non ha più potuto permetterselo.
Impatti sulle comunità locali e sull’ambiente
L’impatto di questo saccheggio d’acqua sulle comunità locali e sul loro ambiente è stato devastante. Piccoli agricoltori e popolazioni indigene sono stati scacciati a milioni per far spazio all’accaparramento delle terre, ora usate per coltivazioni destinate all’esportazione; le comunità locali si ritrovano così sempre più affamate e prive d’acqua.
Inoltre l’agricoltura locale, sostenibile e basata sulla biodiversità, viene ormai sostituita dai peggiori esempi di imprese agro-industriali, complete di inquinamento idrico per l’uso di prodotti chimici, sovra-estrazione di acqua sotterranea e irrigazione superficiale. Coloro che vengono scacciati dalle terre sono proprio quelli che sanno praticare l’aridocoltura e la rotazione delle colture per proteggere le fonti d’acqua e convivere con le oscillazioni di siccità e inondazioni che caratterizzano la maggior parte del mondo.
Questi contadini si uniscono ad altri sfollati climatici e comunità costrette ad abbandonare la loro terra per fare spazio a zone di libero scambio, mega-dighe, mega-progetti e siti industriali ed emigrano nelle baraccopoli che circondano le città dei paesi in via di sviluppo. Là molti di loro non hanno accesso all’acqua pulita o ai servizi igienici, perché questi slum non sono formalmente riconosciuti, o perché il prezzo dell’acqua, spesso privatizzata, è fuori dalla loro portata.
Conoscete le tremende statistiche: le malattie dovute all’acqua uccidono più bambini di tutte le forme di violenza messe insieme, inclusa la guerra. L’ONU ci assicura che sta chiudendo il divario dell’accesso all’acqua, ma io ho i miei dubbi. Per valutare gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio riguardo all’acqua, calcola il numero di nuove condutture installate in un paese, ma non è detto che da una tubatura esca acqua pulita. Una conduttura potrebbe anche essere molto lontana o misurata, mettendola fuori dalla portata dei poveri.
Personalmente credo che la diminuzione dei rifornimenti mondiali d’acqua a causa dell’inquinamento, della cattiva amministrazione e dello spostamento dell’acqua dai bacini idrici stia portando a una crisi di enormi proporzioni. Secondo UN Habitat entro il 2030 più della metà della popolazione dei grandi centri urbani abiterà in baraccopoli senza accesso all’acqua o ai servizi igienici.
Non bisogna credere che questi abusi siano relegati al sud del mondo; è importante sapere che si profilano anche per il nord. Oltre 90.000 poveri di Detroit (Michigan) si sono visti tagliare l’acqua perché non potevano pagarla e molte altre migliaia subiranno presto la stessa sorte. In Bulgaria, Grecia, Spagna e Portogallo altre migliaia di persone hanno perso l’accesso all’acqua e sono state sfrattate.
Chi sta guidando l’accaparramento dell’acqua?
Nessuna di queste violazioni dei diritti umani e ambientali doveva accadere. Una buona politica pubblica e una vera cooperazione internazionale poteva evitare tutto questo. Ma negli ultimi decenni la maggior parte dei governi e delle istituzioni internazionali ha adottato un modello economico che favorisce la crescita illimitata del mercato, riducendo in modo drammatico i poteri del governo, la de-regulation delle finanze e delle risorse, il cosiddetto “libero” scambio al di là dei confini e il crescente potere delle imprese.
Sostenuta dall’Unione Europea e dalle banche europee, la Banca Mondiale continua a promuovere la privatizzazione dei servizi idrici nel sud del mondo, nonostante molti di questi accordi siano stati un completo fallimento. Inoltre il finanziamento di questi servizi va ormai direttamente a imprese come Suez e Veolia, aggirando i governi e adesso la Banca Mondiale sta investendo nelle compagnie stesse.
La Società finanziaria internazionale, un’agenzia della Banca Mondiale, inoltre finanzia in modo cospicuo il settore agro-alimentare nel sud del mondo e asserisce che l’alto costo del cibo offre ai paesi poveri opportunità uniche per giovarsi dello stesso accaparramento delle terre che li sta distruggendo. La Banca Mondiale lavora addirittura con i governi dei paesi poveri per cambiare la legislazione in modo da aumentare la quantità di terra che uno straniero può possedere e ha persino una “classifica del business” che favorisce i governi che rendono la vita più facile agli investitori decisi ad accaparrarsi le terre.
Un’altra tendenza inquietante è la privatizzazione degli aiuti esteri. Un ammontare crescente di aiuti pubblici viene trasferito non ai governi, ma al settore privato, dando alle aziende maggiore potere per determinare le politiche locali. Un rapporto dell’European Network of Debt and Development ha scoperto che nell’ultimo decennio la maggior parte degli aiuti della Banca Mondiale e della Banca europea degli investimenti sono finiti in paradisi fiscali e aziende con sede nel nord del mondo, soprattutto banche commerciali, fondi speculativi e fondi di private equity.
Alcuni governi – come quello del mio paese, il Canada – finanziano solo agenzie umanitarie disposte a collaborare con gli obiettivi delle imprese che fanno affari con il paese designato. In America Latina gli attivisti dell’acqua che si oppongono alla distruzione delle risorse idriche locali per mano delle compagnie minerarie canadesi non possono più chiedere aiuto alle agenzie umanitarie del paese.
Come gli aiuti sono privatizzati, così i gruppi umanitari locali sono politicizzati. Gli attivisti africani per la giustizia dell’acqua segnalano che solo i gruppi a favore della privatizzazione e delle appropriazioni dei terreni sono finanziati per il loro lavoro.
La nuova generazione di accordi commerciali e sugli investimenti è un altro enorme ostacolo al diritto umano all’acqua. Questi accordi non hanno niente a che fare con la riduzione delle tariffe e l’apertura dei commerci e riguardano invece la totale limitazione del potere dei governi di proteggere i diritti della popolazione, le loro risorse e il loro ambiente.
Questa nuova generazione di accordi commerciali, come il Comprehensive Economic and Trade Agreement (Accordo economico e commerciale globale – CETA) tra Canada e Unione Europea e il Transatlantic and Investment Partnership (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti – TTIP) tra Unione Europea e USA, stabiliscono clausole investitore-stato che danno alle aziende straniere il diritto di citare in giudizio i governi se ritengono che il loro “diritto al profitto” sia colpito da leggi e regolamentazioni interne.
In Canada abbiamo convissuto con questo orribile potere corporativo per vent’anni e questo ha avuto un impatto assolutamente negativo sulla capacità di proteggere in modo reale la nostra acqua dalle società americane. Con il CETA, sarà più difficile mantenere l’acqua pubblica. Suez e Veolia non vedono l’ora.
Esistono oggi quasi 3.000 accordi bilaterali nel mondo, molti dei quali prevedono il diritto delle aziende a far causa direttamente ai governi per un risarcimento se i loro profitti sono influenzati da leggi e pratiche nazionali. Immaginate l’impatto di questi accordi sui paesi poveri che cercano di proteggere i loro rifornimenti d’acqua dal saccheggio straniero.
È importante sottolineare che i trattati investitori-stato danno diritto agli accaparratori stranieri di terre e acqua non solo al raccolto che stanno coltivando, ma anche alla terra e all’acqua usate per produrlo.
Qui non si tratta solo di speculazione. Nel 2010 il governo canadese ha pagato 130 milioni di dollari a una compagnia americana di cellulosa e carta che aveva abbandonato il suo stabilimento di Terranova, lasciando i dipendenti senza lavoro e pensione. La compagnia ha fatto causa al governo grazie alla disposizione investitore-stato del North American Free Trade Agreement, sostenendo che l’acqua che aveva usato per decenni le apparteneva. E’stato così stabilito un pericoloso precedente, che si potrebbe ripetere altrove.
Con queste regole, se un paese che oggi permette l’accaparramento di terre e acqua decidesse di riprendere il controllo di queste risorse, dovrà prepararsi all’eventualità di pagare enormi risarcimenti per il basilare diritto di auto-governarsi.
Il rapporto investitore-stato ha suscitato di recente una grande preoccupazione in Europa, ma purtroppo, nonostante sia in corso una consultazione pubblica al riguardo, il Parlamento Europeo ha concordato un inquadramento per la gestione delle conseguenze finanziarie di questo regalo alle imprese, invece di respingerlo in modo definitivo.
Cosa possiamo fare per impedire l’accaparramento dell’acqua e realizzare il diritto all’acqua?
La globalizzazione economica, con la sua enfasi sulla crescita ad ogni costo, il suo servilismo verso l’1%, la sua sistematica riduzione dei beni comuni, il suo rafforzamento dei diritti aziendali nella legislazione internazionale e la cacciata dei custodi locali di terra e acqua costituisce una ricetta infallibile per arrivare a una crisi idrica.
Se si vuole avere qualche speranza di successo, la soluzione alla crisi idrica globale deve includere una rinuncia a questo modello di crescita. I paradisi fiscali vanno chiusi e lo stato di diritto deve prevalere sul capitale transnazionale.
Il commercio deve essere riformato radicalmente per servire un diverso insieme di obiettivi e giungere a un controllo democratico. Le aziende devono perdere il diritto di fare causa ai governi. Gli accordi investitore-stato vanno vietati dovunque, come è successo in Australia, Brasile e Bolivia. Inoltre ogni riferimento all’acqua come bene negoziabile, servizio o investimento va rimosso dagli accordi commerciali. Gli interessi delle aziende e del mercato non devono essere in alcun modo usati per ostacolare la protezione locale e internazionale dell’acqua.
L’accaparramento delle terre e dell’acqua deve finire. Abbiamo bisogno di una moratoria internazionale sulle acquisizioni su larga scala e le terre razziate devono essere restituite. La vera sicurezza alimentare in Africa e in ogni altro luogo verrà da una genuina riforma agraria e idrica e dall’orientamento degli investimenti pubblici verso l’agricoltura di comunità o familiare.
Una nuova etica dell’acqua
Entro il 2030 la nostra domanda globale di acqua supererà le risorse del 40%, una ricetta infallibile per produrre una grande sofferenza. Cinquecento scienziati hanno di recente informato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon che l’abuso collettivo di acqua ha fatto sì che il pianeta entrasse in “una nuova era geologica” . La maggior parte della popolazione del pianeta vive in un raggio di 50 chilometri da una fonte di acqua di scarsa qualità.
Se il pianeta e noi stessi vogliamo sopravvivere, abbiamo bisogno di una nuova etica, che ponga l’acqua e la sua tutela al centro di tutte le politiche e pratiche.
Questa nuova etica dell’acqua dovrebbe basarsi su quattro principi.
Il primo è che l’acqua è un diritto umano e deve essere divisa equamente. Nel 2010 l’Assemblea Generale dell’ONU ha formalmente riconosciuto il diritto umano all’acqua e ai servizi igienici. Poco dopo il Consiglio per i Diritti Umani ne ha precisato il significato. Mentre la risoluzione taceva sulla questione della proprietà dell’acqua, il Consiglio ha chiarito che questo nuovo diritto è vincolante per i governi e stabilisce i loro obblighi e responsabilità nel metterlo in pratica.
Non solo adesso tutti i governi hanno la responsabilità di impostare un piano per distribuire acqua sicura, conveniente e pulita ai propri cittadini, ma devono anche impedire a terzi di interferire con questo nuovo diritto. Aziende come le imprese agro-alimentari che si appropriano di terreni e acqua e inquinano o prosciugano fonti idriche locali possono essere accusate di violare il diritto umano all’acqua. Questo fornisce un importante strumento alle comunità locali di tutto il mondo nelle lotte contro le miniere, le dighe e l’estrazione dell’energia.
Il secondo principio sostiene che l’acqua è un patrimonio comune dell’umanità e delle generazioni future e va protetta come un bene pubblico dalla legge e nella pratica. L’acqua non deve mai essere comprata, venduta, tesaurizzata o scambiata come merce sul libero mercato e i governi devono mantenerla come bene comune, non per il profitto privato. Le imprese possono aiutare a trovare soluzioni alla crisi idrica, ma non dovrebbero avere la possibilità di decidere l’accesso a questo essenziale servizio di base, poiché la loro ricerca di profitto prevarrà sempre sul bene pubblico.
Secondo il terzo principio, l’acqua ha dei diritti anche al di fuori della sua utilità per gli esseri umani. Appartiene alla Terra e alle altre specie. La nostra credenza nella “crescita illimitata” e il nostro modo di trattarla come uno strumento per lo sviluppo industriale ha messo in pericolo i bacini idrografici della Terra. L’acqua non è una risorsa per la nostra convenienza e il nostro profitto, ma costituisce l’elemento essenziale di un ecosistema vivente. Dobbiamo adattare le nostre leggi e pratiche per assicurare la protezione dell’acqua e il ripristino dei bacini idrici – un antidoto cruciale al riscaldamento globale.
Infine credo fortemente che l’acqua ci possa insegnare come vivere insieme, se solo glielo permettiamo. Possono scoppiare guerre per l’acqua in un mondo con una domanda crescente e forniture sempre più scarse, ma così come può essere fonte di dispute, conflitti e violenze, l’acqua può anche unire persone, comunità e nazioni in una ricerca comune di soluzioni.
La tutela dell’acqua richiederà vie più collaborative e sostenibili per l’agricoltura, per la produzione d’energia e per i commerci internazionali e avrà anche bisogno di un potente controllo democratico. La mia più profonda speranza è che l’acqua possa diventare un dono della natura all’umanità e insegnarci come vivere più leggermente sulla terra, in pace e nel reciproco rispetto.
Come ha detto Eleanor Roosevelt: “Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei loro sogni”. Bene, io credo nella bellezza di questo sogno: credo che la crisi idrica globale diventerà la spinta per la pace nel mondo, che tutta l’umanità capirà che l’acqua è la fonte della vita e si inchinerà alla necessità di proteggere e di ripristinare i bacini idrici e che grazie al nostro lavoro comune i popoli del mondo dichiareranno che le sacre acque della vita sono un diritto umano e una proprietà comune della Terra e di tutte le specie, da preservare per le generazioni a venire.
«In un viaggio da Nord a Sud Italia le nuove stazioni ferroviarie. Spesso progettate da archistar, ma funzionalità e utilità suscitano più di un dubbio. Mentre mancano del tutto controlli e sanzioni per eventuali costi impropri. Cosa farà l’Autorità dei trasporti?». Lavoce.info, 16 maggio 2014 (m.p.r.)
Il fenomeno del gold plating. Il fenomeno noto in linguaggio regolatorio come gold plating ha origini nella prima esperienza americana di regolazione economica dei monopoli naturali negli anni Trenta: quel regolatore aveva posto limiti al saggio di interesse sul capitale investito tramite il controllo delle tariffe (Rate of Return Regulation), si era generato così un ovvio incentivo a investimenti inutili, o inutilmente costosi, visto che il dispositivo ne garantiva la remunerazione. Da qui il nome.
Ma ovviamente l’incentivo a un uso inefficiente delle risorse si genera anche nel caso di finanziamenti pubblici per investimenti fatti sostanzialmente “in solido”, situazione che si verifica in Italia per le Ferrovie dello Stato. Non sembra infatti che sia in atto alcun controllo “terzo” ex-ante, né alcuna sanzione ex-post per costi impropri delle opere, se non forse per un’unica audizione parlamentare sui costi straordinariamente elevati delle infrastrutture per l’alta velocità, conclusa con la molto generica costatazione della “eccezionalità del caso italiano” rispetto agli altri paesi europei.
Ora, che il problema abbia dimensioni potenzialmente estese risulta anche da una semplice osservazione sulle stazioni Fs più recenti, fatta in termini intuitivi, mancando ogni contabilità accessibile sui costi e i ricavi aggiuntivi che quelle opere generano (una contabilità che qualsiasi privato terrebbe con estrema cura). Che poi motivazioni artistiche o “mecenatistiche” possano giustificare spesa pubblica a fondo perduto non sembra un argomento molto convincente, data l’autoreferenzialità della situazione e la totale assenza di verifiche contabili: per esempio, quanta spesa in più di quella necessaria viene giustificata con motivazioni artistiche? E d’altra parte anche l’esperienza diretta in valutazioni di questo tipo fatte all’estero da chi scrive conferma la fattibilità e l’opportunità dell’analisi per gli investimenti pubblici. (1) Anche perché le società “Grandistazioni” e “Centostazioni” hanno obiettivi unicamente legati alla massimizzazione dei ricavi, non alla remunerazione delle risorse pubbliche impiegate.
Un viaggio in Italia. Il primo caso che prendiamo in considerazione è la stazione centrale di Milano, rifatta integralmente con materiali pregiati e un sistema di rampe molto impegnativo e complesso. Ora accedere ai binari dalla metropolitana è molto meno diretto di prima, e questo grave disagio (si pensi a persone in ritardo e con bagagli) è chiaramente pensato in modo da “costringere” i viaggiatori a percorrere vaste aree commerciali. Potremmo classificare questo caso come “discutibile induzione alla spesa”. È un modo sensato e accettabile di spendere i denari pubblici, anche nell’ipotetico ma improbabile caso che i ricavi aggiuntivi ripagassero l’investimento pubblico con un ritorno accettabile?
Proseguendo verso Sud, incontriamo la stazione di Reggio Emilia, progettata dall’archistar Santiago Calatrava e da alcuni maligni denominata lo “scheletro di dinosauro”. Al di là di soggettive valutazioni estetiche, era necessario convocare una celebrità (con i del tutto probabili costi relativi) per una stazione che in realtà è una semplice fermata in un’area in aperta campagna, dove sostano pochi treni al giorno? Qualche dubbio è legittimo. Potremmo classificare questa categoria come “discutibile pregio architettonico”.
La vicenda delle stazioni alta velocità che incontriamo più a Sud, quelle di Bologna e di Firenze, ha una storia peculiare. Tutto parte dalle preoccupazioni per il possibile inquinamento acustico che i treni veloci diretti avrebbero potuto generare transitando a piena velocità attraverso Bologna. L’amministrazione, invece di valutare la possibilità di schermature antiacustiche integrali alla linea, pretese una stazione sotterranea, decuplicando i costi. L’amministrazione di Firenze ritenne di non poter essere da meno di quella bolognese e richiese anch’essa una stazione sotterranea, per motivi analoghi.
Ora, la nuova stazione di Bologna ha senza dubbio un ruolo importante, ma si dispiega su una profondità di circa cinque piani interrati, con un volume interno straordinario (ricorda una cattedrale). I tempi e le complessità logistiche da superare per risalire dal livello dell’alta velocità alla superficie e ai treni locali sono altrettanto straordinari, e suscitano forti perplessità sulla razionalità dei costi di una soluzione così scarsamente funzionale per le coincidenze, una delle massime esigenze delle stazioni di interscambio.
Ma il caso più eclatante è quello della costruenda nuova stazione sotterranea di Firenze, progettata da un’altra archistar, l’inglese Norman Foster. Sul piano funzionale, si suppone che una stazione sotterranea si costruisca per accelerare i treni in transito e per ottimizzare l’interscambio con i treni locali. Ma non è così: la linea sotterranea percorre un tracciato tutt’altro che rettilineo e la risalita verso i treni locali è complessa, con una lunga rampa obliqua e una tratta ulteriore in orizzontale. Per quanto concerne i costi, poi, si possono stimare quadrupli di quelli di una soluzione a raso, ma in questo caso sarebbero stati ancora più alti: per raccordarsi con la soluzione sotterranea è stato modificato, sembra, lo sbocco in pianura della tratta alta velocità Bologna-Firenze, con una decina di chilometri supplementari in galleria e con costi aggiuntivi (parametrizzando sui costi dell’intera tratta) dell’ordine di molte centinaia di milioni. Potremmo classificare il caso di queste due stazioni come “gigantismo progettuale”.
Proseguendo verso Sud, nulla si può dire invece della funzionalità della nuova stazione “a ponte” di Roma Tiburtina, anche questa firmata da un’archistar (Zaha Hadid). La sensazione qui è di semplice gold plating, per i materiali e le dimensioni complessive, mentre gli sconfinati spazi commerciali la fanno rientrare nella tipologia della “discutibile induzione alla spesa”.
Rimanendo a Roma, possiamo ricordare un altro episodio celebre di gold plating, seppure accaduto più lontano nel tempo: la stazione Ostiense. Doveva essere il terminale urbano per i treni diretti all’aeroporto di Fiumicino. Già l’idea appariva insensata: perché non far proseguire semplicemente la metropolitana urbana per Fiumicino, visto che non esistevano problemi di scartamento né di alimentazione, che oltretutto avrebbe evitato ai viaggiatori uno scomodissimo interscambio? Sembra per semplici ragioni di gestione di risorse pubbliche afferenti a due amministrazioni diverse (nella più benevola della ipotesi). Comunque la scomodità della soluzione era tale che il (monumentale e, si suppone, costosissimo) terminal fu presto abbandonato e divenne per dieci anni rifugio per senzatetto. Nessuno ovviamente ha mai risposto dello straordinario spreco di risorse pubbliche che l’operazione ha comportato. Il livello di disfunzionalità di questo caso lo rende difficilmente classificabile.
Certo, questo è un “processo indiziario”, in cui prevalgono considerazioni qualitative, che per definizione risultano fragili e opinabili. Ma proprio questo è il problema: dati gli incentivi a massimizzare la spesa, incentivi condizionati politicamente sia dai costruttori che dalle amministrazioni locali (il residual claimant pubblico si è sempre dimostrato molto disponibile), è urgente una rendicontazione regolatoria e dettagliata, che sgombri il campo da ogni sospetto di gold plating. E questo vale ovviamente per tutte le infrastrutture regolate: la casistica infatti potrebbe ampliarsi molto. Finora, a questo tipo di fenomeni nel panorama italiano non è stata data alcuna attenzione, ma la recente costituzione dell’autorità regolatoria indipendente per il settore trasporti fa sperare (obbliga a sperare) in un radicale cambio di scenario.
(1) È il caso della verifica costi-benefici di una stazione di autobus a Montevideo, opera candidata al finanziamento da parte della Banca Mondiale.
Flâner, dicono i francesi. Anche se la tesi dell'Autore è che in fondo noialtri si ragiona coi piedi, interpretandolo in modo solo un pochino più esteso si arriva a un principio ovvio di urbanistica, che forse non val la pena ricordare. Corriere della Sera, 3 maggio 2014, postilla (f.b.)
Aveva ragione mio nonno Aurelio quando diceva che solo i piedi danno fiato al cervello, non era un gran lettore ma fosse nato un secolo prima avrebbe fatto volentieri compagnia a quell’omone barbuto di Charles Dickens accanito camminatore in cerca di ispirazione. Nonno Aurelio sosteneva che 50 passi erano sufficienti per scansare un guaio, 500 per avere un’idea decente e 10.000 per una rivoluzione. A Dickens ne bastavano un migliaio per risolvere un’empatia con un personaggio o sgominare un’ingiustizia tra le pagine scritte mentre passeggiava per la sua Londra notturna.
Chissà se avevano capito tutti e due la piccola alchimia del moto senza luogo, quella specie di incoscienza che lega una persona in movimento e la mancanza di un punto d’arrivo. In un modo o nell’altro entrambi mi inculcarono il segreto del camminare a zonzo verso qualcosa che non c’è e assomiglia a una cometa: è il processo che rigenera l’immaginazione e che invoco se la scrittura si blocca. Così, nel mezzo della disperazione, chiudo il computer e mi affido all’anarchia dei piedi che sanno trovare il bandolo della matassa. I primi cento metri sono di sconforto totale, poi qualcosa accade ed è una specie di coscienza che le gambe acquisiscono sottraendola alla testa. C’è una clausola fondamentale che vieta cellulari, MP3 e altre compagnie artificiali, nemici acerrimi e invincibili della camminata creativa.
Gambe intelligenti, cervello stolto: il miracolo passa da questa condizione stramba che mi ha tolto parecchie castagne dal fuoco, anche un vicolo cieco in cui mi ero cacciato nel mio ultimo romanzo. Il problema stava nel protagonista, avevo in mente un portinaio che usava le chiavi di riserva di un condomino per entrare segretamente nel suo appartamento, mi mancava il cuore dell’azione. Serviva un movente totale, cosmico, assoluto, ero certo che fosse già in un angolo del mio ipotalamo, corteccia cerebrale, emisfero destro o sinistro, dovevo solo scovarlo. Per farlo mi annotavo schemi, rovistavo nei ricordi, mangiucchiavo liquirizie, ammiravo rovesci di Federer, scribacchiavo incipit e facevo suonare musica folk, mi ero dimenticato che tutto questo era destinazione forzata. Le idee rifiutano le destinazioni, pretendono il vuoto. Invocai mio nonno e sgattaiolai fuori tra lo smog di Milano, passeggiai per il quartiere di porta Romana e giù verso Missori, attraversai il Duomo in direzione Scala, e verso Brera, e su per corso Garibaldi fino alla chiesa dell’Incoronata. Lì, poco prima che l’isola pedonale diventi traffico, mi sedetti su una panchina e mi accorsi di un uomo su un balcone che insegnava a un ragazzino a innaffiare i gerani. Il ragazzino lo fece con pazienza e quando finì disse «Mica sono una femmina, papà». Lo vidi rientrare in casa, mi alzai e feci una cinquantina di passi, poi l’avvertii: la cometa. Il romanzo aveva trovato il movente.
Tradii la camminata per un trotto, avevo fretta di arrivare a casa e annotarmi l’epifania come avrei fatto con le altre che sarebbero venute, figlie di gambe lente e svogliate, sempre senza bussola: nel tempo ho scoperto che i piedi amano stupirsi, più battono strade nuove più accendono neuroni, e sono abitudinari solo per l’ora. Preferiscono sgranchirsi in un momento della giornata che ricorre. Per Immanuel Kant il momento giusto era dalle due e trenta pomeridiane alle tre e cinquantaquattro, non un minuto di più. Circa il mio orario. Per mio nonno era di prima mattina, per Dickens dopo le undici della sera. Per tutti è il camminare senza testa, ormai estinto, che fa la differenza: può valere un guaio scansato, un’idea decente, una rivoluzione.
postilla
Einstein ricordava spesso che l'intuizione alla base della teoria della relatività gli era venuta pedalando in bicicletta, e qui volendo nascerebbe immediatamente la polemica tra pedoni e ciclisti, su quale genere di aerazione del cervello favorisce di più le idee geniali: un flusso costante a circa 5-7kmh oppure i più fugaci sbuffi delle falcate da un angolo di isolato all'altro o tra le panchine di un giardino? Oltre le facili battute, forse è bene ricordare quanto le immagini urbane complesse moderne derivino proprio dal genere di osservazione soggettiva che, da Baudelaire, a Benjamin, attraverso William H. Whyte e Kevin Lynch, arriva sino al massimo teorico contemporaneo delle pedonalizzazioni, ovvero Ian Gehl (che riconosce esplicitamente i suoi maestri). E non serve certo un lungo ragionamento per ricordarsi quanto il piegare gli spazi urbani alle pure necessità meccaniche del trasporto motorizzato abbia finito per ottundere certe funzioni complesse dei cittadini, magari non necessariamente geniali, e però indispensabili da recuperare alla svelta con adeguate politiche. Come quella particolarmente innovativa, non a caso promossa dal settore Trasporti della città di Los Angeles, cresciuta sulla mobilità automobilistica ma più che mai ansiosa di recuperare Cittadini da Marciapiede (f.b.)
il Primo mondo piange o addirittura protesta perché i disperati del Terzo mondo vogliono "invadere le ricche metropoli costruite con le ricchezze rapinate dal vecchio e dal nuovo colonialismo. Il land grabbing non è solo un delitto contro la Terra: lo è anche contro i popoli che l'abitano. Greenreport online, 29 aprile 2014
Il rapporto “Le projet Jatropha de Nuove Iniziative Industriali in République de Guinée – Production industrielle d’agrocarburants et cohérence des politiques européennes”, appena pubblicato, rappresenta una forte denuncia contro la politica energetica dell’Ue sui biocarburanti, che ha fissato un obbiettivo del 10% entro il 2020 di carburanti di origine vegetale. «Questa legislazione, una manna per l’agro-industria – si legge nel dossier – ha come conseguenza quella di incoraggiare delle acquisizioni massicce di terre che minacciano la sicurezza alimentare di numerose popolazioni».
Lo studio – pubblicato da Comité Français pour la Solidarité Internationale (Cfsi), una coalizione di 23 organizzazioni di solidarietà internazionale che lavora con Ong dei Paesi del Sud del mondo, SOS Faim e la Coalition pour la protection du patrimoine géné-tique africain (Copagen), una rete di 9 coalizioni di Paesi dell’Africa occidentale che favoriscono la partecipazione civica e comunitaria sulle questioni delle sementi Ogm, del lang grabbing e dell’agricoltura familiare – si basa su un caso di land grabbing in Guinea «negoziato nella più grande opacità, il protocollo d’intesa firmato tra il governo e l’investitore italiano lascia i contadini senza indennizzazione e senza protezione giuridica».
Si tratta dell’impresa Guinée Énergie S.A, filiale del gruppo italiano Nuove Iniziative Industriali SRL (Nii), che ha acquisito vaste aree in Guinea per coltivare la jatropha per poi trasformarla in biocarburante da esportare nell’Unione europea. Secondo Cfsi, SOS Faim e Copagen, «Benché la vaghezza sulle supoerfici cedute resti totale, i 74.504 ettari di terre censite non sarebbero che la parte emergente dell’iceberg. Il protocollo di accordo stabilito nel 2010 tra il Ministère de l’Agriculture e Guinée Énergie S.A (partecipata di Nii al 70%) menziona una superficie totale di più di 710.000 ettari, cioè più dell’11% delle terre arabili del Paese… La maggioranza di questi investimenti sarebbe inoltre illegale secondo delle disposizioni che limitano a 10.000 ettari ogni cessione di terre a delle imprese». L’impresa italiana, che ha acquisito terreni nelle prefetture di Faranah e Kouroussa (Haute-Guinée) e Beyla (Guinée forestière), è accusata di far leva su promesse di lavoro, infrastrutture e servizi in un Paese nel quale circa la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà e più del 15% è sottoalimentata.
In Guinea l’80% dei redditi deriva dall’agricoltura e le terre cedute a Guinée Énergie S.A sono in maggioranza comunitarie, utilizzate come pascoli o per le coltivazioni alimentari. «Se sono detenute abitualmente dalle comunità e dalle famiglie – sottolinea il rapporto - non esistono prove legali. I primi interessati non dispongono né di informazioni né dei documenti necessari per far valere i loro diritti in caso di litigio. Nessuna delle comunità incontrate sa per quale durata sono state cedute le terre. Il protocollo d’intesa non menziona nessun indennizzo monetario».
Nel suo sito, la Nii parla dello «sviluppo di un progetto più ampio che prevede l’acquisizione di terreni per la produzione ecosostenibile di olio vegetale combustibile no-food “progetto Jatropha”. Tale progetto,che impegna fortemente Nuove Iniziative Industriali srl e in corso in diverse zone dell’Africa (Senegal, Kenya, Etiopia e Guinea), prevede la coltivazione della jatropha (pianta tropicale oleaginosa non alimentare), da cui si estrae un olio da utilizzare come combustibile in alcuni impianti Nuove Iniziative Industriali srl; mentre il residuo della spremitura può essere utilizzato nei digestori per la produzione di biogas da bruciare nei motori e ricavare così ulteriore energia elettrica. Rilevante è inoltre il risvolto sociale di questo progetto che comporta la creazione di numerosi posti di lavoro per le popolazioni coinvolte nell’iniziativa. La creazione di una propria filiera ci permetterà di essere autosufficienti per le forniture dei nostri impianti e di non essere soggetti alle intemperanze dei prezzi del mercato degli oli».
Ma le Ong europee e africane dicono che l’esito del progetto italiano è incerto: «Nel 2010, tutto sembrava pronto ad iniziare, ma nessuna attività significativa di Guinée Énergie è stata più segnalata da fine fin 2012 (anche se nel 2014 l’ufficio guineano dell’Ong Acord ha segnalato il ritorno degli investitori a Beyla e Faranah, ndr) . Le ragioni di questo improvviso stop del processo di investimento restano indeterminate.Ma resta il fatto che, localmente, le terre sono sempre assegnate a Guinée Énergie».
Per Cfsi, SOS Faim e Copagen «questo progetto accumula tutte le caratteristiche del land grabbing:
1. E’ necessariamente condannato a violare il diritto all’alimentazione, dato la sua ampiezza, la sua natura, la sua destinazione.
2. la cessione delle terre si basa sul il consenso preliminare, libero ma non chiaro degli utenti, come denunciano delle personalità locali (il sous-préfet di Tiro, insegnante i Bèlèya).
3. Nessuna valutazione minuziosa degli impatti sociali, economici ed ambientali è stata condotta e resa pubblica.
4. la procedura di investimento non è trasparenti gli impegni non sono chiari ed il risultato del progetto resta, ad oggi, incerto. 5. la pianificazione democratica, la partecipazione significativa e la supervisione indipendente sono assenti dal progetto. Di fronte ad una tale situazione, le organizzazioni europee della società civile chiedono coerenza della politica energetica dell’Ue con i suoi obiettivi di sviluppo e la società guineana reclama più trasparenza».
La Nuove Iniziative Industriali, fondata nel 1999 da Luciano Orlandi, è specializzata in risparmio energetico e agro-energie, prodotte in particolare con olio di palma importato dall’Asia e dall’Africa. Guinée Energie S.A. è stata creata dalla Nii con un capitale iniziale di 15.000 euro. In un’intervista (Biocarburanti per le luci Ikea) concessa a Marco Magrini e pubblicata su il Sole 24 Ore nel marzo 2010, Luciano Orlandi assicurava che «l’olio di jatropha è praticamente a impatto zero di anidride carbonica» e il giornalista scriveva che «il risvolto sostenibile di questo promettente business è chiaro. Non a caso, usare questo biofuel dà il diritto a ricevere certificati verdi, rivendibili sul mercato». Ma i biocarburanti non sono senza impatto, visto che – come dimostra il caso del Brasile e dell’Indonesia – le foreste primarie, cioè grandi pozzi di carbonio, vengono abbattuti per coltivare canna da zucchero e olio di palma per fabbricare biocarburanti.
La Nii in Africa ha interessi anche in Senegal (Senergie, partecipata al 60%), Etiopia (Ethio Renewable Energie – 70%) e Kenya Jatropha Energy (100%), proprio quest’ultimo progetto era finito nel mirinmo di ActionAid, preoccupata per un progetto di piantagioni per biocarburanti nelle foreste di Dakatcha, in Kenya, che «viola i diritti di una comunità autoctone di più di 20.000 personnes. Secondo i piani sottoposti da Nuove Iniziative Industriali, una società di biocarburanti italiana, la produzione di agriocarburanti metterà in pericolo i diritti alla terra ed all’alimentazione di questa comunità».
Invece il già citato articolo del Sole 24 Ore presentava i progetti italiani per le bioenergie in Africa sotto un altro aspetto: «Anche Adriano Ghirardello faceva l’imprenditore. L’imprenditore tessile, per l’esattezza. Davanti alla concorrenza cinese – racconta – qualche anno fa mi sono visto costretto a chiudere i battenti e, con mia moglie, mi sono trasferito in Kenya». Peccato che, anche lui, non avesse nessuna voglia di restare con le mani in mano. Così, dopo qualche iniziativa umanitaria in favore delle popolazioni locali, si è imbattuto nella jatropha e nel suo olio combustibile che – non essendo edibile – non fa concorrenza alle coltivazioni per fini alimentari. «Dopo una lunga trattativa con il governo kenyota e dopo un corposo studio di fattibilità e di impatto ambientale – spiega Ghirardello – abbiamo avuto in concessione 50mila ettari da coltivare, che porteranno lavoro a 8mila persone che non ce l’hanno».
Così, in partenership con la Nii, è nata la Kenya Jatropha Energy che, a regime, produrrà 150mila tonnellate di biofuel all’anno: secondo gli accordi col governo, il 20% resterà in Kenya e il restante 80 sarà esportato in Italia, per illuminare, riscaldare e raffreddare i giganteschi negozi di Ikea e gli stabilimenti industriali degli altri clienti della Nuove Iniziative Industriali. «In questo business – osserva – il lato che mi piace di più è la possibilità di coltivare un’area gigantesca, oggi incoltivabile, e di portare lavoro e benessere ai villaggi locali».
Ma secondo ActionAid «Questi combustibili “verdi” – molti dei quali sono destinati ai Paesi dell’Ue – hanno delle qualità ambientali contestabili. La distruzione di grandi zone di foreste e la potenziale espulsione delle comunità indigene che vivono nelle foreste sarebbe un fallimento totale per le autorità kenyane locali e nazionali nel far rispettare la Costituzione del Paese e gli obblighi internazionali sui diritti dell’uomo. Questo affare dimostra anche l’impatto allarmante delle politiche energetiche europee irresponsabili che favoriscono l’utilizzo e la produzione di biocarburanti senza alcuna considerazione per l’impatto che possono avere al di fuori dell’Europa. Il caso di Dakatcha illustra un problema più vasto che si svolge in tutta Africa e in altre parti del mondo in via di sviluppo, dove i diritti al cibo ed alla terra sono già una questione sensibile. La contraddizione con gli obiettivi di sviluppo dell’Ue è totale».
Kenya Jatropha Energy, aveva ottenuto una concessione di 33 anni su 50.000 ettari nella regione di Matidi, senza le consultazioni pubbliche previste dalla legge e le Ong kenyane hanno appoggiato ActionAid denunciando che il progetto della filiale della Nii «non solo minaccia le risorse idriche, avrebbe potuto sparire alcune specie animali e vegetali rare, ma si sarebbe verosimilmente tradotto nello spostamento forzato di circa 20.000 persone».
Sotto la pressione della società civile, il governo di Nairobi ha chiuso il progetto e ha vietato la produzione di biocarburanti nella regione costiera del Kenya. La Nii allora si è rivolta alla Guinea, ma anche lì le voci contro il land grabbing all’italiana cominciano ad alzarsi sempre più forti.
«Un’operazione che ha avuto come conseguenza immediata l’aumento dei pedaggi fino al 350%. Ma ormai è chiaro che nemmeno le tariffe più alte d’Europa sono sufficienti per uscire da questa spirale perversa: di debito in debito il buco si sta allargando sempre di più e prima o dopo esploderà. Le conseguenze inevitabili saranno ulteriori aumenti delle tariffe, tasse e tagli ai servizi pubblici locali come sanità, trasporti e scuole» Il granello di sabbia, n.11 aprile 2014 (m.p.r.)
Venerdì 21, nel primo giorno della mobilitazione nazionale contro le grandi opere lanciata dai No TAV, alle ore 14 in punto scatta il blitz di vari comitati Veneto che con un’azione fulminea e precisa aprono alcuni caselli dell’autostrada presso la barriera di Villabona, «liberalizzando» di fatto la Padova-Mestre.
A darsi appuntamento ci sono il comitato Opzione Zero che lotta contro la Orte-Mestre, i No Grandi Navi, i No dal Molin, i No pedemontana, il Comitato Lasciateci respirare, attivisti dei Centri Sociali del Nordest. Un’azione per contestare l’aumento spropositato dei pedaggi sulla tratta Mestre-Padova e sul Passante, ma soprattutto un modo per denunciare come le Grandi Opere distruggono l’ambiente, minano la salute dei cittadini e generano debito pubblico.
Tutto parte dall’inchiesta sul Passante di Mestre messa a punto da Opzione Zero. La storia inizia alla fine degli anni ’90, quando, per risolvere il congestionamento della tangenziale, viene ideato il by-pass autostradale. Nel 2001 l’opera viene inserita nella famigerata Legge Obiettivo; nel giro di due anni viene nominato un Commissario straordinario e approvato il progetto. Lo stesso Commissario con procedura negoziata, e quindi “discrezionale”, affida i lavori al consorzio di imprese Passante di Mestre Scpa; ne fanno parte Impregilo S.p.a., Grandi Lavori Fincosit S.p.a. e Consorzio Cooperative Costruzioni; a fare incetta di sub-appalti c’è invece la Mantovani SpA, al centro della recente inchiesta sul malaffare in Veneto aperta dalla Procura di Venezia. Il costo iniziale del mostruoso nastro di asfalto si aggira intorno agli 800 milioni di euro, ma alla fine il conto è di quasi 1,4 miliardi. A far lievitare i costi non sono solo varianti e opere di compensazione, è la stessa Corte dei Conti nel 2011 a sollevare dubbi sulla regolarità delle procedure con le quali è stata approvata e realizzata l’opera, e sulla legittimità dei costi sostenuti.
Il caso del Passante fa scuola. Si tratta infatti di una sorta di Project Financing tutto “pubblico”: a finanziare l’opera sono infatti ANAS (società al 100% del Ministero dell’Economia) per circa 1 miliardo di euro, e direttamente lo Stato per circa 300 milioni di euro. Fino a qui nulla di strano, si tratterebbe di un’opera pubblica costruita usando legittimamentei soldi dei contribuenti. Nel 2008 però viene costituita la società CAV SpA (partecipata da Anas e da Regione Veneto) per la gestione del Passante, della tangenziale di Mestre e del tratto di autostrada Padova-Mestre. La convenzione tra CAV e ANAS del 2011 prevede che CAV restituisca ad ANAS circa 1 miliardo in 23 anni attraverso il gettito dei pedaggi.
Ma perché mai CAV, società pubblica, dovrebbe restituire quei soldi alla stessa ANAS, altra società pubblica, che li ha anticipati per realizzare un’opera pubblica (considerata) strategica, usando soldi prelevati dalla fiscalità generale? Per Opzione Zero si tratta di un “debito fantasma” totalmente illegittimo, addirittura diabolico se andiamo oltre con la storia. Ai vertici di CAV, infatti, appare ben presto chiaro che nonostante il notevole flusso di traffico che attraversa il nodo autostradale di Venezia, il “debito” verso ANAS non è solvibile; la situazione precipita con l’esplodere della “crisi”: nel 2012 il traffico crolla del 7,5%. Ed ecco il colpo di scena finale: in sede di approvazione del bilancio 2012, CAV SpA, per restituire i soldi a ANAS, sottoscrive due mutui a tassi di interesse di mercato: uno di 350 milioni di euro con Banca Europea degli Investimenti (BEI) attraverso un’intermediazione di Cassa Depositi e Prestiti del costo di 8,47 milioni di euro; l’altro di 73,5 milioni di euro direttamente con CDP, controllata dal Tesoro per oltre l’80% e per il 20% dalle Fondazioni Bancarie.
Un’operazione che ha avuto come conseguenza immediata l’aumento dei pedaggi fino al 350%. Ma ormai è chiaro che nemmeno le tariffe più alte d’Europa sono sufficienti per uscire da questa spirale perversa: di debito in debito il buco si sta allargando sempre di più e prima o dopo esploderà. A quel punto saranno direttamente Regione Veneto e ANAS a dover rispondere di questa situazione. Le conseguenze inevitabili saranno ulteriori aumenti delle tariffe, tasse e tagli ai servizi pubblici locali come sanità, trasporti e scuole.
«Le grandi opere sono diventate il totem dei faccendieri della grande impresa post-fordista, con cui apparecchiare la tavola alla quale invitare i mariuoli dello stato post-keynesiano» Un'analisi acuta di una delle più pesanti (per i cittadini) distorsioni del sistema economico vigente. Naturalmente, tutte "innovative". Il granello di sabbia, n.11 aprile 2014 (m.p.r)
Le grandi opere sono diventate il totem dei faccendieri della grande impresa post-fordista, con cui apparecchiare la tavola alla quale invitare i mariuoli dello stato post-keynesiano. La grande impresa del capitalismo globalizzato è caratterizzata da una organizzazione fondata sul cosiddetto outsourcing, che sta ad identificare un processo di scomposizione e svuotamento della fabbrica fordista, che passa da un’organizzazione “a catena piramidale” ad un sistema “a rete virtuale”.
Questo modello di impresa non può che essere orientato al controllo dei fattori finanziari e di mercato e sempre meno ai fattori della produzione. E’ una grande impresa virtuale che inevitabilmente scarica, attraverso una ragnatela di appalti e subappalti, la competizione verso il basso e induce, anche nella piccola e media impresa, una competizione tutta fondata sullo sfruttamento del lavoro nero, grigio, precario, atipico. La grande opera è l’unico prodotto che può consentire a questo modello di impresa virtuale di funzionare: in alcuni casi massimizzando i profitti, in altri permettendogli semplicemente di sopravvivere. Essa è il piatto più ambito e consumato sulla tavola della nuova tangentopoli, nella in cui i faccendieri postfordisti possono azzannare beni e risorse pubbliche, insieme ai mariuoli dei partiti virtuali dello Stato post-keynesiano. Le grandi opere consentono alla classe dirigente politica e imprenditoriale di scaricare sul debito pubblico le risorse necessarie alla sua realizzazione. In tal senso, il progetto TAV ha costituito un modello di architettura finanziaria e contrattuale.
In esso si realizza una sorta di privatizzazione della committenza pubblica, attraverso l’affidamento in concessione della progettazione, costruzione e gestione dell’opera pubblica ad una società di diritto privato (Spa), ma con capitale tutto pubblico (TAV Spa appunto, ma anche Stretto di Messina Spa, e le migliaia di Spa di questo tipo). La Spa pubblica nel modello TAV serve solo per garantire al contraente generale (il privato) il pagamento oggi del 100% del costo della progettazione e della costruzione e di mantenere per sé (il pubblico) il rischio del recupero dell’investimento con la gestione (i debiti pubblici futuri).
Oltre ad un progressivo ricorso al contratto di concessione, nel quale la funzione del committente si trasferisce al privato e l’elemento finanziario diventa fondamentale, si sono introdotti ulteriori istituti contrattuali nei quali il regime privatistico ed il fattore finanziario sono dominanti. Ai contratti tipici se ne sono aggiunti altri (il project-financing, il global-service, il contraente generale, il contratto di disponibilità, il leasing immobiliare), nei quali la filiera del sistema della sub contrattazione non solo diventa più lunga e più articolata, ma si rendono anche inutilizzabili o di difficile applicazione le norme di contrasto della mafia, della corruzione o di tutela del lavoro, che sono state concepite e codificate per procedure di affidamento tradizionali, in particolare per l’appalto tipico. In questi casi infatti il contraente principale può sub-affidare tutte le attività in un regime privatistico, sottratto alle regole della gestione degli appalti pubblici.
Con l’uso di questi nuovi istituti contrattuali, ed in un contesto nel quale il fattore finanziario pesa in mododecisivo, si determinano condizioni che offrono opportunità straordinarie proprio a quei soggetti che, oltre a disporre di denaro a costo zero, hanno l’esigenza di riciclare capitali di provenienza illecita. Se infatti già nel contratto di appalto è connaturata una fisiologica esposizione finanziaria dell’appaltatore: sia per l’attività svolta, con la quale anticipa le risorse necessarie, sia per il patologico ritardo nei pagamenti della pubblica amministrazione; con i nuovi istituti contrattuali il valore finanziario si dilata enormemente fino a diventare il fattore determinante. Con la diffusione delle concessioni e delle società di diritto privato controllate o partecipate, siamo allo stesso livello della ricontrattazione del debito con le operazioni dei “derivati”, che scaricano sui debiti futuri gli oneri di convenienze virtuali immediate.
Analisi critica dell'art. 10 del DL n. 47 del 28 marzo scorso “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per l’Expo 2015”. Nuvola di parole accattivanti a nascondere «accordi coi privati basati su indici urbanistici arbitrari e tesi a garantire il conseguimento della rendita attesa, anche in condizioni di mercato altalenante tra bolle speculative e stagnazione delle vendite. Inviato a eddyburg il 15 aprile 2014
Il ministro Lupi ha maturato nella propria passata esperienza di assessore all’urbanistica del Comune di Milano come si possa fomentare uno scambio ineguale tra presunte virtù private e permissivismo pubblico, accettando la demolizione di ogni regola basata su un razionale rapporto tra quantità costruite, densità di popolazione e spazi ed aree per strutture pubbliche a fronte della promessa di edifici "verdi", "intelligenti", "energeticamente autosufficienti", "riciclabili"o "resilienti" (in altre parole, tutto l'armamentario ideologico delle tecnologie delle smart cities), per promuovere accordi coi privati basati su indici urbanistici del tutto arbitrari e tesi solo a garantire loro il conseguimento della rendita fondiario-immobiliare attesa, anche in condizioni di mercato altalenante tra bolle speculative e stagnazione delle vendite.
E’ esattamente ciò che viene riproposto su un orizzonte di mercato esteso all’intero quadro nazionale con l’art. 10 del Decreto Legge n. 47 del 28 marzo scorso intitolato non casualmente “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per l’Expo 2015”. Il pensiero di fondo del provvedimento è alimentato da una mancanza di fiducia nella capacità della società di costruire progetti comunitari condivisi a lungo termine, come avviene nei piani urbanistici promossi dal pubblico sulla base di una propria visione dell’interesse generale, ed utilizza invece la pressione della domanda insoddisfatta di edilizia abitativa ad uso sociale, soprattutto in locazione, per tentare di smaltire a condizioni di smobilizzo senza regole insediative lo stock edilizio privato accumulato nel periodo della bolla speculativa immobiliare montante e il poco patrimonio edilizio pubblico sopravvissuto alle ricorrenti ondate di cartolarizzazioni e svendite.
Infatti, secondo il primo comma dell’art. 10, ciò dovrebbe avvenire “senza consumo di nuovo suolo rispetto agli strumenti urbanistici vigenti, favorendo il risparmio energetico e la promozione, da parte dei Comuni, di politiche urbane mirate ad un processo integrato di rigenerazione delle aree e dei tessuti attraverso lo sviluppo dell’edilizia sociale”.
Per conseguire questo scopo, tuttavia, il comma 5 mette in campo ogni genere di possibile intervento dalla “ristrutturazione edilizia, restauro o risanamento conservativo” alla “ sostituzione edilizia mediante anche la totale demolizione dell’edificio e la sua ricostruzione con modifica di sagoma o diversa localizzazione nel lotto di riferimento” alla “variazione di destinazione d’uso anche senza opere” (e quindi, eventualmente, anche con opere di trasformazione), alla “creazione di servizi e funzioni connesse e complementari alla residenza, al commercio (…) necessarie a garantire l’integrazione sociale degli inquilini degli alloggi sociali” alla “creazione di quote di alloggi da destinare alla locazione temporanea dei residenti di immobili di edilizia residenziale pubblica in corso di ristrutturazione o a soggetti sottoposti a procedure di sfratto”.
E’facile prevedere quali di queste modalità di intervento verranno preferite dai privati proponenti, soprattutto se si tiene conto che il comma 8 consente che essi “possono essere realizzati in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, e ai regolamenti edilizi ed alle destinazioni d’uso, nel rispetto delle norme e dei vincoli artistici, storici, archeologici, paesaggistici e ambientali, nonché delle norme di carattere igienico-sanitario e degli obiettivi di qualità dei suoli” e il comma 9 prescrive che tali interventi “devono comunque assicurare la copertura del fabbisogno energetico necessario per l’acqua calda sanitaria, il riscaldamento e il raffrescamento, tramite impianti alimentati da fonti rinnovabili”. Cioè, nel rispetto di ogni vincolo esterno, fuorché quelli di carattere di carattere intrinsecamente urbanistico-insediativo, che vengono totalmente deregolamentati.
Suona beffardo, infine, che tutto ciò si prescrive debba essere regolato “da convenzioni sottoscritte dal comune e dal soggetto privato, con la previsione di clausole sanzionatorie per il mancato rispetto del vincolo di destinazione d’uso”. Un’urbanistica “à la carte” che richiama in auge le convenzioni senza piano regolatore o il “rito ambrosiano” degli Anni Cinquanta-Sessanta che, nonostante il disastro insediativo di cui portiamo in gran parte ancora le nefaste conseguenze, si concluse solo dopo il simbolico episodio della frana di Agrigento del 1966, il cui impatto sulla pubblica opinione vinse le resistenze anche delle forze politiche più conservatrici nei confronti della necessità di una regolamentazione pubblica dell’assetto insediativo.
Anche il finanziamento che viene stanziato per l’attuazione dell’evento Expo 2015 a Milano-Rho lascia del tutto impregiudicato ciò che accadrà su quell’area (pochissimo adatta all’uso residenziale per le pesanti barriere infrastrutturali che la contornano) dal 2016 in poi, e su cui invece già aleggiano le aspettative del mondo della sussidiarietà cooperativistica dalle larghe intese, in assenza di chiari criteri insediativi prefissati dagli enti pubblici.
Oggi, l' urbanistica, dopo essere stata oggetto di grandi aspettative e rivendicazioni sociali negli anni Settanta e Ottanta, negli ultimi decenni, non gode più di una buona fama in un periodo di difficoltà finanziarie e di rapidità di mutamenti economico-produttivi e il suo posto nell’immaginario sociale collettivo dell’aspettativa di un futuro migliore è stato preso dall’ambientalismo ecologista o dal liberismo da regole insediative per l’attività economica imprenditoriale o familiare.
C’è da augurarsi che non occorra un nuovo choc analogo a quello provocato dalla disastrosa frana di Agrigento per comprendere su quale strada rischiamo di tornare a metterci.
Un copione classico va in scena nella variante mobilità sostenibile: commercianti contro amministrazione per una limitazione di traffico, ma non è tutto. La Repubblica Milano, 11 aprile 2014, postilla (f.b.)
È la ciclabile della discordia. Progettata dal Comune, voluta dai ciclisti ma ostacolata dai commercianti. Prima ancora che siano partiti i lavori, la (doppia) corsia riservata alle bici in viale Tunisia ha già scatenato polemiche. Da una parte ci sono i proprietari dei negozi che temono di perdere clienti, dall’altra i ciclisti che hanno lanciato il boicottaggio degli esercenti anticiclabile. Ancora non è stata posata una goccia di vernice sull’asfalto e quella di viale Tunisia è già diventata la pista ciclabile della discordia. Scatenando una battaglia a tre, fra il Comune, i commercianti che si oppongono al progetto, e i ciclisti che attendono la corsia riservata da anni. Uno scontro durissimo, fra denunce, boicottaggi e polemiche al vetriolo sui social network.
Tutto è cominciato quando Palazzo Marino ha annunciato il progetto di una doppia corsia ciclabile (una su entrambi i lati del viale). La notizia ha mandato i commercianti dell’Asscomm Porta Venezia su tutte le furie perché secondo loro ostacolerebbe il traffico e la sosta dei clienti. «È un progetto inutile e scellerato — ha spiegato Luca Longo, presidente dell’associazione — perché esiste già una pista che viaggia parallela in via Monforte. Senza contare i soldi, 850mila euro per poche centinaia di metri. Risorse che chiediamo vengano investite per l’abbattimento delle barriere architettoniche ». Un disappunto che i commercianti — o almeno parte di loro, visto che la Confcommercio ha preso le distanze — hanno espresso nei modi più disparati: prima diffondendo vignette di Pisapia e Maran sopra una bara con la scritta “hanno condannato a morte commercio e sicurezza in tutta Milano”, poi intervenendo a un incontro pubblico dove hanno apertamente contestato l’assessore. Infine con volantini che hanno fatto infuriare la giunta per una frase («c’era scritto “le ciclabili si fanno per dare le mazzette agli assessori”», ha spiegato Maran) e per cui è stata avviata una causa. «Cose che non ci spaventano — ha commentato Longo — noi vogliamo che Maran ci incontri e ci ascolti».
Ma quello che probabilmente non si aspettavano i commercianti è la rivolta che si è scatenata sulla pagina Facebook dell’associazione dopo questa presa di posizione: decine e decine di ciclisti hanno cominciato a postare messaggi di indignazione, lanciando di fatto una campagna per il boicottaggio dei negozi di viale Tunisia. «Ho preso nota di tutti i vostri soci, dove non metterò mai più piede » ha scritto ad esempio Marco Mazzei, ciclista e attivista della critical mass. «Vista la vostra insensata posizione vedrò bene di non fare più acquisti in nessuno dei vostri negozi», ha commentato Federico Cupellini. Un boomerang che ha spinto alcuni esercenti a fare marcia indietro: come il ristorante Delicatessen che ha comunicato ufficialmente di non essere più un socio sostenitore.
I piani per l’avvio dei lavori, nel frattempo, procedono. E l’apertura dei cantieri (che dovrebbero durare otto mesi) è prevista entro il mese. «Questi commercianti stanno difendendo il diritto a sostare irregolarmente su strada — ha detto l’assessore Maran — perché il progetto della ciclabile, oltre a dare spazio alle bici, contrasta la sosta selvaggia. Senza contare che la pista in quel tratto ha una funzione fondamentale di raccordo con il resto della rete ciclabile».
postilla
Forse sfugge a prima vista l'analogia fra queste polemiche, che coinvolgono un paio di corporazioni (come altro definire chi si autodefinisce “ciclista” oppure “commerciante a orientamento automobilistico”?) e altre apparentemente lontanissime, come quelle fra gli esercenti tradizionali e le catene della grande distribuzione. Come insegnano di recente le numerose analoghe battaglie in grandi città del mondo dove non esisteva alcuna tradizione di mobilità su due ruote, introdurre o recuperare un certo tipo di metabolismo e scambio tra il fronte edificato e la strada/piazza può rivelarsi traumatico. E non riguarda solo, appunto, problemi di mobilità, inquinamento, gestione dei parcheggi, ma lo stesso funzionamento dell'organismo urbano, la distribuzione delle funzioni, i loro rapporti reciproci. Forse il commercio affacciato sulle arterie a scorrimento veloce (si fa per dire, quando sono mezze intasate dalla sosta dei veicoli) dopo mezzo secolo non ha ancora compreso davvero la massima secondo cui non si è mai dato che un'automobile entri in un negozio a comprare o consumare qualcosa. E che se si tratta di gestire l'interfaccia in termini di parcheggio loro hanno già perso in partenza, appunto da oltre mezzo secolo, la battaglia coi centri commerciali a scatolone e autosilo. In definitiva, come si immagina inizino a capire anche le amministrazioni cittadine, qualunque azione sulla mobilità innesca rapidissime reazioni a catena, e va inquadrata in un piano/programma con obiettivi di massima coordinati. Ecco: questi non si capisce ancora quali siano, e magari aiuterebbe anche a evitare scontri paralizzanti. Qualche considerazione in più su Millennio Urbano (f.b.)
Post-sisma. Cinque anni dopo il terremoto, la città ancora aspetta una rinascita che tarda ad arrivare. Chi può va via: nel 2013 duemila iscrizioni in meno nelle scuole. E la ricostruzione non è più un affare vantaggioso neanche per la criminalità organizzata. Il manifesto, 5 aprile 2014
E’ un non luogo, questo. E la sua anima d’un tempo, il centro storico, è un marasma di puntellamenti, operai con la mascherina, ventate di polvere, caterve di calcinacci, di muri ancora sbrindellati dal sisma, di pareti demolite, di crepe, crolli e transenne, divieti, un andirivieni di carrelli elevatori e camion. E’ così L’Aquila: metà rovine, metà attesa. Sono trascorsi cinque anni dal terremoto che causò 309 morti. E le impronte di quel 6 aprile 2009 sono impresse su passi, volti, case e strade. «La ricostruzione — spiega Enrico De Pietra, giornalista — sembra essere finalmente avviata, anche se sarà lunga e sempre legata all’incognita dei finanziamenti. Ma il problema è il vuoto devastante». Palpabile tra piazze esageratamente silenziose, viuzze sbarrate, lucchetti arrugginiti, catene che serrano edifici lacerati. «I pochi esercizi commerciali rimasti — aggiunge — hanno chiuso. A parte alcuni locali, che resistono su sparute strade, non c’è nulla. Neppure gli edifici resi agibili e disponibili hanno ripreso vita: sono rimasti sfitti, forse anche perché i proprietari pretendono somme spropositate. Nella zona della Fontana luminosa, ad esempio, c’era un negozio di abbigliamento che è stato smantellato: per la locazione di quei vani sono stati chiesti 6 mila euro al mese E’ ripartita la prefettura, va bene, ma non ha prodotto alcun movimento. E’ una realtà da rinvigorire: bisogna convincere le persone a riappropriarsi di questi luoghi. Che, altrimenti — evidenzia De Pietra — diventeranno un museo a cielo aperto».
Una città surreale
Difficile tornare a far rivivere L’Aquila. Difficile tornare all’Aquila. Difficile… L’Aquila. «E surreale», come la definisce il Comitato 3e32 che per quest’anniversario – in cui vuole stigmatizzare «turisti che partecipano alle commemorazioni e passerelle di una classe politica nazionale e locale che ha evidentemente fallito» — ha organizzato una mostra fotografica, che campeggia sui principali muri, per narrare la precarietà, per «denunciare le reiterate promesse mancate, l’abbandono delle frazioni e dei piccoli centri del cratere, la totale assenza di politiche sociali e per il lavoro, il folle scempio del territorio, la mancanza di una visione comune per il futuro di una città che continua irrimediabilmente a spopolarsi».
«L’Aquila — viene fatto presente — è diventata una dispersa e disagiata periferia, dove le fasce sociali più deboli soffrono maggiormente una quotidianità difficile». Una periferia carica di problemi nascosti dentro le infinite schiere di anonime palazzine erette dopo il disastro. Erano le nuove «C.A.S.E» (Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili). «Sistemazioni provvisorie…, questo ci avevano assicurato, che sarebbero state sistemazioni provvisorie… — ricorda Marcella Dal Vecchio -. Invece, benvenuti tra le nostre pareti di cartongesso… Che, in più zone, stanno andando a pezzi. Con tubature logore che gocciolano anche liquami, con i servizi che non ci sono, le mattonelle rotte, i sistemi antisismici non brevettati, con la manutenzione inesistente, con funghi ed erba che spuntano all’interno per l’umidità, con i disagi che aumentano prepotenti».
«Un recente sondaggio del Pd — sottolinea il sindaco Massimo Cialente — riferisce che il 78% degli aquilani vive male e che per il 65% la situazione è gradualmente peggiorata. Solo il 37% pensa che nei prossimi anni, forse, potrebbe andare meglio». Perciò c’è la fuga dall’Aquila, soprattutto dei giovani. Ma anche delle famiglie: lo scorso anno, rispetto al 2009, sono state registrate 2 mila iscrizioni scolastiche in meno. Una città di emergenze, soprattutto sociali, che si nascondono timide, quasi impacciate dietro ai vicoli blindati e nei cortili inermi, stracciati, che giacciono aspettando.
Cresce la disoccupazione
Manca il lavoro. «La disoccupazione, in Abruzzo — dichiara il segretario generale della Cgil L’Aquila, Umberto Trasatti — dall’8.6% del 2008 è passata al 12.5% del 2013. In tutta la provincia nel 2008 si registravano 118.300 occupati, siamo scesi a 111.800. Bisogna creare opportunità: la sola ricostruzione materiale non è sufficiente a dare prospettive». A proposito, la ricostruzione? «Il centro storico dell’Aquila sarà rimesso in sesto in 5 anni», ha detto in una sua recente visita il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini. Mah, certo, tutti lo sperano ma nessuno ci crede.
In prima linea, ora, c’è il sottosegretario all’Economia, Giovanni Legnini, al quale il premier Renzi ha affidato la delega alla Ricostruzione. Il parlamentare, originario di Roccamontepiano (Chieti), si è impegnato a trovare i 700 milioni di euro che ancora occorrono per il 2014. «Dobbiamo giungere ad una condizione di stabilità collocata in un punto da individuare con precisione tra Roma e Bruxelles. Pervenire a un pacchetto di disposizioni normative che — spiega — eviti di continuare lo stress che da anni riversiamo sul parlamento sull’onda dell’emergenza continua. Occorre una ricognizione precisa di tutto ciò che serve, con tutti gli attori del territorio e dello Stato, per modificare e integrare la legislazione vigente».
Sciorina, invece, cifre il presidente Ance, Giovanni Frattale: «C’è una marea di gru in azione — afferma — e sono circa 1.400 le imprese impegnate in interventi edilizi, di cui 800 di fuori regione. Solo la ricostruzione privata coinvolge oltre un migliaio di aziende di 90 province italiane. Centocinquanta i cantieri attivi nel centro storico, 1.500 in periferia; 11.500 gli addetti in campo. Siamo indietro? E’ stato perso tempo? In Friuli, dopo il terremoto del ’76, la prima pietra fu posata nel ’79. In Umbria e Marche si sta ancora lavorando…». Ma quello dell’Aquila, non avrebbe dovuto essere il cantiere più grande d’Europa? «Gli sforzi sono immani — puntualizza Cialente — e, conclusa la fase di commissariamento, c’è stata un’accelerazione delle procedure». «Ci devono spiegare — tuona Pio Rapagnà ex parlamentare e portavoce della associazione Mia casa d’Abruzzo — perché non è ancora stata avviato il rifacimento delle case popolari classificate E, cioè semidistrutte». La sua protesta va avanti da un pezzo: ha anche attuato lo sciopero della fame. «Ci sono — prosegue — 78 milioni di euro ancora inutilizzati per riparare 1.750 appartamenti inagibili in cui attendono di rientrare cinquemila persone. La non ricostruzione lede un diritto soggettivo e causa un danno erariale. Anche perché i costi della ricostruzione, con il progressivo degrado degli stabili, sono aumentati, e con essi i costi dell’assistenza, visto che sono ancora molti i cittadini che beneficiano di assegni di autonoma sistemazione o dell’affitto concordato».
Vivere con dignità
Attualmente nelle dimore del progetto Case stanno in 11.670, mentre sono 2.461 quelli che alloggiano nei Map (Moduli abitativi provvisori) e 189 negli appartamenti del Fondo immobiliare. Percepiscono il contributo di autonoma sistemazione in 4.054. «Si tira avanti cercando di farlo in maniera dignitosa — commenta Sara Vegni, di Action Aid — ma le ferite inferte sono state profonde e sono tuttora aperte. Domina un sentimento di lacerante precarietà, che attanaglia tutti. Basti considerare il fatto che ci sono 6 mila ragazzi costretti ancora a studiare nei container. Finora è mancata una seria programmazione e c’è la questione fondi. Ogni tanto bisogna recarsi a Roma, col piattino in mano, a chiedere l’elemosina».
Un territorio dissestato e in parte abbandonato — quello dell’Aquila e degli altri 56 comuni del cratere — e che, dopo il dramma, ha dovuto fare i conti pure con la criminalità organizzata. C’è stato «quasi un assalto alla diligenza per arrivare ad accaparrarsi gli appalti più lucrosi da parte della camorra, della ‘ndrangheta e di cosa nostra (particolarmente quella gelese)», scrive infatti, nella relazione annuale, riferita al 2013, il sostituto procuratore nazionale antimafia Olga Capasso, applicata per un periodo al Tribunale delll’Aquila. «L’unica vera intrusione della ‘ndrangheta e della camorra — rileva — si è avuta in seguito al terremoto. Si è trattato di società saldamente impiantate nell’Italia settentrionale, attirate dagli appalti e dunque presenti in Abruzzo solo fino a quando erano prospettabili lucrosi guadagni. E’ stato documentato il dinamismo di esponenti delle cosche Borghetto-Caridi-Zindato, Serraiano e Rosmini di Reggio Calabria nell’accaparramento di appalti connessi alle opere di ricostruzione, consentendo il sequestro preventivo di beni mobili e partecipazioni societarie per un valore complessivo di circa 50 milioni di euro. E’ stato altresì accertato l’interesse di alcuni grossi esponenti della ‘ndrangheta — condannati per associazione mafiosa facente capo al clan Grande Aracri con una recentissima sentenza del 2013 del tribunale di Reggio Emilia — per gli appalti dell’Aquila.…
Intanto per la ricostruzione vera e propria della città, con i suoi palazzi antichi, i monumenti e gli edifici pubblici, tutto si è involuto verso la stasi più completa ed oggi il capoluogo sembra dormire tra le sue macerie». «La ricostruzione è ferma — dice Capasso — e i cantieri esistenti sono quelli destinati al risanamento dei condomini privati, che pure prestano il fianco allo svilupparsi della microcriminalità, essendosi verificati casi di ingiustificata estensione dei lavori pagati con soldi pubblici a danni non causati direttamente dal sisma, oppure di gonfiamento abnorme dei prezzi. Di qui diversi procedimenti penali». Adesso «l’affare ricostruzione» non è più vantaggioso, e dove «non c’è profitto la mafia lascia campo libero». E domani è lutto cittadino
Riferimenti
Al terremoto dell'Aquila è dedicata un'intera cartella ne vecchio archivio di eddyburg. Precisamente qui. Si veda inoltre qui l'opinione di Vezio De Lucia
Le città dovrebbero eliminare le auto a motore entro il 2050, ma non ci sono limiti stringenti per arrivarci. L'auto “pulita” resta un'utopia». Www.sbilanciamoci.info, 28 marzo 2014
L'Europa si richiama costantemente alla mobilità sostenibile, ma poi quanto si tratta di passare da Piani e Libri bianchi a direttive, finanziamenti e regole stringenti, molte restano buone intenzioni. Nel 2011 la Commissione europea ha adottato il nuovo Libro bianco sui trasporti "Per una politica dei trasporti competitiva e sostenibile" – nel tentativo davvero complesso di coniugare l'incremento della mobilità e la riduzione delle emissioni, con una strategia di ampio respiro e dal lungo orizzonte temporale fino al 2050 quando i trasporti dovranno ridurre del 60% le loro emissioni.
Le città entro il 2030 dovranno dimezzare l'uso delle auto con il motore a scoppio ed eliminarle del tutto entro il 2050. Sempre nella stessa data la maggior parte del trasporto di medie distanze dei passeggeri deve avvenire mediante ferrovia. Entro il 2030 almeno il 30% del trasporto merci che superi i 300 km deve utilizzare la ferrovia o la via d'acqua. Questa quota dovrebbe raggiungere il 50% entro il 2050. Nel trasporto aereo il Libro bianco propone di aumentare l'uso di carburanti a basse emissioni fino a raggiungere il 40% entro il 2050.
Nel trasporto marittimo occorre ridurre del 40-50% le emissioni di C02 derivate dagli oli combustibili entro il 2050. In concreto però nessuna nuova direttiva con limiti più stringenti è stata adottata, tutto si riduce a una proposta. (vedi il sito www.transportenvironment.org delle principali ong che vigilano sulla politica dei trasporti a Bruxelles).
Altri obiettivi rilevanti sono il completamento entro il 2030 della rete infrastrutturale Ten-T e il dimezzamento entro il 2020 della mortalità stradale, puntando all'obiettivo "zero vittime".
Non mancano debolezze e criticità in questo Libro bianco sui trasporti. In primo luogo la scarsa considerazione per i problemi del trasporto urbano (oltre due terzi della mobilità): è confermata la necessità del potenziamento del trasporto collettivo, della bicicletta e delle aree pedonali, ma poi si affida un ruolo chiave all'auto pulita, tralasciando i problemi di congestione, di uso dello spazio urbano e di pianificazione territoriale. Su questi temi il Consiglio europeo ha adottato nel 2010 il Piano d'azione per la mobilità urbana, che contiene ottime indicazioni strategiche, ma purtroppo ha scarsa attuazione, soprattutto in Italia.
Per l'auto "pulita" si punta su ricerca, innovazione tecnologica e carburanti alternativi, ammettendo che questo obiettivo è ancora molto lontano dalla soluzione. A tale scopo è stato approvato lo scorso anno "Cars 2020, Piano d'azione per una competitiva e sostenibile industria automobilistica" che, partendo dalla crisi del settore, punta al suo sostegno e rilancio. Alcuni obiettivi, come la riduzione delle emissioni di C02 per i veicoli, sono condivisibili, ma non si punta sulla necessità di ridurre il mercato dell'auto in Europa, che essendo maturo può solo essere un mercato sostitutivo.
L'esperienza concreta di questo decennio ha dimostrato che ogni positivo incremento di efficienza di automobili e veicoli stradali è stato divorato dall'aumento della potenza e dall'aumento dei chilometri percorsi, producendo alla fine un incremento significativo delle emissioni di C02, passate dal 23% al 28% nel settore dei trasporti e quindi fallendo ogni obiettivo di riduzione del 6,5% rispetto ai dati del 1990, fissato dal protocollo di Kyoto. Ed è solo per effetto della crisi che in Italia dal 2008 le emissioni nei trasporti hanno cominciato a scendere, ma adesso in Europa si discute dei nuovi obiettivi di riduzione con la strategia al 2030, quindi non basterà puntare solo sull'auto "pulita".
Un'altra criticità è rappresentata dalle reti Ten, che anche in questo Libro bianco costituiscono un pezzo essenziale della strategia, identica al ruolo centrale assegnato in Italia dalla politica alle grandi opere strategiche previste dalla Legge obiettivo, senza una efficace selezione e con costi pubblici insostenibili.
Il Libro bianco 2011 quantifica in 550 miliardi di euro il fabbisogno europeo di risorse fino al 2020 per il completamento delle reti Ten-T e arriva a 1500 miliardi di euro che servirebbero entro il 2030 per sviluppare le infrastrutture di trasporto. Risorse pubbliche e private non disponibili in ambito pubblico né privato e che rendono questi obiettivi sbagliati e fallimentari. Anche in Europa dunque, bisogna cambiare strada.
Ridurre il controllo pubblico sulla gestione degli affari è sempre stato un obiettivo centrale del neoliberismo. Ha tutti i titoli per lavorare con efficacia per questo obiettivo l'autorevole esponente lombardo del governo renzusconiano; troverà certamente aiuto tra i suoi colleghi. Arcipelagomilano online, 25 marzo 2014
Mercoledì scorso il ministro alle infrastrutture Maurizio Lupi in un’intervista pubblicata il giorno dopo su la Repubblica dichiarava: “… Un altro risparmio lo otterremo prendendo una decisione forte ma che non è più rinviabile: e cioè chiudendo l’Autorità dei Lavori Pubblici … visto che si può integrare in altre Authority.”. Due giorni dopo l’intervista la procura di Milano mette in galera i vertici di Infrastrutture Lombarde, con a capo l’ingegner Rognoni messo lì da Formigoni insieme ai soliti amici della ben nota famiglia di ciellini della quale fa parte lo stesso ministro.
Ma quali sono le competenze di questa autorità? Tante, tutte utili ma fra tutte cito quella che fa al caso nostro: “vigila sui contratti pubblici, anche regionali, per garantire correttezza e trasparenza nella scelta del contraente, di economicità ed efficienza nell’esecuzione dei contratti e per garantire il rispetto della concorrenza nelle procedure di gara.”. La stessa autorità in una sua nota immediatamente successiva all’arresto del Rognoni scrive: “L’Autorità con propria delibera n. 29 del 30 luglio 2008 segnalò le anomalie, oggi venute alla luce con le indagini della magistratura, al Presidente della regione Lombardia, al Consiglio di Sorveglianza ed al Consiglio di Gestione della società IL. S.pA.” e aggiunge maggiori dettagli. Vi sembra poco? Dobbiamo chiuderla e integrarla con altre autorità? Siamo di fronte al solito caso italiano d’insofferenza per ogni tipo di controllo. Quest’autorità, visto l’andazzo dovrebbe essere potenziata ma soprattutto costituita da personale “veramente” indipendente e non raccogliendo burocrati dall’inesauribile casta romana.
Ma veniamo al caso specifico: Infrastrutture Lombarde. Che nei suoi affari ci fosse poca chiarezza l’ho detto e l’ho scritto fin dai tempi della mia collaborazione con la Repubblica e poi dalle pagine di codesto settimanale e non solo ma anche a orecchie sorde e disattente. Ma la cosa che desta maggior stupore è che l’opposizione in Regione negli ultimi anni non avesse “mai” avuto la curiosità di guardare dentro questa società che faceva girare milioni. Per altro non l’ha fatto nemmeno nella sanità, dove le cifre in gioco erano ben maggiori. Io credo che per i pubblici amministratori valga quello che vale per gli amministratori delle società private, l’obbligo della sorveglianza: dunque nessun innocente per quello che è successo, anche se la gravità delle colpe è molto diversa tra sorveglianti e sorvegliati. I primi a casa i secondi colti, con le mani nella marmellata, in galera. L’opposizione i poteri li aveva e l’accesso ai documenti pure, perché non sorvegliare?
Non si può che ridere alle affermazioni che la legalità è stata garantita dall’intervento della magistratura: chiunque l’abbia detto è un ipocrita. La magistratura è intervenuta su segnalazione di una vittima di malversazioni in appalto, non certo su segnalazione di qualche pubblico amministratore attento e onesto.
Ma quello che finalmente emerge dalle carte dei magistrati è una cosa ben precisa. Siamo di fronte a un’organizzazione ben radicata sul territorio, in grado di pilotare appalti, di assegnare incarichi di progettazione, consulenze legali, di promuovere candidati a cariche elettive e di farli eleggere, di sistemare amici in consigli di amministrazione, di affrettare, rallentare o bloccare carriere, di favorire società di ogni genere purché amiche e così elencando. Cauti però, salvo qualche grossolanità come nel settore della sanità, nel far circolare denaro che, come si è visto lascia tracce indelebili o quasi.
Siamo di fronte alla sottile strategia del baratto corruttivo che può essere messo in atto solo da un’organizzazione capace ed efficiente in modo che i percettori delle utilità siano tanti, difficilmente individuabili, lontani dal vertice cui però resta saldamente in pugno il “potere”, che in fondo è quello che conta perché il cerchio si chiuda. E il cerchio si chiude quando si è tanto potenti da rendere inoffensiva qualunque forma di controllo.
Che fare domani? Passare al vaglio tutti gli appalti e gli incarichi per consulenze e progettazioni e i relativi concorsi, con un vaglio fine, per accertare che non solo la forma sia stata rispettata ma anche la sostanza. Rivedere le scelte fatte per accertare che non vi siano state collusioni tra giurie e giudicati, che la cosiddetta “urgenza” non sa l’ampio mantello che tutto copre e occulta.
Da tempo tutti quelli che si occupano di criminalità organizzata denunciano l’assoluta inefficacia ai fini del contenimento di questo fenomeno e di quello più generale della corruzione che la alimenta, l’inefficacia dicevamo della legislazione sull’appalto pubblico: voci nel deserto. È arrivato il momento di mettervi mano. È competenza del ministro delle infrastrutture e dei trasporti. Al secolo Maurizio Lupi. Siamo in buone mani?
Anche a Firenze, come in Val di Susa, come a Venezia, chi si oppone alle Grandi opere inutili e devastanti non si limita a dire NO: Presenta anche soluzioni alternative. Ma l'alternativa in questo regime non è ammessa. Il manifesto, 23 marzo 2014
Il Pd di Matteo Renzi non ha dubbi: il faraonico, costosissimo e rischioso progetto del sotto-attraversamento fiorentino dell’alta velocità deve andare avanti. “La Tav è un progetto nazionale di Ferrovie dello Stato, e ci auguriamo che questo cantiere riprenda il prima possibile”. Parole di Dario Nardella, neo deputato tornato vicesindaco perché il leader lo vuole in Palazzo Vecchio. Un candidato sindaco che, alla vigilia delle odierne primarie di un partito che gli ha subito tolto dai piedi l’unico pericolo (Eugenio Giani), snobba l’invito del comitato “No tunnel Tav” ad una giornata di analisi — eccellente — sulle enormi criticità della grande opera. Con in parallelo la presentazione di quella alternativa, di superficie, esistente fin dagli anni ’90. Diventata oggi un raffinato e innovativo maxiprogetto di sistema ferroviario integrato per l’area metropolitana fiorentina. Meno impattante. Assai meno costoso. Ben più utile per un traffico ferroviario che, dati alla mano, conta molti più pendolari locali – penalizzatissimi — che utenti Tav.
Per giunta sul nodo di Firenze, e più in generale sull’intero percorso dell’alta velocità che da Bologna arriva nel capoluogo toscano, pesano costi stratosferici per la collettività. Anche senza considerare il sotto-attraversamento, con annessa una nuova, grande stazione sotterranea a soli due chilometri dalla centrale Santa Maria Novella, la tratta appenninica di 78,5 chilometri è costata la cifra record di 96,4 milioni al chilometro. Una somma enorme, cui dovrebbe aggiungersi almeno un altro miliardo e mezzo per il passante fiorentino. Di più: le indagini della magistratura, e il processo per le devastazioni ambientali in Mugello che si è appena (ri)concluso in corte d’appello dopo che la Cassazione ha fissato alcuni importanti punti fermi, hanno scoperchiato un vaso di pandora da cui è uscito l’intero codice penale o quasi. Tanto da aver bloccato, da più di un anno, i lavori del passante sotterraneo.
In questo contesto, tanto drammatico quanto abituale per gli studiosi delle patologie invariabilmente connesse alle grandi opere italiane, il giudizio di Alberto Asor Rosa è fulminante: “Se questi formidabili errori non fossero commessi per motivi di interesse economico, non smetterebbero certo di essere di una gravità eccezionale. Se dietro non ci fosse la corruzione, anche se fossero fondati solo su un ragionamento sbagliato dal punto di vista tecnico, vorrebbe dire comunque che il cervello delle nostre classi dirigenti è finito in pappa”.
Anche Asor Rosa, che presiede la Rete dei comitati per la difesa del territorio, ha fatto sentire la sua voce alla sala delle ex Leopoldine in piazza Tasso. Insieme a quelle di Mariarita Signorini di Italia Nostra, Fausto Ferruzza di Legambiente, e ad ingegneri, urbanisti, architetti e geologi (Alberto Ziparo, Massimo Perini, Giorgio Pizziolo, Vincenzo Abruzzo, Roberto Budini Gattai, Alberto Magnaghi, Mauro Chessa, Teresa Crespellani, Enrico Becattini, Manlio Marchetta e Alessandro Jaff). Del resto fra gli organizzatori della giornata c’era anche il “Lapei”, il Laboratorio di progettazione ecologica degli insediamenti, nato sotto l’egida dell’ateneo fiorentino. Mentre, sull’altro piatto della bilancia, a dare forfait non è stato il solo Nardella: il neo viceministro Riccardo Nencini, mugellano, ha girato alla larga da piazza Tasso, così come Confindustria, Confartigianato, e gli stessi sindacati confederali.
Sul punto, a nome del comitato No tunnel Tav, l’ex ferroviere Tiziano Cardosi non ha nascosto l’amarezza: “Qualcuno ci ha detto che aveva altri impegni. Qualcun altro ha ammesso che non se la sentiva di rompere certi equilibri. Ma se certi ragionamenti arrivano anche dalle associazioni di categoria, vuol dire che ad essere ‘malato’ c’è qualcosa di più profondo della semplice dinamica partitico-politica”. Quest’ultima resta comunque il fattore decisivo: “Abbiamo un nuovo presidente del consiglio che vuole agire con la spending review per recuperare gli sprechi di denaro pubblico — osserva Ornella De Zordo — scegliere l’opzione del passaggio in superficie, in una città che lui conosce bene, sarebbe un’ottima occasione per passare dalle tante parole ai fatti”. Conferma Asor Rosa: “Se Renzi volesse, nella sua posizione avrebbe la possibilità di esercitare una funzione molto rilevante”. Se.
Giochetti edilizi strapaesani e truffaldini attorno a uno dei tanti gioielli sparsi e misconosciuti del nostro patrimonio culturale. Corriere della Sera, 28 febbraio 2014
Scommettiamo che se ripassasse oggi, Albrecht Dürer, non si fermerebbe più a dipingere incantato il fascinoso castello di Arco, sul lago di Garda. I ruderi del maniero, sia chiaro, hanno conservato il loro charme. Ai suoi piedi, però, dove ai tempi del grande pittore tedesco c’erano solo ulivi e un secolo fa sorgeva un delizioso albergo ottocentesco, è venuto su un ecomostro. Una gigantesca spalmata di cemento armato dalle curiose caratteristiche: i «sotterranei» emergono da terra come un muraglione. Direte: ma un sotterraneo non si chiama sotterraneo perché sta sotto la terra? Miracolo urbanistico: qui no.
La storia va raccontata dall’inizio. Cioè da quando, agli sgoccioli dell’Ottocento, il caffettiere Giuseppe Lenninger, gestore del «Caffè Restaurant Villa Emilie» rivolge una richiesta al comune: «È intenzione dell’umile sottoscritto di fare erigere nel suo podere coltivato a ulivi, posto sopra la villa arciducale (…) un piccolo casino alla Svizzera come da disegno che qui si unisce e supplica perché esso sia approvato in linea estetica. Questo piccolo fabbricato consistente in due soli locali uno sopra l’altro…».
Ma si sa, l’appetito vien mangiando. E così, dopo aver avuto il via libera per il delizioso «piccolo casino» in quel punto panoramico che spaziava sul lago, il caffettiere, avendo intuito come Arco sarebbe diventato un centro turistico amatissimo dai tedeschi, decise di ingrandirsi. E meno di un anno dopo chiedeva di dichiarare abitabile l’edificio, nel frattempo diventato tutta un’altra cosa: un elegante albergo battezzato «Villa Olivenheim», casa degli ulivi. Era il 1888.
Da allora lo stabile, del quale resta una bella cartolina, ha avuto vita travagliata. Abbandonato dopo la Grande Guerra dagli affezionati villeggianti austriaci, germanici e ungheresi a causa del nuovo confine, fu infine comprato dall’Opera nazionale invalidi per farci un sanatorio per i «ricoverati tubercolotici di guerra» con i soldi forniti in buona parte, per spirito di fratellanza, con le rimesse degli emigrati in Argentina. E quello fu l’ultimo nome che prese: «Casa Argentina». Destinata via via ad esser abbandonata al degrado finché una ventina di anni fa fu ceduta dalla Provincia a nuovi proprietari. Il tempo di mettere a punto un progetto e questi chiedono di ricostruire l’edificio. No, risponde il Comune. E accusa il progetto di aver giocato in contrasto con la legge sul «volume esistente calcolato comprendendo volumi interrati e seminterrati». La proprietà fa ricorso al Tar. Respinto.
Nel 2000 il piano regolatore cambia. Ma prevede comunque per l’ex «Argentina», dato «l’alto valore paesaggistico derivante dalla posizione strategica e panoramica dell’area» dei limiti molto rigidi, una pianta d’alto fusto ogni 50 metri quadri, una «impronta architettonica qualitativamente elevata tale da richiamare lo stile tardo ottocentesco», un’altezza massima di 10 metri e mezzo… A farla corta: il rifacimento, visto il posto, deve essere garbato. Rispettoso.
Nel 2003, nuova variante. Assai più permissiva. Anche questa, tuttavia, specifica vari punti: «le volumetrie del progetto dovranno tendere a contenere al massimo l’impatto paesaggistico e l’intrusione nelle vedute panoramiche del castello» e seguire «il più possibile le curve di livello del terreno naturale» e «l’altezza dei fabbricati sarà quella che meglio concilia le esigenze di mitigare l’impatto visivo» e insomma il tutto «dovrà essere oggetto di analisi filologica e tendere al recupero, nel possibile, della sua immagine originaria, ripristinando i fronti principali e gli apparati decorativi dell’epoca». Quali? Lo dicono le foto conservate dagli ambientalisti che combattono la pesante ristrutturazione cementizia: le colonnine, l’abbaino, le finestre ad arco, i pinnacoli…
Fatto sta che due giorni dopo il Natale del 2004, mentre la gente smaltisce distratta i postumi dei cenoni ed è avviata la cosiddetta «fase informale», l’assessore all’urbanistica Sergio Dellanna consiglia alla proprietà come motivare «la richiesta di demolire il fabbricato storico» e cioè sottolineando il degrado e lo «sfiguramento» dell’edificio, i problemi di ripristino dell’originale, l’indisponibilità di parcheggi… Poco dopo il Comune, per bocca di altri assessori, dice d’essersi convinto dell’«impossibile ipotesi di convivenza tra il recupero filologico del manufatto e la necessità di mitigare l’impatto prodotto dagli spazi destinati a parcheggio mediante il loro interramento». Arrivano le ruspe. Tutto giù.
Cosa sia adesso quello che un tempo era l’elegante «Hotel Pensione Olivenheim» lo potete vedere dalle fotografie. Quella satellitare dell’area «prima» e «dopo» mostra un incremento delle cubature originali (a proposito: nessuno ha mai ben capito a quanto ammontassero) molto ma molto vistoso. Quelle della facciata ostentano una colossale parete di cemento armato, una specie di imponente zoccolo, in cima alla quale è adagiata la struttura residenziale vera e propria con le finestre che, lassù in alto, hanno finalmente la vista sul lago che altrimenti, senza l’innalzamento di quell’«interrato», sarebbe stato invisibile.
Cosa dicono le norme comunali? Dicono che può essere definita interrata una «costruzione collocata totalmente sotto il livello del terreno o sotto il terreno di riporto preventivamente autorizzato che non presenta più di una faccia scoperta». Ma possono essere considerati «interrati» quei parcheggi scavati nella montagna dietro quel muraglione che nel punto più alto svetta sulla strada per 10 metri? E che fine ha fatto il «recupero filologico» se là dove c’era il vecchio albergo poi sanatorio c’è oggi uno spropositato complesso di vari palazzi squadrati, anonimi e biancastri di cemento?
E non è finita. Accanto alla «Residenza Olivenheim» che all’albergo originale ha rubato anche quel nome che suona così romantico e bell’époque e che sarà venduto appartamento per appartamento (auguri: centinaia di case nella zona sono invendute) dovrebbe essere «recuperato» allo stesso modo anche un altro edificio bello ma malandato dove dovrebbe sorgere un hotel. E pazienza se quella strada si chiama Via del Calvario. Un tempo, quando quella collina era davvero bellissima, col castello che si stagliava così vicino che pareva di poterlo toccare, saliva tra gli ulivi silenziosi una struggente «via crucis». C’era un capitello, lì, all’inizio. Da tempo immemorabile. Dava fastidio. L’hanno tolto.
Denuncia di Legambiente. «Mentre l’Italia sta franando, il parlamento cerca di condonare gli abusi edilizi, sempre rimandando l’abbattimento degli immobili costruiti illegalmente». Realacci promette opposizione dura. Vedremo. Il manifesto, 20 febbraio 2014Legambiente. L'associazione ambientalista lancia una campagna contro gli abusi edilizi denunciando una pratica tollerata da tutti i governi che solo nel 2013 ha favorito la costruzione di 26 mila edifici fuori legge. "Il parlamento deve approvare al più presto la legge sulle demolizioni", spiega il presidente Vittorio Cogliati Dezza
Mentre l’Italia sta franando, il parlamento cerca di condonare gli abusi edilizi, sempre rimandando l’abbattimento degli immobili costruiti illegalmente. Come se già non fossero storicamente documentati gli scempi causati dagli ultimi tre condoni edilizi (nel 1985, nel 1994 e nel 2003). Il fenomeno è così diffuso che è quasi impossibile da censire (manca ancora una mappatura nazionale del fenomeno), ma basta un dato anche parziale per spiegare come mai la penisola si stia sgretolando sotto le frane e tra le piene dei fiumi: solo nel 2013 sarebbero stati costruiti 26 mila immobili illegali.
Nasce da qui l’urgenza della campagna “Abbatti l’Abuso” cui hanno già aderito il Consiglio nazionale dei geologi, quello degli architetti, Libera, Avviso Pubblico e Legambiente, che ieri ha presentato il dossier “Abusivismo edilizio: l’Italia frana, il Parlamento condona”, un atto d’accusa che chiama in causa il governo e fotografa un territorio mortificato dall’incuria e dalla storica incapacità di ripristinare la legalità, soprattutto quando si tratta di salvaguardare il bene pubblico.
Si può ben dire che il fenomeno dell’abusivismo edilizio sia l’unico settore del “made in Italy” che non conosce crisi — nonostante la perdita di quasi 700 mila posti di lavoro in pochi anni denunciata dall’associazione nazionale dei costruttori edili. Le betoniere illegali nei cantieri improvvisati, infatti, continuano indisturbate ad impastare cemento al ritmo di almeno 26 mila immobili all’anno (tra ampliamenti e nuove costruzioni). Più o meno il 13% del totale delle nuove costruzioni: una nuova casa su dieci è fuori legge.
Non è una novità ma è il sintomo di una metastasi le cui radici si perdono nei decenni: solo nell’ultimo, tra il 2003 e il 2011, sono state conteggiate circa 258 mila case abusive per un giro d’affari illegale che Legambiente stima attorno ai 18,3 miliardi di euro. E’ più complicato azzardare altre stime andando ancora più indietro nel tempo, fino agli anni del cosiddetto boom, ma in questo caso basta un semplice sguardo nelle zone più fragili del paesaggio, spesso nel sud, quasi sempre sul litorale, per ritrovare la fotografia più nitida di un disastro ormai quasi impossibile da cancellare. Sono le più brutte cartoline della Sicilia e della Campania, rispettivamente prima e seconda tra le regioni dove ha imperato l’abusivismo edilizio anche nel 2013 (nell’isola sono stati registrati 476 illeciti, 725 persone denunciate e 286 sequestri, mentre in Campania c’è stato il più alto numero di sequestri). La Sardegna nel 2013 si è pericolosamente avvicinata alla vetta e si segnala per il maggior numero di persone denunciate (988). Puglia e Calabria si sono piazzate rispettivamente quarta e quinta nella classifica dell’abuso edilizio.
“L’abusivismo edilizio — spiega Rossella Muroni, direttore generale di Legambiente – rappresenta un’autentica piaga nazionale, prospera indisturbato da decenni e non conosce crisi, nutrendosi di alibi e giustificazioni. Ad essere occupate sono state le coste, i letti dei fiumi, i pendii delle montagne, senza pensare al danno paesaggistico ma nemmeno al pericolo di realizzare case, terrazze, alberghi, scuole e uffici in aree dove non si dovrebbe piantare nemmeno una tenda da campeggio”.
Il 2013, ammette l’associazione ambientalista, è stato anche un anno piuttosto ricco di demolizioni anche importanti. Gli “scheletri” di Lido Rossello e di Scala dei Turchi sulla costa agrigentina, per esempio, finalmente abbattuti dopo venti anni di battaglia legali. Però non basta e non basterà mai, se è vero che lo scorso anno “è stato denso di tentativi per approvare in parlamento un nuovo condono mascherato sotto le forme più diverse”. Almeno cinque, sostiene Legambiente, tutti bloccati tranne uno, il ddl Falanga che un mese fa è passato al senato con 189 sì, 61 no e 7 astenuti.
Legambiente riconosce la necessità di affrontare il problema “serissimo” del bisogno abitativo, ma non ci sta quando per fermare le ruspe e salvare le case fuorilegge si invoca un presunto abusivismo di necessità. Se questo abusivismo della “povera gente” esiste, ribatte Rossella Moroni, “i Comuni hanno l’obbligo di provvedere all’assegnazione in via prioritaria di un alloggio sociale”. Altrimenti viene facile pensar male, “a meno che non si ammetta che dietro a questo alibi si celano anche le ville di notai, farmacisti, avvocati e imprenditori”.
Di fatto però l’azione di demolizione e ricostruzione è quasi sconosciuta in Italia: su 1.354 comuni interpellati dalla ricerca Ecosistema Rischio 2013, solo 55 negli ultimi due anni hanno detto di aver avviato delocalizzazioni. E dire che abbattere un immobile abusivo non è una facoltà di questa o quella amministrazione ma un obbligo di legge.
A questo proposito, Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente, si augura che il parlamento approvi al più presto la proposta di legge Realacci sulle demolizioni già presentata sia alla camera che al senato: “Il parlamento darebbe un segno concreto di vicinanza a quanti, sindaci, magistrati, prefetti fanno ogni giorno con onore il proprio mestiere, spesso isolati, osteggiati e minacciati”. Anche perché nel 2013 gli interventi di demolizione censiti sono stati 12. Uno scandalo nello scandalo
Un articolo descrittivo dei progettoni ciclabili (di qualche utilità?) tanto di moda in Italia, e soprattutto un fulminante commento di Paolo Rumiz che ne svela il senso reale. La Repubblica, 20 febbraio 2013
Le autostrade delle biciclette, ecco l’ultimo sogno verde pedalare da Torino a Palermo
di Cristiana Salvagni
ROMA — Da Torino fino a Palermo e da Trieste giù dritti a Santa Maria di Leuca. Tutto in bicicletta. Sono due delle rotte ciclabili ipotizzate in una proposta di legge messa a punto da 80 parlamentari bipartisan per realizzare, in pochi anni, una rete nazionale da percorrere a pedalate, lunga fino a 20mila chilometri. Utile per eliminare l’uso dell’auto sui tragitti più brevi, e che passando per i capoluoghi e i parchi naturali strizzi anche l’occhio al turismo sostenibile, tanto amato dagli stranieri.
«Il 60 per cento degli spostamenti in macchina copre una distanza inferiore ai 5 chilometri, il 15 per cento addirittura inferiore a un chilometro: sono distanze facilmente percorribili in bicicletta, se si hanno a disposizione percorsi sicuri» spiega Antonio Decaro, deputato del Pd che per primo ha firmato la proposta. «Così abbiamo creato una legge nazionale sulla mobilità ciclistica che include, oltre alla rete, un piano per accorpare le regolamentazioni che regioni, province e comuni saranno obbligati a fare». Per esempio «in tutte le stazioni ferroviarie e dei bus extraurbani gli enti locali dovranno costruire una velostazione per lasciare e riparare le bici — continua Decaro — e i comuni dovranno inserire, in caso di concessione edilizia, la clausola di prevedere anche spazi di sosta per le bici, così come ora avviene per le auto».
Questa futuristica autostrada ecologica, povera di asfalto e ricca di argini fluviali e antiche strade romane, si comporrà di 18 grandi itinerari, già tracciati in una mappa curata dalla Federazione italiana amici della bicicletta. «Da Bolzano si potrà pedalare fino a Catanzaro, dalla foce del Po fino a Venezia e da Milano si scenderà fino a Bari» racconta Antonio Dalla Venezia, responsabile Fiab del cicloturismo e della mobilità extraurbana. «C’è la ciclopista del Sole, lunga tremila chilometri, ma anche la ciclovia dei Pellegrini, di duemila, che ricalca la viaFrancigena: parte da Chiasso e attraversa Siena, Roma e Benevento fino all’antica meta di Brindisi, dove i fedeli si imbarcavano per raggiungere Gerusalemme. Un itinerario del genere potrebbe diventare un cammino internazionale come quello di Santiago de Compostela » prosegue Dalla Venezia. «In un momento in cui il turismo tradizionale è in crisi potremmo puntare su quello sostenibile praticato soprattutto da tedeschi, olandesi, francesi, visto che nel nostro Paese la stagione è molto lunga». Un tipo di vacanza che ogni anno muove in Europa dieci milioni di viaggiatori.
Se dai 4mila chilometri di piste esistenti ai 20mila in progetto la pedalata non sembra breve, in realtà le strade per trasformare il sogno in realtà sono molteplici. «Si possono riadattare i 5mila chilometri di lineeferroviarie dismesse, in particolare sulla dorsale adriatica — insiste Claudio Pedroni della Fiab — mettere in sicurezza le vie a basso traffico e poi recuperare gli argini dei fiumi e le piste di servizio degli acquedotti. E ancora le consolari storiche come la vecchia Salaria, che sfiora i Monti Sibillini e Campo Imperatore, o la Flaminia, puntellata dalle parti di Fano di manufatti romani». A pagare dovrebbe essere il ministero dei Trasporti. «Chiediamo — chiarisce Decaro — che il piano della mobilità ciclistica sia inserito nel piano nazionale dei trasporti: questo significa che ogni volta che viene finanziata la mobilità ferroviaria o automobilistica una piccola percentuale delle risorse, pari al 2 per cento, deve essere destinata alle biciclette». E i tempi? «Contiamo di depositare la proposta di legge entro una decina di giorni. E, una volta approvata, speriamo che per realizzarla bastino quattro o cinque anni».
Ma all'Italia non servono percorsi ghetto
di Paolo Rumiz
FOSSE per me, renderei ciclabile tutta l’Italia, quindi ben venga un ribaltone della viabilità. Sono stanco di rischiare la vita ogni giorno che mi muovo su due ruote per fare la spesa o andare al lavoro. Quella che temo è l’Italia, la sua cultura, che è tutta contro il velocipede. L’italiano medio disprezza chi lo usa, lo odia come un intralcio. «Ma quando sparirete», mi hanno gridato un giorno.
Per questo temo il trucco. Temo che ci si butti su piste “ghettizzate” già superate in tutta Europa, utili solo a togliere la bici dalle scatole degli automobilisti. Ho anche paura che ci si faccia scudo del mezzo ecologico per buttare soldi in inutili mega-progetti, o peggio che si faccia quella scelta solo per fare, senza crederci, qualcosa di sinistra.
Ho alcune convinzioni di ferro. La vera rivoluzione non è creare riserve indiane per turisti, ma rendere possibile l’uso della bicicletta nel quotidiano. Sogno pendolari sul sellino, mamme che vanno in bici a prendere i figli all’asilo, manager con gli incartamenti nelle sacche del mezzo gommato. Non so se avete mai visto la sera, ad Amsterdam o Zurigo, il rientro dal lavoro. C’è una città intera che fruscia. Bici col rimorchioper bambini, bici a tre ruote per originali, tandem per le coppie. Giorni fa a Vienna ho visto un ministro senza scorta parcheggiare il mezzo nel cortile della cancelleria. Il Reichstag, a Berlino, ha un parcheggio per soli quaranta posti macchina. I parlamentari affluiscono col metrò, a piedi o su due ruote.
Ne saremo mai capaci? Il fatto è che in Germania chi progetta piste ciclabili va in bicicletta, in Italia no. È questo che la fa differenza. E così accade che a Nord già si sperimentino piste ciclabili ad alta velocità, competitive con l’automobile, per connettere centri e periferie. L’obiettivo, oltre le corsie preferenziali, è la condivisione della strada e la moderazione del traffico in alcune aree con velocità ridotta per i motorizzati. Quella sarebbe davvero Europa.
Per combattere il consumo di suolo è indispensabile eliminare gli equivoci sull’edificabilità e ribadire legislativamente, come suggerì la Corte costituzionale, che lo jus aedificandi non è tra i contenuti della proprietà privata dei suoli, come invece vorrebbe la proposta di legge Realacci
1. – Il consumo di suolo e le lacune legislative.
La cementificazione, l’impermeabilizzazione e l’edificazione hanno stravolto il nostro territorio, esponendolo a frane, smottamenti e distruzioni di ogni tipo. Di fronte ad un simile disastro da più parti si sono levate voci allarmate e sono piovute in Parlamento numerose proposte di legge, che promettono di “limitare” il consumo dei suoli agricoli, ammettendolo soltanto se non sia possibile trovare soluzioni all’interno di aree urbanizzate.
Si parla, ovviamente, di “suolo”, cioè di quella parte della superficie terrestre che è a diretto contatto con l’atmosfera e che, attraverso l’azione combinata di acqua, minerali e batteri, condiziona la vita dell’intero pianeta. Sennonché, dal punto di vista giuridico, non è possibile parlare di “suolo” senza parlare anche di “sottosuolo” e di “soprassuolo”. Infatti, queste tre entità sono tra loro strettamente connesse e costituiscono nel loro insieme una entità complessa, molto spesso presa in considerazione dal diritto, che si chiama “territorio”. Si vuol dire, in altri termini, che “suolo” e “territorio” sono tra loro entità inscindibili, per cui un discorso sul suolo non può prescindere da un discorso sul territorio.
E, a questo proposito, non si può fare a meno di ricordare che il “territorio” è oggi attaccato da tre temibilissimi nemici: la crisi finanziaria, che produce la sua “svendita”, e quindi, anche la svendita dei suoli; la “privatizzazione”, che trasforma la proprietà collettiva del territorio e dei suoli, in proprietà privata, sottraendo risorse a tutti, a vantaggio di pochi; ed infine, la “cementificazione e impermeabilizzazione dei suoli” con gli evidentissimi e gravissimi danni che produce.
Comunque, concentrando l’attenzione sulla tutela di quella parte del territorio definita “suolo”, è da avvertire che effettivamente il discorso deve concentrarsi sulle “cementificazioni e sulle impermeabilizzazioni”, che sono la causa prima del suo “consumo”.
Al riguardo, si deve, tuttavia, rilevare che le proposte che sono state depositate in Parlamento, ed in primis quella dell’on.le Realacci, non tengono presente un dato di fondamentale importanza: il fatto cioè che ormai il costruito prevale sul non costruito e sono stati ampiamente superati, e di molto, tutti i limiti per assicurare la “sostenibilità” ambientale di nuove costruzioni.[1]
Ne consegue che oggi non è più possibile interpretare il problema in termini di “limitazione”, ma è diventato ineluttabile parlare della cosiddetta “opzione zero nel consumo di suolo”. Lo impone, a tacer d’altro, il fatto che è stato turbato in modo gravissimo l’equilibrio idrogeologico del nostro Paese, sicché è assurdo continuare a ragionare come se fossimo agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso, e non oggi, quando si è già distrutto inesorabilmente tutto il territorio. Si è costruito sui terreni agricoli, sulle aree golenali, sugli argini dei fiumi, sulle pendici dei vulcani, sulle spiagge, ecc. E, di fronte a tale immane disastro non è più immaginabile parlare di consumi ulteriori di terreni agricoli, forestali, o addirittura di orti urbani, ricorrendo al subdolo concetto di “compensazione ambientale”, che non serve ad altro se non a spostare il consumo di suolo da un luogo ad un altro. In parole povere un “artificio” per mettere a tacere, ingannandole, le coscienze dei più attenti ai problemi ambientali. Ma v’è ancora di più. Vi sono proposte, come quella già indicata, che parlano della elargizione, da parte dell’amministrazione pubblica, del ius aedificandi, su terreni agricoli, quasi fosse moneta sonante, per coloro che si impegnano a risanare zone urbanizzate. Siamo arrivati ad uno stato confusionario generale.
Occorre, dunque, rimeditare ab imis il problema e scoprire quali siano, sia pur limitando il discorso all’aspetto puramente giuridico, le cause di questo immane disastro.
Ponendosi in questa prospettiva, salta immediatamente agli occhi che causa principale del disastro è il convincimento, diffusissimo nell’immaginario collettivo, secondo il quale il “terreno” serve soprattutto per edificarvi sopra. In altri termini, nel “contenuto” del diritto di proprietà privata sarebbe incluso il ius aedificandi, il cui esercizio ha bisogno soltanto di un “permesso” dell’autorità comunale, quello che una volta si chiamava “licenza”, ed oggi “permesso di costruire”, e che solo per breve tempo, grazie alla legge n. 10 del 1977, fu chiamata “concessione edilizia”.
In realtà questo presunto “diritto di costruire”, inteso come insito nel diritto di proprietà fondiaria, non è previsto da nessuna norma del codice civile. Un tentativo per dare un riconoscimento legislativo al ius aedificandi fu fatto dall’On.le Maurizio Lupi, il quale, a nome del partito “Forza Italia”, presentò nel 2003 una proposta di riforma del governo del territorio, che, benché approvata dal Senato, fu poi bocciata dalla Camera dei deputati[2].
Né è possibile attribuire il valore di una disposizione di legge alla sentenza della Corte costituzionale n. 5 del 1980, che ha concepito il diritto ad edificare come “insito” nel diritto di proprietà, facendo sì che il DPR 6 giugno 2001, n. 380, introducesse poi la dizione “permesso di costruire”. Infatti, la Corte costituzionale ha il potere di “annullare” le leggi e non quello di “sostituirsi” al legislatore. E’ pertanto estremamente importante che le recenti proposte di legge sul consumo dei suoli facciano chiarezza su questo punto, ponendo in rilievo che il ius aedificandi non rientra tra i contenuti del diritto di proprietà privata.
Ed è da sottolineare che i Comuni di rado hanno agito nell’interesse effettivo delle collettività amministrate, ed a ciò sono stati indotti da riprovevoli leggi statali, che hanno favorito gli interessi dei singoli, spingendo i Comuni a concedere il massimo possibile di “permessi di costruire”. Si tratta, innanzitutto, come puntualmente nota Salvatore Settis[3], del Testo unico per l’edilizia, approvato con DPR 6 giugno 2001, n. 380, il quale, all’art. 136, comma 2, lett. c), ha abrogato il sano principio della legge Bucalossi (art. 12, della legge n. 10 del 1977), secondo cui “i proventi da oneri di urbanizzazione dovevano essere obbligatoriamente utilizzati dai Comuni per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, il risanamento dei complessi edilizi compresi nei centri storici, le spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale”. Di conseguenza, a seguito di tale disposizione legislativa, i Comuni si sono sentiti liberi di impiegare i cosiddetti oneri di urbanizzazione anche per le spese correnti e, essendo queste ultime sempre crescenti, hanno cominciato ad ”allentare la guardia sulle autorizzazioni a costruire, o peggio a stimolare l’invasione del territorio modificando piani regolatori, concedendo eccezioni e deroghe, chiudendo un occhio e più spesso entrambi” , ed il fatto peggiore è stato che, essendo diventati gli oneri di urbanizzazione un introito del quale si aveva bisogno anno per anno, i Comuni hanno “accresciuto il numero delle costruzioni, allentando i controlli, cannibalizzando il territorio”[4].
Né è da dimenticare l’effetto perverso provocato in proposito dall’art. 3, comma 3, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148, secondo il quale “sono soppresse le disposizioni normative statali incompatibili con il principio per il quale l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge ”. Si tratta di una legge palesemente incostituzionale, poiché fonda il suo disposto solo sulle prime cinque parole dell’art. 41 della Costituzione, dimenticando che questo articolo, dopo aver affermato che « l’iniziativa economica privata è libera », prosegue dicendo che essa: «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana ». Dunque una disposizione di legge assurda, che, tuttavia, ha dato maggior forza agli speculatori edilizi nel chiedere alle amministrazioni comunali di far presto a concedere loro i richiesti permessi di costruire.
2. – Il capovolgimento di una diffusa ed erronea convinzione.
E’ da porre in evidenza, a questo punto, che costruire, come sopra si accennava, significa “modificare il territorio” e che, di conseguenza, questo può esser fatto soltanto da chi è il “proprietario” del “territorio” medesimo, considerato, peraltro, nella sua interezza, tenendo conto, cioè, anche del paesaggio, dei beni artistici e storici e degli altri beni costruiti dall’uomo. Si deve cioè affermare con forza che il cosiddetto ius aedificandi appartiene al popolo, che è proprietario del territorio a titolo originario di sovranità e non al singolo cittadino proprietario di un appezzamento di terreno. E si deve subito avvertire che l’interesse del popolo deve esser fatto valore dal Comune, come ente esponenziale dalla comunità comunale, ma anche dai singoli cittadini, come vedremo in seguito, con l’esperimento dell’azione popolare.
Si oppone a questa indiscutibile verità, come poco sopra si osservava, la cultura borghese e quella ben più invasiva del neoliberismo economico, le quali hanno diffuso l’errato convincimento “dell’assolutezza e della illimitatezza” della proprietà privata, che perciò avrebbe come contenuto anche il diritto di costruire, nonché una prevalenza della “proprietà privata” del singolo, sulla “proprietà collettiva” di tutti sul territorio, con la conseguenza che la “tutela dell’interesse generale” viene vista come una “limitazione” della proprietà privata. E tutto questo a prescindere dalle chiarissime disposizioni della Costituzione, che vengono del tutto ignorate, come se fosse possibile leggere le disposizioni del codice civile indipendentemente dalle norme costituzionali.
E’ indispensabile “capovolgere” questa prospettiva, mettendo a confronto i due citati istituti, confronto che porrà in evidenza la “precedenza storica” della proprietà collettiva del territorio sulla proprietà privata, ed una “prevalenza giuridica” del primo diritto sul secondo.
3. – La precedenza storica della proprietà collettiva su quella privata.
Il punto di partenza di tutto il discorso è che il territorio, alle origini, è sempre appartenuto al popolo a titolo di sovranità. E’ sufficiente pensare come nasce la “Comunità politica”, per rendersene conto. Tra i vari esempi, il più pertinente sembra quello relativo alla nascita della Civitas Quiritium. Quando Romolo, o chi per lui, tracciò il solco dell’Urbs (che non ancora si chiamava Roma, poiché questo nome, dall’etrusco rumen, fu dato per l’appunto dai re etruschi), distinse il terreno su cui doveva nascere la Città dai terreni circostanti e dette luogo a tre fenomeni giuridici concomitanti: la nascita del Populus (nel senso che l’aggregato umano che si stanziava nella Città, diveniva una unità giuridica complessa, nella quale si distingueva il “civis”, il singolo cittadino, come “parte costitutiva” del tutto, ed il Populus, cioè l’intera cittadinanza); la nascita del “territorium” (da terrae torus, letto di terra), sul quale si stanziava il popolo, e infine, la “sovranità”, il potere sommo, riconosciuto al popolo stesso, di porre confini, non solo ai terreni, ma anche ai singoli cittadini, in modo che le loro libertà venissero limitate al fine di assicurare la convivenza civile.
In sostanza vennero in evidenza due concetti chiave: quello di “confine” e quello “della parte e del tutto”, nel senso che la “confinazione” dei terreni e delle libertà individuali fu essenziale per la nascita della Comunità politica, mentre lo stesso concetto di popolo, non si risolse nella concezione individualistica di una sola entità giuridica, ma implicò la rilevanza giuridica, sia del tutto, sia dei singoli cittadini, in quanto parti strutturali dell’insieme costituito dal popolo. Insomma una concezione “collettivistica” e non, come si è a lungo ritenuto, una concezione “individualistica”[5].
In sostanza, quello che è necessario porre in evidenza è che la nascita di una Comunità politica implica che, originariamente, il territorio appartiene al popolo a titolo di sovranità, nel senso che tra i poteri sovrani del popolo rientra anche la “proprietà collettiva” del territorio.
Lo dimostra a tacer d’altro, che per “cedere” a singoli soggetti parti del territorio è stata sempre ritenuta necessaria un atto solenne la divisio, preceduta da una manifestazione di volontà del titolare della sovranità. La prima “divisio” fu operata, secondo le testimonianze letterarie, dallo stesso Romolo, ma il Niebhur ha ritenuto che si trattasse di Numa Pompilio, il quale, evidentemente dopo una deliberazione dei Patres familiarum, divise il territorio dell’Urbe tra una parte assegnata ai singoli Patres, due iugeri a testa, cioè mezzo ettaro (quanto è appena sufficiente per soddisfare le elementari necessità familiari), ed una parte riservata all’uso comune della cittadinanza, il cosiddetto “ager compascuus”. Da notare che non si trattò affatto della cessione in proprietà privata, poiché sulla parte divisa i singoli assegnatari ebbero un potere indefinito, detto “mancipium”, e non un diritto reale come il diritto di proprietà privata. Ed è ancora da notare che anche le successive assegnazioni ai veterani delle terre conquistate avvenne mediante la solenne cerimonia, di origine etrusca, detta “divisio et adsignatio agrorum”, sempre preceduta da una lex centuraiata o da un plebiscitum, cioè da una manifestazione di volontà del popolo sovrano. D’altro canto, anche in questa seconda ipotesi, trattandosi di res nec mancipi, veniva trasferita soltanto la possessio (da potis sedeo, siedo da signore), cioè una res facti e non un vero e proprio diritto. Per parlare di un vero e proprio diritto reale, corrispondente più o meno alla nostra proprietà privata, fu necessario attendere l’inizio del I secolo a. C., quando, dopo una tormentata evoluzione giurisprudenziale, si cominciò a parlare di ”dominium ex iure Quiritium”, che comunque, fu oggetto di controllo pubblico, e comportò soltanto il ius utendi et fruendi, ma non il ius abutendi, del quale si parlò solo durante il medio evo.
Nel medio evo, peraltro, lo schema rimase lo stesso. Infatti, se si pensa che la sovranità, dal popolo era passata all’Imperatore, si capisce pienamente perché si parlò di un dominium eminens dell’Imperatore e di un dominium utile di chi lavorava la terra. Il territorio, insomma, apparteneva a chi era titolare della sovranità. L’appartenenza del territorio, in altri termini, rientrava nella somma dei poteri sovrani e questa appartenenza continuava ad esistere (Carl Schmitt parla di “superproprietà”) anche se in concreto la proprietà risultava assegnata ad un singolo cittadino.
La rottura dello schema romanistico si è avuta con la restaurazione napoleonica, la quale è stata realizzata in base al principio “Il potere al Governo, la proprietà ai privati”. Si è staccato così il diritto dall’economia e si sono poste le premesse per l’affermarsi delle teorie neoliberiste, che si disinteressano della persona umana e mirano soltanto al “massimo profitto”, dando origine al dannosissimo fenomeno della “finanziarizzazione dei mercati”, alla “svendita del territorio” ed alle perniciose “privatizzazioni”, che tolgono a tutti per dare a pochi.
4. – La prevalenza giuridica della proprietà collettiva su quella privata.
La salvezza sta nell’applicazione della vigente Costituzione repubblicana, la quale ha accolto in pieno l’insegnamento dei giureconsulti romani. La Costituzione, infatti, non solo ha sostituito lo Stato persona di stampo borghese con lo Stato comunità, qual era la Respublica Romanorum, ma ha riportato in primo piano la “proprietà collettiva” del territorio, ponendo in luce che la “proprietà privata” è semplicemente “ceduta” ai singoli con un atto di volontà del popolo sovrano, e cioè mediante legge. Alla “precedenza storica” della proprietà collettiva su quella privata si accompagna oggi la “prevalenza giuridica” della prima sulla seconda.
Lo chiarisce l’art. 42 della Costituzione, secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta dalla legge….allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, sancendo cioè che tale diritto è giuridicamente tutelato soltanto se ed in quanto “assicura” “lo scopo” della “funzione sociale”, rende cioè tutti partecipi dei benefici che provengono dalle attività produttive.
Il principio della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato è ribadito, inoltre, dall’art. 41 della Costituzione, riguardante “l’iniziativa economica privata” e cioè l’attività negoziale che il proprietario pone in essere per disporre della proprietà privata, e cioè per acquisire o vendere la proprietà dei beni economici.
Si legge in detto articolo che “L’iniziativa economica privata è libera”. “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Come si nota, alla “funzione sociale” dell’art. 42 Cost., fa riscontro “l’utilità sociale”, di cui al precedente art. 41 Cost.
Ma non è tutto. Questa “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, va coniugata con la “distinzione” tra “proprietà pubblica” e “proprietà privata”, di cui al primo alinea del citato art. 42 Cost., secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata”.
In sostanza, dal combinato disposto delle citate disposizioni emerge con estrema chiarezza che la nostra Costituzione, non prevede affatto un solo tipo di proprietà, ma due tipi: quella pubblica e quella privata, sancendo, nello stesso tempo, la “prevalenza della prima sulla seconda”. Insomma, i “limiti” alla proprietà di cui pure parla l’art. 42 della Costituzione, affermando che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti”, riguardano soltanto la proprietà privata, come è espressamente detto, e non la proprietà pubblica, la quale, in questo contesto, si identifica con la “proprietà collettiva demaniale”, che spetta al popolo a titolo di sovranità, come da tempo affermato da Massimo Severo Giannini[6].
Questa distinzione, inoltre, è stata chiarita da tempo dal Regolamento di contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 4 maggio 1885, n. 3074, il quale affermava testualmente: “I beni dello Stato si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a titolo di sovranità, e formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono a titolo di proprietà privata” [7].
Insomma, la “dinamica giuridica” che segue la Costituzione ripete puntualmente la stessa dinamica che si è svolta storicamente. All’inizio, l’intero territorio appartiene al popolo a titolo di “sovranità”. In seguito, parte del territorio viene, con “legge”, “riservato” all’uso diretto della popolazione, restando “proprietà collettiva demaniale” come res extra commercium, e cioè come beni “inalienabili, inusucapibili ed in espropriabili”, e parte viene “ceduta” a privati, diventando oggetto di “proprietà privata”.
E questa parte “ceduta” in proprietà privata, sia ben chiaro, deve comunque perseguire una “funzione sociale”, poiché ciò che conta, prima della tutela individuale, è l’”utilità sociale”, di cui parla l’art. 41 della Costituzione.
Insomma, sia la storia degli istituti giuridici, sia, direttamente, la nostra Costituzione confermano quanto sopra si diceva: si deve parlare di un “capovolgimento” delle tradizionali concezioni borghesi, rinverdite e rafforzate dalle teorie neocapitalistiche, e ritenere che non è il pubblico che “limita” il privato del suo uso del bene comune, ma è il privato che sottrae alla collettività la possibilità di utilizzarlo per il bene comune.
5. – Il ius aedificandi.
Se si tiene presente, come sopra si è tentato di dimostrare, che la “proprietà privata” deriva da una “cessione” di parti del territorio a singoli individui da parte del popolo, il quale, non solo ha la “proprietà collettiva” dell’intero territorio, ma conserva, come ricorda Carl Schmitt,[8] anche una “superproprietà” o, se si preferisce un dominium eminens sulle parti “cedute”, diventa davvero inconcepibile ritenere che, oltre al diritto di appartenenza di un appezzamento di terreno, sia stato “ceduto” anche il diritto di “modificare il territorio” nella sua interezza, potere che è ovviamente rimasto nei “poteri sovrani del popolo”.
Quando ci lamentiamo degli scempi paesaggistici, della cementificazione, delle distruzioni della natura non possiamo limitarci alla “denuncia”: è un nostro “diritto di proprietà collettiva” che è stato leso, e questo diritto è ben più grande e più tutelato del diritto di proprietà privata. E, comunque, come si è detto, il ius aedificandi non ha nulla a che vedere con il diritto di proprietà privata. Non c’è nessuna disposizione del codice civile che lo preveda, mentre, come è noto, lo stesso codice ha cura di precisare che questo diritto deve fare i conti con i “limiti posti dall’ordinamento giuridico”. Nel caso poi della costituzione a favore di un terzo da parte del proprietario privato del diritto di costruire e mantenere su suolo proprio una costruzione (art. 952 del codice civile), è evidente che tale costituzione di un diritto reale limitato è condizionata al riconoscimento da parte dell’Autorità competente, di quel particolare terreno come rientrante in una zona urbanizzata. Si vuol dire che è “l’urbanizzazione” del territorio, è in ultima analisi la “cessione” ai singoli di questo potere rientrante nella proprietà collettiva del territorio stesso, a far nascere in capo ai singoli proprietari di terreni il diritto di costruire. Fuori di questa “cessione”, il proprietario privato non può assolutamente vantare un ius aedificandi come insito nel suo diritto di proprietà.
Ed è per questo che è corretto parlare di “concessione” del diritto di costruire, come prevedeva la legge Bucalosi, n. 10 del 1977, ed è fortemente in contrasto con tutti i principi del nostro ordinamento parlare di “licenza di costruzione”, com’era una volta, o di “permesso di costruire”, com’è oggi.
Come si è sopra chiarito, tutto ciò dipende dal fatto che la cultura borghese e neoliberista si è tenacemente opposta all’idea stessa della “proprietà collettiva del territorio”, che è invece viva e presente nel nostro ordinamento costituzionale e contiene anche questo supposto “diritto di costruire”, che, per sua natura non può appartenere a singoli soggetti, ma a tutti i consociati.
6. – La dinamica costituzionale per lo sviluppo economico. La partecipazione dei cittadini.
Il problema dell’attuazione del ius aedificandi, rende necessario qualche cenno sulle linee direttrici che la nostra Costituzione pone a proposito dello sviluppo economico.
Come è noto, la nostra Costituzione parte dall’idea di comune esperienza secondo cui la ricchezza proviene da “due fattori”: “le risorse della terra” ed “il lavoro dell’uomo”. Infatti “due sono gli obiettivi” che la stessa si propone di raggiungere: a) “tutelare il territorio”; b) “proteggere il lavoro”. Ed è molto significativo, in proposito, il fatto che il Titolo III, Parte prima, della Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”, è in pratica dedicato, sia alla tutela del territorio, sia alla tutela del lavoro.
In particolare parlano del territorio l’art. 42, primo comma, secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti e a privati”, nonché l’art. 44, primo alinea, secondo il quale occorre “conseguire il razionale sfruttamento del suolo”. Parlano invece di lavoro, l’art. 35, secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, l’art. 36, secondo il quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente a assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, nonché l’art. 38, importante per l’affermazione di principio secondo cui tutti devono lavorare, ed è esentato da questo dovere soltanto “il cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, per il quale è previsto il “diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale”.
Il quadro costituzionale, relativo ai due essenziali fattori della produzione, tuttavia, non si ferma qui. Basti pensare, quanto alla difesa del territorio, al riferimento dell’art. 9 alla tutela del paesaggio e dei beni artistici e storici[9], nonché alla disposizione dell’art. 52 Cost., secondo il quale “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. E, per quanto riguarda il fattore lavoro[10], al primo alinea dell’art. 1 della Costituzione, secondo il quale “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, nonché all’art. 4, primo comma Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Tutela del territorio, e cioè delle risorse della terra[11], e tutela del lavoro, e cioè della piena occupazione, sono, dunque, obiettivi fondamentali della nostra Carta costituzionale.
Come perseguire questi due obiettivi è specificato nel citato Titolo III, della Parte prima, Cost.
In questo titolo si prevede, innanzitutto, all’art. 43 Cost., un intervento pubblico nell’economia principalmente in relazione alle “imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, precisandosi che “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese categorie di imprese”.
Insomma, il principio è che le imprese strategiche debbono essere in mano pubblica e che non è accettabile rimettere alla speculazione privata la produzione di beni e servizi primari per la vita del Paese. Questo punto essenziale è stato travolto dalle numerose e dannosissime “privatizzazioni”, che hanno privato l’Italia, in breve periodo, del 50 per cento delle imprese, sospingendola verso una irrimediabile miseria, propedeutica ad un finale ed irreparabile disastro economico e sociale.
Altro punto strategico proprio della nostra “dinamica costituzionale” consiste nell’aver “separato” la piccola e media proprietà, come la proprietà coltivatrice diretta e la proprietà della prima casa (artt. 44 e 47 Cost.), dalla proprietà la cui produzione eccede le strette esigenze di vita e sono in grado di far crescere la “produzione nazionale”.
Per questo tipo di proprietà, come si è già accennato, la stessa tutela giuridica è condizionata all’assolvimento della “funzione sociale”, cioè all’obbligo di dar spazio all’ “occupazione” ed alla “produzione” di beni che possano soddisfare i bisogni di tutti.
Quest’obbligo è sancito in modo espresso e con piena “precettività” dal citato art. 42 Cost., in base al quale, si ripete, “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge… allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. E’ una norma universalmente riconosciuta in dottrina come “norma precettiva di ordine pubblico economico”, la quale, tuttavia, anche a causa di talune discutibili sentenze della Corte costituzionale, è rimasta del tutto “inapplicata”. Lo dimostrano il continuo e dannosissimo ricorso alle “chiusure e delocalizzazioni” di “imprese” desiderose solo di maggiori profitti, nonché la massa enorme di “immobili” e soprattutto di “terreni” “abbandonati” dai loro proprietari.
Al riguardo, è la stessa Costituzione che ci offre il rimedio. Se è vero, come è vero, che la “tutela giuridica” della proprietà privata è condizionala alla “funzione sociale”, il venir meno di quest’ultima, fa venir meno anche la tutela giuridica e, di conseguenza, vien meno il “diritto di proprietà privata” ed anche, e necessariamente, qualsiasi diritto di “indennizzo”, visto che non esiste più il diritto da indennizzare.
Si verifica, insomma, un “effetto automatico”, per il quale, il bene originariamente appartenente a tutti, e da tutti “ceduto”, mediante legge, ad un singolo individuo, torna con tutta evidenza nella proprietà collettiva di tutti.
Dunque, nel caso dell’abbandono, di terreni ed immobili, che ha un suo precedente storico “nell’ager desertus” della tarda Roma imperiale, implica il dovere, meglio si direbbe il “munus”, dell’autorità pubblica di iscrivere formalmente nella proprietà pubblica e collettiva dalla stessa amministrata il bene di cui si discute, a ciò provvedendo, dopo la necessaria “diffida” ad adempiere al proprietario. Si tratta, in sostanza, di rileggere attraverso una “interpretazione costituzionalmente orientata”, quanto è già scritto nell’art. 838 del codice civile in relazione ai terreni abbandonati, tenendo conto, come poco sopra si accennava, che il “meccanismo giuridico” previsto dalle sopra ricordate “disposizioni costituzionali” di ordine pubblico economico” implica il venir meno, insieme con il diritto di proprietà, anche del conseguente diritto all’indennizzo.
C’è poi un ultimo punto molto importante da tener presente nell’analisi di questa “dinamica costituzionale”: è la “partecipazione” del cittadino alla “funzione legislativa”, alla “funzione amministrativa”, ed alla “funzione giudiziaria”. Ed è da sottolineare che, la partecipazione alla funzione legislativa e a quella giudiziaria riguarda soltanto un potere di iniziativa o di abrogazione, mentre quella concernente la funzione amministrativa implica un effettivo esercizio della funzione stessa. Infatti, come è noto, la funzione legislativa è riservata al Parlamento e quella giudiziaria è riservata all’Autorità giudiziaria, ed invece la funzione amministrativa è condivisa da questa, con enti e con soggetti privati.
E’ noto che la partecipazione alla funzione legislativa si concreta nel referendum abrogativo (art. 75 Cost.) e nella proposta di leggi di iniziativa popolare (art. 71, comma secondo Cost.).
Più complesse sono le disposizioni costituzionali che riguardano l’effettivo esercizio della funzione amministrativa da parte dei cittadini. La disposizione principe in proposito è quella dell’art. 3, comma secondo, Cost., secondo il quale è compito della Repubblica assicurare “l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E “partecipare” alla ”organizzazione”, in termini giuridici, vuol dire proprio partecipare all’azione amministrativa dei pubblici poteri. E parlare di “lavoratori” vuol dire parlare di tutti i cittadini, poiché, come si è visto, per la Costituzione non esistono i “fannulloni”: o si ha la capacità di lavorare e si “deve” lavorare, o si è “inabili al lavoro” ed allora si ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.
Accanto a questo principio a carattere generale, la Costituzione fa ricorso alla “partecipazione” anche nel citato art. 43, nel quale, come si è detto, si affida la gestione di imprese o di categorie di imprese “di preminente interesse generale” anche a “comunità di lavoratori o di utenti”, e cioè ad entità giuridiche diverse dalla pubblica amministrazione.
Di “partecipazione” infine parla diffusamente e con precisione l’ultimo comma dell’art. 118 del rinnovato Titolo V della Costituzione, nel quale si legge che ”Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e “comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Qui addirittura si afferma che l’iniziativa dei cittadini in tema di funzioni amministrative dovrebbe precedere, in casi di estrema vicinanza agli interessi del popolo, l’azione dei pubblici poteri: questo e non altro significa il ricorso al concetto di “sussidiarietà”.
Quanto alla partecipazione alla funzione giudiziaria, occorre ricordare che, in base alla costruzione che abbiamo descritto della “Comunità politica”, il “cittadino è parte costitutiva” del popolo, e come tale può e deve agire, con un’azione popolare, nell’interesse proprio e di tutti i consociati. Si tratta di un potere di iniziativa che è insito nel sistema costituzionale, con la conseguenza che una previsione di legge ordinaria in proposito avrebbe valore puramente dichiarativo.
Questo principio sembra sia stato accolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione[12] e dalla Corte costituzionale[13] nel noto caso dell’azione promossa da un semplice cittadino per ottenere la cancellazione della legge elettorale, cosiddetta “porcellum”. In detta sentenza si legge, infatti, che la “questione” sottoposta all’esame della Corte costituzionale, “ha ad oggetto un diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione, il diritto di voto, che ha come connotato essenziale il collegamento ad un interesse del corpo sociale nel suo insieme”. Pare proprio che la Corte costituzionale abbia utilizzato il concetto, poco sopra esposto, del rapporto tutto-parte, considerando il cittadino come “parte strutturale” della collettività, per cui la sua azione giudiziaria concerne il proprio interesse individuale e, nel contempo, quello di tutti gli altri consociati. E se è così, si può agevolmente affermare che oggi, ad opera della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza costituzione, l’azione popolare, è diventata una sicura realtà[14].
8. – Cosa fare?
Il discorso fin qui condotto ha spianato la strada per combattere, sul piano giuridico, contro il principale responsabile della cementificazione e della impermeabilizzazione del suolo, il cosiddetto ius edificandi. Dovrebbe esser chiaro, infatti, che non è affatto configurabile un diritto di costruire “insito” nel diritto di proprietà privata, mentre si deve necessariamente affermare che questo potere di trasformazione del territorio costituisce una “potestà” insita nella proprietà collettiva che spetta al popolo sul suo territorio a titolo di sovranità.
Vengono in evidenza, a questo punto, due concetti importanti: la tutela del territorio e la fruizione dello stesso. In sostanza, emerge la necessità di “norme di tutela” e di “norme del governo” del territorio.
Le prime, che sono di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma secondo, lett. s), Cost., pongono i “limiti invalicabili” di tutela[15], oltre i quali, superate le soglie della sostenibilità ambientale, si provocano seri danni ambientali; le seconde, che rientrano nella competenza concorrente delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, comma terzo, Cost., pongono la “normativa d’uso” del territorio, sanciscono, cioè, in quali zone del territorio e con quali modalità, è possibile costruire. In questo secondo caso, è bene sottolinearlo, lo Stato ha l’obbligo di stabilire, con una legge quadro, i “principi fondamentali” aventi la funzione di indirizzare o porre dei limiti alle manifestazioni legislative[16] della Regione. E non può sfuggire che l’attuale legge quadro per l’edilizia appovata con DPR n. 380 del 2001 è tutta da rifare.
E’ di questa nuova legge quadro che oggi c’è urgente, indilazionabile bisogno. Infatti, è solo in una legge di tal genere, infatti, è possibile stabilire, Nella visone di un quadro generale del problema, , norme fondamentali applicabili in tutto il territorio nazionale, concernenti il consumo di suolo agricolo e di verde urbano.
Ed a questo proposito, considerato che il punto dolente è quello del cosiddetto ius aedificandi, causa efficiente di notevolissimi danni al territorio, si potrebbe prevedere che la concessione edilizia possa essere rilasciata solo su terreni esistenti in zona urbanizzata e preventivamente acquisiti al patrimonio comunale, o perché si tratta di terreni o immobili abbandonati, che, come si è visto, sono automaticamente rientrati nel patrimonio della Comunità comunale, o perché, per eccezionali esigenze pubbliche, tali terreni o immobili siano stati preventivamente espropriati prima dell’urbanizzazione ed al costo previsto per i terreni agricoli.
Detta concessione dovrebbe inoltre consistere, non in un’autorizzazione a costruire, ma nella costituzione di un diritto di superficie da concedere a seguito dell’esperimento di una gara ad evidenza pubblica e dietro pagamento di un equo canone annuo rivalutabile secondo le stime di mercato. Si eviterebbe così la piaga delle dannosissime “rendite fondiarie”, causate dalle cosiddette “urbanizzazioni di favore”, che arricchiscono indebitamente pochi speculatori, a danno di tutti, nonché delle frequenti collusioni tra costruttori e amministratori pubblici. D’altro lato si assicurerebbe alle casse comunali un altro introito sicuro, dovendosi, peraltro, anche prevedere che gli oneri di urbanizzazione siano effettivamente destinati alle opere di urbanizzazione, evitando che detti introiti siano utilizzati per le spese correnti, come prevede la citata legge destinati alle spese correnti, come oggi avviene, seguendo le disposizioni del citato art. 136, comma secondo, lett. c) del vigente T.U per l’edilizia, approvato con DPR 6 giugno 2001, n. 380.
E’ poi tra questi principi fondamentali che andrebbe previsto anche la necessità di istituire una cintura verde intorno alla zona cittadina urbanizzata, nonché la previsione di notevoli Parchi urbani. Indispensabile sarebbe poi prevedere delle norme penali che considerano delitto punibile con la reclusione da uno a cinque anni, il fatto di chi leda detti principi ed arrechi, comunque, danni ambientali.
La legge quadro di cui si discute dovrebbe ancora prevedere una attenta manutenzione[17] del territorio comunale e, nell’immediato, una grande opera pubblica statale di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico d’Italia.
Non è chi non veda come un’opera pubblica di tal genere possa simultaneamente perseguire due finalità: la ricostituzione del territorio e contribuire efficacemente all’uscita dalla presente cosiddetta crisi economico finanziaria, poiché la distribuzione di risorse finanziarie ad un considerevole numero di lavoratori agirebbe da volano dell’economia e permetterebbe anche di diminuire notevolmente il debito pubblico. E’ da considerare d’altro canto che gli stessi costruttori, se invogliati a concorrere agli appalti per l’esecuzione di una grandiosa opera pubblica di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico, certamente non avrebbero nessuna difficoltà a lavorare per un fine diverso da quello sin qui seguito. Ora la parola passa al Governo, il quale ha l’obbligo inderogabile di convincere l’Europa che è inutile accantonare contabilmente 50 miliardi all’anno per 20 anni, come ci impone il fiscal compact e che sarebbe molto più ragionevole investire dette somme in un’opera che ristabilisca gli equilibri ambientali, senza produrre merci da collocare sul mercato.
Dopo oltre trent'anni di veleni e morti «per far emergere verità inoppugnabili, c’è stato bisogno dell’intervento della magistratura che ha riconosciuto colpevoli i massimi dirigenti dell’Enel. Left, 8 febbraio 2014
C’è stato un periodo dello sviluppo industriale del nostro paese in cui gli impianti pericolosi venivano “confinati” in zone distanti dalla vista, ma, sfortunatamente, mai abbastanza dai polmoni delle popolazioni residenti sotto il cono di ricaduta dei fumi inquinanti emessi dai camini. Accadeva così che aree di grande pregio naturalistico venissero sacrificate alle ragioni della produzione. Uno dei casi più macroscopici è certamente quello della centrale termoelettrica dell’Enel a Porto Tolle, la più grande d’Italia con i suoi 2.640 MW, costruita nei primi anni ’80 in mezzo al delta del Po (successivamente riconosciuto Parco naturale interregionale e Zona protetta di interesse comunitario).
Per trent’anni ha “marciato” ad “olio pesante” (combustibile ad alto contenuto di zolfo) sforando i limiti di legge dei particolati inalabili grazie a compiacenti deroghe ministeriali. Le tenaci popolazioni del Polesine sono state costrette ad una lunghissima battaglia condotta con esposti, ricorsi e proteste contro il colosso energetico vergognosamente spalleggiato da tutte le maggiori forze politiche e sindacali, le istituzioni locali, regionali e i vari governi che si sono succeduti. Anche in questo caso, per far emergere verità inoppugnabili, c’è stato bisogno dell’intervento della magistratura che già quattro anni fa ha riconosciuto colpevoli i massimi dirigenti dell’Enel di aver deliberatamente aggirato le disposizioni di legge condannandoli per danni ambientali e costringendoli alla chiusura degli impianti non “ambientalizzati”.
L’Enel, pur di non rinunciare a fonti energetiche primarie a basso costo, ha allora tentato la via di una improbabile “riconversione a carbone pulito” della centrale andando però a sbattere prima contro il Consiglio di Stato e poi, finalmente, contro il parere negativo della Commissione di Valutazione di Impatto Ambientale ministeriale.
Parallelamente, le ragioni dei cittadini inquinati costituitisi parti civili sono state verificate da una scrupolosa pubblico ministero, Emanuela Fasolato, che, sulla scorta di studi epidemiologici delle Asl e dei consulenti del tribunale, ha chiesto il riconoscimento del nesso causale tra inquinamento dell’aria e patologie respiratorie riscontrate specie sui bambini, oltre ad una mortalità in eccesso per tumore su tutte le fasce della popolazione.
I responsabili dell’Enel, tra cui Tatò, Scaroni e Conti, sono stati nuovamente chiamati a giudizio nel processo in svolgimento a Rovigo questa volta dovranno anche rispondere per danni sanitari quantificati dall’Ispra in 3 miliardi e 600 milioni. Giorgio Crepaldi è l’animatore del comitato Cittadini liberi di Porto Tolle: “La soddisfazione più grande è aver dimostrato che il ‘carbone pulito’ non esiste”.