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internazionale.it, 7 gen 2018. Il grande processo contro l’industria petrolifera mondiale, che coinvolge anche l’Eni, va avanti senza suscitare clamori, sebbene stia rivelando una vera e propria “industria della corruzione” a scapito dei cittadini nigeriani. Un altro scempio di “aiutiamoli a casa loro”. (i.b)

Noto come “caso OPL 245”, dal nome della concessione petrolifera acquisita da Eni e Shell nel 2011 dalla Nigeria, questo è il più grande processo per corruzione internazionale in cui sia mai stata coinvolta l’industria petrolifera mondiale. Esso riguarda lo sfruttamento del più grande giacimento offshore di petrolio presente in Africa.
Per tutti i soggetti coinvolti, Eni e Shell incluse, l’accusa è quella di aver sottratto oltre un miliardo di dollari dalle casse dello stato nigeriano. Questa cifra, anziché essere usata per pagare la concessione per lo sfruttamento del giacimento di petrolio al largo della Nigeria, è finita nelle tasche di politici e imprenditori nigeriani e mediatori vari. Il danno a discapito delle casse dello stato nigeriano è enorme.
Mentre ai nigeriani venivano sottratti soldi equivalenti al bilancio del ministero dell’istruzione per l’anno 2018, in un’operazione che coinvolge la più grande multinazionale italiana (in parte di proprietà dello stato) il governo italiano invocava di volerli “aiutare in patria”.
Speriamo che l’epoca in cui in Africa erano permessi ogni tipo di sfruttamento, prevaricazione e truffa sia arrivata alla fine. Fermare definitivamente queste rapine sarebbe il primo e forse uno dei più validi aiuti che l'Italia e l'Europa potrebbero dare all'Africa.
Qui il recente resoconto di Marina Forti per Internazionale, e precedenti articoli ripresi da eddyburg: “Caso OPL 245/ENI, al via il processo del secolo”, e “Tangenti e petrolio, la Nigeria contro l’Eni”. (i.b)

PerUnaltracittà, 8 dic 2018. Un'altra minaccia alla fattoria "senza padroni", un esempio di bene comune sottratto alla logica di mercato e destinato a progetti agricoli, lavoro collettivo, manutenzione, assemblee, una scuola e un teatro contadino. Qui i fatti, l'appello delle associazioni e alcuni riferimenti (i.b.)

il Manifesto, 6 dicembre 2018. Dire no a una infrastruttura non prioritaria, significa dire sì a un'altra visione dell'Italia del futuro. Un'intervista a Salvatore Settis (m.b.)


Dire no al Tav significa dire molti sì. «Dalla urgente messa in sicurezza di un territorio fragilissimo alla visione, mancante, dell’Italia del futuro, come grande protagonista europea». Lo sostiene Salvatore Settis, storico dell’arte, già direttore della Scuola Normale di Pisa, autore di alcuni capisaldi sulla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, già enunciata dall’articolo 9 della Costituzione. Da Italia S.p.A.: l’assalto al patrimonio culturale (Einaudi, 2002) a Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile (Einaudi, 2012).

Professor Settis, in un intervento del 2012, descrisse l’Italia come vittima e ostaggio, da decenni, di un pensiero unico, spacciato per ineluttabile. È ancora così?
Per il solo fatto che non sia cambiata è peggiorata, non vedo indizi del cambiamento di cui si parla tanto. Non dico e mai ho detto che non si debbano fare grandi opere ma bisogna controllarle una a una. E, ripeto, che l’opera cruciale e prioritaria è la messa in sicurezza del territorio, iniziativa che darebbe molto lavoro a imprese e a singoli cittadini.
È giunto il tempo di contestare «la retorica della crescita senza fine»?
È stata contraddetta da eventi cruciali del nostro tempo. L’attuale presidente degli Stati Uniti la predica, riducendo l’estensione dei parchi nazionali, e sostiene che non ci siano cambiamenti climatici; basta vedere il clima di oggi a Roma per contraddirlo. Purtroppo prosegue una logica di rapina nei confronti del territorio. Si dovrebbe ricordare una saggezza comune in molte civiltà che afferma che noi siamo i custodi e non i padroni della Terra. E lo siamo in funzione delle prossime generazioni. Quindi non dovremmo ragionare sul domani ma sull’eredità del mondo che vogliamo lasciare ai figli dei nostri figli.
Perché, alla luce di tutto ciò, pensa che la Torino-Lione sia inutile?
Da cittadino, ho letto una quantità impressionante di documenti di diverso segno. Per prima cosa, rispetto a quanto pensano in molti, si tratta di una linea rivolta alle merci e non ai passeggeri. Inoltre, i calcoli fatti all’epoca risultano, a distanza di anni, fallaci: tutto è cambiato, anche la tecnologia. Recandomi sul posto, in Val di Susa, ho, poi, potuto constatare come ci siano forze dell’esercito che insistano su zone archeologiche con scarso rispetto delle stesse. Questa vicenda è diventata uno scontro ideologico. Dire no al Tav non significa dire no a grandi opere, ma dire no a una infrastruttura non prioritaria.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, consacrato da un accordo politico bipartisan quasi quindici anni fa prevede tra le misure congiunte Stato-Regioni per la pianificazione paesaggistica prevede espressamente «il minor consumo del territorio», «la riqualificazione delle aree compromesse o degradate».
Come mai questi principi non trovano applicazione?
Purtroppo nella tradizione giuridica italiana è capitato di scrivere leggi molto belle ma anche di aggirarle. Il codice fu promosso da Urbani, poi migliorato con Buttiglione e Rutelli e indebolito da alcune piccole correzioni del governo Renzi che hanno tolto pietra a questo edificio di difesa dei beni culturali. Solo tre Regioni hanno elaborato il piano paesaggistico (Toscana, Puglia e, in parte, Piemonte), lo Stato non ha esercitato il potere sostitutivo, anzi le riforme di Franceschini hanno depotenziato le Soprintendenze. Un governo che si definisce del cambiamento dovrebbe dare un segno opposto, il ministro Bonisoli si è dimostrato sensibile all’argomento ma per ora non c’è stato nulla di concreto.
Si aspettava questo atteggiamento ben più che ondivago da parte del M5s al governo nei confronti del tema grandi opere?
Me l’aspettavo da questo governo, essendo un ibrido, un coacervo di due partiti che si sono combattuti in campagna elettorale e che ora insieme nei primi sei mesi hanno prodotto molte meno leggi di tanti altri esecutivi. Non mi aspetto nulla di buono dalla consociazione di entità così diverse: da un lato i Cinque stelle più lontani dai compromessi col passato ma ingenui, dall’altro la Lega al governo con Berlusconi per decenni.
Cosa pensa della levata di scudi pro Tav che protagonista il cosiddetto «partito del Pil», come è stata definita l’assise di imprenditori riunitisi a Torino?
Non conosco queste persone, le loro ragioni possono essere molto diverse. Sono preoccupati di interrompere un processo che coinvolgerebbe tante imprese, ma la vera risposta è dire no a qualcosa e sì a qualcos’altro. Sono stati, infatti, fatti conti su quanto tanto costi allo Stato la mancanza di prevenzione e quanto converrebbe mettere in sicurezza il territorio. Per farlo si potrebbero spendere i soldi per il Tav.
L’articolo 9 della Costituzione dice che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Come può venire in appoggio alla mobilitazione No Tav?
La Costituzione afferma che la tutela deve essere identica in qualsiasi centimetro dell’Italia. Dovremmo vergognarci di quanto poco è stata attuata e quanto grave sia che i partiti che sono stati al governo non abbiano fatto dell’articolo 9 la propria bandiera.
Quanto è importante la manifestazione dell’8 dicembre a Torino?
Dipende da come si svolgerà e da quanta gente ci sarà, da come i giornali ne parleranno. Mi stupisce, però, che quel poco che resta della sinistra in Italia non sia riuscito a utilizzare i media e i social per costruire una piattaforma in cui i cittadini, per esempio, di Trapani capiscano che le loro battaglie sono simili a quelle di Mestre. Se no le lotte politiche tenderanno a essere sempre locali. Abbiamo bisogno di afflato nazionale.

Su eddyburg
Informazioni essenziali e una breve bibliografia sulla Torino-Lione, raccolte da Ilaria Boniburini, sono disponibili qui.
Alcuni articoli per informarsi su questa grande inutile opera, che l’establishment affaristico, finanziario e politico, con la complicità di alcuni media, continua a sostenere nonostante i numeri e i fatti dicono che non conviene, economicamente, socialmente e da un punto di vista ambientale. (i.b.)
Sono numerosi gli articoli che spiegano come quest'opera sia un saccheggio nei confronti degli abitanti e delle comunità, perché gli unici che in queste opere traggono beneficio sono le imprese di costruzioni, i produttori di cemento e i politici che in cambio di approvazioni e assensi ricevono favori. Ne riportiamo qui una selezione.
Per sapere chi ci metterà i soldi per costruire la TAV si legga l'articolo di Attilio Giordano (2006) "Che siate pro o contro la TAV, forse volete sapere chi la paga" nel quale si chiarisce che c'è un grande equivoco sul fatto di che la TAV sarà il risultato di investimenti pubblici (al 40 per cento] e privati (al 60 per cento). Infatti di quel 60% di investimenti di "privato" non c'è ombra: vengono erroneamente considerati privati gli investimenti di una Spa, formalmente privata, le Ferrovie, che tuttavia ha un unico azionista, il Tesoro! Non solo, è lo Stato che si addossa gli interessi sui prestiti fatti alla società e li paga alle banche di anno in anno. Sugli alti costi della Tav, gonfiati dai costi di mazzette, tangenti e più in generale corruzione si legga e sul deficit che provocherà si legga "Treni e tangenti, quanto ci costa l'alta velocità" (2015) di Gloria Riva e Michele Sasso.
Sulla repressione e blocco mediatico che da oltre un ventennio oscura la verità, confonde i fatti, divulga falsità si leggano gli articoli di Pierluigi Sullo e Ugo Mattei del pubblicati sul manifesto il 27 gennaio 2012, quello di Giovanni Vighetti "TAV: quello che i media non dicono" (08.11.2018) e infine l'articolo di Guido Viale "Non è un treno" (14.11.2018) che denuncia la complicità della stampa nel sostenere le scelte sbagliate, le giustificazioni insostenibili e la dissennata politica delle grandi opere, inutili e dannose.
Per quanto riguarda la drammatica incapacità della classe dirigente italiana di governare i nostri territori attraverso scelte ambientalmente, socialmente ed economicamente oculate, rispondenti a bisogni concreti - i cosiddetti "costi e benefici" - e non per scambio di favori, retorica della modernità e progresso si possono leggere gli articoli di Luca Clementi "L’analisi costi-benefici boccia la Torino– Lione" (La voceinfo, 2007), Tomaso Montanari "Il Parlamento approva il Tav: non ha capito il trionfo dei No" (29.12.2016). Infine "Verità e bufale sul Tav Torino Lione" (22.10.2018) di Paolo Mattone e Livio Pepino e Angelo Tartaglia che smonta le più ricorrenti giustificazioni adoperate per sostenere questa opera che "non ha alcuna utilità economica o necessità giuridica e si spiega solo con gli interessi di gruppi finanziari privati e con le esigenze di immagine di un ceto politico che sarebbe definitivamente travolto dal suo abbandono".
Sull'impatto ambientale della Tav si legga "Un altro buon motivo per il No: il tunnel danneggerà il clima" di Luca Mercalli (18.11.2018).

Infine segnaliamo un' interessante l'articolo di Marco Aime "No Tav. Fuori dal tunnel" (26.12.2016) sulle ricadute socio-culturali che oltre vent’anni di lotta contro il tunnel hanno provocato in valle di Susa, a partire dal consolidamento di una forte comunità di intenti e di saperi, che ha portato a una profonda riflessione su temi ampi e attuali come il modello di sviluppo, le forme di rappresentanza democratica e i beni comuni.

Per saperne di più, il ricchissimo e sempre aggiornatissimo sito NoTav.info.

Testo integrale dell'articolo uscito su il manifesto, 14 novembre 2018. Sacrosanta denuncia della complicità della stampa con la cieca e dissennata politica delle grandi opere, inutili e dannose. (e.s.)

“Ma è solo un treno!” aveva esclamato Luigi Bersani, già segretario del PD, non riuscendo a capire come intorno alla lotta contro quel “treno” sia cresciuta per trent’anni la più forte, duratura, combattiva, democratica ed ecologica comunità del paese, contrastando il modo sciagurato in cui esso viene governato. E questo, proprio mentre il partito di Bersani (“la ditta”), che in altri tempi era stato un baluardo della democrazia, si stava dissolvendo tra le grinfie di Renzi. In realtà, quello non è “un treno”, ma solo un pezzo di treno. Un binario di 57 chilometri lungo cui merci e passeggeri, che non ci sono e non ci saranno mai, potranno viaggiare ad “alta velocità” dentro una galleria scavata in una montagna piena di uranio e amianto, mentre prima e dopo quella galleria, se è quando sarà stata fatta, quel treno dovrà percorrere le attuali tratte intasate che lo congiungono all’alta velocità Parigi-Lione e Torino-Milano, che non saranno raddoppiate. Perché la realizzazione di quelle tratte, per far credere che il Tav costi meno, è stata rimandata al “dopo”. Quale dopo? Il dopo l’apocalisse, quando tutto il pianeta avrà altro a cui pensare perché i cambiamenti climatici provocati da tante grandi opere come quella saranno diventati irreversibili.

Per esigere la realizzazione immediata di quel non-treno tutto l’arco delle forze anticostituzionali si è mobilitato sabato scorso a Torino mettendo insieme Salvini, PD, Forza Italia, Forza nuova, Casa Pound, industriali, commercianti, professionisti e sindacati vari, preferendo quell’adunata alla partecipazione a una delle cento manifestazioni delle donne contro il disegno di legge Pillon, che introduce il fascismo nelle famiglie, o al corteo di Roma contro il decreto Salvini, che introduce fascismo e razzismo in tutto il paese (dandone peraltro immediato riscontro con il blocco dei bus che portavano a Roma i manifestanti, la loro perquisizione uno a una e la loro schedatura, con annessa fotografia, a futura memoria: quando si tratterà di dar loro la caccia casa per casa). Risultato? Una profezia che si avvera: quarantamila dovevano essere (come al corteo che aveva piegato gli operai della Fiat quarant’anni fa, anche se forse anche allora erano meno) e quarantamila sono stati; senza bisogno di contarli e nemmeno di prender nota delle stime della Questura. Giornali e TV, invece, registrano di sfuggita le cento manifestazioni di nonunadimeno, compiacendosi del fatto che anche lì, come a Torino e Roma, sono state le donne a prendere l’iniziativa, quasi che gli obiettivi fossero paragonabili. E sul corteo antirazzista di Roma, che ha come minimo raddoppiato i numeri di Torino, nemmeno uno strillo nelle prime pagine, se non il silenzio assoluto. E poi ci si stupisce che Grillo, Di Maio e Di Battista diano in escandescenze contro i giornalisti… Il primo premio spetta indubbiamente a questo incipit di Repubblica: “Non l’avrebbe mai immaginata, Mino Giachino da Canale d’Alba, una piazza tanto piena”. Ma come avrebbe mai potuto non immaginarla se da dieci giorni tutti i giornali d’Italia annunciavano che ci sarebbero state in piazza esattamente quarantamila persone, come alla marcia di quarant’anni fa? La Stampa (ai bei tempi detta La Busiarda) fa di meglio: la prima pagina è interamente occupata da una gigantografia dell’adunata (nemmeno la fine di una guerra mondiale aveva meritato tanto) accompagnata da un peana del direttore dedicato a quel non-treno a cui Maurizio Molinari lega indissolubilmente “responsabilità personale, rispetto del prossimo, istituzioni della Repubblica, legame identitario con l’Europa, forza incontenibile della modernità contro ogni tipo di oppressione”. Insomma, la sopravvivenza della civiltà è legata a un filo e quel filo non è l’inversione di rotta per fermare i cambiamenti climatici che stanno distruggendo il paese e il pianeta, ma un pezzo di treno. Non c’è forse esempio più chiaro della miseria in cui ci sta seppellendo la nostra “classe dirigente” (tutta). Sembra fare eccezione ilsole24ore, che in prima pagina affianca a una foto dell’adunata torinese in formato quasi decente un articolo su “Il grande spreco del Mose di Venezia – 15 anni di lavori, 5,5 miliardi di costi”. Poi, se si va a leggere l’articolo, sembra che alla fine tutto fili liscio lo stesso, nonostante sprechi, ruberie, corruzione inefficienza e scarsa probabilità che il Mose entri in funzione. Il fatto è che gli abitanti di Venezia non sono riusciti ad opporsi al Mose (che non salverà Venezia, ma rischia anzi di sommergerla sotto un’onda anomala) o alle grandi navi con la stessa determinazione con cui in val di Susa si sono opposti al Tav, salvando, per ora, sia la valle che parte delle finanze statali: soldi di tutti.

Ben poche delle persone trascinate in piazza a Torino da questa ventata di amore per quel non-treno - con l’unica motivazione che ci avvicinerà all’Europa, e soprattutto alla Francia; proprio quando metà delle forze, neanche tanto occulte, promotrici di quell’adunata strilla tutti i giorni contro Europa e Francia, cause principali della nostra rovina - hanno ritenuto opportuno di informarsi sullo stato di avanzamento dei lavori, sulle ragioni del no, sulle difficoltà tecniche, economiche e soprattutto sociali e ambientali che continueranno a ostacolarne la realizzazione.

Ma lo spirito di quell’adunata, finalizzata soprattutto a far saltare la giunta Appendino (cosa che non restituirebbe la città a Fassino, ma la consegnerebbe a Salvini), era illustrata da alcuni cartelli ben in vista nelle fotografie di quell’evento “storico”: “No alla ZTL”; “Libera circolazione!”, ovviamente, delle auto. A loro di quel treno forse poco importa: vogliono cacciare l’Appendino per tornare ad andare in ufficio e a fare shopping “ in macchina”. E tutto questo mentre metà del paese sta crollando, affogando e scomparendo, travolta da un maltempo che anticipa i futuri disastri dei cambiamenti climatici già in corso. Di cui anche uno scemo dovrebbe rendersi conto; e scendere in piazza perché si cambi immediatamente rotta, invece di gingillarsi con quel non-treno che non si farà mai.

Che-fare, 1 ottobre 2018. Esemplificativo di come il problema delle alluvioni sia un problema di utilizziamo del suolo e dell'eccessiva cementificazione che lo rende impermeabile. E dell'importanza di ascoltare i conflitti che emergono dai territori. (i.b.)


L'articolo è emblematico di un processo urbano che ha investito moltissimi centri urbani europei e di come il consumo di suolo sia strettamente legato a straripamenti di fiumi, inondazioni e alluvioni. Nel ripercorrere la storia del fiume Seveso (Milano) e delle opere idrauliche ad esso connesso si mette in rilievo come "il problema di acqua è in realtà un problema di terra", cioè di un eccessiva e progressiva impermeabilizzazione del suolo attraverso il processo di urbanizzazione della natura e industrializzazione.
L'altro aspetto interessante è la descrizione del processo intrapreso dalla regione Lombardia per la riduzione dell’inquinamento delle acque, la difesa idraulica/rischio idrogeologico, la ri-naturalizzazione e il miglioramento paesaggistico. E' stato adottato uno strumento piuttosto innovativo, il contratto di fiume: "un protocollo che prevede forme di accordi volontari tra attori locali per una mobilitazione strategica atta ad affrontare problematiche ambientali" che però non ha sfruttato tutte le opportunità che lo strumento offriva, riducendosi a un strumento di ricerca del consenso su un progetto pre-stabilito piuttosto che di ascolto e co-progettazione con i territori per la ricerca di soluzioni ecosostenibili.
Fortunatamente, le comunità locali sono sempre più attente e capaci di comprendere le contraddizioni tra sviluppo e salvaguardia dei territori e sono emersi importanti conflitti nei confronti della costruzione dei bacini di laminazione, la soluzione proposta dalla regione per ridurre le portate in eccesso durante le piene. Le comunità locali si sono opposte al progetto perchè questi bacini sono di fatto delle opere di urbanizzazione che sottraggono ulteriore territorio ‘libero’ e che non risolvono la pessima qualità delle acque del fiume, che vengono stoccate in aree prossime ad abitazioni.
Si veda sull'argomento delle alluvioni, problema di terra, l'articolo di Giorgio Nebbia "Alluvioni". (i.b.)
L'articolo è qui raggiungibile.

Alcuni aspetti sono ricorrenti nei progetti e nelle vicende delle grandi opere, oltre la loro accertata inutilità e il supporto acritico dei fautori dello sviluppismo infrastrutturale. Segue

Tav Torino- Lione, Pedemontana Lombarda, Pedemontana Veneta, Autostrada di Val Trompia, Autostrada Tirreno-Brennero, Bretella Campogalliano- Sassuolo, Tav Brescia-Verona, Terzo Valico, Tav fiorentina, Autostrada Tirrenica, sono alcune tra le grandi opere più dichiaratamente inutili (come sarà confermato, se si faranno, dalle analisi costi e benefici) e più avversate dalle popolazioni locali, dai comitati e dalle associazioni ambientaliste. Cui si devono aggiungere il Trans Adriatic Pipeline (Tap) e, perché no, il Ponte sullo Stretto di Messina. Di queste due infrastrutture localizzate al Sud, una è ormai irreversibile, grazie ai contratti firmati dal Ministro Calenda, l’altra è un incubo che riappare a ogni tornata elettorale - l’ultimo endorsement è stato quello di Matteo Renzi.

Alcuni aspetti sono ricorrenti nei progetti enelle vicende delle grandi opere, oltre la loro accertata inutilità e ilsupporto acritico dei fautori dello sviluppismo infrastrutturale. Innanzitutto,le grandi opere in questione sono in buona parte localizzate nel Nord Italia,alcune nel Centro, marginalmente in un Sud, che ancora attende il completamentodella Salerno- Reggio Calabria, ancorché ribattezzata Autostrada Mediterranea.Il secondo aspetto è che i costi di progetto (cui si aggiungono i rincari e lecosiddette “riserve”) si aggirano sui 40 milioni di euro al chilometro,indipendentemente dalla morfologia del territorio e dagli ostacoli da superare.Il terzo aspetto è che molte opere che dovrebbero essere realizzate in project financing sono arenate perché iprivati, dopo avere prosciugato gli aiuti statali, non hanno le risorsefinanziarie necessarie, né possono garantire ulteriori crediti bancari.
Il quarto aspetto è ciò che rende cosìappetibile la realizzazione delle grandi opere inutili in project financing: la certezza che, comunque vadano le cose, ilsoggetto attuatore ne uscirà con lauti profitti. Esemplari a questo propositogli accordi relativi alla Pedemontana Veneta, i cui proventi gestionali andrannoalla Regione Veneto in cambio di un canone versato al costruttore di 153milioni di euro l’anno; un’operazione a rischio zero per il consorzio Sis, valea dire Dogliani, e con una lauta rendita garantita; a maggior ragione se siconsidera che i traffici reali saranno ben al di sotto di quelli scientemente sovrastimatinel progetto.
Infine vi è un ulteriore aspetto che fa partedella strategia dei “capitalisti a rischio zero”, promotori delle grandi operestradali e ferroviarie, e che spiega la costituzione di consorzi di imprese prividi adeguate risorse finanziarie. Dal momento che le opere sono divise instralci, l’importante è realizzare un primo lotto. A questo punto l’operadiventa “irreversibile”: per quali ragioni? Basta leggere la stampa amica: “perchéormai non si può tornare indietro”, “perché le decisioni sono state prese”,“perché le penali supererebbero i costi del completamento”, ecc. Anche se glistessi sostenitori dei progetti spesso devono ammettere che i conti non tornanoe che i flussi previsti di merci o veicoli erano sballati, finisce che devepagare il pubblico.
Seguendo questa strategia, alcune delle piùimportanti e impattanti opere inutili hanno un primo tratto realizzato o,almeno, cantieri in corso, appalti assegnati, operai assunti (e licenziabili).Tra tutte la Pedemontana Lombarda (edulcorata come “sistema viabilistico”, mala polpa è quella), la Pedemontana Veneta, il sottoattraversamento di Firenze,la ferrovia Tortona/Novi Ligure-Genova, meglio nota come Terzo Valico; nelfrattempo tutti gli altri concessionari stanno accelerando accordi e procedureper raggiungere l’agognato stato di irreversibilità, facendo talvolta, come sisuole dire, “carte false”. Su questalinea anche il progetto del nuovo aeroporto di Firenze, un caso esemplare diatti illegittimi e di torsione e manipolazione delle leggi. Fannoeccezione le vicende dell’autostrada Tirreno-Brennero, di cui sono staticostruiti 9 chilometri e qui ci si è fermati. Un inghippo utilizzato dal gruppoGavio per superare le contestazioni dell’Unione Europea e ottenere unprolungamento di 34 anni della gestione della Parma- La Spezia, incluso l’aumentodel 7,5% dei pedaggi nel periodo 2011-18. Un ottimo affare per Gavio, pessimoper gli utenti e il territorio.
Riusciranno i 5 Stelle al governo e il Ministro Toninelli a mantenerela promessa di cancellare le grandi opere inutili, dopo averle combattute alivello locale? O si fermeranno alle analisi costi e benefici, senza trarne leconseguenze? Difficile immaginare una Lega che abbandoni tre suoi cavalli dibattaglia, come il Terzo Valico, la Pedemontana Lombarda e la PedemontanaVeneta, quest’ultima fortissimamente voluta dal governatore Zaia e indicata da Matteo Salvini come un modello per tutto il Paese: la sua baseelettorale è sostanzialmente sviluppista, gli industriali e gli imprenditorigrandi o piccoli del Nord si sentirebbero traditi, la destra berlusconianariacquisterebbe vigore.
Perciò se è giusto chiedere a questo governo e,segnatamente, al Movimento 5 Stelle, di mantenere gli impegni elettorali, sarebbesbagliato farvi troppo affidamento. I movimenti e i comitati contro le grandiopere inutili, sanno benissimo che vi sarà un tentativo di accontentarequalcuno, magari dilazionando l’inizio dei lavori, e di andare avanti per laconclamata irreversibilità negli altri casi, cercando di far leva su presunti egoismilocali. Per questo e per trovare unastrategia comune, i movimenti e comitati si sono dati una serie di appuntamentilocali e nazionali. Ben consci che le grandi opere, inutili per i cittadini,sono utilissime a banche, costruttori e a un vasto mondo politico o che faaffari con la politica; e che un contratto (fin che dura) non è un programma digoverno e tanto meno include la necessità di porre l’ambiente, nonostantecatastrofi, morti e danni a ogni ondata di maltempo, al centro delle politichenazionali.

la Repubblica, 5 novembre 2018. Uno tsunami di case e altre cementificazioni è la catastrofe endemica che si abbatte sull'Italia. Il Bel Paese è un bel ricordo sempre più sfocato. (e.s.)


Case, case e ancora case. Tirate su con un cemento che quasi sempre è fuorilegge, costruite condono dopo condono, sui letti dei torrenti, davanti alle scogliere, sulla schiena delle colline. C’è tutto un Sud che sembra un’immensa, sterminata casba.
Abusivismo d’affari e quell’altro che con un vocabolario ipocrita qualcuno chiama "di indispensabilità", più si sana (da sanatoria, edilizia) e più spuntano pilastri di calcestruzzo, primo livello, secondo livello, terzo livello, un piano per ogni figlio che si sposa. Così nascono piccoli grattacieli di cartapesta nei paesi siciliani in riva al mare che guardano Ustica o le Eolie, nella Calabria marina devastata sul Tirreno e anche sullo Ionio, fra gli anfratti del Gargano (tanti anni fa abbiamo raccontato su questo giornale la mostruosità di San Nicandro, un paradiso sfregiato da un ammasso informe di malta), le abitazioni-stalla di Palma di Montechiaro, le ville ricche di quel villaggio di pescatori che era una volta San Leone che ieri aveva strade che sembravano i canali di Venezia.
È la storia che si ripete sempre - come a Casteldaccia e ad Altavilla Milicia, lì le ultime famiglie seppellite dalle inondazioni - in questo e nell’altro secolo nel nostro Meridione. Nulla è cambiato. Terre di tutti e di nessuno. Costruire senza licenza e senza paura.
Costruire sull’argilla, sullo spuntone che al primo temporale viene giù, costruire sulla sabbia. È un Sud che non ha mai imparato la lezione, che non ha fatto tesoro delle tragedie che ha subito, che immagina una mala sorte riservata sempre agli altri. E intanto case, case, sempre nuove case. Senza demolire mai. Quando accade è notizia sensazionale, grande evento, arrivano le troupe televisive, le "dirette" con l’eco-mostro di turno che si sfarina con la dinamite.
L’abusivismo nel Sud è piaga sociale. È fenomeno di massa protetto da interessi o anche solo da alibi, le battaglie legali sono destinate al macero, le inchieste giudiziarie si arenano fra prescrizioni e condoni parlamentari (ce ne sono sempre e sempre trasversali - destra, sinistra, centro, su, giù - e ispirati dalle più "nobili" intenzioni), i morti si dimenticano in fretta.
Quelli di Sarno del maggio 1998 (139 vittime, più altre 15 nel comune di Quindici, più altre 5 a Siano) e quelli dell’ottobre del 2009 a Giampilieri (37 vittime), quella del settembre del 2000 a Soverato (13 vittime) e quella di Capoterra in Sardegna (4 vittime) nell’ottobre del 2008. E ancora: Vibo Valentia, Ischia, San Marco in Lamis, Saponara, Ginosa, Atrani. Tutti luoghi in Sicilia, Sardegna, Puglia, Campania, Calabria. Sempre Sud. Sempre furbizie spacciate come "illegalità di necessità", un tetto per dormire, un riparo, la tana.
Per questo si fanno ufficialmente i condoni delle case abusive. Per "stare con la gente" e non "contro la gente". Dimenticando morti e sciagure. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, in Italia dal 1980 ci sono state oltre 20 mila vittime causate da situazioni climatiche estreme.
Ma i morti, di voti non ne possono portare più. Quelli li portano i vivi. La legge calpestata. Ecco perché le speculazioni edilizie sono tollerate, ecco perché ci sono decine di migliaia di pratiche di demolizione inevase. Una burocrazia al servizio del consenso elettorale. A noi, che siamo siciliani, ci piace ricordare a questo punto cosa diceva, 2500 anni fa, il filosofo Empedocle su alcuni italiani del sud del Sud, gli agrigentini: mangiano come se dovessero morire subito e costruiscono le loro case come se non dovessero morire mai.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

dinamopress.it, 18 ottobre 2018. Storie di ordinaria 'valorizzazione': sradicamento di alberi, rimozione del mercato popolare e delle attività sociali di quartiere. Uno spazio pubblico ceduto agli interessi del Mercato. Ma gli abitanti non ci stanno e resistono. (i.b.)


Sta succedendo qualcosa di importante in questi giorni nel centro di Marsiglia. Giovedì 11 ottobre alcune centinaia di persone hanno difeso per ore la centralissima piazza della Plaine, un posto pieno di vita, alberi e spazio: una rarità nelle città iper-regolamentate degli anni ’10. A chi tiene “le mani sulla città”, a quelli che impongono piani di rinnovazione urbana che altro non sono che appropriazione di spazi comuni o pubblici, la vita – le vite – della Plaine danno fastidio. Nei loro piani il mercato, frequentatissimo, popolare e a buon prezzo, deve diventare un “marché provençal”, come se per la spesa di tutti i giorni ci fosse bisogno di lavanda in sacchettini e saponi…; lo spazio aperto deve ridursi in favore dei de-hors dei bar e ad ogni metro quadro deve essere imposta una funzione pensata da qualcuno che mai metterà piede in quella piazza. Da anni, ormai, un’assemblea di quartiere, assieme agli ambulanti del mercato, studia i piani degli aménageurs, autocostruisce arredo urbano, organizza festival… da qualche mese, ciclicamente i camion degli ambulanti bloccano i punti nevralgici della città. In risposta: la distruzione delle costruzioni in legno, l’abbandono della piazza, che da qualche mese è letteralmente al buio, senza alcun lampione in funzione, qualche incontro stringato e infine l’escalation dell’ultima settimana.

Foto di Patxi Beltzaiz – contre-faits
«Che ci possiamo fare noi, se oggi tutti gli avvenimenti della vita pubblica si discutono nei giornali, mentre un tempo, nella Roma antica o in Grecia, si potevano apprendere direttamente dalla bocca dei banditori, alle terme, sotto i portici o sulle piazze? Che possiamo farci se i mercanti abbandonano sempre più le piazze per rinchiudersi in costruzioni utilitarie, ma inestetiche, o se spariscono per essere sostituiti dalla vendita a domicilio? Le feste popolari, i cortei di carnevale, le processioni religiose e le rappresentazioni teatrali all’aperto non saranno presto niente più che un ricordo. Con il passare dei secoli la vita popolare si è ritirata lentamente dalle piazze pubbliche, che hanno così perduto una grande parte della loro importanza. È per questo motivo che la maggior parte delle persone ignora completamente come dovrebbe essere fatta una bella piazza».
Camillo Sitte
Foto di Patxi Beltzaiz – contre-faits
MARSIGLIA: IL VOLO NERO DEI CORVI SU LA PLAINE
di Alèssi Dell'Umbria
traduzione di Giacomo Maria Salerno per DINAMOpress

Ci siamo… giovedì 11 ottobre, appena finito il mercato de La Plaine, la sbirraglia è arrivata, assieme ai camion caricati di tubi in calcestruzzo. Obiettivo, impedire l’accesso alla piazza in vista dei lavori. Mobilitati dall’appello di un’assemblea, una cinquantina di coraggiosi e coraggiose hanno bloccato il primo camion… i CRS e la BAC gasano e manganellano, la gente tiene botta, da tutto attorno arrivano i rinforzi e alla fine saranno diverse centinaia di persone che sfideranno la mafia municipale e le sue truppe. Quel giorno i blocchi di cemento vengono rimossi al suono dei tamburelli…

La Plaine, come indica il suo nome, è una spianata: un plan, in occitano… Lo Plan de San Miquèu, diventato la Plaine Saint-Michel… poi, negli anni ’20, piazza Jean Jaurés, ma i marsigliesi continuano a chiamarla la Plaine. Il termine designa, aldilà del piazzale vero e proprio, tutto il quartiere circostante. Per lungo tempo quella piazza è stata la sede del mercato all’ingrosso, da mezzanotte all’alba…il mercato al dettaglio, che proseguiva fino al pomeriggio, è sopravvissuto allo spostamento dell’ingrosso del 1972, ma rischia di non sopravvivere a Jean-Claude Gaudin (l’attuale sindaco di Marsiglia, ndr) e alla sua cricca di faccendieri.

Non torneremo indietro fino alla bella primavera del 1871, quando i Comunardi marsigliesi accampati alla Pleine la difesero strenuamente dall’attacco delle truppe di Versailles, ma giusto di una trentina d’anni…

Nel 1986 muore Gaston Defferre (già sindaco di Marsiglia nel 1944, e poi dal 1953 fino alla sua morte ndr). Fu una delle cose migliori che potessero succedere alla nostra città. Il suo successore, Robert Vigouroux, non brillava di certo, ma aveva almeno il vantaggio di essere un po’ fraca, come si dice qui… scriveva poesie nel tempo libero, e qualche volta l’avevamo visto in giro ubriaco, il che era già un bel cambiamento rispetto a quel calvinista col culo stretto che mandava Marsiglia a letto sul finire del giorno. Ci diede un poco di tregua. Dal trasferimento del mercato all’ingrosso la Plaine si era assopita, tenevano banco solo gli spacciatori di polvere – il grande affare degli anni ’80… i bar vivacchiavano dal ’72, la Plaine era piena di magazzini vuoti, in breve la piazza non domandava che di essere occupata: per quattro soldi si poteva aprire un café-concert… così i colleghi hanno investito i luoghi… bisognava saperci fare per gestire un locale frequentato dalla gioventù marsigliese più irrequieta. Tifosi dell’Olympique Marseille, redskins, bande dei Quartieri Nord, piccoli teppisti locali, writers e motociclisti… fu l’epoca in cui si strinse una bella complicità tra la generazione del rock’n roll e quella del raggamuffin e dell’hip hop…una collaborazione ed emulazione reciproca, giocata dentro un sentimento di appartenenza condivisa, che ci riconciliava finalmente con la nostra città. I sopravvissuti degli anni ’80 e la nuova generazione si ritrovavano quindi alla Plaine, vibrando assieme sugli stessi ritmi. Nel frattempo gli spacciatori di eroina se n’erano andati, troppa gente in piazza…

La Maison hantée, il Degust’, il bar de la Plaine, il Balthazar, il May-Be Blues, l’Intermédiaire e tanti altri… in seguito, aprirono diversi spazi di associazioni, Marseille Trop Puissant, club di tifosi antirazzisti, il Tipi, che si occupava dei malati di Aids di cui non si curava nessuno in città, l’ostai dau Paìs Marselhés, che difendeva e promuoveva la bella lingua occitana, e altri ancora… e tra tutte queste tribù nacquero dei legami di mutuo aiuto e di amicizia che non si sono mai rotti.

Non è che ci abbiano davvero mai lasciati in pace in quegli anni, le guardie e i CIQ [1] non ci hanno mai davvero mollati, ma almeno l’amministrazione non veniva a romperci le palle con dei progetti di lifting. Poi nel 1995 la cricca di Jean-Claude Gaudin prende in mano la città, fine di un intermezzo assai relativo. Destra cattolica con una mentalità da bottegai inaciditi… rientrava di sicuro nei loro piani tutta questa vita. Questo ci venne spiegato attraverso delle campagne stampa a ripetizione su “l’insicurezza alla Plaine”: il quartiere era ben lontano dall’essere quel covo di assassini che veniva descritto in quegli articoli. Di tanto in tanto un tizio si faceva ammazzare, come succedeva in qualsiasi altro quartiere, ma questi erano problemi che non ci riguardavano e che interessavano giusto i giornalisti. Per il resto, il CIQ passava il suo tempo a lamentarsi dei rumori notturni, della sporcizia prodotta dal mercato, dei ragazzini che giocavano a pallone in piazza, insomma, di tutto ciò che viveva. Per questo piccolo comitato il quartiere doveva essere residenziale e la piazza si riduceva a una semplice appendice funzionale; per noi era esattamente il contrario, la piazza non era semplicemente uno spazio in mezzo agli edifici, viveva anzi di una vita propria, che eccedeva i limiti geografici del quartiere.

La Plaine è un quartiere un po’ complicato. Sulla piazza stessa e lungo l’adiacente boulevard Chave ci sono degli edifici borghesi, un tempo occupati dai commercianti del mercato all’ingrosso, mentre degli edifici molto più modesti occupano le stradine adiacenti, un tempo occupati dai facchini e dagli altri ambulanti del mercato in questione. La maggior parte della gente che abita nel quartiere ha casa in quelle stradine; quelli che ce l’hanno sulla piazza tendenzialmente non abitano affatto il quartiere. Ci risiedono, ma non lo abitano. Al contrario, molti di quelli che lo abitano risiedono altrove, nei quartieri vicini o anche più lontano. Molti di questi residenti della piazza o del boulevard vorrebbero farci sloggiare e, visto che hanno la tendenza a votare per la cricca di Gaudin, sono loro a essere ascoltati dalle parti del comune (al giorno d’oggi, la gente non vota dove vive, vota dove dorme…).

Tutto questo per dire che il problema lo vedevamo arrivare da lontano.

In maggio, otto telecamere appena installate furono distrutte, in pieno giorno e senza che la polizia potesse prendere nessuno dei vandali… La punizione: nel 2013, ci dispiegano un cordone di polizia impressionante attorno al nostro Carnevale, ma ci vuole di più per impressionarci. Così l’anno seguente ci attaccano al calare della sera, e la danza attorno al falò si trasforma in una sommossa. L’assemblea si mobilita, e alla Plaine vengono organizzate diverse iniziative di solidarietà con gli imputati per i fatti di quella notte e per affermare che non ci faremo cacciare. Risultato: nel marzo del 2015 il Carnevale del quartiere attira il quadruplo della gente! È allora che iniziano a circolare queste voci su un “progetto di riqualificazione” della Plaine elaborato dalla Soleam (Société Locale d’Aménagement de l’Aire Métropolitaine– Società Locale di pianificazione dell’area metropolitana), nel quadro dell’operazione Grand centre ville.

Durante l’estate, una fuga di notizie ci permette di avere i quattro progetti in lizza, che ancora non sono stati resi pubblici. Allora capiamo che questa volta si tratta di un’operazione globale, destinata a risanare tutto il quartiere. Il mercato sarà rimpiazzato da qualche stand “di alta gamma” che occuperebbe una superficie molto ridotta, e le vie di circolazione sui lati saranno rimpiazzate da un’unica strada proprio in mezzo alla piazza. Questa configurazione permetterebbe l’installazione dei grandi plateatici sul modello di quanto già messo alla prova al Vecchio Porto: questo renderebbe allo stesso tempo impossibili tutte le varie attività alle quali si dedica la gente in totale spontaneità e gratuità. Cosa che è tra l’altro rivendicata da un consigliere comunale, l’avvocato d’affari Yves Moraine, che dichiara a proposito del progetto: “Niente di meglio che il privato per occuparsi dello spazio pubblico”.

A questo punto ce la giocano sulla “partecipazione pubblica” ed assoldano allo scopo un gruppo di consulenti parigini, Respublica (!), cominciamo bene… Vengono organizzate due riunioni, nell’autunno 2015, nel palazzo delle Belle Arti, poco più giù della Plaine, capacità massima della sala duecento persone – per una concertazione su un progetto che riguarda non solo migliaia di abitanti e centinaia di lavoratori ambulanti, ma anche altre migliaia di persone che, venendo da altri settori di Marsiglia e della periferia, convergono sulla piazza nei fine settimana. Una concertazione in bianco in cui non apprezziamo troppo di farci prendere in giro, così la buttiamo in caciara e piantiamo un casino. I consulenti parigini vengono presi alla sprovvista e sono pure un po’ in preda al panico…tra urla e invettive varie la gente dalla provenienza più disparata viene a difendere il quartiere contro questo progetto pretenzioso, i materiali stampati vengono rispediti indietro sotto forma di aerei di carta…Gérard Chenoz, il presidente di Soleam, dirà che se avesse saputo che sarebbe andata a finire così avrebbe saltato direttamente la “partecipazione”…nel rispondere alle critiche, finirà per dire semplicemente: “Siamo stati eletti, facciamo quello che vogliamo”.

Tra gli eletti marsigliesi l’arroganza sopra le righe da piccolo mafioso se la batte sempre con l’ignoranza beata del notabile di provincia. E come in ogni racket, arrivano all’intimidazione. Aggressivi non appena si osa opporgli qualche argomento, sempre pronti all’invettiva in pubblico [2]. E dovremo ancora sentire il presidente dichiarare, al consiglio municipale dell’8 ottobre dove il destino della Plaine è stato liquidato in esattamente due minuti: “Se mi si vogliono fare delle osservazioni ne terrò conto, ve l’ho detto, ma da quelli che sono stati eletti… ma le lezioni da chi non è stato eletto…che si facciano prima eleggere al suffragio universale e dopo ne riparliamo” [3].

Durante l’anno 2016, i quattro uffici di urbanisti e architetti continuano a lavorare ai rispettivi progetti. Le indicazioni che Soleam ha fornito loro precisano bene che ci sono delle “invarianti”. Questi elementi che non sarà possibile rimettere in discussione sono da un lato la diminuzione drastica dello spazio riservato agli ambulanti del mercato dopo il cantiere, nell’ottica di un «aumento del livello e della qualità del mercato», e dall’altro il fatto che “gli arredi urbani dovranno essere pensati in maniera da impedire ogni uso deviante dello spazio”. A partire da qui, non c’è effettivamente nulla di cui discutere… Gli “usi devianti”: l’espressione non è priva di un certo fascino per qualificare le partite di calcio tra ragazzini, le grigliate di sardine dei fannulloni il primo maggio, il nostro carnevale selvaggio, i banchetti di quartiere, i pomeriggi passati a prendere il sole e le serate a bere birre sulle panchine assaporando il passare del tempo… tutte cose che si fanno da sempre e senza che fosse mai necessario chiedere un’autorizzazione. Questa espressione caratterizza precisamente uno spazio pubblico che si trasforma in uno spazio comune.

Il modello del progetto, infine, ha confermato i nostri presentimenti. Compreso lo sradicamento di un centinaio di alberi, che verrebbero rimpiazzati da piccoli arbusti in vaso – e dire che un architetto paesaggista è stato pagato per questo! I tigli della Plaine, che erano sopravvissuti all’incompetenza del servizio stradale, non sopravviveranno alla Soleam. In futuro, chi vorrà proteggersi dai raggi del sole non troverà ombra che sotto gli ombrelloni dei plateatici dei bar, di cui gli eletti locali auspicano tanto l’installazione… bisognerà pagare, insomma, per perdere un po’ il fresco. Irresistibilmente ci ritornano in mente i versi di Victor Gelu…nel 1839, il grande poeta della plebe marsigliese scrisse una canzone diventata famosa, “Leis aubres dau cors”. Il Corso, che non si chiamava ancora Belsunce, era a quei tempi il luogo di ritrovo dei lavoratori a giornata, e quelli che restavano senza impiego passavano il giorno là, all’ombra degli olmi. Il comune decise così, con un pretesto ridicolo, di far tagliare tutti gli alberi, e Gelu si fece interprete del popolo minuto del Corso in quella sua canzone virulenta, dove l’abbattimento degli alberi è denunciato come una vera e propria misura di polizia contro questa plebe dalla forte inclinazione alle barricate [4].

Nel 2015, il progetto Euroméditerranée era già bello che avanzato, nelle banlieues Nord. Molti quartieri sono oggi scomparsi sotto le colate di cemento. Si è quindi deciso che i tempi fossero maturi per tornare verso il centro e portare a termine la grande pulizia. Il progetto della Soleam segue chiaramente la strategia dello shock, con l’annuncio di un cantiere della durata di due anni e mezzo (considerato come vanno le cose a Marsiglia, possiamo facilmente prevedere almeno un anno di più…). Due anni e mezzo durante i quali la maggior parte dei bar e dei negozi di prossimità della Plaine saranno falliti, dato che sarà impossibile andarci… Il Comune ha del resto già annunciato che metterà un’opzione di acquisto in modo sistematico su tutti i locali resi vacanti del quartiere, al fine di installarvi delle attività di suo piacimento, come i concept stores che sono sorti in rue d’Aubagne negli ultimi tempi… Il costo globale di 11 milioni annunciato all’inizio nel frattempo è già salito a 20 milioni – mentre Gaudin annunciava con piglio regale 5 milioni per sistemare le scuole, che in tutti i quartieri poveri cadono letteralmente a pezzi…

Nel frattempo, il consigliere locale con responsabilità sul mercato, Marie-Louise Lota, non cessa di moltiplicare le provocazioni nei confronti degli ambulanti del mercato, e di riversare tutto il suo odio borghese per la vile moltitudine. «Sono alla fine della mia vita politica, ma prima di lasciare ripulirò la Plaine» – fu la sua prima dichiarazione sull’argomento nel 2015. «Si vende soprattutto della merda qui», è stato il leitmotiv degli ultimi tre anni, puntellato da un «voi fate venire qui una popolazione indesiderabile» e con la conclusione dell’ottobre 2018: «il mercato della Plaine è finito». Si sussurra che lei stessa sarebbe proprietaria di uno stabile nei pressi immediati della Plaine, in quel V° municipio dove i prezzi della proprietà immobiliare stanno schizzando subito dopo l’annuncio dei lavori…. Tra gli interessi privati appena dissimulati e il disprezzo di classe apertamente esibito, gli ambulanti vengono condannati senza appello.

Da centocinquant’anni questa città è governata contro la gente che la abita. Ne porta i segni nelle distruzioni che ha subito, come altrettante cicatrici di questa violenza sociale. Ma fino agli anni ’60 e ’70 il Porto e le fabbriche erano a pieno regime, e volente o nolente la borghesia doveva adattarsi a questa plebe rumorosa. È a partire dagli anni ’80 che questa diventa semplicemente ingombrante. È l’epoca in cui il comune e la camera di commercio alzano la voce contro il contrabbando… e così l’angolo di tiro si precisa: il commercio dei prodotti d’oltremare è colato a picco, si dovrà quindi fare commercio della città stessa! La conversione prende un po’ di tempo, ma al volgere del millennio era già bella che partita: progetto Euroméditerranée, incremento inaudito dei valori fondiari (un semplice “recupero”, dicono al Comune…), arrivo del TGV e, per coronare l’operazione, MP2013 Capitale Europea della Cultura. E così bisogna un po’ smussare e allisciare tutta questa vita, non lasciar sussistere della città reale che quella giusta dose di esotismo sufficiente a far vendere il prodotto.

La valorizzazione opera allo stesso modo in cui mantiene l’ordine – come uno shopping mall in cui tutto lo spazio è pensato di modo che nessuna attività che non sia l’acquisto di merci sia possibile. Si prende in carico di disciplinare un corpo vivo e sempre sfuggente, refrattario alla nozione stessa di “popolazione”. Per fare di questa città una merce globale da vendere al dettaglio pezzo dopo pezzo, una messa a norma s’impone. E la Plaine è un pezzo bello grosso, e fintanto che esisterà quel suo mercato così popolare, con i suoi rumori e i suoi odori, fintanto che esisteranno quegli “usi devianti” della piazza, sarà difficile valorizzare il quartiere. A questo stadio, poco importa che il mercato generi esso stesso del valore se allo stesso tempo abbassa il valore del settore immobiliare ed impedisce uno sfruttamento più vantaggioso del sito. La nozione di “valorizzazione”, di “messa in valore”, che ricorre così spesso nelle parole dei consiglieri comunali e dei pianificatori, va presa qui in senso pieno. Per una volta, parlano apertamente di cash [5].

Nel momento in cui ciò che costituiva l’essenziale di quello che è una città si ritrova frammentato e polverizzato nello spazio informe di una suburbia senza fine, il centro storico non ha che la funzione di rappresentare la città, di mettere in scena una certa immagine dell’urbanità, che genera essa stessa la valorizzazione mercantile. Di cosa è costruito oggigiorno il centro delle città europee? Di quartieri residenziali attraversati da arterie pedonali, con le loro boutiques in franchising e le loro piazze colonizzate dai plateatici dei bar e dei ristoranti, che devono rendere concreta «l’immagine dell’unificazione felice della società nel segno del consumo». E questo mentre il grosso della plebe si vede indirizzata per altri canali verso i centri commerciali e i multisala della periferia. Per la cricca di Gaudin, la Plaine aveva chiaramente il torto di non corrispondere a questo schema.

Al mercato della Plaine si vendeva letteralmente di tutto. Stoffe di ogni tipo, articoli di drogheria, frutta e verdura, camicie e scarpe, pentole e rasoi usa e getta, insomma tutto ciò che di solito i poveri comprano nei supermercati… solo che venduto all’aria aperta e da rivenditori indipendenti. Ci si possono anche trovare degli affari… quando ero ragazzino, mia madre comprava già vestiti dai gitani della Plaine, che proponevano bluse e giacconi a prezzi che schiacciavano ogni concorrenza. E poi interi carichi di camion (che ovviamente non si vedevano in pubblico), lo smaltimento di interi stock, le rimanenze di vecchi lotti, della roba sequestrata alla dogana… Da tempo i commerci alimentari di rue Longue des Capucines, giù a Noailles, hanno funzionato su questo modello. Insomma, il segmento finale dei cicli di produzione e circolazione delle merci…

Tutti questi ambulanti, lavoratori indipendenti e contenti di esserlo, compongono un bel campione della famosa “Marsiglia popolare”… tutte le origini si incrociano, gitani (siano essi catalani o andalusi), arabi e berberi, ebrei e armeni, italiani e persino dei contadini provenzali che vengono a smerciare le loro verdure qui, senza dimenticare quel nigeriano che ha scritto una lettera aperta al prefetto… non ci si arricchisce vendendo la propria roba al mercato, piuttosto ci si guadagna da vivere, niente più. Bisogna scaricare alle 6 del mattino, tenere botta tutta la mattina e ricaricare tutto all’una del pomeriggio. Uno dei rari mestieri che si esercitano ancora all’aria aperta. Alcuni tra gli ambulanti occupano uno spiazzo da quattro generazioni, altri sono giornalieri e vivono nella precarietà, ma tutti condividono la stessa volontà di restare là, su quel piazzale.

Per allisciarseli, la Soleam ha fatto di tutto. Inizialmente ha annunciato che i lavori si sarebbero svolti in tre tranches successive, cosa che avrebbe permesso di mantenere un certo numero di banchetti per gli ambulanti e lasciato un po’ di spazio alle altre attività. Due o tre hanno provato a fare i furbi, facendo scivolare delle buste nelle tasche giuste per essere certi di ritrovarsi tra i fortunati, ma si sono ritrovati davanti all’incazzatura degli altri, che gli hanno dato una bella lavata di capo. La Lota ne ha approfittato per decretare, in piena estate, che visto che c’erano state delle minacce i lavori si sarebbero svolti in un’unica tranche, e che quindi se ne sarebbero dovuti andare subito tutti quanti – cosa che era chiaramente la decisione iniziale. Qualche politico non ha nemmeno esitato a giocare la carta della divisione etnica. Un giovane ambulante gitano ha risposto: «Noi gitani rimaniamo con i neri e con gli arabi!».

La sera, Gaudin esige pubblicamente che il prefetto invii la polizia a sgomberare i due blocchi… l’indomani, davanti all’inazione del prefetto e alla continuazione dei blocchi del traffico, fa sapere che riceverà gli ambulanti il lunedì seguente. Ci andiamo in tanti per dare un po’ di sostegno, e ci dicono che il cantiere si svolgerà in tranches e che 40 ambulanti potranno quindi restare. Si tratta di meno della metà di quanto previsto inizialmente, e gli ambulanti protestano, minacciando di bloccare la piazza… alla fine, non oterranno che dieci giorni, spostando la data dell’ultimo mercato dal 29 settembre a giovedì 11 ottobre. E di nuovo, con una svolta che non meraviglia nessuno, scopriamo che alla fine non ci sarà che una sola ed unica tranche di lavori, che tutta la Plaine sarà occupata dal cantiere e tutti gli ambulanti se ne dovranno andare…

La loro richiesta, di fronte al rullo compressore della Soleam, era almeno di non essere separati e dispersi. Finiranno invece per essere ricompensati per il blocco stradale con la divisione in due gruppi, uno alla Joliette e l’altro al Prado, e dovranno aspettare il 26 ottobre per poter ricominciare a lavorare: nel frattempo disoccupazione senza indennizzo. Hanno deciso di farsi chiamare, in questi due nuovi posti, “Mercato della Plaine in esilio”. Potranno tornare alla Plaine dopo tre anni? Questo non dipende che da noi… la lotta sarà lunga e complicata, e sappiamo che dopo essere entrati in forza la Soleam e il comune punteranno allo stallo. Sta a noi dare prova d’intelligenza strategica; quando non siamo i più forti, bisogna essere i più svegli.

Il cantiere è dunque ufficialmente cominciato. Venerdì scorso, le guardie sono arrivate alle prime luci dell’alba, e si sono messe a circondare la piazza con dei jersey di cemento. Per il giorno dopo, l’assemblea della Plaine ha indetto una manifestazione con partenza da Cours Julien, non lontano da lì. Circa un migliaio di persone sono sfilate per le arterie del centro durante tutto il pomeriggio per esprimere la loro opposizione al cantiere della Soleam. Alla fine del pomeriggio, mentre il corteo risaliva verso la Plaine, la BAC e i CRS che lo tallonavano hanno caricato, soffocando la piazza con il gas (vendetta per la porta dell’ufficio della Soleam che è esplosa sulla Canebière?). A ogni modo, dai primi giorni all’appello ha risposto una grossa mobilitazione, e tanta gente del quartiere improvvisamente messa di fronte all’evidenza ci ha raggiunto. Malgrado la ventina di mezzi dei CRS che circondano costantemente la Plaine da venerdì, e che costituiranno il nostro ambiente quotidiano almeno per i prossimi tre anni.

E ci annunciano che degli operai verranno ad abbattere gli alberi martedì 16 ottobre…

FÒRA SOLEAM, GARDAREM LA PLANA !!!

AGGIORNAMENTI
a cura di Cecilia Paradiso

Dopo la giornata di giovedì scorso, in cui la polizia è venuta a posizionare dei blocchi di cemento per ostruire gli accessi alla piazza e in cui la gente è riuscita, dopo diverse ore e sotto una pioggia di lacrimogeni, a rimuoverli, le iniziative si sono susseguite: c’è stata una colazione in piazza venerdì, una manifestazione sabato, un’assemblea l’altro ieri ed infine, ieri, l’inizio dei lavori. Sabato, almeno 3-400 persone hanno percorso le strade del centro città, passando per quei quartieri popolari che, come la Plaine, sono sotto il tiro spietato della riqualificazione: Noailles, les Réformés. Si è arrivati fino a quelli investiti dal rullo compressore più o meno recentemente, testimoni diretti di quanto la pace possa essere terrificante: Belsunce, Rue de la République. Sabato, come ieri, gas lacrimogeni, cariche di dispersione e arresti. Sono stati emessi dei fogli di via dal quartiere e gli avvocati hanno riferito dell’intenzione manifestata dal giudice di infliggere pene esemplari. Ciò nonostante, le persone non lasciano la piazza e ricompaiono dalle vie laterali, quando l’assurdo dispiegamento di forze si ritira. Regolarmente, i blocchi di cemento vengono rimossi, le barriere abbattute, i materiali da cantiere prendono fuoco. Ieri, sotto la pioggia, al rumore delle motoseghe, l’amarezza e lo sdegno erano palpabili. Pare che siano stati tagliati anche alberi che non erano tra i condannati: senza danni colaterali, che guerra sarebbe! Una persona, un abitante del quartiere, ha centrato appieno la violenza di questa maniera di procedere, della volontà di concretizzare progetti a loro modo totalitari: «una volta finito con gli alberi, i prossimi da abbatere saremo noi!». Nel frattempo, gli operai continuavano nel lavoro, dietro un cordone di CRS bardati di tutto punto. Tra loro, più di uno mostrava un sorrisetto sadico: oggi, finalmente, vedevano degli occhi gonfi di lacrime. Il dispiegamento enorme di forze di polizia, in tutta questa faccenda, sta proprio lì, tra l’osceno e il ridicolo. Alcuni episodi sono stati particolarmente eloquenti, nella loro ironia. Come quando, sabato, all’annuncio di un possibile inizio delle cariche, è spuntato un pallone. Inevitabilmente, ad un certo punto il pallone è finito dietro il cordone di antisomossa e duecento persone hanno iniziato a gridare «rendez-nous le ballon, rendez-nous le ballon»: l’assurdità dell’impedire, manu militari, la “normale” vita di uno spazio storicamente fatto proprio da una molteplicità di persone era tale che ce l’hanno ripassata, la palla. Quando ci si ricorda che tutta questa assurdità costerà 20 milioni euro, in una città problematica come Marsiglia, gira la testa. Ieri una decina di persone sono salite sugli alberi, impedendone l’abbattimento. I pompieri le hanno fatte scendere, verbalizzando delle multe. L’intenzione è quella di tornare oggi, mentre per sabato è stata indetta una manifestazione più ampia, “pour des ville populaires”. Partirà dal Vieux Port ed è annunciata in stile carnevalesco, in riferimento dal carnevale indipendente attorno al quale si è organizzata una buona parte della resistenza della Plaine.

Note

[1] Comités d’Intérêt de Quartier , Comitati di interesse di quartiere, organo di collegamento tra la piccola borghesia e il comune, creati da Defferre. In centro città, molto schierati a destra.
[2] Nel 2000, quando contestavamo (di già!) una delle loro operazioni sulla piazza, il presidente del IV/V municipio, sotto la cui amministrazione dipendeva allora la Plaine, Bruno Gilles, dichiarerà in una riunione pubblica: “Mr. Dell’Umbria è un agente elettorale del PS”… LOL!
[3] Questa municipalità, sia detto en passant, è stata eletta nel 2014 da esattamente 96813 schede elettorali. Vale a dire il 10% della popolazione marsigliese).

[4] http://www.ostau.net/libraria/edicions/gelu/

[5] è in effetti l’unico elemento del loro linguaggio che sia davvero chiaro. Per il resto, bisogna leggere la presentazione del progetto di Soleam: «Con la sua risistemazione, piazza Jean Jaurès si trasforma in una grande piazza mediterranea, polivalente, pedonale e accessibile». Un simile aplomb nell’invertire il significato delle parole toglie il respiro – il che è d’altronde il loro scopo

Per seguire gli eventi
https://laplaine.noblogs.org/
https://www.facebook.com/assembleedelaplaine/

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Qui il link alla nostra copertina dedicata al La Plaine.

Foto di Patxi Beltzaiz – contre-faits

Un opera sbagliata che subordina gli interessi sociali, economici ed ambientali della collettività alle logiche finanziarie. Emblematica di come le grandi opere in Italia vengono gestite male, dove i fondi pubblici servono per coprire mancanze progettuali e salvare le imprese private da qualsiasi rischio. Con dettagliata cronologia.

Premessa
Le vicende della Pedemontana veneta si snodano (o si annodano) da oltre un trentennio e ancora appaiono lontane dall’essere concluse. Allo stato delle cose l’itinerario pedemontano è servito dalla Schiavonesca-Marosticana, strada una volta statale, nel 2001 passata dall’ANAS alla Regione Veneto e da quest’ultima alle Provincie di Vicenza e di Treviso. Sicuramente la Schiavonesca-Marosticana è da molto tempo inadeguata alle funzioni e alla quantità di traffico che la percorre ed è stata oggetto, nel tempo, di varianti e di interventi di potenziamento. Tuttavia la soluzione autostradale in corso di realizzazione, le modalità di finanziamento ad oggi note, gli effetti della riorganizzazione complessiva della mobilità nell’area appaiono del tutto inappropriate rispetto alle ragioni che hanno sostenuto nel tempo la necessità di questo nuovo asse stradale.

In queste note si descrive il momento cruciale che portò alla scelta, potenzialmente molto innovativa, di realizzare la Pedemontana come “Superstrada a pedaggio”, si elencano le tappe attraverso cui quella scelta coraggiosa venne di fatto pervicacemente ridotta alla realizzazione di una autostrada in concessione. Una infrastruttura calata forzosamente in un territorio strutturalmente inadatto, per tipologia degli insediamenti e per quantità di traffico, ad essere servito da un tradizionale asse autostradale.

Oggi i nodi vengono al pettine. Qui si accenna brevemente alle forzature decisionali, alla tormentata vicenda del ricorso al project financing e alle relazioni della Corte dei Conti che sollevano questioni di fondo che non possono essere ignorate e dovrebbero far seriamente riflettere sulla possibilità di trovare qualche via d’uscita meno dannosa di quella dell’andare avanti nonostante tutto con il progetto in corso.

La Pedemontana e la sua storia costituiscono a mio parere un caso emblematico da cui trarre insegnamenti per il più generale problema del processo decisionale delle grandi infrastrutture. Un processo che nel nostro paese ha dimostrato nel tempo di essere profondamente irresponsabile, straordinariamente conflittuale a tutti i livelli, accompagnato da modalità di valutazione inesistenti o totalmente ininfluenti, sistematicamente fondato sul ricorso alla spesa pubblica per far fronte a buchi finanziari e a carenze progettuali.

Ne emerge con molta efficacia la necessità di un cambiamento profondo nel modo di programmare, progettare, realizzare e gestire le infrastrutture necessarie. Un cambiamento oggi potenzialmente avviato attraverso il nuovo Codice degli appalti, l’abolizione della Legge Obiettivo e le nuove regole per la programmazione e la realizzazione delle infrastrutture. Ma la vicenda della Pedemontana dimostra che non basta un cambiamento nelle norme e nelle logiche dell’azione statale: occorrono profondi cambiamenti culturali anche nelle regole per l’azione delle Regioni e degli enti locali, occorre una nuova capacità di sinergia e di vigilanza e occorrono, anche nelle comunità locali, consapevolezze e alleanze ad oggi largamente mancanti.

1. Piccola cronologia dei primi (falliti) tentativi [1]

1990 Il Piano Regionale dei Trasporti
La Pedemontana nasce, come dice il suo nome, come itinerario destinato a raccogliere e distribuire il traffico generato e attratto dai numerosi centri posti allo sbocco delle valli, dove la manifattura ottocentesca e novecentesca basata sullo sfruttamento dei corsi d’acqua aveva concentrato attività, ricchezza, popolazione. Uno sviluppo proseguito poi nella forma peculiare di una diffusione insediativa frammentaria, per lo più ricalcata sui precedenti assetti agricoli, oppure organizzata in fregio filiforme lungo le strade esistenti. La previsione di “potenziamento dell’itinerario pedemontano” è effettivamente contenuta nel Piano Regionale dei Trasporti (PRT) approvato nel 1990, mai aggiornato e tuttora vigente. Quella previsione sottointendeva una realistica gerarchia delle priorità: non una nuova strada ma potenziamenti per tratte, finanziati dall’ANAS, partendo dalle tangenziali a servizio dei centri maggiori. Le caratteristiche omogenee delle tratte e il loro successivo collegamento poteva dare luogo ad un itinerario da subito capace di servire il traffico locale, che costituiva la grandissima maggioranza del traffico. In seguito, una volta completato, l’itinerario avrebbe potuto servire anche il traffico di più lunga percorrenza. Nel 1992 la Regione Veneto sviluppa su questa base un progetto di tipo super stradale [2].

1.1 1995 La Pedemontana: una autostrada senza oneri per lo Stato
Un pregevole dattiloscritto ad opera del partito della Margherita [3] richiama le ragioni dell’abbandono di quella prospettiva e spiega l’entusiasmo diffuso verso un progetto autostradale. Le cause vanno ricercate nella crisi finanziaria dello Stato dei primi anni ‘90, nel drastico taglio della spesa pubblica seguito al Trattato di Maastricht e non da ultimo negli effetti politici della profonda indignazione per gli scandali di Tangentopoli, per lo più maturati proprio sugli appalti delle grandi opere infrastrutturali. Nel 1995, in questo quadro di oggettivo impallidimento della possibilità stessa di realizzare la Pedemontana, attecchisce ancora una volta una vecchia promessa mai mantenuta: il Presidente della Autostrada A4 Serenissima si offre di realizzare la Pedemontana come autostrada in concessione “senza oneri per lo Stato” [4]. Quella che sembra una provvidenziale soluzione raccoglie una ampia adesione da molte Amministrazioni comunali e dalla generalità della popolazione. Non mancano le voci critiche: da quelle che richiamano l’oggettiva falsità di quella promessa a quelle che rivendicano per la nuova strada funzioni locali incompatibili con l’assetto autostradale a quelle che evidenziano i danni ambientali e i danni economici alle colture di pregio delle aree attraversate dal nuovo asse. Appena un paio di anni dopo quello stesso Presidente della Serenissima dirà ad un convegno a Vicenza “Non c’è nessuno in grado di remunerare gli investimenti con i pedaggi”. Ma ormai l’autostrada è divenuta luogo comune. Nella percezione delle Amministrazioni locali e dei cittadini, anche se non è la soluzione migliore, almeno si fa qualcosa.

1.2 1997-1998 finanziare una autostrada, ma con giudizio
La previsione della Pedemontana come asse autostradale, inserita nel 1997 nell’Accordo Quadro sottoscritto da Governo e Giunta regionale faceva della nuova infrastruttura un ramo della maglia autostradale destinata prevalentemente ai traffici di lunga percorrenza e all’alleggerimento della Serenissima. Tale previsione, che relegava di fatto il servizio per il traffico locale al rango di sottoprodotto, suscitava non poche opposizioni da parte di Comuni, associazioni di categoria e associazioni ambientaliste. E anche da parte di forze politiche. Tanto che il riflesso di tali opposizioni era ben evidente nelle leggi di fine anni ‘90, nelle quali si stanziavano denari per la realizzazione della Pedemontana:

Anche restando nell’ambito di una prospettiva autostradale tali leggi rispecchiano bene la ricerca di soluzioni progettuali più attente alla morfologia dei luoghi e al servizio della reale domanda di trasporto, formata per la grandissima maggioranza da traffico locale.
1.3 2000: il progetto autostradale di Bonifica spa
Intanto Anas, senza aspettare alcuna valutazione preventiva, forte del contributo statale fissato dalla L 448/98, indice una gara a licitazione privata per il progetto definitivo dell’autostrada tra Dueville (A31) e Spresiano (A27) vinta, nel gennaio 2000, dalla società di progettazione Bonifica spa, con sede in Roma.
Le proposte tariffarie e di tracciato nonché le stime di traffico del progetto Bonifica per il 2007, anno previsto per l’entrata in esercizio della Pedemontana, risultano per molti versi illuminanti:

Nonostante le “aperture” al traffico locale ora ricordate, l’opposizione al progetto dichiaratamente autostradale di Bonifica è forte e interessa un numero crescente di Amministrazioni locali: per il tracciato, che serve pochissimo ad alleggerire la viabilità locale congestionata, per il ridisegno della viabilità ordinaria orientato principalmente a favorire gli accessi autostradali per la pesante interferenza con le previsioni urbanistiche e i vincoli ambientali. Il passaggio del tracciato lungo i confini comunali, assunto come criterio base, può servire a minimizzare il conflitto con i Comuni ma appare del tutto inadeguato a prendere nella dovuta considerazione la natura dei suoli, la struttura storica degli insediamenti e delle ville, i valori paesaggistici e ambientali, l’impatto sulle aziende agricole e le loro colture di pregio.

1.4 Autostrada o Superstrada?

Proprio dalla intensità di questa opposizione trae origine la legge 388/2000 [6] nella quale si stabilisce che l’infrastruttura:
“puo' essere realizzata anche come superstrada. In tal caso sono applicabili, ai sensi dell'articolo 21, comma 3, della legge 24 novembre 2000, n. 340, il pedaggiamento e la concessione di costruzione e gestione, ferme restando le procedure stabilite dall'articolo 10 della legge 17 maggio 1999, n. 144. Ai fini dell'esercizio dell'opzione di cui al presente comma e della valutazione delle alternative progettuali, finanziarie e gestionali, di sostenibilita' ambientale e di efficienza di servizio al territorio, il Ministero dei lavori pubblici conclude entro il 31 marzo 2001 una conferenza di servizi con il Ministero dell'ambiente, la Regione Veneto, gli enti locali e gli altri enti e soggetti pubblici interessati. Trascorso il termine predetto senza che sia stabilita la realizzazione di una superstrada a pedaggio, riprende la procedura di cui all'articolo 10 della legge 17 maggio 1999, n. 144. "

La Superstrada a pedaggio costituiva una innovazione di grandissimo interesse. Il pedaggio, applicato ai traffici di lunga distanza, avrebbe contribuito a finanziarla e al tempo stesso sarebbe stato coerente con le politiche di trasferimento delle merci dalla strada alla ferrovia. La Superstrada, classificata dal Codice come “Strada extraurbana principale di tipo B” [7], avrebbe potuto ridurre il consumo di suolo, massimizzare il servizio al territorio con l’infittimento delle connessioni alla viabilità ordinaria, consentire un miglior inserimento paesaggistico grazie alle velocità più ridotte e ai conseguenti minori raggi di curvatura necessari. Il massimo riuso dei sedimi stradali esistenti previsto dalla legge poteva assumere un senso ben preciso alla luce della fittissima rete di strade statali e provinciali dell’area.

La gestione “aperta” avrebbe potuto selezionare l’utenza facendo pagare le lunghe percorrenze, esentando le percorrenze brevi e brevissime e dosando opportunamente le situazioni intermedie. Il ricorso al sistema “a barriere” e/o l’applicazione delle tecnologie telematiche di identificazione dei veicoli [8] potevano assicurare la minimizzazione dei costi di gestione anche in presenza di un numero elevato di accessi. Se si avesse avuto coraggio e lungimiranza la superstrada a pedaggio avrebbe potuto addirittura avviare la trasformazione del pedaggio da (inefficiente) strumento di finanziamento dell’infrastruttura a strumento di regolazione dell’uso del sistema delle infrastrutture, con effetti ben più importanti ed efficaci.

La Conferenza dei Servizi prevista dalla legge si svolse effettivamente a Castelfranco Veneto il 31 marzo 2001, dunque nei tempi fissati. Gli Enti locali e i soggetti istituzionali i convenuti optarono a grande maggioranza per la Superstrada, in pieno disaccordo con la Regione Veneto e le due Provincie interessate, che abbandonarono provocatoriamente la riunione [9]. Dal punto di vista della trasparenza e della consapevolezza fu una grande occasione mancata. Non solo perché il progetto Bonifica era stato visto compiutamente solo da pochi comuni e solo in maniera informale, ma perché tutto il complesso lavoro di approfondimento tecnico e modellistico degli advisor previsto dalla L 144/1999, venne distribuito all’ultimo momento e non ci fu tempo per valutare e studiare. E’ appena il caso di ricordare che anche quell’interessante lavoro, che aveva comparato ben dieci ipotesi di livello tariffario e di modalità di riscossione del pedaggio, arrivava infine, attraverso una analisi multicriteri, a raccomandare l’adozione di un sistema “selettivamente” aperto e metteva in guardia circa la fragilità delle ipotesi di finanziamento da pedaggio.

2. Il nuovo scenario post 2001: Legge Obiettivo e project financing

Gli eventi che seguirono la decisione del marzo 2001 segnano una svolta nell’iter decisionale. In primo luogo cambia profondamente il contesto nazionale e in secondo luogo, per la Pedemontana, cambiano radicalmente gli attori in gioco.

A fine del 2001 il nuovo Governo di centro-destra rivoluziona, con la Legge Obiettivo (L 443/2001) le modalità di decisione e realizzazione delle grandi infrastrutture. La Legge Obiettivo avrebbe dovuto riguardare unicamente poche opere strategiche di “preminente interesse nazionale” a cui riservare uno speciale percorso decisionale accelerato e semplificato e la certezza del finanziamento. All’insegna di parole d’ordine come “ semplificazione delle procedure” e “rapidità di attuazione” la maggior parte delle decisioni sulle singole opere doveva essere assunta sul progetto preliminare, comprese le valutazioni economiche e lo svolgimento della procedura di VIA.

Il risultato si rivela ben presto disastroso. L’assenza di programmazione, l’oggettiva insufficienza del progetto preliminare a consentire valutazioni attendibili circa la fattibilità economica ed ambientale delle singole opere, la corsa ad iscrivere opere negli elenchi della Legge, a prescindere dalla loro strategicità (e spesso anche della loro utilità) portano a situazioni paradossali: nel 2015 gli elenchi della Legge Obiettivo registravano oltre 400 opere, molte delle quali con progetti preliminari approssimativi, incerta fattibilità e incerto finanziamento [10]. Oggi, abolita la Legge Obiettivo in nome della ripresa della programmazione e del rigore nelle valutazioni [11], molte di tali opere dovrebbero essere abbandonate o radicalmente riviste, ma vantano diritti acquisiti che costituiscono altrettante remore al disegno di un razionale sistema infrastrutturale e al corretto uso della spesa pubblica.

2.1 Trasferimento alla competenza regionale e project financing

Nella Delibera CIPE 121/2001 che tracciava regione per regione il primo programma delle opere in Legge Obiettivo era compresa, per il Veneto, la Pedemontana Veneta (tratte est e ovest) insieme al Passante di Mestre, alla Tratta Venezia – Ravenna (Nuova Romea E 45 – E 55) , al Raccordo autostradale Verona – Cisa (Ti-Bre) e al Completamento A 27 – Alemagna. A partire da questo momento ci si sarebbe aspettati un periodo di revisione del progetto Bonifica al fine di accelerare la realizzazione e di cogliere appieno gli aspetti positivi della trasformazione in Superstrada. Invece il trasferimento alla competenza regionale e il ricorso al project financing rimettono tutto in discussione. In rapida successione nel 2001 la Legge finanziaria trasferisce i contributi già stanziati per la tratta est-ovest alla Regione Veneto (L 448/2001 art. 73, comma 2), un Accordo tra Presidenza del Consiglio, Ministero dei Trasporti e Regione Veneto trasferisce alla Regione la competenze sulla realizzazione dell’opera; la Regione acquisisce da Anas il progetto Bonifica (non senza qualche resistenza da parte di Anas).

Nel 2002 la società Pedemontana Veneta Spa [12], a cui la Regione trasferisce il progetto Bonifica [13]. presenta, come promotore, un progetto in Project Financing per la tratta da Dueville (A31) a Spresiano (A27). Il progetto viene messo in gara, ma un ricorso presentato da alcuni Enti locali e da Legambiente del Veneto viene accolto dal TAR che annulla la gara. Nello stesso anno la tratta Ovest della Pedemontana, di raccordo tra la A4 e la A31 era stata concessa, senza alcuna gara, alla Serenissima: una procedura di infrazione comunitaria per l’assenza di gara porta ad annullare la concessione.

Il 2003 segna il punto fermo dal quale parte la storia recente dell’infrastruttura:

Dal punto di vista della capacità di servire il territorio attraversato il progetto preliminare approvato nel 2006 é sensibilmente peggiorativo rispetto al progetto Bonifica. L’infrastruttura, nonostante la reiterata dichiarazione che si tratta di una “Strada extraurbana principale di tipo B”, in realtà rincorre malamente le dimensioni di una autostrada [14], adotta un sistema di riscossione del pedaggio completamente chiuso e costa 1.991 milioni di euro contro i 1450 previsti del progetto Bonifica.

3. I guai del project financing e la Corte dei Conti

Più di dieci anni sono trascorsi dalla approvazione del progetto da parte del CIPE e l’avanzamento dell’infrastruttura pone ancor oggi molti rilevanti problemi. I lavori sono iniziati [15] ma l’iter decisionale è ancora incerto su temi fondamentali come il rapporto contrattuale tra Regione e Concessionario o la possibilità, per il Concessionario, di arrivare in tempo utile al closing [16], o ancora il regime tariffario per i residenti e le attività dell’area. Inoltre i danni ambientali denunciati sui giornali, le perdite di risorsa idrica nella realizzazione delle gallerie e l’impatto dei cantieri sembrano sopravanzare di molto le valutazioni dello Studio di impatto ambientale.

Nel riquadro di figura 1 si indicano in estrema sintesi, ordinati per data, i fatti più significativi del decennio dal 2006 ad oggi. Qui conviene invece riprendere alcuni macroscopici punti critici, anche sulla scorta delle recenti Relazioni della Corte dei Conti (CdC) relative alla attuazione della Pedemontana Veneta [17].

Figura 1 Cronologia del decennio 2006-2016

3.1 Un project financing a geometria variabile

Un primo aspetto determinante riguarda la scelta regionale di ricorrere al project financing, le modalità con cui tale scelta è stata attuata e le continue modificazioni del rapporto tra Concedente e Concessionario ancora oggi in corso. E’ una vicenda tormentata a partire dalla gara del 2006 per la scelta del concessionario. In quella gara infatti l’offerta più vantaggiosa era stata presentata dall’ATI costituita dal Consorzio Stabile SIS SCpA - Itinere Infraestructuras S.A. (Consorzio SIS). Tuttavia la Regione aveva affidato la concessione al promotore Società Pedemontana Veneta (ATI con capogruppo Impregilo), che aveva esercitato il diritto di prelazione previsto dalle norme italiane (peraltro contestato dalle norme europee). L’ATI Consorzio SIS ricorre contro tale assegnazione e la sentenza conclusiva del Consiglio di Stato obbliga la Regione ad affidare la concessione al Consorzio SIS. Intanto sono passati tre anni: sarà il Commissario a firmare nel 2009 la prima Convenzione tra il Concedente Regione Veneto e il Concessionario Consorzio SIS.

Quella Convenzione suscita non poche perplessità: perché la Regione si impegna [18] a garantire con ogni mezzo l’equilibrio del Piano economico finanziario (ad es. con l’aumento dei contributi, l’allungamento della concessione, la variazione delle tariffe, ecc.) e a versare al Concessionario oltre al contributo in conto capitale di 173,7 milioni di euro, un canone annuale “di disponibilità” pari a 14,5 milioni di euro, aggiornato annualmente in base al tasso di inflazione. Tale canone che garantisce al concessionario un introito annuale basato su stime di traffico riviste al rialzo rispetto a quelle del progetto, potrebbe essere rimodulato a favore della Regione nella improbabile ipotesi che gli introiti da pedaggio risultassero molto superiori a quelli previsti in convenzione. Ovviamente nel caso, assai più probabile, che gli introiti fosse inferiori, la Regione si obbliga a provvedere al ripiano. Viene così meno, oggettivamente, il rischio del Concessionario, al quale tali regole garantiscono la totale copertura dei costi, in aperta contraddizione con la logica di equa ripartizione dei rischio che dovrebbe stare alla base del project financing.

Le regole così cautelative per il Concessionario si rivelano comunque insufficienti a garantire la “bancabilità” dell’opera: nel 2013 un Atto convenzionale aggiuntivo aggiorna i costi dell’intervento da 1,4 miliardi di euro del progetto preliminare del 2003 a 2,258 miliardi di euro, incrementa il contributo pubblico in conto capitale fino a 614,410 milioni di euro, 370 dei quali stanziati dallo Stato e prevede, per il Concessionario, un contributo annuo in conto gestione di 20 milioni di euro a partire dall’entrata in esercizio dell’infrastruttura e per tutta la durata della concessione.

Per la “bancabilità” ancora tutto questo non basta: nel 2016 la Cassa Depositi e Prestiti, coinvolta con altre banche nel finanziamento del Concessionario, giudica l’infrastruttura non finanziabile sulla base di una stima del traffico, appositamente commissionata, che quantifica un TGM di poco superiore a 15.000 veicoli, la Regione Veneto reagisce mettendo a punto una complessa soluzione che comprende un ulteriore contributo pubblico (regionale) di 300 milioni di euro e la riformulazione dei rapporti tra Concedente e Concessionario SIS attraverso un III Atto convenzionale che sostituisce completamente le convenzioni precedenti.

Tale riformulazione modifica radicalmente i termini delle Convenzioni sottoscritte nel 2009 e nel 2013 e viene motivata dall’aumento dei costi del progetto e dalla constatazione che i volumi di traffico saranno prevedibilmente minori di quelli ipotizzati data la crisi economica e i suoi effetti di lungo periodo. Nonostante la sistematica minimizzazione con cui il III Atto convenzionale viene presentato, il cambiamento è davvero radicale. La titolarità dei proventi da pedaggio passa dal Concessionario SIS al Concedente Regione Veneto che si addossa così completamente il rischio di mercato, ovvero l’incertezza circa i volumi di traffico e le conseguenti entrate tariffarie. Il Concessionario, a cui restano i rischi collegati al costo di costruzione e alla disponibilità dell’infrastruttura, rinuncia ad introiti da Concessione per circa 6,7 milioni euro, ma il suo equilibrio di bilancio è garantito da un “canone di disponibilità” annuo aggiornato nel tempo e rivedibile al rialzo qualora necessario.

E’ una modifica non da poco perché mentre il rischio di mercato non dipende dal Concessionario, e in tal senso si tratta realmente di un rischio, le altre due componenti (costo di costruzione e disponibilità legata alla manutenzione e al buon funzionamento dell’infrastruttura) dipendono invece pressoché completamente dalla azione del Concessionario, dalla sua abilità imprenditoriale e dalla sua efficienza tecnica. La prevista copertura totale di tali costi da parte della Regione attraverso il canone annuo di fatto rende il rapporto simile ad un contratto di appalto piuttosto che a un contratto di concessione. La previsione che il canone di “disponibilità dell’infrastruttura” possa essere diminuito (nella quota massima del 15%) in seguito alle eventuali inadempienze del Concessionario non sembra modificare sostanzialmente le cose.
Noterà la Corte dei Conti nella Relazione del 2016:

“Il ricorso al partenariato pubblico-privato non solo non ha portato i vantaggi ritenuti suoi propri, ma ha reso precaria ed incerta la fattibilità dell’opera stessa. Appare evidente, infatti, la difficoltà a far fronte al closing finanziario, ricorrendosi, in contrasto con i principi ispiratori della finanza di progetto, all’intervento di organismi pubblici, al fine di superare le criticità dell’operazione. E’ manifesta la traslazione del rischio di mercato sul concedente, fatto anch’esso in contraddizione con la ratio del ricorso alla finanza di progetto."

L’importo elevato del previsto contributo regionale supera la capacità di indebitamento della Regione. D’altra parte il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti dichiara pubblicamente che “lo Stato non è un bancomat” e che nessuna risorsa aggiuntiva verrà assegnata alla Pedemontana Veneta. Un bel pasticcio: perché recedere dalla Concessione significa interrompere i lavori nei cantieri iniziati, lasciar sospesa la remunerazione degli espropri e comunque subire uno scacco politico di enorme portata. L’idea iniziale della Amministrazione regionale di ricavare i 300 milioni di euro attraverso una addizionale IRPEF del 5xmille sui redditi superiori a 28.000 euro viene rapidamente abbandonata per il clamore e le proteste suscitate. L’articolazione dell’impegnativo contributo regionale in due tranche successive di mutuo trentennale sottoscritto con Cassa Depositi e Prestiti, fa fronte al problema della capacità di indebitamento della Regione. Ma non risolve tutti i problemi: sussiste uno squilibrio troppo accentuato a favore del concessionario? Le modifiche della Convenzione potrebbero dare luogo a ricorsi (già annunciati) da parte dei soggetti “perdenti”? Non sarebbe più conveniente, per l’Amministrazione pubblica, rivedere tutta la questione e procedere ad una regolare gara d’appalto?

Su questi temi si è in attesa delle determinazioni dell’Autorità Nazionale anti-corruzione e degli organismi di vigilanza, compresa la Corte dei Conti ai quali è stata inviata la documentazione relativa al III Atto convenzionale.

3.2 Un abnorme contenzioso

Un secondo aspetto rilevante è costituito dalla ampiezza del contenzioso, che è un buon indicatore della poca chiarezza delle leggi e della incerta legittimità delle decisioni. Il contenzioso interessa conflitti tra Stato e Regione, tra Regione ed Enti Locali, tra Associazioni di vario tipo e istituzioni, tra cordate imprenditoriali, tra privati ed enti pubblici. Gli effetti che ne derivano in termini di allungamento dei tempi, crescita dei costi e oggettiva incertezza delle decisioni sono rilevantissimi. Il commissariamento dell’opera ottenuto nel 2009 rappresenta un maldestro tentativo di risposta a questo problema. Nell’estate del 2009 infatti la Regione ottiene dal Consiglio dei Ministri una dichiarazione di “stato di emergenza” nel settore del traffico e della mobilità nelle provincie di Vicenza e Treviso. E’ evidente l’intenzione di ricalcare in tal modo l’esperienza di commissariamento che aveva portato, non senza problemi, alla realizzazione del Passante di Mestre. Non a caso viene nominato Commissario [19] e dotato di amplissimi poteri straordinari proprio l’ingegnere Vernizzi, alto dirigente regionale e Amministratore delegato di Veneto Strade, reduce in quel periodo dall’aver portato a termine la realizzazione del Passante di Mestre.

Tutta la vicenda del commissariamento e dei suoi esiti saranno considerati assai criticamente dalla Corte dei Conti: per il costo elevato della struttura commissariale, per la sistematica e continuativa deroga alle norme, per l’esproprio di responsabilità dell’istituzione regionale e, paradossalmente, per l’incredibile numero di contestazioni, di ricorsi o di minacce di ricorso che costellano l’elaborazione del progetto definitivo, conclusa nel 2010. La soluzione “commissariamento” peggiora il male che dorrebbe curare. La Corte dei Conti, stigmatizzando proprio l’ampiezza del contenzioso, osserverà che da questa vicenda emerge l’assoluta necessità di approfondire e concordare le soluzioni relative al tracciato e alla integrazione nel territorio nelle fasi preliminari, per evitare il danno erariale che deriva dall’uso strumentale del contenzioso come mezzo per aumentare il proprio potere contrattuale e ottenere vantaggiose modifiche del progetto o anche opere aggiuntive. Uno degli effetti macroscopici della negoziazione tra enti locali e Commissario è l’incremento dei costi: il costo di costruzione aumenta di oltre 300 milioni di euro.
Nella Figura 2 lo schema del tracciato della Pedemontana veneta a seguito dal progetto definitivo del 2010 [20].

Figura 2 Pedemontana schema del tracciato

A chi serve la nuova strada?

Infine al di là degli aspetti finanziari e amministrativi l’aspetto più rilevante di questa storia è la perdita progressiva del significato dell’opera: un significato compromesso alla radice dalla progressiva subordinazione degli interessi sociali, economici ed ambientali delle collettività locali alle logiche finanziarie e agli interessi legati alla realizzazione della grande opera.

Basti considerare la questione delle stime di traffico e la ricerca della massimizzazione degli introiti che le guidano. Nel 2016, in opposizione allo studio di traffico della Cassa Depositi e Prestiti che aveva quantificato un TGM di 15.000, la Regione commissiona a sua volta uno studio di traffico. Tale studio assumendo le tariffe di pedaggio fissate nella convenzione del 2013 stima al 2020, anno di prevista entrata in esercizio dell’infrastruttura, un TGM di circa 20.000 veicoli. Simulando invece tariffe più basse, che rendono conveniente l’uso dell’infrastruttura per una maggior quantità di traffico, il TGM stimato cresce fino a 27.000 veicoli [21]. Queste nuove condizioni sono formalmente assunte nel III Atto convenzionale, che ripropone da parte della Regione la garanzia dell’equilibrio economico finanziario attraverso un contributo in conto “disponibilità dell’infrastruttura” che ancora una volta garantisce la copertura dei costi del Concessionario. Il progetto in via di realizzazione assume, come si è detto, un sistema di gestione chiuso, organizzato con 15 caselli e due barriere in corrispondenza della connessione con le altre autostrade. Dunque tutto il traffico è potenzialmente soggetto al pagamento del pedaggio: le eventuali esenzioni a favore di residenti e attività locali dipendono unicamente dal gestore dell’infrastruttura. La totale sparizione nel III Atto convenzionale di ogni accenno a tali regole di esenzione dal pedaggio per la popolazione e le attività locali, che erano invece dettagliatamente contenute nella Convenzione del 2009 e del 2013, rispecchia perfettamente il problema: la quantità di traffico e le tariffe previste nel III Atto convenzionale sono calibrate per conseguire la massimizzazione degli introiti indispensabile ad assicurare la finanziabilità del progetto. Qualsiasi esenzione, anche qualora possibile in termini contrattuali, potrebbe compromette gli equilibri finanziari previsti, così che la prospettiva più realistica è sicuramente quella dell’azzeramento di ogni ipotesi di esenzione.

Infine occorre osservare la sistematica ambiguità con cui la Pedemontana è presentata come maglia della rete autostradale, cosa che implica l’assunzione di caratteristiche progettuali coerenti con quelle del resto della rete autostradale. La qualifica di “superstrada” resta dunque come fatto puramente formale, mentre le caratteristiche tecniche e il sistema di esazione del pedaggio sono del tutto autostradali. L’autostrada, come tutte le autostrade, risulta di difficile inserimento morfologico e paesaggistico in un territorio diffusamente abitato. Le implicazioni in termini di caratteristiche costruttive e costo di costruzione sono assai rilevanti: su una lunghezza complessiva di km 94,50 circa il 72% del tracciato corre in trincea o in galleria e il restante 28% in rilevato. C’è da scommettere che la piacevolezza del paesaggio potrà essere ben poco colta dai viaggiatori autostradali. Le singolari caratteristiche plano altimetriche certamente hanno a che fare con la preoccupazione di minimizzare la visibilità dell’opera, ma sicuramente scontano anche l’interesse per il profitto ricavabile dalla vendita degli inerti risultanti dagli scavi.

In conclusione ogni passo della storia delle Pedemontana è scandito dalla crescita dei costi di costruzione e dall’aumento del rischio per l’Amministrazione pubblica. Ogni passo rende tuttavia più difficile cambiare e spinge di fatto verso la realizzazione ad ogni costo di un progetto profondamente inadatto rispetto i problemi di mobilità e di congestione della viabilità locale che dovrebbe aiutare a risolvere. Non c’è più nulla da fare? A parte l’attesa per i giudizi di legittimità e le verifiche sul III Atto convenzionale si potrebbe comunque far qualcosa per diminuire il danno? Anche restando all’interno della filosofia del sistema chiuso, capace cioè di intercettare tutto il traffico che percorre la strada, le scelte progettuali della Pedemontana in costruzione appaiono singolarmente arretrate. Quale risparmio di costi di costruzione e di impatto paesaggistico si sarebbe potuto ottenere attraverso l’adozione di sistemi tipo Free Flow Multilane22 oggi già ampiamente utilizzati in altri paesi europei e anche in Italia per la Pedemontana lombarda o previsti per la Livorno-Civitavecchia? E quale flessibilità di gestione e di tariffazione sarebbe

possibile attraverso questo sistema? Dato il modesto avanzamento dei lavori si sarebbe probabilmente ancora a tempo per modificare il sistema di esazione, che vorrebbe dire semplificare enormemente svincoli e connessioni con la viabilità ordinaria, diminuire i costi di costruzione e di gestione e risparmiare risorse da dedicare alle necessarie misure a favore del traffico locale.

In ogni caso le vicissitudini della Pedemontana veneta costituiscono una perfetta dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, della necessità di modificare profondamente il processo decisionale relativo alle grandi infrastrutture. Le riforme avviate con il nuovo Codice degli appalti [23] e l’abolizione della Legge Obiettivo vanno in questa direzione disegnando un itinerario assai diverso da quello fin qui descritto. Nelle nuove regole il progetto preliminare è sostituito da un ben più approfondito e valutato Progetto di fattibilità tecnica economica (PFTE) strutturato attraverso il confronto tra alternative e l’analisi costi-benefici. La elaborazione definitiva del PFTE dovrà essere preceduta da un Dibattito Pubblico capace di far emergere la domanda reale, gli interessi collettivi e i problemi dei territori interessati. La solidità dei progetti ottenuta attraverso tali fasi progettuali dovrebbe essere in grado di ridurre al minimo il contenzioso e l’aumento dei costi, perché il progetto dell’infrastruttura potrà tener conto da subito dei problemi, invece di rincorrere con continue variazioni gli esiti del contenzioso e delle opposizioni locali sui progetti definitivi ed esecutivi. La programmazione integrata di ordine nazionale e locale consentirà di definire lo schema strategico della rete infrastrutturale ai diversi livelli, con le sue sinergie e le sue priorità. Le nuove regole, valide anche per le infrastrutture di interesse regionale, renderanno più facile, almeno si spera, decidere infrastrutture condivise e appropriate al loro ruolo, valutate nei loro effetti economici, sociali ed ambientali rispetto ad altri impieghi delle risorse pubbliche. Infrastrutture realizzate con costi prevedibili, maggiore rapidità e regole meno vulnerabili a fronte degli interessi privati confliggenti. Con vantaggio per l’erario e per le popolazioni interessate.

Note

[1] Tutti gli atti ufficiali richiamano la successione degli atti politici, normativi o in varia forma autorizzativi che hanno fin qui sostanziato l’iter decisionale della Pedemontana. Ad essi si rimanda. In queste note si fa riferimento alle note interpretative di tali atti, redatte da partiti, associazioni, organizzazioni della società civile.
[2] Il progetto del 1992 prevedeva 85% del tracciato di tipo III Anas (m 18,60 a carreggiate separate) e 15% del tracciato di tipo IV Anas (m 10,70 a carreggiata unica).
[3] La Margherita – Insieme per il Veneto Breve storia della Pedemontana Veneta, novembre 2004.
[4] La logica di tali promesse si fondava sull’aspettativa, da parte del Concessionario, di consistenti allungamenti delle Concessioni sulle autostrade già realizzate. Ma già negli anni ’90 le norme europee imponevano l’obbligo di gara ad evidenza pubblica per la realizzazione di nuove opere e vietavano quindi allungamenti di concessione motivati dalla realizzazione di nuove opere da parte del concessionario. Senza contare che la Legge 492/1975 aveva vietato la costruzione di nuove autostrade in concessione proprio a motivo della loro dimostrata impossibilità di remunerare gli investimenti attraverso il pedaggio. Lo Stato, garante dei debiti delle concessionarie, era chiamato a coprire le loro insolvenze presso il sistema bancario, generando così insostenibili impegni di spesa pubblica. Per dare un’idea della dimensione del problema, quando la Legge 531/1982 Piano decennale per la viabilità di grande comunicazione riaprirà la vicenda delle concessionarie, il contributo a fondo perduto chiesto allo Stato per la realizzazione di nuove autostrade in concessione era dell’ordine del 65-70% dell’investimento.

[5] Si prevedono 3 barriere di pagamento di un pedaggio fisso: due collocate alle estremità per il collegamento con le autostrade A31 e A27 e una in posizione centrale, al confine tra la provincia di Vicenza e quella di Treviso.
[6] Tale previsione è dovuta all’emendamento proposto dal Senatore Giorgio Sarto, dei Verdi.
[7] In realtà il progetto Bonifica adottava una sezione più ampia di quella delle “Strade extraurbane principali di tipo B”: la banchina in destra passava da m1,75 a m 2,50 e la sezione complessiva da m 22 a m 24,50. Se si considera che per le Strade extraurbane di tipo A, ovvero le Autostrade, le norme prevedono una sezione di 25 m è evidente il tentativo di ridurre il passaggio alla Superstrada un fatto meramente nominalistico.
[8] Il Telepass, antesignano del pedaggiamento telematico, è stato introdotto sperimentalmente in Italia nel 1990
[9] Nel mio ruolo di rappresentante del Ministero dell’ambiente, DG del Servizio di Valutazione dell’impatto ambientale, ebbi modo di partecipare a quella riunione e di registrare l’evidente fortissima resistenza della Amministrazione regionale ad immaginare qualcosa di diverso da una tradizionale autostrada in concessione.
[10] Per un efficace quadro critico della attuazione della Legge Obiettivo si vedano i lavori del WWF e in particolare il Dossier Il corto circuito del programma delle infrastrutture strategiche – Controstoria di dieci anni di Legge Obiettivo, 2011.

[11] L’abolizione della Legge Obiettivo e la ripresa della programmazione in materia di infrastrutture è una delle previsioni più qualificanti del nuovo Codice dei contratti Dlgs 50/2016.
[12] La Società Pedemontana Veneta è composta da Autostrade per l'Italia, Autostrada Brescia-Padova, Autovie Venete, Banca Antonveneta, Unicredit e San Paolo.
[13] Un trasferimento accompagnato da molte polemiche: perché la nuova Società può disporre di un progetto già sviluppato? Non si configura in tal modo una ingiusta posizione di privilegio rispetto ad altri possibili concorrenti? Il progetto, che comunque costituisce una proprietà pubblica, è stato trasferito a titolo oneroso o a titolo gratuito?

[14] La sezione adottata per la superstrada è di m 24,50 contro quella di 25 m prevista dal Codice della Strada per le autostrade.
[15] Nel 2017 la Regione Veneto, nell’approvare il III Atto convenzionale stima nel 27% l’avanzamento dei lavori.
[16] Termine utilizzato per indicare la chiusura dell’operazione finanziaria con le banche, che deve avvenire, in base al III Atto convenzionale, entro tempi certi.
[17] In particolare la Relazione del 2015 (Deliberazione 30 dicembre 2015, n. 18/2015/G) ripercorre puntualmente e criticamente tutto l’iter decisionale.
[18] Art. 8 della Convenzione registrata in data 27.10.2009 presso il notaio Gasparotti.
[19] Il commissariamento scade nel 2016. In vista di tale scadenza la Regione Veneto ha provveduto ad istituire nell'ambito della Segreteria Generale della Programmazione una Struttura di Progetto "Superstrada Pedemontana Veneta" che eredita le funzioni del Commissario senza tuttavia averne i poteri derogatori.
[20] L’immagine è tratta dal testo Pedemontana: la via dell’identità descrittivo in tono agiografico delle caratteristiche fisiche dell’opera e degli aspetti paesaggistici e naturalistici del territorio valorizzati dalla nuova strada.
[21] Cfr la Validazione del metodo di calcolo dei flussi veicolari attesi nella superstrada pedemontana veneta, commissionata dalla Regione al prof. Pasetto dell’Università di Padova.

[22] Nel sistema free flow i veicoli che percorrono la strada sono riconosciuti automaticamente attraverso dispositivi posti a bordo dei mezzi e portali collocati lungo i percorsi, Il pedaggio, commisurato al percorso e alla tipologia di utente, è scalato senza rallentamento e senza incanalamento attraverso card prepagate o attraverso altri sistemi di pagamento, compreso il pagamento differito mediante addebito al conto corrente del proprietario del veicolo.

[23] Dlgs 50/2016

Una proposta concreta per trasformare parte delle affittanze turistiche in affittanze per residenti di medio periodo e arginare la turistificazione di Venezia, restituendo vivibilità e opportunità economiche al di fuori dell'industria del turismo.

L’ultimo fine settimana di settembre di quest’anno hanno attraccato alla Stazione Marittima 17 navi da crociera, di cui 6 superiori alle 70 mila tonnellata di stazza, e ognuna di queste trasporta una media di 2700 passeggeri. Aggiunti i passeggeri delle navi minori, considerato l’imbarco e lo sbarco, si è scaricata in città una ondata di 50.000 crocieristi e membri di equipaggio, un numero pari all’intera popolazione residente nel centro storico. A questo flusso si aggiungono i 50/60.000 escursionisti che visitano la città in un qualsiasi fine settimana di settembre.

In controtendenza è di poche settimane fa l’allarme sul fatto che la spesa del turista medio in città va costantemente declinando e che gli alberghi segnano un calo delle presenze, è il pericoloso segnale di un esito distorto dell’attrattività turistica mondiale di questa città.

Oggi gli escursionisti giornalieri non solo superano i turisti “pernottanti” – di per sé segnale di un deterioramento della qualità del turismo - ma superano l’insieme di questi ultimi e dei residenti. Uno tsunami che deteriora l’offerta di servizi (negozi, ristoro, trasporti) che ad esso si adegua e che soddisfa ormai prevalentemente la domanda del turista di passaggio (e il crocierista è un turista escursionista). E’ senza senso dire che tanti turisti fanno bene all’economia della città perchè rappresentano comunque un aumento della domanda (il “frigorifero pieno” del sindaco) senza interrogarci sulla qualità del contenuto. E’ pieno di patate o di funghi porcini?

In queste condizioni fare una politica che accresca il flusso dei turisti, qualsiasi essi siano, “basta riempire il frigorifero”, equivale a fare il male della città.

Sono necessarie invece delle misure che invertano il trend al declino della qualità del turismo, e salvino i brandelli rimasti di quella coesione sociale della città che pur permane. Ne abbiamo avuto un esempio nei tanti cittadini convenuti sulla riva delle zattere e a bordo del centinaio di imbarcazioni che hanno manifestato nel canale della Giudecca la scorsa domenica contro il passaggio delle grandi navi. Si può pensare a una politica turistica diversa?

Innanzitutto la città ha bisogno di energie giovani e ringiovanire una città “vecchia” si può fare solo immettendo forze fresche dall’esterno utilizzando appieno la sua straordinaria attrattività. Pensiamo agli artisti, agli studenti, ai ricercatori, a coloro che praticano le attività legate al mare, al restauro, all’erosione, alle lagune, a chi lavora nei campi dove la città ha un innegabile vantaggio “storico e naturale”. Pensiamo a una Biennale, che unisca a una meritoria attività espositiva e di documentazione, un’attività di laboratorio d’ arte, che incentivi e aiuti la permanenza di giovani a Venezia; cosa fattibile specialmente oggi che la biennale gestisce una grande parte dell’Arsenale. Pensiamo alle tante università straniere che di frequente guardano a sedi estere per rendere i loro studenti sempre più cittadini del mondo, unendo allo studio la permanenza in un altro paese, l’incontro con altre realtà.

Si deve puntare gradualmente alla trasformazione di parte delle affittanze turistiche in affittanze per residenti di medio periodo, che lavorano in campi nei quali Venezia esercita una specifica attrattiva, e che hanno esigenze e consumi affini a quelli dei residenti. Le risorse per quanto riguarda gli alloggi ci sono. Pernottano oggi a Venezia almeno 30-40.000 persone al giorno in media e gli appartamenti ad uso turistico superano le 5.000 unità. Non si può dirottare il 20% dell’offerta di tali alloggi alla residenza di questi ceti giovanili? Non si possono sperimentare limiti e incentivi sulle locazioni, con accorgimenti che stanno prendendo piede in tutte le principali città? Berlino, Parigi, Madrid, Londra, Amsterdam, NY, San Francisco oltre la solita Barcellona? Si riducano le giornate massime di locazione turistica (come in tutte le città sopra ricordate), si crei la categoria del residente temporaneo con dei vantaggi tariffari e fiscali, si controlli finalmente l’evasione nell’affitto turistico che è altissima e si pretenda la tassa di soggiorno (aumentata) alla fonte, e il dirottamento dell’offerta di alloggi seguirà. Berlino ha limitato l’affitto turistico di “appartamenti interi”, e con questa misura ha riportato sul mercato della residenza 8.000 unità, 1/3 dello stock. Certo tutto questo dopo aver doverosamente messo in locazione le case sfitte del patrimonio pubblico, meglio se in forme di autorestauro, senza esborso di denaro pubblico (che per queste cose manca sempre), e anche qui Venezia può tracciare una strada con forme di autorestauro molto interessanti, già in essere, che vanno valorizzate.

Obiettivo è condividere una diversa idea di città rispetto a quella di oggi. Se distruggiamo la vita della città, distruggiamo il patrimonio che ci è stato consegnato ma distruggiamo anche la esperienza che della vita di Venezia il visitatore può fare, e così rinunciamo alla parte più dinamica, ricca e interessante degli stessi flussi turistici, quella che andrebbe invece attratta e valorizzata in tutti i modi.

Bibliografia di riferimento
Giuseppe Tattara e Gianni Fabbri autori, con R.Bartoloni e F. Migliorini, “Governare il turismo e organizzare la città”, 2018

Per ricordare questo disastro (9.10.1963) e la perversa logica degli interessi industriali che lo determinò ripresentiamo gli articoli di Paolo Cacciari, Toni De Marchi, Oscar Mancini e della straordinaria giornalista Tina Merlin che denunciò gestori e tecnici, che sapevano di costruire su terreno argilloso e franabile, quindi pericoloso. (i.b.)



Qui anche il link allo spettacolo di Marco Paolini racconta tutta la storia del Vajont costata la vita a 1910 persone, facendo (ri)scoprire al grande pubblico questo disastro ambientale e umano, in quanto poteva essere evitato. Lo spettacolo andò in onda su Rai2 la sera del 9 ottobre del 1997 in diretta dalla diga.

Rete SET - Italia, 07 Ottobre 2018. Si consolida in Italia la costruzione di una rete di città unificate dalla volontà di costruire una voce critica ed una forma attiva di resistenza contro l'attuale modalità di gestione dello sviluppo turistico nel nostro Paese. (c.z.)

Si terrà a Napoli, tra il 18 ed il 20 Ottobre 2018, il secondo incontro della rete SET nazionale, dopo la presentazione iniziale del progetto che ha avuto luogo a Venezia in Aprile. La rete nasce in sinergia con le mobilitazioni di collettivi e comitati che hanno interessato in questi anni la penisola iberica, dove lo sviluppo rapido e massivo del turismo ha determinato fenomeni acuti di overtourism, favorendo la diffusione di un pensiero critico capace di contestare la retorica dominante del turismo come indiscussa "gallina dalle uova d'oro" con un'analisi attenta e puntuale dei suoi reali costi ambientali, sociali, antropologici. Il ramo italiano, in via di costruzione in questi mesi, si avvia quindi a sua volta a elaborare in maniera collettiva e plurivoca una tramatura di narrazioni e pratiche condivise che dal basso, a partire dagli abitanti delle città, possa porsi come alternativa reale al modello di sviluppo che oggi ci viene imposto. Infatti, nonostante ogni luogo sia connotato da specificità e contraddizioni proprie, la turistificazione rimane un fenomeno globale, sistemico, diretta emanazione del capitalismo contemporaneo, e come tale richiede uno sforzo comparativo e connettivo tra lesingole realtà che possa produrre un orientamento comune ed unasinergia tanto nella teoria quanto nelle prassi. E' in questa direzione che si muoverà l'incontro di Ottobre, di cui qui pubblichiamo l'invito pubblico e il programma, riunendo le voci di alcune tra le principali mete turistiche italiane (Napoli, Venezia, Firenze, Roma, Bologna, Genova...) in un momento di scambio e ideazione comune.

Qui il manifesto fondativo della rete pubblicato da Eddyburg in Aprile.



INCONTRO DELLA RETE SET – ITALIA

CITTÀ ITALIANE DI FRONTE ALLA TURISTIFICAZIONE

Napoli 18 - 19 - 20 ottobre 2018

Il 24 aprile 2018 è stato pubblicato il manifesto fondativo della rete SET – Sud Europa di fronte alla Turistificazione. Un’iniziativa nata in particolar modo dall’esperienza di alcune città europee, tra cui Venezia e Barcellona, che prima di altre hanno dovuto affrontare gli effetti deleteri del turismo di massa. In Italia, nel giro di pochissime settimane la rete si è ampliata raccogliendo adesioni da parte di associazioni, movimenti, attivisti, ricercatori e cittadini che si sono mobilitati e uniti in molte città, a dimostrazione dell’urgenza di porre con forza la questione della turistificazione anche laddove il processo non ha ancora raggiunto i devastanti effetti dell’overtourism. Questo perché la trasformazione della scena urbana, all’aumentare del flusso turistico mondiale, avviene oggi ad una velocità tale che lascia ben poco spazio alle realtà locali per negoziare un proprio modello sostenibile di ospitalità e gestione del flusso. L’impatto del turismo si materializza in modo dirompente investendo l’abitare, il commercio, lo spazio pubblico, il lavoro, l’ambiente, non solo a Venezia e a Firenze, ma anche a Napoli, Bologna, Genova, Roma, Rimini e in molti altri luoghi di un Paese che vanta da sempre numeri da record nel settore turistico. Le ricadute sono complesse e non è sempre facile prevederne i rischi. Per queste ragioni SET sta creando uno spazio di confronto e di approfondimento continuo tra città e territori investiti dal processo di turistificazione, operando nell’Europa del Sud e in particolar modo contrastando l’idea, al momento egemone, che per alcune città non ci sia altra fonte di ricchezza economica se non il turismo di massa. La vita e la morte di questi luoghi sembra quindi giocarsi sulla sottile soglia tra il vivere anche di turismo e il vivere solo di turismo. Ma sappiamo bene che svendere la città e allontanare da essa il suo elemento costitutivo, la cittadinanza, non è la soluzione.

Il manifesto SET dello scorso aprile ha pertanto inquadrato gli aspetti critici comuni alle diverse esperienze locali: l’aumento della precarizzazione del diritto all’abitare, l’aumento del costo della vita, la trasformazione delle attività commerciali locali e dei servizi per i residenti in attività turistiche, la precarizzazione delle condizioni lavorative, l’ampliamento costante e spesso nocivo delle infrastrutture, la massificata occupazione di strade e piazze da parte del flusso dei visitatori, l’aumento dei tassi di inquinamento (rifiuti urbani, aerei, navi da crociera ecc.), fino alla trasformazione del centro storico in parco tematico. Tutto questo adesso diventa materia di discussione e di confronto in una densa tre giorni di incontri, dibattiti e tavole rotonde organizzata a Napoli dall’assemblea locale e dalla rete SET italiana. Giovedì 18, venerdì 19 e sabato 20 ottobre, discuteremo le varie modalità attraverso le quali il processo di turistificazione si declina nelle città italiane coinvolte, condividendo esperienze, strumenti e proposte da mettere in campo. Con noi ci saranno Salvatore Settis, Tomaso Montanari e Filippo Celata.

PROGRAMMA DELL'INCONTRO SET – ITALIA

Napoli 18-19-20 Ottobre 2018

GIOVEDì 18 POMERIGGIO Stato dell’arte

Sede: Ex-Asilo Filangieri – Vico Giuseppe Maffei 4

Ore 17.30_ Presentazione rete SET e assemblea plenaria

VENERDì 19 MATTINA Tavoli tematico-propositivi

Sede: Santa Fede Liberata - Via S. Giovanni Maggiore Pignatelli, 2

Ore 10.30_ Inizio lavori

Tavolo 1: Piattaforme locazioni brevi e questione casa

(inasprimento del mercato immobiliare, difficoltà di accesso alla casa, espulsione di popolazione)

Tavolo 2: Lavoro e commercio

(che genere di attività porta la turistificazione, che condizioni di lavoro connesse, quali attività locali stiamo perdendo)

Tavolo 3: Spazio pubblico tra turismo e militarizzazione

(in che modo le geografie della militarizzazione, l’operazione strade sicure dell’esercito italiano, l’arredo urbano anti-sfondamento e anti-sosta, interagiscono con la costruzione delle enclave turistiche all’interno della città)

Tavolo 4: La narrazione tossica dell'industrializzazione turistica

(confronto tra le narrazioni, ruolo degli attori strategici, processo di specializzazione del territorio e retoriche connesse)

Ogni tavolo sarà coordinato da due persone e produrrà un report per il dibattito del pomeriggio, cercando di inquadrare azioni, proposte e strumenti da consolidare/sperimentare/adottare/confrontare (se già adottati altrove).

VENERDÌ 19 TARDO POMERIGGIO/SERA Dibattiti

Sede: Cortile di Santa Chiara – angolo Via Santa Chiara/Via Benedetto Croce (in alternativa cappella di Santa Fede Liberata - Via S. Giovanni Maggiore Pignatelli, 2)

Ore 16.30_ Report e discussione dei diversi tavoli al Santa Fede

A seguire_ Dibattito e assemblea pubblica nel cortile di Santa Chiara

SABATO 20 MATTINA

Sede: Santa Fede Liberata - Via S. Giovanni Maggiore Pignatelli, 2

Ore 11.00_ Come comunica SET (al suo interno e con l’esterno)

A seguire passeggiata nei luoghi simbolo della trasformazione in corso a Napoli.


















No grandi navi, 29 settembre 2018. Un'inequivocabile dissenso nei confronti del governo da parte di comitati ambientalisti che da anni si battono contro grandi opere, inquinamenti, privatizzazioni di beni comuni e più in generale contro un modello di sviluppo neoliberista e predatorio. Con riferimenti (i.b.)

Parte da Venezia un percorso di mobilitazione contro le grandi opere e contro il governo del cambiamento che, attraverso il coinvolgimento aperto e partecipato di tante istanze territoriali, porterà a una data nazionale.

Ci siamo incontrati in tante e tanti, in centinaia, qui a Venezia. Trovarsi è sempre importante, lo è ancora di più farlo in un momento come questo. Siamo di fatto alla chiusura del primo semestre di vita di questo nuovo governo. Il primo, come amano dire “i vincitori eletti dal popolo”, dopo anni di governi tecnici. Tanti proclami elettorali, tante promesse, tanti slogan. Ad oggi non pare però cambiare molto nella vita delle persone e del paese, lavoro e reddito che mancano, povertà, diritti, salute, ambiente. Si riempiono però i telegiornali di slogan e di decreti, come quello sicurezza, che poco cambiano la vita delle persone. Un governo che gioca più sulle paure che sulla sostanza. Una utile guerra tra poveri per far stare tranquilli i ricchi.

“Abbaiare” contro i migranti è utile a nascondere uno degli aspetti per cui il cosiddetto governo del cambiamento sembra invece allinearsi a tutti quelli che l’hanno preceduto: ci riferiamo alle politiche in tema di modello di sviluppo e grandi opere. Ecco il voltafaccia del Movimento Cinque Stelle che ha promesso lo stop alle grandi opere ed ora si rimangia la parola. Lo fa a partire dalle Grandi Navi e dal Mose a Venezia, le prime avrebbero dovuto scomparire e invece rimangono in Laguna, il secondo avrebbe dovuto essere bloccato e invece pare ormai inarrestabile. Procedono spedite anche le altre grandi opere regionali, tutte benedette dal Presidente Zaia e dalla Lega.

Il TAV avrebbe dovuto essere cancellato, invece si balbetta di costi e benefici (e la stessa cosa vale per il Terzo Valico). Il TAP è stato “blindato” dal Presidente della Repubblica e dal ministro degli Esteri. Taranto è stata tradita sull’ILVA. Le zone terremotate del centro Italia sono di fatto abbandonate a loro stesse. I progetti di trivellazione vanno avanti come se nulla fosse e la lista potrebbe continuare ancora a lungo.

Il tragico crollo del ponte Morandi a Genova è l’emblema del collasso del sistema infrastrutturale italiano, fondato sul cemento, appaltato ai privati, gestito con inumana negligenza.

In questa situazione ci pare chiaro che non esistano governi amici e che tutti i comitati e i movimenti territoriali siano chiamati ad un salto di qualità, cioè alla costruzione di un fronte unito che, da subito, sappia mettersi in movimento, da sud a nord, per ottenere finalmente lo stop alle grandi opere, in nome di una giustizia ambientale che passa per la fine della corruzione e per l’investimento in messa in sicurezza di tutti i territori, e che porti alla costruzione di una manifestazione nazionale a Roma entro l’autunno.

Questo è il nostro impegno. E’ un’assunzione di responsabilità che nasce a partire dalla consapevolezza della nostra forza, della diffusione capillare dei nostri comitati. Noi non manifestiamo “solo” contrarietà a singole opere, non proponiamo “solo” alternative per singoli territori, ma oggi ci riconosciamo come forza collettiva che esprime modelli di convivenza sociale ed ambientale diametralmente opposti a chi ci governa. Alla distruzione del territorio, alla corruzione, alla mancanza di democrazia, al patriarcato ed al razzismo noi contrapponiamo modelli di convivenza che si basino sul rispetto reciproco tra natura umana e non umana, tra provenienze geografiche e generi.

In tutto questo i cambiamenti climatici ci pongono davanti alla sfida urgente di pensare e agire insieme per costruire un modello diametralmente opposto a quello del sistema neoliberista basato sulla crescita infinita e sull’estrattivismo.

Spezzare il meccanismo perverso delle grandi opere non è un’urgenza tra le tante, nemmeno afferisce al solo ambito dell’ambientalismo. Questa è una sfida cruciale per tutte e tutti coloro che vogliono cambiare il clima politico generale di questo paese, per battere Salvini e, al tempo stesso, per non ritornare al passato.

Per questa ragione Venezia ha rappresentato la prima tappa di un percorso che vorremmo portasse ad una grande mobilitazione nazionale dei movimenti contro le grandi opere, per la giustizia ambientale e per i beni comuni. In questa idea non vi è nulla di scontato, ma sappiamo che la prima condizione per il suo successo è quello di dare vita ad un processo aperto e partecipato, in grado di accogliere realmente le tante istanze territoriali e di trasformarle in forza collettiva.

Per questo abbiamo scelto di non lanciare immediatamente una data di mobilitazione, ma di costruire alcuni appuntamenti intermedi, uno dei quali sarà in Val di Susa a breve.

Vogliamo così gettare le basi per un percorso che non si esaurisca in una data di mobilitazione ma sia capace di costruire l’alternativa di cui parliamo.

Nella intensa giornata di assemblea, i comitati veneti hanno espresso la volontà e la necessità, a partire dal movimento No Pfas, di riunire e intrecciare le lotte regionali che si battono in diversa forma per il bene comune, per costruire una giornata di mobilitazione comune da fare a Venezia per puntare il dito contro il sistema che da Galan a Zaia ha permesso la devastazione e il biocidio nel nostro territorio.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Riferimenti

Sull'assemblea si legga anche "Ambiente e democrazia. A Venezia si sono riuniti i movimenti contro le grandi opere per la giustizia climatica" di Riccardo Bottazzo su ecomagazine.

Sul sito Nograndinavi l'appello dell'assemblea di Venezia del 30 settembre con l'elenco dei comitati e movimenti che hanno aderito.
Sul programma e obiettivi dell'assemblea nazionale che si terrà a Firenze il 6-7 ottobre si veda il sito di notavfirenze.
In merito a questo percorso si consiglia l'articolo scritto per eddyburg di Paolo Baldeschi "Politica e grandi opere inutili".

comune-info, 17 settembre 2018. Il più grande aeroporto dell'emisfero occidentale alla 'consultazione popolare', ma che valore ha questo strumento quando non tutte le informazioni necessarie per prendere una decisione ragionata sono condivise? (i.b.)

"È assai probabile che il nuovo governo di Andrés Manuel López Obrador decida di sottoporre la prosecuzione dei lavori di costruzione del mega-aeroporto di Città del Messico, che avrebbe un impatto devastante sul suolo, l’acqua e l’aria della capitale, a una consultazione nazionale vincolante. Siamo talmente abituati all’arbitrio assoluto di poteri politici ed economici dispotici che la prima reazione di chi legge una notizia del genere non può che essere positiva. Gustavo Esteva ci spiega invece, in modo oltremodo convincente, perché non è così. La democrazia plebiscitaria può provocare disastri se tutti non hanno accesso alle informazioni indispensabili. Si crea l’illusione che la gente prenda nelle proprie mani importanti decisioni di governo, mentre non fa altro che ballare al ritmo di una musica suonata da altri. Avrebbe senso che tutte e tutti i messicani partecipassero a questa consultazione se il quesito venisse posto in termini corrispondenti ai loro interessi e all’informazione di cui dispongono. Si dovrebbe decidere, per esempio, se dedicare considerevoli risorse pubbliche all’aeroporto più fantasioso, più grande e capriccioso del mondo, oppure alle molte altre opere necessarie, come scuole e ospedali"

La settimana comincia male se al lunedì ti impiccano. Oppure ti danno la possibilità di scegliere se essere impiccato lunedì o venerdì.

La consultazione vincolante relativa alla costruzione del Nuovo Aeroporto di Città del Messico potrebbe essere la prima delle grandi decisioni del nuovo governo, che ha cominciato a governare il primo di luglio, con l’intensificarsi dell’abbandono delle funzioni di governo dell’attuale amministrazione, iniziato molto prima. Ma questa sarebbe una delle sue prime decisioni importanti. Così come è impostata, è un pessimo modo per iniziare la gestione.

Raúl Zibechi ha inquadrato correttamente consultazioni e plebisciti (“Plebiscitos y movimientos antisistémicos”, La Jornada, 31/8/18). Sono diventati di moda e possono essere utili strumenti di lotta, nel contesto molto limitato della democrazia rappresentativa, ma sono anche molto rischiosi. Creano l’illusione che la gente prenda nelle proprie mani importanti decisioni di governo, mentre non fa altro che ballare al ritmo di una musica suonata da altri. Tutto dipende da ciò che è sottoposto a consultazione e dal modo in cui la consultazione viene fatta, il che dipende dal governo.

La California e la Svizzera sono i paesi che più utilizzano la procedura. L’esperienza è ambigua. Sembra utile la consultazione che ha permesso agli svizzeri di limitare i salari dei dirigenti delle grandi imprese, ma ormai solo il 40% della popolazione risponde alla chiamata. Anche i votanti della California sono stufi. Nel mese di novembre del 2016 hanno dovuto rispondere a più di 30 domande su questioni locali, regionali e statali. Quelli che l’hanno fatto in maniera responsabile da casa loro, votando per posta, hanno dovuto dedicarvi diverse ore. In molti casi non sapevano che cosa pensare; dovevano decidere su cose che non conoscevano, e quindi reagivano emotivamente, non sulla base di argomentazioni ben fondate. Hanno ormai la sensazione che le consultazioni chiedano loro di assumersi i compiti tecnici per i quali hanno eletto un funzionario.

Dobbiamo discutere seriamente sul valore della consultazione vincolante. I popoli originari devono essere consultati in tutto ciò che li riguarda, specialmente quando sono in gioco i loro territori. In questo caso è importante prestare attenzione alle condizioni in cui si compie la consultazione. Anche in altri casi la consultazione può essere utile. Ma lo strumento deve essere utilizzato con cura. Può essere non solo inutile, ma anche controproducente.

Non è sensato sottoporre a una consultazione nazionale la decisione sull’ubicazione dell’aeroporto; sarebbe impossibile che tutta la gente possa avere accesso alle informazioni che permetterebbero di mettere a confronto in maniera adeguata il progetto in corso con l’ubicazione a Santa Lucía (ndt – Base militare a ovest di Città del Messico). Avrebbe senso che tutte e tutti i messicani partecipassero a questa consultazione se il quesito venisse posto in termini corrispondenti ai loro interessi e all’informazione di cui dispongono, come quelli recentemente proposti dal nuovo titolare del Ministero delle Comunicazioni e dei Trasporti. Si dovrebbe decidere se dedicare considerevoli risorse pubbliche all’aeroporto più fantasioso, più grande e più capriccioso del mondo, oppure ad opere necessarie, come scuole e ospedali (La Jornada, 7/9/18).

Perché la gente si pronunci in base a un’informazione adeguata, dovrebbe risultare chiaramente dal quesito che il nuovo aeroporto avrebbe un impatto devastante sul suolo, l’acqua e l’aria di Città del Messico, sia per la costruzione stessa che per il continuo aumento del traffico aereo, altamente inquinante. Dovrebbe inoltre essere chiaro che si danneggerebbero gravemente i territori e le condizioni di vita di molte comunità della zona. Che ci sarebbe un impatto negativo sulla vita di tutti gli abitanti dell’area metropolitana. Per tutti questi motivi, la consultazione deve offrire la possibilità di dire di no.

La cosa più importante sarebbe presentare con chiarezza le opzioni. Tutti possono capire che invece di continuare a concentrare il traffico aereo in Città del Messico bisogna allontanarlo da lì. È possibile fornire informazioni su come sarebbe facile e a buon mercato far questo, se gli interessi della gente contassero più di quelli delle grandi imprese. Non ha senso che quelli che volano da una città all’altra del paese debbano passare per la capitale, ad esempio che debbano passare di qui quelli che vanno da Oaxaca a Tuxtla. È irrazionale che si mantenga sottoutilizzato il sistema aeroportuale metropolitano, che collega gli aeroporti di Cuernavaca, Puebla, Querétaro e Toluca con la capitale, il cui utilizzo potrebbe ridurre almeno di un quinto i voli attuali per Città del Messico. Per decidere, la gente dovrebbe sapere che a fronte degli ingegneri e delle grandi imprese che si pronunciano a favore del progetto in corso, molti altri esperti lo criticano per fondati motivi. Dovrebbe anche sapere che meno del 2 per cento degli abitanti di Città del Messico usa il trasporto aereo.

Il nuovo governo deve ripensare la sua proposta. Partire con un esercizio ingannevole e ciecamente autoritario è un pessimo modo di iniziare un’avventura che vuole essere democratica. Se ha già deciso di sottoporre la decisione a una consultazione, deve ripensare la sua formulazione.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.

I comitati che si oppongono alle opere, grandi, inutili e dannose, si riuniranno prima a Venezia il 29 settembre e poi di seguito a Firenze il 6 e 7 ottobre, per condividere conoscenze e consolidare alleanze. Segue

I comitati che si oppongono alle opere, grandi, inutili e dannose, si riuniranno prima a Venezia il 29 settembre e poi di seguito a Firenze il 6 e 7 ottobre, per condividere conoscenze e consolidare alleanze. E’ scontato che movimenti come quello No Tav della Val di Susa o il Coordinamento dei comitati della piana fiorentina-pratese e molti altri, abbiano già una forte valenza politica, tuttavia, per lo più, locale e individuale; ma ora che la battaglia si sta trasferendo ai “piani alti” del potere, anche a seguito degli impegni elettorali del Movimento 5 Stelle, vi è consapevolezza che le lotte in corso dei tanti gruppi che difendono non solo il loro territorio ma il territorio di tutti, debbano acquisire una dimensione politica più generale.

La lotta contro le grandi opere inutili, tenacemente volute dal Pd e da Fi, rappresentanti degli interessi di banche e imprese costruttrici, prigionieri di una coazione ripetitiva che vuole traffici sovrastimati e costi sottostimati contro ogni evidenza economica e di buon senso, non può avere una valenza soltanto negativa e, di fatto, molte idee in proposito sono state avanzate e talvolta fatte proprie dai movimenti. Prima fra tutte la proposta di una grande opera (questa sì) di risanamento del territorio, a partire dal contenimento del rischio sismico e idrogeologico, all’interno di uno scenario in cui la cura dell’ambiente e del paesaggio prenda il posto di uno sfruttamento miope e distruttivo, che ha l’aggravante di non portare alcun vantaggio economico se non ai suoi promotori.

Questo scenario e la sua realizzabilità è stata più volte argomentata in varie sedi, tra cui eddyburg, e non occorre tornarci sopra, se non per notare che il “Contratto per il governo del cambiamento”, siglato tra Movimento 5S e Lega, prevede “una serie di interventi diffusi in chiave preventiva di manutenzione ordinaria e straordinaria del suolo, anche come volano di spesa virtuosa e di creazione di lavoro, a partire dalle zone terremotate…” e azioni di prevenzione che comportino interventi diffusi di manutenzione ordinaria e straordinaria del suolo su aree ad alto rischio, oltre … interventi di mitigazione del rischio idrogeologico. (Contratto, paragrafo 5).

Tuttavia, la manutenzione e la cura del territorio, per quanto possano essere utili, non sono ancora sufficienti a delineare una vera e propria alternativa politica. La vera novità sarebbe porre l’ambiente (e il paesaggio) al centro di un programma che porti l’Italia sulla linea dei paesi che stanno riconvertendo il proprio apparato produttivo verso settori economicamente e socialmente più avanzati, un programma che, tra l’altro, sia all’altezza delle sfide poste dal cambiamento climatico. Qui non si tratta di fuoriuscire dal capitalismo, ma semplicemente di non seguire pedissequamente la vulgata neoliberistica – riforme strutturali intese come compressione dei salari e diritti dei lavoratori, privatizzazione delle risorse pubbliche, deregolamentazione del mercato, attacco al welfare, ecc. – il tutto condito da corruzione e inefficienza.

Ambiente e territorio, come un patrimonio centrale per la qualità della vita, costituiscono perciò il lato materiale di una politica cui deve corrispondere una controparte culturale e sociale all’altezza: l’una componente tiene l’altra e entrambe sono reciprocamente necessarie. La cura del territorio e la centralità dell’ambiente non hanno bisogno solo di strumenti e risorse finanziarie, ma di creatività e imprenditorialità che, a loro volta, richiedono conoscenze specifiche e innovative. Richiedono, perciò, investimenti nella scuola, nell’università, nella ricerca, oltre che una riorganizzazione dell’intero sistema dell’istruzione.

A questo proposito, i dati del rapporto Ocse Education at a glance del 2017 che riguardano il nostro paese sono sconfortanti. In Italia, solo l’1% del Pil è destinato alla formazione di terzo livello, due terzi della media europea; non vi è da stupirsi, perciò, che la percentuale dei nostri laureati sia tra la più bassa dei paesi Ocse (il 18% - peggio di noi fa solo il Messico), contro il 37% di media; e se i giovani (25-34 anni) fanno un po’ meglio con il 26% di titoli universitari, siamo ancora ben lontani dalla media Ocse (43%): Coerentemente (nel peggio), la spesa pubblica dell'Italia per l'istruzione (nel 2014) è stata pari al 7,1% di quella totale, all’ultimo posto tra i paesi Ocse.

La dimensione politica dei movimenti contro le grandi opere, trascende perciò il qui ed ora e la settorialità, anche se le lotte in corso ne costituiscono il propellente e il “nocciolo caldo”. La dimensione politica reclama a sua volta una politica alternativa a livello centrale, qui sta il vero cambiamento e su questo si dovranno misurare i programmi di governo se non vogliono rimanere solamente un flatus vocis di promesse elettorali.

Il programma completo delle mobilitazioni che si terranno a Venezia il 29-30 settembre 2018, organizzate dal Comitato NOGrandiNavi – Laguna Bene Comune.


PROGRAMMA DELLE MOBILITAZIONI
CONTRO LE GRANDI NAVI E LE GRANDI OPERE



Sabato 22 settembre 2018, ore 18.00
Pescheria-Rialto, Venezia
Assemblea pubblica per fare il punto sulle grandi navi e per costruire assieme le giornate di mobilitazione.








Sabato 29 settembre 2018, ore 15.00
S.a.l.e. docks (magazzini del sale), Dorsoduro 265, Venezia
Assemblea nazionale dei comitati e movimenti contro le grandi opere, per la giustizia ambientale
Qui link all'appello.



Domenica 30 settembre 2018, dalle 15.30

Zattere, Venezia
Manifestazione, giochi d’acqua contro le grandi navi da crociera. Una grande festa per il rispetto della nostra laguna e della nostra città.
Partecipazione con ogni tipo d’imbarcazione; barche a motore a remi a vela, canoe, kayak, pedalò, etc.
Per chi viene senza barca appuntamento alle Zattere dalle ore 16 in poi al presidio, dove si trovano vari gazebi con materiali vari e punti di ristoro.
Per chi viene in barca appuntamento di fronte villa heriot giudecca alle ore 15.30.
La parata di barche partirà da villa heriot e raggiungerà il presidio all'altezza delle zattere dove saranno allestiti degli ormeggi galleggianti per garantire momenti di pausa ai vogatori e dei punti di ristoro in acqua.

Qui il testo dell'Appello per l'assemblea nazionale dei comitati contro le grandi opere e per la giustizia ambientale, che si terrà il 29 settembre 2018, ore 15.00 a Venezia. Per difendere i nostri territori da opere inutili e ambientalmente devastanti e da governi irresponsabili, ciechi e mascalzoni.



Invito Assemblea Nazionale

29 settembre 2018, h. 15.00
S.a.L.E. Docks (Magazzini del Sale), Dorsoduro 265, Venezia
Il balbettio sul TAV del nostro Ministro delle infrastrutture secondo cui l'opera andrebbe ora "migliorata" e non più cancellata, la visita in Azerbaijan di Mattarella e Moavero Milanesi per "blindare" il TAP, le recenti dichiarazioni dello stesso Toninelli sulla necessità di mantenere le grandi navi in laguna dimostrano che, in merito a grandi opere e giustizia ambientale, il governo del cambiamento è in realtà il governo della continuità.

Il fatto è ancora più grave se pensiamo a quanto il Movimento 5 Stelle abbia politicamente lucrato, in campagna elettorale, sulla contrarietà di tante e tanti nei confronti di un modello di sviluppo che calpesta i territori, rapace e generatore di malaffare. A proposito, anche sul MOSE (opera obsoleta che è già costata alle nostre tasche oltre 5 miliardi, "bruciandone" uno e mezzo in corruzione) la solfa del Ministro è la solita: "Noi l'opera non l'avremmo fatta, ma adesso che c'è non può essere messa in discussione".

E così la giostra continua a girare, del resto a Genova non è crollato "solo" un ponte, quel fatto ci interroga tragicamente sul crollo di una stagione di sviluppo territoriale neoliberista che trascina con sé anche quei pezzi di paese che sono stati costruiti prima degli anni '70, è il caso del "Ponte Morandi". Una stagione fatta di cementificazione e consorterie, secondo uno schema che si è affermato diventando sistema, al sud come al nord, ad ovest come ad est. Dobbiamo continuare ad insistere: prima di grandi investimenti infrastrutturali, un serio lavoro di messa in sicurezza dei territori è necessario. Ancora una volta, in questa battaglia non ci sono governi amici.

Se ci cimentassimo (come va di moda in questo periodo) in un'analisi costi/benefici dell'azione di governo svolta sinora, diremmo che i benefici sono andati tutti a Salvini, a noi rimangono i costi, non solo in termini di sfacelo ambientale, ma anche in termini di clima sociale che si respira nel paese.

Vorremmo cogliere l'occasione dell'assemblea veneziana per confrontarci anche su questo aspetto. I comitati e i movimenti per la giustizia ambientale sono oggi tra gli esempi migliori di resistenza contro la presa del discorso reazionario, contro il nazionalismo e l'incitamento alla guerra tra poveri, una guerra utilizzata come arma di distrazione di massa, mentre imperterrita continua la rapina dei nostri territori. Una rapina che, guarda caso, in Veneto è proprio a trazione leghista.

Al contrario, i territori dei comitati e dei movimenti per la giustizia ambientale non sono segnati dalla paura, non chiedono la guida dell'uomo forte, rigettano la tentazione identitaria. Le nostre identità le abbiamo costruite nel corso di anni di lotta, rinforzando il legame sociale contro il primato dei rancori individuali, pretendendo democrazia contro il binomio sicurezza/repressione, costruendo con i territori un rapporto di reciproca rigenerazione e non di unilaterale estrazione.

Attorno a questa forza vogliamo aprire un dialogo, senza l'ansia della costruzione di strutture formali, ma con la convinzione di dover rinforzare l'azione comune. Possediamo un patrimonio di forza che dobbiamo ancora esprimere pienamente, abbiamo la possibilità di farlo. Bisogna scegliere se assumersi collettivamente la responsabilità di fare un passo in più rispetto al già importante lavoro che quotidianamente portiamo avanti.

Sullo sfondo dell'attuale situazione politica, il valore dei comitati emerge con ancora maggiore chiarezza, un valore che va ben oltre i confini dei singoli territori. Al tempo stesso il prevedibile voltafaccia del governo dimostra che non si vince la battaglia contro le grandi opere se non dentro la lotta per una radicale e complessiva svolta democratica che investa il piano economico, politico, sociale e culturale.

Ripartiamo da qui! Incontriamoci a Venezia.

Hanno già comunicato la partecipazione:

Movimento NoTav
Movimento NoMuos
Movimento No Tap
No Tav terzo valico Alessandria
Stop Biocidio Napoli
Terre in Moto Marche
No Dal Molin Vicenza
Comunità Salviamo la Val D'Astico - NO A31
Comitato No Pedemontana
Opzione Zero
Ambiente Venezia
Eco-Magazine
COBAS Scuola del Veneto
Assemblea permanente contro il rischio chimico Marghera
Associazione Eddyburg
Movimento Salviamo le Apuane
Medicina Democratica Onlus
Città Plurale - Matera
Trivelle Zero Molise
No Hub del Gas Molise
Fondazione "Lorenzo Milani" Onlus Termoli
Comitato No Tunnel TAV di Firenze
PCI federazione di Venezia e Treviso
Comitato Diritto alla Città di Rovigo
Comitato popolare Lasciateci Respirare Monselice
Comitato Acqua Bene Comune Belluno
Associazione Medici di Famiglia per l'Ambiente di Frosinone e provincia
Associazione Ya Basta Edi Bese
Adl Cobas
Comitato No Terza Corsia A13 Padova – Monselice

Per adesioni scrivere a nobigship@gmail.com

comune-info, 16 settembre 2018. Cinque governi hanno ignorato la volontà popolare di pubblicizzare l'acqua. Una delle stelle dei 5S è proprio l'acqua, ma passi concreti non ci sono. Occorre riprendere con forza la lotta per la difesa di questo bene comune. Con riferimenti (i.b.)

Questi sette anni dalla vittoria referendaria (2011) sono stati molto duri e deprimenti per chi si è impegnato per la gestione pubblica dell’acqua. Ben cinque governi si sono succeduti in questi sette anni (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni) senza tener conto del risultato referendario. Eppure il popolo italiano aveva deciso a larga maggioranza che l’acqua doveva uscire dal mercato e che non si poteva fare profitto sull’acqua. Una chiara riprova questa che la politica non obbedisce al volere popolare, ma è prigioniera dei poteri economico-finanziari. Inutili anche tutti i tentativi fatti per far discutere in Parlamento la Legge di iniziativa popolare sull’acqua che aveva ottenuto quasi un milione di firme. Questa Legge stravolta è rimasta intrappolata nella Commissione Ambiente presieduta da Realacci (PD) e mai discussa poi in Parlamento. Ma anche i Cinque Stelle, la cui prima Stella fu la gestione pubblica dell’acqua, non sono riusciti a regalarcela in città pentastellate come Roma, Torino e Livorno. L’unica grande città italiana che ha obbedito al Referendum è ancora Napoli.
Nonostante tutto questo il movimento italiano dell’acqua ha continuato a resistere in maniera carsica sui territori. Siamo grati ai comitati locali e ai coordinamenti per la gestione pubblica dell’acqua perché nonostante tutto sono stati capaci di continuare a resistere. Ma ora mi sembra di percepire un’inversione di tendenza. L’ho percepita quando sono stato invitato a Brescia a lanciare il Referendum Provinciale per bloccare la vendita ai privati dell’acqua che, a Brescia, è al 100% pubblica. Il comitato dell’acqua, guidato da uomini impegnati come Marco Apostoli, si è opposto a questo ed ha forzato la Provincia, con l’appoggio di 54 consigli comunali, a indire un Referendum che si terrà il 18 novembre.

L’idea è stata subito ripresa dal comitato acqua di Benevento che ha lanciato un Referendum Comunale per bloccare la vendita di quote acqua ai privati. Altri comitati stanno pensando di seguire questa strada. Un’altra spinta all’impegno ci è venuta dall’incontro a Napoli del 12 giugno (settimo anniversario del Referendum!) organizzato dall’Università Federico II, su spinta del prof. A. Lucarelli. Vi ha partecipato anche il Presidente della Camera, Roberto Fico, che nel suo intervento ha promesso di modificare la normativa e i modelli di regolazione del servizio idrico integrato per ristabilire il ruolo centrale dei comuni e l’uscita dal mercato dell’acqua. Il 30 luglio poi ha convocato alla Camera le realtà di base afferenti al Forum dei movimenti italiani per la gestione pubblica dell’acqua e ha poi promesso che avrebbe introdotto in Parlamento, a settembre, una legge che rispetti il Referendum del 2011. I partecipanti hanno ricordato a Fico che il movimento dell’acqua ha sempre sostenuto che si scrive acqua , ma si legge democrazia.

Per questo non possiamo accettare le politiche razziste del governo giallo-verde, perché il concetto stesso di acqua come bene comune sottintende una società basata sui valori della solidarietà e dell’accoglienza e quindi contro il razzismo e la xenofobia. Ma per essere credibile nelle sua volontà di ripubblicizzazione dell’acqua, il movimento 5 stelle dovrà sottrarre immediatamente i poteri di controllo sull’acqua ad Arera, autorità che ha come fine la gestione dell’acqua nel mercato, per restituirli al Ministero dell’Ambiente. Inoltre dovrà intervenire subito con una modifica delle norme introdotte dai governi a trazione PD nel Testo Unico Ambiente per restituire il governo del sistema idrico alle amministrazioni locali. Questi provvedimenti possono e devono essere fatti subito dal governo, con decreti legge, senza aspettare la conclusione dell’iter di approvazione della legge sull’acqua.

Su questi punti non possiamo che valutare come deludente finora l’azione del Ministro dell’Ambiente Costa che addirittura in una recente intervista televisiva si è chiamato fuori dalla vicenda affermando che “non è importante la gestione pubblica o privata, ma la qualità del servizio”. Per questo il Forum dei Movimenti per la gestione pubblica dell’acqua deve premere con più forza per ottenere un nostro diritto fondamentale: la gestione pubblica dell’acqua. Ma il Movimento nazionale ha bisogno anche di vittorie locali trasformando le gestioni SPA di Torino, Reggio Emilia, Trento, città dove l’acqua è al 100% pubblica, in gestioni Azienda Speciale, con cui non si può fare profitto, ma solo utili da investire sul bene acqua.

Mi appello soprattutto alle comunità cristiane, alle parrocchie perché rafforzino ancora di più questo impegno sull’acqua. Papa Francesco ha dedicato il suo messaggio per la Giornata del Creato 2018 all’acqua :” Ogni privatizzazione del bene naturale dell’acqua- sostiene Papa Francesco- che vada a scapito del diritto umano di potervi accedere, è inaccettabile.” Si tratta davvero di vita o di morte per miliardi di impoveriti che già oggi hanno difficile accesso all’acqua (‘ diritto umano essenziale, fondamentale e universale’ secondo Papa Francesco) e l’avranno sempre meno per i cambiamenti climatici in atto. Diamoci da fare tutti, credenti e laici, per una gestione pubblica dell’acqua, partendo da questo nostro paese. L’Italia diventi un esempio per tutti.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile

Riferimenti

Sulla prevaricazione del voto popolare espresso con il Referendum per l'acqua pubblica si vedano anche i seguenti articoli: "Acqua pubblica, un referendum da applicare", un intervista al portavoce del Forum italiano dei movimenti per l’acqua; "Acqua pubblica, il referendum è stato del tutto inutile" di Sergio Marotta; l'appello al Presidente Mattarella "Acqua pubblica. Lo scandalo costituzionale".



il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2018. L'ex ministro che incarna perfettamente il "sistema Veneto": grandi opere e profitti privati pagati da noi tutti. (m.p.r.)

Sul blog di Paolo Costa campeggia una bella citazione di Jorge Luis Borges: “A quel tempo, cercavo i tramonti, i sobborghi e l’infelicità; ora, i mattini, il centro e la serenità”. La serenità di Costa non è letteraria ma ha solide radici nel cemento, nel ferro e in tutto quello che sa di costruzione e Grandi opere.

Se negli ultimi giorni è finito sotto i riflettori per la sua presidenza della Spea Engineering, società del gruppo Atlantia, cioè Autostrade per l’Italia, incaricata della progettazione, monitoraggio e manutenzione delle infrastrutture stradali, è in virtù non solo di un curriculum ma di una strutturale dedizione alle Grandi opere.

Nel 1996 diventa ministro dei Lavori pubblici nel primo governo Prodi dopo le dimissioni di Antonio Di Pietro raggiunto dall’avviso di garanzia della Procura di Brescia. Da lì inizia una carriera politica che fa impallidire quella accademica. Costa, classe 1943, era Rettore dell’Università di Venezia, Ca’ Foscari, poi vicepresidente dell’Università delle Nazioni Unite a Tokyo. Ma con Romano Prodi, ai Lavori pubblici, diventa il “padre” della privatizzazione di Autostrade, quella della proroga ventennale della concessione (contestata dalla Corte dei Conti ma poi avallata dalla Commissione europea) e degli aumenti tariffari automatici.

Solo che il governo Prodi cade, Costa lascia e nel giro di un anno segue l’ex premier nell’avventura politica dell’Asinello, la lista che il fondatore dell’Ulivo promuove per fare concorrenza alla sinistra. Viene eletto e rimarrà nel Parlamento europeo per dieci anni, fino al 2009 dove va a presiedere la commissione Trasporti partecipando alle decisioni fondamentali sulle grandi reti di trasporto europeo a partire dal Corridoio 5, quello che fa rima con Tav: “Una grande occasione offerta al nostro Paese”.

Nel frattempo, siamo nel 2000, la sua carriera compie ancora un salto, con l’elezione a sindaco di Venezia. Batte un concorrente di peso del centrodestra, Renato Brunetta, e inaugura una gestione di centrosinistra che ha tra le prime misure la vendita delle azioni nell’autostrada Brescia-Padova. Come è accaduto con la Società Autostrade, l’obiettivo è quello di fare cassa.

Da sindaco e da presidente della commissione Trasporti europea sponsorizza anche il Ponte sullo Stretto, inserito nella lista delle 30 opere prioritarie della rete transeuropea (Ten). Ma per uno che ha già quel curriculum alle spalle, l’operazione più succulenta si chiama Mose. La sua richiesta di una soluzione “per l’acqua alta” a Venezia viene accolta dal governo Berlusconi con le improbabili bocche meccaniche dal dubbio funzionamento. In compenso funzionano le mazzette e la vicenda si conclude con condanne in primo grado (tra cui il ministro di Berlusconi, Altero Matteoli) e qualche prescrizione (a salvarsi sarà un successore di Costa, Giorgio Orsoni che viene prosciolto nonostante avesse chiesto il patteggiamento).

Avendo avviato il Mose, Costa viene ovviamente premiato. Guarda caso dall’ex ministro del governo Berlusconi, Altero Matteoli, che lo insedia a presidente dell’Autorità portuale di Venezia. A esultare per la scelta sarà il suo ex avversario alla guida della città, nonché berlusconiano di ferro, Renato Brunetta: “Era la scelta migliore possibile”.

Da presidente del porto si contraddistingue per proposte incisive a proposito delle grandi navi che solcano le acque antistanti piazza San Marco: “’La mia proposta è quella di realizzare una sorta di senso unico”. E quando Celentano, che si batte contro lo scempio dei transatlantici in Laguna protesta, lui risponde serafico: “Come penso che qualcuno troverebbe da ridire se fossi io a commentare le tonalità delle canzoni di Celentano, così mi permetto di suggerirgli di non commentare temi che forse non conosce a fondo”.

Su costruzioni e Grandi opere, in realtà, destra e sinistra cantano insieme e quando da sindaco di Venezia deve promuovere il Mose e a capo del governo c’è Silvio Berlusconi, invoca “lo spirito di leale collaborazione tra poteri”. Ricambiato dagli avversari.

Lo scorso anno, l’attuale sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, berlusconiano indipendente, lo coopta nel Consiglio generale della Fondazione Venezia, la struttura di potere di derivazione bancaria che ha azioni di Intesa San Paolo, della Cassa Depositi e Prestiti e di Veneto Banca. Come direbbe Borges, “i mattini, il centro e la serenità”.

il manifesto, 31 agosto 2018. Il sistema di potere veneto sostenitore delle grandi opere, per nulla scalfito persegue i suoi obiettivi: fare affari sulla pelle dei contribuenti e facendo scempio del territorio. Con riferimenti (m.p.r.)

«Summit leghista. Il ministro rassicura il governatore, anche sulle Grandi navi: "Non si possono mettere a rischio migliaia di posti di lavoro e centinaia di milioni di euro di indotto proveniente da milioni di turisti che portano ricchezza”»

Scuola Grande di San Rocco blindata per il “summit leghista” fra il governatore Luca Zaia e il vicepremier Matteo Salvini per la Pedemontana Veneta e per «dare un seguito al plebiscito per l’Autonomia». Gli attivisti dei centri sociali hanno srotolato un grande striscione («Salvini Not Welcome») dal ponte di Rialto e occupato il pontile di palazzo Balbi, dichiarandolo «chiuso al razzismo».

In diretta Fb, Zaia incassa la firma collettiva al nuovo Protocollo di legalità con cui anche imprese e sindacati si impegnano a garantire cantieri “trasparenti” per 2,2 miliardi di euro. La Pedemontana, un’altra delle Grandi Opere avversata dal M5S per l’impatto ambientale, attraversa in 94 chilometri e 16 caselli il territorio di 36 Comuni, dal Vicentino alla provincia di Treviso. Il primo tratto Breganze-Marostica potrebbe essere inaugurato già fra due mesi.

«È un accordo di responsabilità in modo da allinearsi alle direttive nazionali e anti-corruzione per una lotta vera all’infiltrazione mafiosa e alla corruzione» afferma il governatore del Veneto, che ha investito 300 milioni nel progetto. «Al concessionario (la spagnola Sis,ndr) non andranno i pedaggi, che saranno invece incamerati dalla Regione, ma un canone di 153 milioni all’anno, sulla base di un flusso stimato in 24mila auto giornaliere».

Il capitano di palazzo Chigi si è, invece, sbilanciato sul futuro di Venezia e delle Grandi Navi. «Come governo ragioneremo sulla possibilità di individuare poteri speciali da assegnare a qualcuno che riassuma le competenze attualmente sparse negli uffici e abbia la responsabilità di tutelare questo gioiello di città» dichiara Salvini, che sembra aver messo nel mirino la legge speciale del 1973 sulla salvaguardia di Venezia, poi aggiornata nel 1992. «Non va messa sotto una teca. Deve restare a disposizione di tutti, tutelando però un patrimonio non solo dei veneziani, ma dell’Italia e del mondo».

Ancor più abbottonato sulle città galleggianti da crociera lungo il Canal Grande [sic]: «È evidente che Venezia va messa in sicurezza, ma anche che non si possono mettere a rischio migliaia di posti di lavoro e centinaia di milioni di euro di indotto proveniente da milioni di turisti che portano ricchezza. La soluzione si troverà…».

Così Salvini dribbla le ultime dichiarazioni del collega Danilo Toninelli, “corrette” da un comunicato ufficiale del Ministero infrastrutture e trasporti che tuttavia non ha placato le polemiche con Comune e Porto di Venezia. Il 7 settembre in sala San Lorenzo a Castello è in programma l’assemblea del Comitato No Grandi Navi, in vista della manifestazione con “giochi d’acqua” in programma il 30 settembre nel canale della Giudecca.

A Venezia, però, resta tabù il Mose (che costerà 80-100 milioni all’anno di sola manutenzione…). Una cappa di silenzio è calata sul Consorzio Venezia Nuova, commissariato dopo l’inchiesta della Procura e “attenzionato” da Raffaele Cantone. Eppure Comar scarl, che tuttora segue i lavori nelle 78 paratoie mobili, si è già affidata all’ingegner Alberto Borghi: nome connesso con Hmr, società dell’ex direttore Cvn Hermes Redi.

E non basta, perché proprio Borghi – con l’amministratore straordinario Francesco Ossola e il direttore Giovanni Zarotti – a giugno ha perfezionato l’assunzione a tempo indeterminato di Marcello Zanonato, 61 anni, altro ingegnere padovano, come coordinatore della fase di avviamento del Mose. È il fratello di Flavio, padre-padrone del Pci-Pds-Ds padovano, per un ventennio sindaco, poi ministro dello sviluppo economico e attuale europarlamentare LeU. Nel curriculum dell’ingegner Zanonato spiccano i passaggi a Ecoware (società dell’economia green fallita nel 2013) e Milteni, sinonimo dell’inquinamento da Pfas dilagato da Trissino (Vicenza) fino alla pianura fra Verona e la Bassa padovana.

Coincidenze che alimentano l’allarme lanciato dalla petizione con cui si sollecita una Commissione parlamentare d’inchiesta sul Mose: «Nonostante le condanne dei processi per tangenti e l’intervento di Anac, permangono molte zone d’ombra che il sito ufficiale, che dovrebbe pubblicare tutti gli atti, non chiarisce. Il Consorzio Venezia Nuova pubblica solo 49 bandi di gara per un importo totale di poco più di 310 milioni a fronte dei 6.992.026.413 euro riportati nel bilancio 2017» denuncia l’imprenditore Giuliano Bastianello, che ha ricevuto il premio Giorgio Ambrosoli. È assegnato agli “esempi invisibili” di professionisti che si contraddistinguono nella difesa dello stato di diritto in contesti avversi.

riferimenti

Sulla stima ottimistica della Regione di 24.000 passaggi giornalieri si veda Pedemontana, il perchè delle stime sbagliate di Carlo Giacomini.
I comitati avevano tenacemente provato a contestare «l’iperviabilizzazione privata con soldi di noi tutti, devastatrice per il territorio e il bilancio», si legga a proposito Nuovo stop alla Pedemontana Veneta. 
“Resistere alla cementificazione di Federico Simonelli, e non erano mancate analisi di esperti che documentavano le distorsioni normative «al solo scopo di consentire al concessionario di ripagarsi l’opera che non regge con i soli ricavi da pedaggio» come quella di Anna Donati Grandi opere e consumo di suolo sempre su eddyburg, dove numerosi sono gli articoli sulla vicenda della Pedemontana raggiungibili facilmente con il "cerca".

il manifesto, 23 agosto 2018. La politica ignorante usa il crollo di Genova per rilanciare le grandi opere. Neanche i fatti, dati e rapporti scientifici, che esortano a un cambiamento del modello di mobilità e sviluppo, fanno ragionare la politica. (i.b. e m.p.r)

Invece di discutere utilità e rischi delle Grandi opere, il crollo del ponte Morandi - uno dei tanti gigantismi che ha fatto del ‘900 “il secolo dell’automobile” - sembra averlo chiuso: per lo meno nel mondo politico e sui media: occorre farle tutte e subito, il Tav, il terzo Valico, il Tap, le autostrade, il ponte sullo stretto, prima di un altro ripensamento. «La competizione internazionale lo esige», «Il progresso non si può fermare», «Non ci si può opporre alla modernità», «Vogliamo tornare al medioevo?».

Difficilmente troverete sulla bocca dei politici o nei commenti della stampa qualche argomentazione meno vacua di queste. Ma siamo sicuri che la modernità, qualsiasi cosa si intenda con quel termine, sia proprio questo? Che il progresso debba portarci necessariamente verso la moltiplicazione dei disastri (e verso quello che li ricomprende tutti: un cambiamento climatico irreversibile)? E che l’unica regola che deve governare il mondo, e le nostre vite, sia la competizione e non la cooperazione?

Un recente saggio, chiaro e sintetico, di Sergio Bologna, uno dei pochi esperti capace di un approccio intermodale ai temi del trasporto - sul sito di Officina dei saperi - mette una pietra tombale su tutte le Grandi opere. L’Italia non ha bisogno di nuove grandi infrastrutture di trasporto; ne ha già persino troppe. Quello che manca è la capacità di utilizzarle a fondo; mancano le competenze logistiche e gli operatori per accorpare e smistare i carichi utilizzando al meglio i mezzi e le infrastrutture a disposizione. Oltre, ovviamente, agli interventi per rendere operative le interconnessioni modali.

Promuovere quelle competenze è un compito che dovrebbe tenere impegnati per anni Associazioni di categoria, Camere di commercio, Enti locali, Ministeri (non solo quello delle Infrastrutture), Università e Istituti di ricerca. E potrebbe creare decine, se non centinaia, di migliaia di posti di lavoro qualificati al posto delle poche migliaia di addetti impiegati nella costruzione delle tante Grandi opere inutili e dannose.

Sono le competenze necessarie anche per promuovere il passaggio del trasporto merci dalla strada alla ferrovia (o alle autostrade del mare). Un passaggio di cui Sergio Bologna riconosce le potenzialità, ma su cui rimane scettico, soprattutto perché un sistema produttivo frammentato come quello italiano ha mille motivi per preferire il trasporto su strada; motivi che non sono solo quelli indicati in quel saggio. Il trasporto su strada da impresa a impresa è più flessibile di quello su ferrovia o di cabotaggio perché non richiede la composizione e la scomposizione di carichi molto complessi (ma richiede comunque la rottura dei carichi quando le merci arrivano in città, dove i tir non possono entrare, e dove occorre comunque ricorrere a sistemi di city-logisticfinale più o meno organizzati). Ma è più flessibile anche perché si regge su una organizzazione del lavoro che sfrutta a fondo i trasportatori.

Difficilmente una piccola impresa si rivolge direttamente a un camionista per spedire il suo carico. C’è quasi sempre l’intermediazione di uno spedizioniere, che sono per lo più grandi imprese multinazionali, che a loro volta subappaltano il servizio a uno spedizioniere più piccolo, e questi a un altro, fino a raggiungere i “padroncini” proprietari di uno o di qualche camion e autisti loro stessi: operatori che spesso non rispettano gli standard sulla sicurezza del veicolo, né quelli sulle ore e le modalità di guida, né quelli tariffari (per di più, con un ingresso crescente di operatori e di autisti dell’est europeo, ancora meno controllabili, che lavorano però per spedizionieri italiani o dell’europa occidentale). Insomma, l’intermediazione dei carichi c’è già, ma la fanno i grandi spedizionieri che trovano più conveniente sfruttare a fondo il sistema attuale piuttosto che promuoverne il rinnovamento.

L’alternativa, in linea teorica, è semplice: bisognerebbe che sia gli utenti, cioè i produttori, che gli operatori del trasporto merci, cioè la moltitudine disperata dei trasportatori, si consorziassero, mettendo in piedi strutture in grado di organizzare i carichi complessi necessari all’utilizzo di un convoglio ferroviario. Non sarebbe, per i camionisti, un “tagliarsi l’erba sotto i piedi”; perché il trasporto ferroviario e il cabotaggio possono coprire solo alcuni, e solo una parte, dei tragitti che le merci devono compiere: molti itinerari e “l’ultimo miglio” (che per lo più di miglia ne include parecchie) dovrebbero comunque essere coperti con camion e furgoni. Invertire rotta richiederebbe un impegno politico e culturale che manca completamente a chi ha in mano le redini del paese: non solo le istituzioni pubbliche ma anche, e soprattutto, quelle imprenditoriali.

Si tratta in ogni caso di una prospettiva più realistica e praticabile dell’alternativa ventilata da Sergio Bologna: quella della riduzione dell’intensità di trasporto. Un obiettivo pienamente condivisibile, che costituisce un pilastro della conversione ecologica del sistema produttivo, ma che richiede ben più che il potenziamento delle competenze impegnate nella supply-chain, perché coincide con uno degli obiettivi centrali dell’approccio territorialista, anche se i suoi cultori si sono finora impegnati poco nell’affrontare la dimensione industriale del loro programma.

Per ridurre l'intensità di trasporto occorre rilocalizzare - e, quindi, spesso anche ridimensionare - una grande quantità di attività produttive oggi disperse ai quattro angoli del pianeta; ma anche promuovere, tra imprese e territori contigui, rapporti il più possibile diretti, fondati su accordi di programma che facciano da argine alle oscillazioni e alle turbolenze dei mercati. E per questo ci vuole un sistema di gestione delle imprese che veda coinvolti i rappresentanti degli enti locali, delle associazioni territoriali, delle università e dei centri di ricerca, oltre che, ovviamente, delle maestranze: cioè l’organizzazione della produzione come bene comune. insomma, un “socialismo” del ventunesimo secolo, ecologista e federalista; anche se il termine socialismo è sviante, perché è storicamente e culturalmente legato all’esatto opposto – produttivismo, gigantismo e centralismo – di ciò che oggi andrebbe perseguito.

il manifesto, 22 agosto 2018. «Disastro di Genova. La logica capitalistica è quella della remuneratività a breve degli investimenti». (m.p.r.)

Mi è parso strano, in questi giorni, che quasi nessuno si sia ricordato del disastro del Vajont (9 ottobre 1963; 1.910 morti). Anche quella era una meraviglia dell’italica genialità dell’ingegneria del cemento armato: la diga più alta del mondo, inaugurata pochi anni prima. Anche allora la società privata che la gestiva (la Sade) – e con lei tutte le autorità statali e le principali fonti di informazione – preferì ignorare gli allarmi pur di non interrompere la produzione e deprezzare i propri capitali. Ma potremmo citare centinaia di altri casi di tragedie provocate dal collasso di infrastrutture e impianti produttivi industriali.

Per non andare lontano da Genova pensiamo all’incendio della petroliera Haven (11 aprile 1991, 5 morti) e alla ThyssenKrupp (5 dicembre 2007; 5 morti). Certo, per ogni evento ci sono colpe soggettive rilevanti (anche se quasi mai davvero perseguite), ma c’è anche una logica comune che sottende il modus operandi di investitori, proprietari, gestori, autorità regolative e, più in generale, il pensiero moderno di sviluppo, progresso e prosperità. Pensiamoci per un istante.

E’ stato detto da un allievo dell’ing. Morandi, progettista del viadotto Polcevera, (intervista al docente Sylos Labini dell’Università La Sapienza, Il ponte Morandi è arte, il manifesto, 17 agosto) che il ponte è stato costruito in cemento armato tenendo conto «anche al rapporto costi-benefici (…). L’acciaio per l’economia italiana del periodo era proibitivo, i costi non avrebbero reso possibile la costruzione dei ponti». Ho letto e ascoltato basito che opere pubbliche come quelle in questione sono programmate per un tempo di vita predefinito di 50-60 anni. Ho pensato agli acquedotti romani e al ponte di Rialto e ho capito i differenti modi di concepire le attività umane delle diverse civiltà.

Ma pure ammettendo che la nostra civiltà super-accelerata, iperconsumistica e priva di senso del limite sia la più moderna e desiderata possibile, perché i suoi progettisti e i loro committenti e finanziatori non programmano anche le manutenzioni e il fine ciclo dell’opera preferendo invece spremere il limone fino a bucare la scorza? Mi è stato detto che per una grande impresa risarcire i danni di disastri è spesso più economico che modificare i propri piani produttivi. Non a caso uno dei motori di questo “sviluppo” sono le società di assicurazione. La logica che guida l’economia capitalistica è stata sempre quella della remuneratività a breve degli investimenti. Peccato che questi “utili” siano stati garantite ai Benetton e agli altri “capitani coraggiosi” dell’imprenditoria italiana dalle generose privatizzazioni e svendita del demanio dello Stato avviate dai governi dell’era iperliberista.

Permettetemi una antipatica autocitazione (Liberazione, 15 giugno 2006), quando Rifondazione Comunista tentò di bloccare le proroghe concesse dal ministro Di Pietro alle concessioni autostradali: «È del tutto evidente che le autostrade costituiscono un bene-servizio monopolistico naturale. Nessuno è libero di scegliere quale autostrada percorrere. Non è possibile creare alcuna concorrenza tra beni o servizi unici. Affidare a privati la loro gestione significa regalare una rendita di posizione. Per “controllarla” servirebbero regole, autorità di vigilanza, controlli… costosi, mai efficaci e, soprattutto, assolutamente inutili, solo se la loro proprietà rientrasse in uno schema di regole pubbliciste. È tempo di fare un bilancio “laico” delle privatizzazioni. È tempo di riproporre la ri-pubblicizzazione della proprietà di quei beni e di qui servizi che per ragioni di accessibilità universale garantita (quali l’acqua e l’energia) o per ragioni banalmente materiali, quali la scarsità e il posizionamento dei suoli, non potranno mai essere merce scambiabile in mercati davvero aperti e liberi…».

il manifesto, 19 agosto 2018. Lucida analisi delle devastanti conseguenze territoriali che hanno gli interessi legati al cemento e all'automobile, alla base delle politiche pubbliche e la necessità di cambiare radicalmente rotta. (a.b.)

Ai sostenitori senza se e senza ma delle Grandi opere, che nel crollo del ponte Morandi vedono solo l’occasione per recriminare la mancata realizzazione della Gronda, passaggio complementare e non alternativo al ponte crollato, va ricordato che anche quel ponte è (era) una «Grande opera»: dannosa per l’ambiente e per le comunità tra cui sorge e pericolosa per la vita e la salute di tutti. L’idea di piantare dei pilastri di 90 metri in mezzo a edifici abitati da centinaia di persone e di farvi passare sopra milioni di veicoli era e resta demenziale; come lo era e resta la sopraelevata che ha cancellato e devastato uno dei fronte-mare più belli e pregiati (forse il più bello e pregiato) del mondo: non a vantaggio di Genova, ma per fluidificare il traffico del turismo automobilistico delle Riviera di Levante, così come il ponte Morandi serviva a quello della Riviera di Ponente, negli anni “gloriosi” (?) della moltiplicazione delle automobili. Con la conseguenza che quei nastri di asfalto sono stati presi in ostaggio dal trasporto merci su gomma, per il quale non erano stati pensati, lasciando languire la ferrovia, tanto che la linea Genova-Ventimiglia (principale collegamento tra Italia e Francia e, se vogliamo, con Spagna e Portogallo; altro che Torino-Lione!) è ancor oggi a binario unico.

Un’invasione di campo, quella dei Tir, moltiplicata dalla successiva produzione just-in-time che li ha trasformati in magazzini semoventi, cosa impossibile se le autostrade non fossero state messe a loro completa disposizione e la ferrovia avesse mantenuto il primato che le spetta.

Da almeno 30 anni si sa che il cemento armato, specie se sottoposto a forti sollecitazioni come il passaggio di milioni di Tir ed esposto alla pioggia, al gelo, ai veleni delle emissioni, al sale antigelo, non dura più di cinquant’anni o poco più; e forse anche meno; ma nessuno, e meno che mai i fautori della Gronda, avevano programmato una data certa per la demolizione di quel ponte che oggi richiede anche la demolizione delle case sottostanti. E oggi si scopre che i ponti autostradali nelle stesse condizioni pre-crollo sono almeno 10mila in Italia; e altrettanti in Francia, Germania e in qualsiasi altro paese. Perché la grande “esplosione” automobilistica del miracolo economico, che doveva aprire le porte al futuro, al futuro proprio non guardava: né in Italia, paese orograficamente disadatto a quel mezzo, né in paesi ad esso più consoni.

Chiunque abbia anche solo ristrutturato il bagno di casa sa che costruire è (relativamente) facile; demolire è più complicato, rimuovere (le macerie) è difficilissimo; anche se forse non sa che smaltirle è devastante, soprattutto in Italia dove scarseggiano gli impianti di recupero e mancano le leggi per promuovere l’utilizzo dei materiali di risulta. Così, del futuro di tutti quei manufatti stradali non ci si è mai occupati, nonostante che oggi, “cadendo dalle nuvole”, si scopra che la loro demolizione e sostituzione rientra nell’ordinaria, perché necessaria, manutenzione.

No. Il futuro del ponte Morandi non era la sua demolizione; era la Gronda: 70 e più chilometri di gallerie e viadotti (in cemento armato) lungo le alture di Genova: un’opera devastante in uno dei territori più fragili della penisola, come dimostrano gli smottamenti e le alluvioni sempre più gravi che ormai colpiscono la città quasi ogni anno. E cinque miliardi, ma probabilmente molti di più, regalati ai Benetton con l’aumento delle tariffe autostradali in tutta Italia invece di destinare quelle e altre risorse al risanamento di un territorio ormai vicino al tracollo; il tutto per liberare il ponte, se fosse rimasto in piedi, da non più del 20 per cento del suo traffico…

Non c’è esempio che spieghi meglio quanto le risorse destinate alle Grandi opere inutili e dannose siano sottratte al riassetto idrogeologico del territorio e alla manutenzione di ciò che già c’è, abbandonandolo a un degrado incontrollato: lo stesso vale per il Tav (Torino Lione, ma anche Genova-Tortona), il Mose; la Brebemi (che vuol dire Brescia-Bergamo-Milano, ma che stranamente non passa per Bergamo) le autostrade in costruzione in Lombardia e Veneto; il ponte sullo stretto (altro che ponte Morandi!) che ha già divorato più di 500 milioni; un gasdotto che attraversa territori in preda a eventi sismici quasi permanenti invece di ricostruire quei paesi crollati per incuria e puntare all’abbandono dei fossili. E così via. Con altrettante opportunità di creare lavoro finalmente utile.

E giù a dare del “troglodita”, del nemico del progresso, dell’oscurantista medioevale a chi, in nome della salvaguardia del territorio, della convivenza sociale, della necessità di mettere in sicurezza, e possibilmente di valorizzare, l’esistente, si oppone alle tante Grandi opere inutili e devastanti promuovendo l’unica vera modernità possibile, che è la cura e la manutenzione del proprio territorio, che è anche difesa di tutto il paese e dell’intero pianeta: da restituire alla cura di chi vi abita, vi lavora e lo conosce a fondo. Si discute di queste cose prigionieri di un eterno presente, senza passato né futuro, come se tutto dovesse continuare allo stesso modo; mentre si sa – o si dovrebbe sapere – che tra non più di due o tre decenni, se vorremo sopravvivere ai cambiamenti climatici che incombono, saremo costretti, volenti o nolenti, a cambiare radicalmente stili di vita, modi di coltivare la terra e di nutrirci, uso dei suoli, modalità di trasporto. Con tanti saluti sia al ponte Morandi, da non ricostruire, che alla Gronda, da non realizzare.

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