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«Quando sentiamo magnificare le buche keynesiane, non occorrerà essere filosofi liberisti per ricordarci che, di sicuramente pubblici ci sono i fondi sovvenzionati dai contribuenti, mentre i benefici sono spesso privati». La Repubblica, 29 aprile 2016 (c.m.c.)

UNO dei mantra più ripetuti dai politici di ogni colore e da molti commentatori è che condizione indispensabile per una maggiore crescita economica è far ripartire gli investimenti pubblici. E, per rafforzare il concetto, si sottolinea che l’Italia è terzultima in Europa, seguita solo da Grecia e Portogallo, come percentuale di spesa pubblica dedicata agli investimenti rispetto al Pil.

Il piano Juncker è stato presentato come una occasione di sviluppo e non passa giorno in cui i ministri non annuncino deroghe intelligenti al Patto di Stabilità per permettere ai Comuni di spendere in infrastrutture, nuovi stanziamenti per metropolitane, strade, ferrovie, tram, fibre ottiche e ogni opera che renda più efficiente il Paese in attesa della possibile apoteosi dell’investimento infrastrutturale, vale a dire le Olimpiadi di Roma del 2024.

Ma è proprio vero, per utilizzare il paradosso keynesiano, che mettere uomini a scavare buche e poi riempirle genera reddito? Partiamo da due recenti episodi. Il primo è l’audizione del ministro Delrio del 20 aprile sull’autostrada Pedemontana, progetto vecchio di lustri che avrebbe dovuto decongestionare il traffico nell’Alta Lombardia nell’affollata area tra Milano, Como e Varese. Ebbene, la parte finora realizzata di strada non attira traffico sufficiente, il 30% in meno rispetto al budget, nonostante sconti ed esenzioni distribuiti a pioggia agli automobilisti poco inclini a pagare il pedaggio.

Lo Stato ha già stanziato per l’opera 1,245 miliardi con contributi a fondo perduto ed è previsto un ulteriore sconto fiscale di quasi 400 milioni. Nonostante in teoria i 4,2 miliardi previsti per il completamento dell’autostrada (schizzati a 5,87 se si comprendono gli oneri finanziari) dovrebbero essere in gran parte messi a disposizione da privati, finora la parte del leone l’hanno avuta i contribuenti, avendo lo Stato versato ben 900 milioni. Né sorte migliore sembra arridere alla Brebemi, che collega Milano a Brescia ed è in cronica perdita di esercizio. Minacciando sfracelli, i soci privati della società concessionaria sono riusciti ad ottenere nel 2015 ben 320 milioni da Stato e Regioni e l’allungamento della concessione per sei anni con la garanzia che alla fine lo Stato rileverà la tratta per 1,25 miliardi.

Questi investimenti hanno creato o distrutto valore? Uno studio del 2014 di tre economisti, Maffii, Parolin e Ponti, esaminando una lista di progetti costosi ed inefficienti, ha concluso che le “grandi opere”, presentate dai governi come fiore all’occhiello dell’investimento pubblico, sono caratterizzate da alcuni elementi poco lusinghieri. Primo: sistematica assenza di valutazioni negative nelle analisi costi-benefici rese note al pubblico; secondo, scarsità di tali analisi; terzo, assoluta mancanza di terzietà delle stesse, che perdono così di credibilità in quanto eseguite da «portatori di interessi favorevoli della fattibilità dell’opera analizzata»; quarto, assenza di analisi comparative. Le conseguenze sono ovvie: scorretta definizione del progetto da attuare e delle soluzioni proposte, carenza di alternative, previsioni di domanda sovrastimate.

Un bell’esempio di come una semplice analisi comparativa potrebbe fare miracoli è fornito dalla linea Alta Velocità Milano-Venezia. Nel 2005 il costo stimato per l’opera era di 8,6 miliardi. Nel 2014 era schizzato a 13,368 miliardi, quasi 5 in più! Notevoli i 1202 milioni per il collegamento con l’aeroporto di Montichiari vicino Brescia: zero voli passeggeri e solo un paio al giorno per la posta (vogliamo dimenticarci gli inutili, deserti aeroporti in perdita di cui è disseminata l’Italia, da Siena a Pescara?). Le tratte padane orientali hanno un costo superiore a quelle occidentali, Torino-Milano e a quelle appenniniche Firenze-Bologna. Se poi facciamo la comparazione di costo per chilometro con Francia e Spagna, i binari italiani vengono pagati multipli rispetto a quelli franco-iberici.

Esempi eclatanti che vanno inquadrati in un contesto più ampio? Meglio di no. Sia lo studio del Fondo Monetario Internazionale del 2015 che quello della Banca Mondiale del 2014 mettono in luce la scarsa efficienza dei nostri investimenti pubblici a causa di aggiramento delle leggi, decisioni prese per motivi elettorali, corruzione, ritardi, innalzamento dei costi e bassa qualità di quanto realizzato. Solito pregiudizio anti- italiano? Chissà.

Certo è che nell’Allegato sulle infrastrutture al recente Def 2106, annunciando nuovi criteri di valutazione e velocizzazione delle opere pubbliche, il governo ha sottolineato carenza nella progettazione che porta a realizzazioni di bassa qualità; polverizzazione delle risorse; incertezza dei finanziamenti, addebitabile, tra l’altro, alla necessità di reperire risorse a causa dell’aumento dei costi delle opere ed ai contenziosi in fase di aggiudicazione ed esecuzione dei lavori; rapporti conflittuali con i territori dovuti anche all’incertezza sull’utilità delle opere.

Insomma, quando sentiamo magnificare le buche keynesiane, non occorrerà essere filosofi liberisti per ricordarci che, quando si impugna il badile, di sicuramente pubblici ci sono i fondi sovvenzionati dai contribuenti, mentre i benefici sono spesso privatamente allocati tra politici, burocrati ed appaltatori.

Cambiano le priorità a Rivalta di Torino: si tagliano le previsioni di espansione e si punta sulla tutela del paesaggio e delle attività agroalimentari, sulla mobilità dolce e sul recupero del centro storico e degli edifici inutilizzati. Reticula, n.8 2016 (m.b.)

Abstract

La presente riflessione nasce dal progetto vincitore del premio nazionale dell’Associazione dei Comuni virtuosi, per la gestione del territorio, ora in corso di attuazione presso il Comune di Rivalta di Torino. L’intervento sottolinea le difficoltà e le prospettive aperte dalla revisione critica di un Piano regolatore da poco approvato inteso, sia dai progettisti sia dai funzionari, come strumento di crescita infinita dell’edificato e delle infrastrutture sul territorio. Al contrario una gestione sostenibile del Piano, oltre a porre la riduzione del consumo di suolo tra le sue priorità, deve essere messa in relazione con la partecipazione dei cittadini, la tutela del paesaggio e delle attività agroalimentari, il risparmio energetico, il riciclo dei rifiuti, la promozione di una mobilità dolce.
La Variante strutturale incentrata su un’area di sprawl interessata da fenomeni di fragilità idrogeologica e da ricchezza agricola, naturalistica e paesaggistica permetterà una riduzione del consumo di suolo di circa 300.000 metri quadri.
Il consumo di suolo, problema nazionale
Da tempo innumerevoli segnali d’allarme sono lanciati da intellettuali e da tecnici intorno all’abnorme consumo di suolo naturale e agricolo che è in corso nel nostro Paese (Gibelli e Salzano, 2006). Gli otto metri quadrati al secondo di terreno libero consumati (Munafò, 2014) per la realizzazione di edifici e di infrastrutture sono più del doppio rispetto alla media di molti altri Paesi europei, e tra i più alti del mondo con l’aggravante che l’Italia ha un territorio in gran parte montano e collinare, a elevata sismicità, con la presenza di importanti vulcani attivi e l’esposizione all’erosione del mare su un fronte di circa 1.500 chilometri di coste (Berdini, 2010). Le limitate estensioni pianeggianti e collinari coltivabili sono in gran parte caratterizzate da terreni fertili (Mercalli e Sasso, 2004), con tradizioni materiali e culturali rurali di antichissimo impianto (basti pensare ai paesaggi vitivinicoli recentemente riconosciuti dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità). La distruzione di questa risorsa non rinnovabile avviene in presenza di una crescita demografica praticamente nulla, dell’abbandono di ampie aree industriali e dell’esistenza di un numero di alloggi più che doppio rispetto alle reali esigenze abitative, ma in gran parte inutilizzato a causa di distorsioni speculative del mercato immobiliare, che impediscono a centinaia di migliaia di famiglie a basso reddito di accedere ad una casa dignitosa (Munafò, 2014). La quasi totalità del patrimonio edilizio pubblico e privato, presenta gravi carenze in termini di sicurezza, di manutenzione e di consumo, costituendo un costo per un Paese che importa buona parte del suo fabbisogno energetico (Legambiente et al, 2014).
Le conseguenze più vistose di questa situazione si riscontrano nelle cronache dei disastri che si verificano periodicamente, quando l’intensificarsi delle piogge porta allagamenti e smottamenti, con perdite di vite umane e ingenti danni economici ed ambientali (Settis, 2010).
Una logica azione di pianificazione dovrebbe basarsi sull’immediato blocco di ogni edificazione su terreni vergini, sul riuso e, in qualche caso, sulla densificazione delle aree infrastrutturate in abbandono, sulla riqualificazione architettonica e impiantistica del patrimonio, con adeguamento alle normative in materia di sicurezza e di risparmio energetico, sulla messa in sicurezza del territorio, a partire dalla difesa delle coltivazioni e degli ambiti naturali.
Tuttavia al di là di molte affermazioni teoriche e anche di alcuni timidi provvedimenti legislativi, prevalentemente a scala locale, non si assiste ad un generalizzata inversione di tendenza, la cultura della pianificazione è in gran parte latitante, mentre le normative intorno al tema del consumo di territorio continuano ad essere sostanzialmente inefficaci (Giudice e Minucci, 2011 e 2013). In questo contesto le poche esperienze di riduzione del consumo di suolo appaiono qualcosa di eccezionale. E’ il caso dell’ormai famoso Comune di Cassinetta di Lugagnano (Milano) che, guidato dal sindaco Domenico Finiguerra, è riuscito a dare vita ad un Piano regolatore che blocca il consumo di territorio (Finiguerra, 2014). Altre realtà, hanno seguito l’esempio: piccoli Comuni, ma anche amministrazioni di medie dimensioni come quella di Desio. Sono un centinaio i Comuni aderenti all’Associazione dei comuni virtuosi che pone la riduzione del consumo di suolo al centro delle buone pratiche di gestione sviluppate dagli aderenti.
L’esperienza di riduzione di consumo di suolo in corso a Rivalta si confronta con uno strumento di pianificazione recentemente approvato secondo logiche del tutto opposte e cerca di capovolgerle guardando al territorio con un approccio olistico (Montanari, 2014).

Il caso di Rivalta di Torino
Collocato a sud-ovest di Torino, tra il torrente Sangone e la collina morenica, in un contesto di alta qualità ambientale e paesaggistica, Rivalta di Torino (poco meno di 20.000 abitanti) è un borgo di antica fondazione che conserva importanti testimonianze del passato, come la cinta muraria del ricetto, il monastero (XI secolo) e il castello (XII secolo). Fa parte della corona di comuni cresciuti impetuosamente attorno al capoluogo piemontese in conseguenza dei processi di ristrutturazione industriale degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, motivati dalla volontà di frammentare le troppo compatte concentrazioni operaie e di realizzare stabilimenti più aggiornati, con costi contenuti. In questo processo Torino è passata da più di 1.200.000 abitanti del 1971 ai meno di 900.000 odierni, mentre le aree della cosiddetta “cintura” hanno registrato un corrispondente aumento di popolazione, attratta anche dalla presenza di verde, di servizi e di minor congestione del traffico, che sembravano essere le premesse per una vita più a misura di uomo.
In conseguenza della costruzione del nuovo stabilimento Fiat (1967) che è arrivato a impiegare fino a 18.000 dipendenti e di altre importanti attività industriali, Rivalta ha vissuto una stagione di straordinaria espansione (più 455% di abitanti), con il raddoppio della superficie destinata all’industria. La pianificazione urbanistica non è stata in grado di controllare questa pressione edificatoria, legittimando un modello insediativo disperso (sprawl) che si è irraggiato sul territorio circostante a partire dalle frazioni di Pasta, Tetti Francesi e Gerbole, poste a sud del Sangone, mentre il nucleo originario è stato in parte abbandonato e oggetto di alcuni interventi edilizi fuori scala.

Il Piano Regolatore Generale Comunale (PRGC) approvato nel 1995, prevedeva un aumento della popolazione residente da 14.684 a 24.000 abitanti e delle superfici per le varie attività insediative da
741.002 mq a 1.247.535 mq. La convinzione che le dinamiche fortemente espansive sarebbero continuate indefinitamente motiva anche le successive varianti del Piano fino alla vigente, approvata nel 2011. Negli ultimi anni la crescente consapevolezza dei cittadini intorno ai temi del verde e della qualità della vita e la sempre più diffusa constatazione del processo di cementificazione del territorio, sono state tra le principali ragioni della richiesta di un cambiamento della politica urbanistica. Ciò ha portato, nelle elezioni del giugno 2012, al successo dalla lista civica “Rivalta sostenibile” guidata da Mauro Marinari, il cui programma poneva la difesa del paesaggio e il contenimento del consumo di suolo, tra gli obiettivi primari della propria candidatura.
Le vecchie logiche di un Piano regolatore di “espansione”
L’attuale PRGC di Rivalta (2011), anche soltanto ad uno sguardo superficiale, appare improntato ad una logica di espansione incontrollata dell’edificato negli spazi liberi, senza continuità con l’abitato consolidato, con zone agricole e naturali intercluse, quindi sostanzialmente inutilizzabili e aperte ad ulteriori processi insediativi. Tutto ciò senza alcuna giustificazione razionale che non sia quella di un sostegno ad interessi privati, sottovalutando la ricchezza naturalistica, agronomica e paesaggistica del territorio, in presenza di un centro storico non valorizzato e di un patrimonio edilizio residenziale e produttivo inutilizzato, nonostante una forte richiesta inevasa di abitazioni da parte dei cittadini a basso reddito.
Gli aspetti principali del Piano possono essere sintetizzati da alcune cifre: su un totale di 1.159.998 metri quadri di superficie lorda di pavimento esistente a destinazione residenziale si prevede un incremento di 312.950 mq, che corrisponde, su un totale di 18.976 abitanti, ad un aumento dei residenti di 7.338 unità. Queste cifre dimostrano la non sostenibilità di un piano improntato al consumo di suolo come mera risorsa speculativa e allo sviluppo edilizio come stimolo della crescita economica, ed appare ancora più inadeguato nell’attuale congiuntura di crisi del mercato immobiliare e di sostanziale staticità delle dinamiche demografiche. Questa visione è quella che, nei decenni scorsi, ha premiato in termini di consenso e di gestione perché ha permesso ai cittadini di vedere incrementato il valore della loro proprietà ed alle Amministrazioni di incamerare denaro dalle concessioni edificatorie per far fronte ai crescenti impegni finanziari. Tuttavia essa comporta le note ricadute negative di tipo idrogeologico, ambientale ed anche economico, dato che la dispersione dell’abitato, aggrava i costi di urbanizzazione e di gestione dei servizi pubblici.
Il territorio di Rivalta risulta già insediato per circa il 30% della sua estensione totale e le nuove edificazioni sono tutte comprese in zone agricole, quindi è evidente il danno al patrimonio rurale e alle sue possibilità di sviluppo futuro. Inoltre le previsioni di edificazione portano al restringimento o alla chiusura dei “corridoi ecologici”, elementi di collegamento delle zone naturali, indispensabili per la salvaguardia della biodiversità.
PRG - Tavola C2
Nell’iter di approvazione del Piano vigente non è stata adottata la Valutazione Ambientale
Strategica (VAS, in vigore dal 2006) che avrebbe forse fornito qualche strumento in più per lo studio delle criticità su esposte. Ciò nonostante sia la Regione Piemonte, a partire dagli studi del Piano
Territoriale Regionale (PTR) e dal Piano Paesaggistico Regionale (PPR, adottato nel 2009, non ancora approvato), sia la Provincia di Torino, a partire dal Piano Territoriale di Coordinamento
(PTC2, al tempo in corso di elaborazione), hanno espresso osservazioni in merito alle tematiche evidenziate, con proposte di riduzione delle quantità edificatorie, accolte solo parzialmente dalla passata Amministrazione, senza variare sostanzialmente lo strumento di pianificazione strategica.
Inoltre il progetto di tracciato del treno ad alta velocita (TAV) Torino-Lione ha previsto un pesante impatto sul territorio rivaltese, invadendo un’area di pregio naturalistico e costituendo una significativa cesura sul perimetro orientale delle aree comunali
Una nuova pratica di pianificazione in “riduzione”:
azioni innovative dello strumento di Piano
Nell’ottobre del 2012, tra i primi atti del nuovo Consiglio comunale, è stata assunta la delibera n. 54
Indirizzo programmatico in tema di uso del suolo e di urbanistica con la quale è stato avviato il processo di revisione del PRGC finalizzato alla riduzione del consumo di suolo e alla tutela del paesaggio. Contestualmente l’Amministrazione ha aderito al Forum Nazionale “Salviamo il paesaggio – Difendiamo i territori” del quale condivide i principi e gli obiettivi, e ha condotto il
Censimento del patrimonio edilizio, promosso dal Forum, con un’indagine sulle aree libere e sugli usi del suolo da cui sono emerse con evidenza le criticità descritte, tra cui la presenza di un patrimonio di quasi 300 alloggi non occupati.
La nuova gestione urbanistica, improntata al programma di mandato, si è articolata da subito nell’approvazione di alcune varianti (ex art. 17 LR 56/1977): è stata eliminata una strada in progetto che tagliava un terreno libero creando uno spazio intercluso atto ad avviare nuovi processi edificatori (vedi figura seguente), è stato reso più facile il riuso dei capannoni industriali inutilizzati in relazione alle recenti dinamiche socio economiche, con destinazioni a palestre, servizi, ristorazione.

Si è proceduto ad un confronto con i principali operatori del territorio proponendo una riduzione della capacità edificatoria prevista, in cambio di una maggiore flessibilità delle destinazioni di uso. Nel novembre 2013 l’Amministrazione ha lanciato un bando pubblico per raccogliere richieste di rinuncia alle destinazioni residenziali previste dal Piano di proprietari di aree agricole. La proposta, inusuale nel panorama economico e culturale italiano, caratterizzato dalla convinzione che la migliore valorizzazione dei suoli sia quella che comporta l’edificazione, ha raccolto l’adesione di una decina di proprietà per un totale di più di 30.000 mq. di superficie fondiaria. Tale risposta è dovuta all’inasprirsi della tassazione sulle aree fabbricabili e alla crisi del settore edilizio, ma ha risentito anche, almeno in parte, di una svolta culturale che vede nell’eredità di un terreno verde qualcosa di più importante di una costruzione.

Altro strumento utile per il contenimento del consumo di suolo è stata la modifica del Regolamento Edilizio (RE), con l’eliminazione delle norme sui sottotetti non abitabili (art. 18 del RE) che permettevano di realizzare locali ufficialmente non abitabili e che pagavano soltanto il 50% degli oneri di urbanizzazione, ma che nei fatti erano dotati di servizi, finestre e balconi e quindi abitabili illegalmente. La modifica consente la realizzazione di sottotetti non abitabili e quindi privi dei requisiti di servizi e di illuminazione necessari, oppure abitabili e che rientrano a pieno titolo nel calcolo della Superficie Lorda di Pavimento (SLP) autorizzata. Inoltre l’“Allegato energetico”, un insieme di norme che incentiva il risparmio energetico degli edifici, garantisce ai progetti con la migliore classificazione energetica sgravi economici fino al 50% degli oneri dovuti, con esclusione di premi in cubatura (ovvero ampliamento della SLP).
Nel complesso le varie iniziative portano a una riduzione di circa un terzo delle previsioni in corso di autorizzazione: risultato che può essere ritenuto significativo, ma che risulta ancora limitato rispetto alle previsioni generali del Piano che, come abbiamo visto, sono di circa dieci volte maggiori. Con l’adozione in corso della VAS e della a variante strutturale incentrata sull’area a Sud del Sangone si procederà al riesame dei vincoli idrogeologici, delle qualità agronomiche e naturalistiche delle aree finalizzata ad una ulteriore riduzione delle aree edificabili, al ripristino di “corridoi ecologici” e delle principali prospettive paesaggistiche (Pileri, 2007). Si provvederà all’eliminazione della edificabilità sulle aree più critiche e ad una generale revisione al ribasso degli indici previsti, con una riduzione complessiva del consumo di suolo di circa 300.000 mq. Alcuni strumenti utilizzati saranno le norme sovracomunali che prescrivono la perimetrazione delle aree libere, di transizione e dense. Inoltre si elaboreranno sistemi di parziale perequazione al fine di evitare contenziosi con i proprietari che hanno subito tassazioni su previsioni d’incremento di valore poi eliminate (Voghera, 2011).
Una minore pressione edificatoria sul territorio libero è attuabile attraverso la rigenerazione delle aree costruite, attualmente in abbandono. Per quanto riguarda il centro storico è in corso il restauro del castello che diventerà sede della biblioteca comunale, con il trasferimento nella vecchia sede dell’Ufficio cultura, elemento di stimolo per molte attività. La ridestinazione di un edificio del centro a sede di un’associazione musicale e la riqualificazione di altre due proprietà pubbliche ad attività commerciali e residenziali, sono interventi che ripropongono il nucleo storico come luogo di residenza, di nuove attività economiche, di aggregazione sociale, attrattivo in rapporto al resto del territorio, per farne un luogo di nuova socialità, anche grazie alla promozione di feste, mercati e celebrazioni. La realizzazione di parcheggi esterni al concentrico finalizzati alla progressiva pedonalizzazione del centro è un altro elemento di riqualificazione in corso.
Azione indispensabile per evitare la cementificazione del territorio, è la promozione delle attività agroalimentari locali. E’ stata adottata la Certificazione comunale dei prodotti agricoli per tutelare le produzioni di nicchia, biologiche e le “filiere corte”, anche con il coinvolgimento di giovani interessati ad avviare produzioni agricole. E’ stato inoltre facilitato l’incontro tra produttori e consumatori, valorizzando la presenza di gruppi di acquisto solidali (GAS) comprendenti più di un centinaio di famiglie e avviando un mercatino settimanale di prodotti di agricoltura biologica. Inoltre è stato riqualificato il parco degli orti urbani (circa 80 lotti) e sostenuti corsi di formazione per i cittadini interessati all’orticoltura biologica.
Le infrastrutture viarie sono un elemento talvolta sottovalutato del consumo di suolo: Rivalta promuove attivamente tutte le forme di mobilità sostenibile, dal trasporto pubblico, alla realizzazione di piste ciclabili, dai progetti di bimbi a scuola a piedi, alla realizzazione di percorsi protetti, anche in collaborazione con i Comuni contermini. La gestione sostenibile del territorio comprende anche l’attenzione alla gestione dei rifiuti o, meglio, delle “materie prime seconde”. L’Amministrazione, da sempre contraria alla costruzione e gestione privatizzata dell’inceneritore, orienta la sua attività in questo campo soprattutto alla riduzione dei rifiuti, con numerose iniziative tra cui l’approvazione di un nuovo regolamento dei rifiuti incentrato sul potenziamento della raccolta differenziata, la creazione di un centro per il riuso, il posizionamento di fontanelle per l’acqua pubblica, iniziative di riciclo come “riscarpa”, accordi con i commercianti per la riduzione degli imballaggi, promozione dell’uso delle coppette mestruali e la partecipazione alla “Settimana Europea per la riduzione dei rifiuti”.
La progettazione partecipata come strumento della sostenibilità
L’elaborazione di una pianificazione sostenibile a Rivalta è l’esito sia dell’affinamento di strumenti teorici, sia di un’attività svolta, anche sperimentalmente, in stretto contatto con i cittadini. Sono in corso collaborazioni con l’Università degli Studi e con il Politecnico di Torino che hanno avuto per oggetto la redazione di tesi, lo svolgimento di laboratori e di tirocini di lavoro. Esiti di queste esperienze sono assunti nei progetti e sono oggetto di presentazioni pubbliche, di convegni, di pubblicazioni e di scambi di esperienze con altre realtà.
Il contributo consapevole dei cittadini è promosso attraverso la convocazione di assemblee pubbliche su tutti i temi più importanti e con l’elaborazione del “Bilancio Partecipativo” che vede coinvolti, nei quattro quartieri del Comune, ottanta residenti estratti svolgere un’attività di conoscenza e di discussione sui problemi del territorio, organizzata in una serie di incontri da cui emergono indicazioni progettuali e operative. Più di un centinaio di volontari, raccolti in un apposito “Albo”, contribuiscono regolarmente alle iniziative di tutela e di riqualificazione del territorio, come la manutenzione di arredi pubblici, la pulizia di aree abbandonate, la creazione e la gestione di nuovi spazi verdi. Tra le iniziative dei volontari il progetto “M.I.O. Domani, Memorie Ieri Oggi e Domani” è incentrato sulla conservazione e sulla trasmissione della memoria, con particolare riferimento all’agricoltura tradizionale. Tale attività è in collegamento con le iniziative di Terra Madre, evento di rilevanza internazionale che si svolge a Torino e vede 24 famiglie rivaltesi ospitare altrettanti delegati da tutto il mondo che portano esperienze di difesa e di coltivazione sostenibile dei territori agricoli. Progetti specifici sono inoltre destinati anche ai giovani nel periodo postscolastico.
Una prospettiva aperta
L’esperienza di gestione sostenibile del territorio e dei beni comuni (Maddalena, 2014), in corso a Rivalta e qui brevemente sintetizzata, si presenta come un caso importante per dimostrare come un uso attento delle normative esistenti e delle energie locali possano essere elementi di stimolo ad una pianificazione responsabile e partecipata che si ponga come obbiettivo primario la qualità della vita dei cittadini e la gestione sostenibile delle risorse.
Come a Rivalta in molte altre realtà locali positivi fermenti dal basso indicano una nuova strada percorribile. Ora è necessario che queste esperienze diventino patrimonio comune e che vengano supportate da provvedimenti legislativi nazionali, in grado di contrastare una logica di panificazione distruttiva molto radicata, ma che deve essere capovolta se si vuole dare un futuro al nostro Paese.
Bibliografia
Berdini P., 2010. Breve storia dell’abuso edilizio in Italia, Donzelli, Roma.
Corradin R.. 2014. Il P.R.G.C. vigente del Comune di Rivalta di Torino. Studi per una variante ai fini della valorizzazione del paesaggio e della tutela dei suoli liberi, tesi di laurea in Pianificazione Territoriale e Urbanistica, Politecnico di Torino, Relatori A. Voghera, G. Montanari.
Finiguerra D., 2014. 8 mq al secondo. Salvare l’Italia dall’asfalto e dal cemento, Emi, Bologna.
Gibelli M. C., Salzano E. 2006 (a cura di), No sprawl. Perché è necessario controllare la dispersione urbana e il consumo di suolo, Alinea, Firenze.
Giudice M., Minucci F., 2011. Il consumo di suolo in Italia, SE, Napoli.
Giudice M., Minucci F., 2013. Governare il consumo di suolo, Alinea, Firenze.
Maddalena P. 2014. Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, Donzelli, Roma.
Mercalli L., Sasso C., 2004, Le mucche non mangiano cemento, Edizioni SMS, Torino
Montanari G., 2014. Dalla memoria al paesaggio. Note per un approccio olistico al territorio, EDP Sciences, in A. Tartaglia, C. Mele e M.L.
Ruggiero (a cura di) Science and the future, Torino, October 28-31, 2013; http://www.e3s-conferences.org
Munafò M., 2014. L’impatto sui servizi ecosistemici dei processi urbani e territoriali. RETICULA n. 7/2014, ISPRA, Roma..
Pileri P., 2007. La compensazione ecologica preventiva, metodi strumenti e casi, Carocci, Roma.
Settis S., 2010. Paesaggio Costituzione Cemento, Einaudi, Torino.
Legambiente - Fillea Cgil - Filca Cisl - Feneal Uil, 2014, “Costruire il futuro”, innovazione e sostenibilità nel settore edilizio, Terzo Rapporto dell’Osservatorio congiunto http://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/rapporto_oise_2014sito.pdf
Voghera A., 2011, Dopo la Convenzione Europea del Paesaggio. Politiche, Piani e Valutazioni, Alinea, Firenze.

Riferimenti
In eddyburg sono disponibili più di 170 articoli sul consumo di suolo, in parte raccolti nel nuovo sito, e in parte nel vecchio sito.
Per orientarsi, è utile partire da questa visita guidata.

Edward Loure, pastore della Tanzania, ha vinto il premio ambientalista Goldman. Ha difeso trenuamente ed efficacemente il dritto degli abitanti dei pascoli del Rift a difendere i loro paesaggi tutelandone l'ambiente in modo migliore dei parchi dei colonialisti. La Repubblica, 21 aprile 2016

È UN CAPO tribù masai della Tanzania e grande difensore delle terre del suo popolo, il vincitore dell’ultima edizione del Premio Goldman, sorta di Nobel americano dell’ambientalismo. Si chiama Edward Loure, ha una quarantina d’anni circa ed è un pastore prestato alla giurisprudenza, perché dopo aver conseguito una laurea in management ha trovato il modo di salvare i pascoli della sua gente operando una piccola modifica a una legge già esistente ma inefficace. Grazie all’introduzione di questo cavillo giuridico, che assieme alla ricca fauna che vive nelle praterie della Valle del Rift salvaguarda anche la più ancestrale cultura masai, Loure è stato premiato il 18 aprile scorso a San Francisco. Non solo: il suo lavoro di attivista è anche servito a far riconoscere per la prima volta l’importanza della pastorizia nella conservazione della natura in Tanzania.

Loure è nato nelle vaste pianure di Simanjiro, che spaziano su 3 milioni di ettari nel nord del Paese, dove da millenni vivono sia pastori sia cacciatori-raccoglitori in armonia con numerose specie di ungulati, dagli impala agli gnù e a ogni tipo di gazzelle. Da tempo, però, buona parte di quelle regioni sono state trasformate in parchi nazionali, e le popolazioni semi-nomadi che da generazioni vi allevavano bestiame sono state deportate altrove dal governo tanzaniano dopo espropri abusivi. «Noi dipendiamo dalle nostre terre, che hanno modellato la nostra cultura e il nostro modo di vita. Per noi rappresentano tutto. Se ci tolgono i nostri pascoli non avremo più vacche, e senza vacche moriremo tutti», spiega Loure.

È dal 1950 che si è cominciato a compromettere questo fragile equilibrio, sbocconcellando progressivamente le terre masai per farvi parchi per i turisti. Recentemente, la situazione s’è di molto aggravata, perché lo Stato ha iniziato a vendere quelle aree sia agli organizzatori di caccia grossa e altri safari, sia ai cosiddetti “ladri di terre”, e cioè a quegli speculatori che usano gli antichi pascoli tribali per crearvi allevamenti intensivi illegali. Tutto ciò ovviamente a scapito dei popoli autoctoni.

La stessa tribù del vincitore del premio Goldman fu deportata nel 1970, quando il governo creò il Ujamaa Community Resource Team (Ucrt), una delle prime ong locali tanzaniane in lotta per lo sviluppo sostenibile e per i diritti della terra. Lo strumento che per anni ha adoperato l’Ucrt è il Village Land Act, una legge fondiaria destinata a garantire ai villaggi locali la proprietà delle loro terre. Questo strumento giuridico ha tuttavia l’inconveniente di essere lento e costoso, e di facilitare se non di promuovere la corruzione e gli abusi politici. Col risultato che numerose zone protette dalla legge sono state vendute a grossi imprenditori agricoli, e che perciò sia i pascoli masai sia le zone di natura selvaggia si sono ridotte in maniera considerevole. Fino al giorno in cui Loure ha finalmente identificato un meccanismo giuridico chiamato il Certificates of Customary Rights Occupancy, che conferisce inalienabili diritti fondiari a un’intera comunità. Questi “certificati” differiscono dalla legge precedente in quanto riconoscono il possesso non più a singoli individui, bensì a tutto un popolo. E grazie a questo sistema, il Village Land Act può finalmente proteggere i pascoli masai dalle interessatissime mire degli tour-operator e degli speculatori agricoli.

Un articolo di Carlo Olmo e un'intervista di Francesco Erbani a Raul Pantaleo sul tema al centro della prossima Biennale architettura. Progettare per combattere il disagio abitativo e garantire il diritto alla città oppure per creare oggetti e celebrare se stessi? La Repubblica, 17 aprile 2017

ARCHITETTURA POVERA
di Carlo Olmo

Celebri progettisti come Renzo Piano si dedicano alle aree periferiche, in Italia e negli Stati Uniti La prossima Biennale apre all’inclusione sociale e alla riduzione delle disuguaglianze. Tornano in voga questioni già poste dal movimento moderno e accantonate da una ricerca esasperata di forme bizzarre e spettacolari. Ma è una vera svolta?

Stiamo forse assistendo a un ennesimo ribaltamento del rapporto tra architettura e città, tra architettura e società? Rientra al centro dell’attenzione un’architettura che si misura con le necessità primarie dell’individuo, con l’inclusione sociale e che accantona la ricerca estetica portata fino alla bizzarria? E il pendolo di una sia pur debole teoria sta forse tornando a orientarsi sui temi dell’abitare di una popolazione che però non conosce quasi più il ceto medio per cui l’architettura e la città del Novecento sono state pensate?

La sensazione di disagio che oggi si vive per esempio scendendo alla Station Front Populaire della linea 12 del metro parigino e avviandosi verso il nascente Campus Condorcet, destinato a ospitare alcune delle più importanti università del Paese, nasce proprio dal percepire un modo di abitare fatto di case, vie e piazze pensate per una popolazione che non c’è. Il Diritto alla città, titolo di uno dei testi più citati su questi argomenti dal 1971 quando Henri Lefebvre lo pubblicò, fondamentale ascensore sociale allora, come si pratica oggi in luoghi che sono situati tra un centro abitato da chi è in grado di pagare il valore simbolico che le centralità incorporano e quella che si è abituati a chiamare città diffusa?

Periferie che hanno perso, per fortuna, la funzione di dormitori di una città moderna e industriale che non esiste più almeno in Europa, ma che conservano luoghi urbani molto identificabili e morfologie oggi criticatissime come, per restare vicino al Campus Condorcet, La Courneuve. Un grand ensemble di 4000 alloggi che Jean-Luc Godard nel 1967 rappresenta in tutti i suoi contradditori aspetti in quel film straordinario che è Due o tre cose che so di lei. E nei confronti della quale, la scelta di raderla al suolo ha trovato nelle comunità che la abitano non solo una resistenza insuperabile, ma una vera forma di patrimonializzazione dal basso del tutto inattesa. Ma gli architetti davvero oggi tornano a essere sensibili a un diritto alla città riproposto in maniera tanto diversa nelle periferie europee o nei più grandi slum del mondo?

Forse il ripensamento che porta Renzo Piano a soggiornare a New York per seguire il completamento del Campus della Columbia University ad Harlem (che firma con uno dei più famosi studi americani, la Skidmore, Owings & Merrill), ha, tra le ragioni, anche quella che ha portato Elisabeth e Christian de Portzamparc – due archistar dalla storia davvero diversa – a partecipare (vincendolo) al concorso per la biblioteca proprio del Campus Condorcet. E questo mentre un testo culto dell’architettura contemporanea, Delirious New York, della più influente archistar di oggi, Rem Koolhaas, è usato come trama dall’Office of Human Theatre per ironizzare proprio sul mondo che Koolhaas più di tutti incarna.

Una crisi di valori profonda impone ad architetti e urbanisti una riflessione su alcune rotture che si sono prodotte nel mondo dell’architettura, rotture che la prossima Biennale di Alejandro Aravena e il Padiglione Italia sembrano segnalare. La prima, forse la più evidente rottura, è quella tra linguaggi e organizzazione spaziale. Non è forse inutile ricordare che l’esercizio più sofisticato che l’architettura del Novecento abbia conosciuto sono le autentiche variazioni Goldberg che quello straordinario migrante che fu Alexander Klein progettò dal 1927 al 1931, tra Berlino e Lipsia, lavorando sull’Existenz-minimum, vale a dire su come soddisfare i bisogni elementari di un essere umano. Esercitare intelligenza, fantasia, creatività sul modulo abitativo non solo più ridotto – il modulo Loucheur su cui anche Le Corbusier lavorò negli anni Venti in Francia è di 24 metri quadrati – ma che aveva l’ambizione di contenere l’abitare dell’uomo in tutte le sue funzioni essenziali, fu davvero una straordinaria scommessa. La rottura tra linguaggi e distribuzione a favore della ricerca estetica di talune archistar non ha solo messo in discussione lo stesso mestiere dell’architetto, a favore del designer e dell’ingegnere, ma ha favorito un’altra, fondamentale rottura: quella tra involucro e costruzione. Forse quella che stiamo vivendo è la stagione in cui la materia dell’architettura è più omologa, resa tale da società di ingegneria che hanno costruito un oligopolio della costruzione dal Bahrein a San Paolo e da imprese multinazionali che arrivano a costruire architetture in cui si entra, in qualsiasi parte del mondo, e si procede per riconoscimento: dall’ingresso sino alla camera, alla stanza di riunioni, alla sala d’attesa, il percorso, la distribuzione dello spazio è eguale ovunque. Architetture che sembrano richiamare un’estetica del vuoto, quasi lacaniana.

All’architetto e al suo rapporto con la materia resta l’involucro e il suo valore di simbolo estraniato dalla distribuzione spaziale. L’estetica del riconoscimento porta con sé, quasi automaticamente la ricerca di un rococò esasperato, di involucri che devono nascere, non diventare nel tempo e con la selezione delle architetture, landmark, senza però avere come i landmark nella cultura statunitense alcun rapporto con il territorio.

Essere ridotti a mascherare la realtà forse non sarebbe stato sufficiente, se il consumo del suolo, di una risorsa in sé limitata, non avesse quasi imposto la riformulazione del paradigma progettuale. Ritornare a pensare il progetto a partire da modificazioni di un patrimonio stratificato di segni e popolato di tracce, un patrimonio in cui però è sempre più il vuoto a segnare il paesaggio – l’alloggio, il capannone, l’ufficio abbandonati e sfitti stanno diventando la norma – rende quasi necessario calare la maschera. È la rivincita del piccolo sul seriale, della qualità sulla quantità, del metodo che Alexander Klein chiama il procedere per successivi incrementi a riportare in primo piano la necessità di architettura, assieme al mutamento radicale della stessa idea di città.

Nel 2010 esce L’aventure des mots de la ville: 240 voci e 160 autori si confrontano con il mutar di senso delle parole che accompagnano il rapporto tra architettura e città. L’architettura deve oggi misurarsi con mutamenti che interessano le parole che la raccontano e farlo dall’interno di mura non più disegnate da ingegneri militari, ma da un’economia morale della terra. Vincerà La grande trasformazione di Karl Polanyi e con lei un’architettura necessaria perché solo l’intelligenza progettuale può rispondere a questo nuovo paradigma insieme economico, sociale e culturale? Se si guarda ai tanti ribaltamenti anche solo di cosa siano centro e periferia a Neza-Chalco- Itza, lo slum situato alla periferia Nord del Distretto Federale di Città del Messico con 4 milioni di abitanti, o se si riconoscono i mutamenti intervenuti nella più grande favela di Rio de Janeiro, Rocinha, anche attraverso un’architettura che accompagna l’inclusione sociale, necessità e speranza sembrano poter almeno convivere.

È ENTRATO IN CRISI L’ASSURDO SISTEMA
DELLE OPEREECLATANTI”
intervista di Francesco Erbani a Raul Pantaleo
«Sono vent’anni che lavoriamo in zone marginali, nelle periferie africane e asiatiche. E in effetti da un po’ di tempo i nostri progetti riscuotono attenzione, veniamo invitati a raccontarli. Poi è arrivato il segnale più forte: la curatela del Padiglione Italia alla prossima Biennale architettura, essa stessa dedicata da Alejandro Aravena al Reporting from the Front ». Raul Pantaleo, milanese, cinquantaquattro anni, è titolare insieme a Massimo Lepore e Simone Sfriso, dello studio TAMassociati. E Taking care. Progettare per il bene comune, s’intitola la loro rassegna, che dovrebbe documentare gli sforzi di un’architettura orientata in senso più etico e politico del passato.
Pantaleo e i suoi colleghi sono impegnati con Banca Etica, progettano ospedali per Emergency, operano in Sudan, in Uganda, nel Senegal, in Iraq, in Afghanistan. E anche in Italia, dove non ci sono guerre, ma dove infuria la camorra, per esempio nel quartiere napoletano di Ponticelli, o dove si accolgono i migranti, come a Polistena, vicino a Reggio Calabria.

La Biennale è dunque il riconoscimento di una trasformazione della scena architettonica: meno archistar, più società. È così?
«Indubbiamente. Se questa è una svolta reale lo vedremo in seguito. L’architettura nelle aree di acuto disagio e di conflitti non è una novità. Né, ovviamente, sono una novità quelle crisi. La novità è che quelle crisi sono giunte alle nostre porte e siamo indotti a concepire la storia non come un percorso lineare verso il progresso. L’effetto, per quanto ci riguarda, è il risalto di cui gode questa architettura. Ben venga che se ne parli. Ma occorre tenere alta la guardia ».

Teme un eccesso retorico?
«Spesso ci si nasconde dietro le parole. Prenda la “sostenibilità”. Fino a qualche anno fa, ora forse meno, tutti i progetti sfoggiavano quel termine. Ma quanti in concreto la realizzavano?».

In ogni caso, l’architettura potrebbe non essere più sinonimo di una grande personalità, di una singola espressione artistica.
«È entrato in crisi il sistema delle opere eclatanti, quelle che non si pongono in rapporto con il contesto, che scansano le compatibilità economiche o ambientali. Una novità è anche che il Padiglione Italia della Biennale sia stato affidato a una curatela collettiva».

Molto dipende da chi commissiona un lavoro. Voi lavorate con il pubblico e con il privato. C’è differenza?
«Ricordo sempre che Manfredo Tafuri, con il quale ho studiato a Venezia, diceva che l’architetto è come l’avvocato, è sempre di qualcuno. Dal punto di vista di un progettista, dovrebbe cambiare poco se il cliente è un privato, un’amministrazione comunale o una ong. Io credo in un’architettura politicamente orientata. Anche se realizzassi un ristorante, resto un architetto che agisce nella collettività».

Tanta attenzione viene dedicata alle periferie. Anche in questo caso ha paura che dietro le parole ci sia poco?
«No. Mi auguro proprio che gli sforzi siano seri. Concordo con quel che dice il ministro Dario Franceschini: finora abbiamo lavorato sui centri storici, per preservarli, ora dobbiamo concentrarci sulle periferie. L’importante è che non ci si riduca a considerarle solo nell’aspetto fisico, trascurando quello mentale o istituzioni fondamentali come la scuola. Fare una piazza aiuta, ma se non la si riconosce e non la si cura come spazio pubblico, non basta. E poi, occorre intendersi: cos’è periferia? Ci sono le grandi periferie metropolitane, diverse fra loro, e c’è, per esempio l’immensa periferia, un po’ città, un po’ campagna, che va da Trieste a Torino».

E poi c’è la periferia del mondo.
«Sotto i nostri occhi abbiamo visto Karthoum, la capitale del Sudan, crescere di otto, dieci volte».

Lei lavora con Renzo Piano e il suo G124.
«Quest’anno ho il compito di tutor per un gruppo impegnato a Marghera. Talvolta penso che ci vorranno 500 anni per riparare un secolo di danni ambientali ».

Un’ultima novità: nella vostra idea di architettura c’è anche un diverso modo di comunicare.
«Il graphic novel. Per Becco-Giallo sono usciti tre volumi, uno sulla speculazione edilizia, un altro sulle architetture resistenti, un altro ancora sui luoghi di Emergency. E anche il catalogo della Biennale sarà a fumetti ».

Quel che c'è da sapere sul consumo di suolo, attraverso gli articoli e i documenti pubblicati in eddyburg.it. Intervento alla rassegna Leggere la città, Pistoia, 9 aprile 2016.



Premessa

Apparentemente, tutti d’accordo: occorre fermare il consumo di suolo. Alle parole, tuttavia, non seguono fatti concreti. Salvo rare eccezioni, i comuni non rivedono i piani urbanistici, le regioni non modificano le leggi e i programmi infrastrutturali e in Parlamento si trascina l’esame di un disegno di legge dai contenuti farraginosi che, quand’anche approvato, difficilmente consentirà di cambiare rotta.
Intanto il tempo passa: ben undici anni, da quando eddyburg, per primo, si è occupato del consumo di suolo, cui ha dedicato la prima edizione della scuola estiva di pianificazione. Da allora, abbiamo pubblicato oltre 170 articoli per descrivere l’entità e gli effetti della dissennata espansione del costruito, per dare voce alle molte iniziative contro la cementificazione ingiustificata e per formulare proposte di legge che, senza indugi, mettano fine al consumo di suolo. Possiamo essere soddisfatti per l’accresciuta attenzione dell’opinione pubblica e per il lavoro fatto dagli esperti, ma siamo ancora ben lontani da provvedimenti efficaci per contrastare il fenomeno. È utile perciò ricordare le questioni salienti, attraverso una visita guidata agli articoli del sito che aggiorna quella pubblicata dieci anni fa.
Consumo di suolo: quel che c’è da sapere

Il consumo di suolo è la misura dell’espansione delle aree urbanizzate a scapito dei terreni agricoli e naturali. Dieci anni fa non esistevano misurazioni attendibili, mentre oggi almeno questa lacuna è colmata. Ispra redige un rapporto annuale; Inu, Legambiente e Politecnico di Milano hanno istituito un osservatorio. Docenti universitari, tra cui Paolo Berdini, Bernardino Romano (con il WWF) e Paola Bonora, hanno coordinato accurati studi e ricerche. Alcune strutture regionali, su tutte quelle di Piemonte e Lombardia, sono impegnate in un monitoraggio costante che fotografa con precisione il disastro prodotto negli ultimi trent’anni.

Più di 20.000 kmq, l’equivalente di una regione come l’Emilia Romagna o la Toscana: a tanto ammontano le superfici urbanizzate nel nostro paese, e il dato è sicuramente sottostimato. Un valore elevato, soprattutto se consideriamo la qualità del territorio compromesso. Le ricerche di Legambiente sulle coste italiane e sulla Valtellina e il rigoroso lavoro di Antonio Di Gennaro ci ricordano che il suolo non è consumato in modo uniforme: il tributo pagato dalle pianure, dalla costa e dai fondovalle ha oltrepassato i livelli di guardia, con la compromissione di ecosistemi naturali, paesaggi storici e terreni agricoli di straordinario valore produttivo.

Casa dopo casa, capannone dopo capannone, l’espansione urbana si diffonde come fosse un virus. La stretta relazione tra consumo di suolo e dispersione insediativa è stata ampiamente documentata su eddyburg, tra gli altri, da Edoardo Salzano e Maria Cristina Gibelli, curatori della pubblicazione No sprawl per i tipi di Alinea.
Tutti i settori trainanti dell’economia italiana alimentano la bulimia costruttiva, in un perverso intreccio tra rendita fondiaria e conquista di nuovi mercati. Lo testimoniano innumerevoli episodi descritti su eddyburg, riguardanti centri commerciali, strutture ricreative, nuovi insediamenti turistici. È il segno di un’arretratezza generale del mondo produttivo, ancora restio - con poche eccezioni - a contrastare il declino con un impiego più efficiente delle risorse esistenti. Anche le cosiddette grandi opere giocano un ruolo fondamentale: impegnano direttamente centinaia di ettari e favoriscono la costruzione di nuovi insediamenti, lontano dai centri urbani. Lo spiega su eddyburg Anna Donati.
Dalla Tav alle autostrade, dall’aeroporto di Firenze fino all’Expo di Milano, le storie seguono tutte la stessa trama: decisioni opache, forzature procedurali, privatizzazione dei ricavi e socializzazione dei costi collettivi e, a dispetto di ogni ragionevolezza, unanime sostegno politico degli amministratori di turno.

Le conseguenze di questo dissennato modo di procedere sono descritte con grande efficacia nell’inchiesta di Michele Buono e Piero Riccardi per la trasmissione Report (su eddyburg un commento di Norma Rangeri), nel documentario Il suolo minacciato di Nicola Dall’Olio e negli interventi di Carlo Petrini e Tomaso Montanari.
SOS Consumo di suolo

In tutto il paese, la cittadinanza attiva è impegnata nel contrastare il perverso intreccio tra affari e politica che impedisce di mettere fine al consumo di suolo. Le storie raccolte nel sito rappresentano solo un piccolo campione di un più vasto movimento d’opinione. Solo nel 2008, tuttavia, si è ipotizzata una forma organizzativa più stabile, per mettere in rete le iniziative.

Tutto è cominciato a Cassinetta di Lugagnano, un piccolo comune della pianura milanese, per iniziativa di un giovane sindaco, Domenico Finiguerra. L’approvazione del piano regolatore dimostra la possibilità di soddisfare i bisogni sociali senza previsioni di espansione (su eddyburg, tra gli altri, articoli di Giorgia Boca, Francesco Erbani e un’ampia intervista allo stesso Finiguerra).

Il successo mediatico dell’iniziativa è il preludio per diffondere un appello al quale rispondono centinaia di associazioni che si costituiscono nel movimento Stop al consumo di territorio. Il movimento e il successivo Forum Salviamo il paesaggio, sono tuttora attivi e costituiscono un punto di riferimento per le iniziative di contrasto al consumo di suolo, in tutta Italia.
Una legge nazionale ci vuole, ma quale?

Le istituzioni non sembrano però intenzionate a fare proprie le richieste di cittadini e movimenti. Con il tempo aumenta il numero di politici che si dichiarano favorevoli a mettere un freno al consumo di suolo, a sinistra e a destra. Ma è poco più che un flatus vocis.
Se si deve agire per via normativa, servono chiarezza e semplicità. eddyburg, nel 2006, ha formulato una proposta di legge organica in materia di pianificazione territoriale, all’interno della quale sono contenute le seguenti disposizioni.

1. Nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti.
2. Le leggi regionali assicurano che, sul territorio non urbanizzato, gli strumenti di pianificazione non consentano nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, o consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all'estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista, come comprovate da piani di sviluppo aziendali o interaziendali, ovvero da piani equipollenti previsti dalle leggi.

Non occorre aggiungere altro: il recupero dell’esistente ha sempre priorità sull’espansione e – nel territorio non urbanizzato – di norma è vietato costruire se non in funzione delle esigenze di produzione agricola. Eventuali eccezioni devono essere motivate, pena la loro illegittimità.
La proposta di eddyburg è presentata in Parlamento, ma - com’è noto - la riforma urbanistica viene indirizzata su un binario morto.
Nel 2012, il Ministro delle politiche agricole Elio Catania presenta un disegno di legge specifico sul contenimento del consumo di suolo. L’iniziativa ottiene il plauso della stampa, ma non appena si rende disponibile l’articolato, si comprende che la via intrapresa è tortuosa, ricca di insidie e destinata all’inefficacia. Tutto si incentra sulla definizione di una quota massima di territorio potenzialmente urbanizzabile da ripartire tra le regioni e – all’interno di ciascuna di esse – tra i comuni.
L’esame del Ddl prosegue lentamente, interrotto dai sussulti politici: al governo Monti subentra quello guidato da Enrico Letta e, ora, da Matteo Renzi. L’impianto originale si arricchisce di disposizioni sulla rigenerazione urbana, l’impiego degli oneri di urbanizzazione, l’individuazione di compendi agricoli neorurali. Crescono i dubbi che si produca un esito contrario alle intenzioni iniziali, come spiegato su eddyburg da De Lucia, Gibelli, Agostini e Lungarella.

A oggi, l’esame procede senza correzioni migliorative. Salviamo il Paesaggio ha formulato una meritoria proposta di modifica e integrazione del disegno di legge, ma, come afferma giustamente Eddyburg, prima si mette una pietra su quel documento meglio è.

Nel 2013, un gruppo di amici di eddyburg formula una controproposta, essenziale e rigorosa, nella quale si prevede l’obbligatoria perimetrazione del territorio urbanizzato, al cui esterno sono vietati interventi di nuova edificazione. L’eccezionalità di eventuali deroghe è resa evidente dall’aver subordinato il loro assentimento ad appositi provvedimenti, caso per caso, dei consigli regionali. La salvaguardia del territorio non urbanizzato è considerata parte della «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione quindi della legislazione di competenza esclusiva dello Stato anziché della legislazione di competenza concorrente tra Stato e Regione. Per questo, le disposizioni dettate dallo Stato possono avere immediata efficacia.
Regioni, provincie, comuni: nessuno può tirarsi indietro

La Regione Toscana segue una strada simile a quella ipotizzata dalla proposta di eddyburg 2006 e affida ai comuni il compito di perimetrare il territorio urbanizzato nel proprio piano urbanistico. Per legge, all’esterno del territorio urbanizzato sono vietate nuove urbanizzazioni residenziali. Altri interventi possono essere consentiti attraverso rigorose procedure che prevedono, in ogni caso, il potere di veto della Regione. La legge urbanistica regionale, promossa dall’assessore Anna Marson, entra in vigore alla fine del 2014, dopo un lungo e teso dibattito che vede eddyburg schierato a favore della sua approvazione.
Le altre Regioni nicchiano, o peggio, fanno ammuina, come la Lombardia guidata dal gattopardo leghista, dove i movimenti ambientalisti, gli urbanisti e persino il partito democratico (ma solo perché all’opposizione) denunciano il tradimento delle promesse. E come il Veneto, dove ci si guarda bene dal mettere in discussione le espansioni previste nei PRG, sebbene comportino un incremento del 40% dell’attuale urbanizzato, e si consentono deroghe ai piani e aumenti di volumetria generalizzati, spacciandole per interventi di rigenerazione urbana (nel sito, vedi l'eddytoriale n. 168).

Non sono casi isolati, purtroppo. Il quadro complessivo delle iniziative regionali, la maggioranza delle quali è governata dal cosiddetto centrosinistra, è desolante. Qualcosa in più è stato fatto dalle provincie, e sarebbe lecito pretendere iniziative incisive dalle città metropolitane, per ora in stallo dopo l'approvazione della riforma Del Rio.
Infine, i comuni. Nonostante siano l’ultimo anello di una lunga catena decisionale, ulteriormente indebolito dalle controriforme degli ultimi trent’anni, conservano il potere di decidere le trasformazioni ammissibili nel territorio. Per tutti quelli che domandano se esista un “diritto di costruire”, incomprimibile senza costosi indennizzi, valgono le risposte di insigni giuristi come Vincenzo Cerulli Irelli e Paolo Maddalena. Motivatamente, i piani possono essere modificati in senso restrittivo. Volendo, quindi, si possono tagliare le previsioni di espansione, come ha fatto la coraggiosa Isabella Conti, sindaco di San Lazzaro di Savena, suscitando molto clamore nell’area bolognese. Ma anche altri comuni come Cassina De’ Pecchi e Budrio, sconosciuti alle cronache, hanno imboccato lo stesso percorso virtuoso. Continueremo a documentare su eddyburg queste iniziative, affinché siano d’esempio per l’urbanistica e la politica.

«Ad una cosa non ci siamo abituati: a non poter avere le prerogative di una normale comunità, a cominciare dalla possibilità di incontrarsi senza essersi dati appuntamento. Mancano i luoghi per questo; non luoghi costruiti ad hoc, ma i luoghi del quotidiano. E per gli aquilani questi luoghi si trovavano nel centro storico». Il manifesto, 6 aprile 2016 (m.p.r.)

L’istantanea del centro storico dell’Aquila è un cielo ammantato di gru. Con lo sguardo che si paralizza, ancor più silenzioso, tra palazzi puntellati e vie interdette. Con la scritta, che comincia a sbiadire, «Zona rossa», ovvero off limits al passaggio, anche pedonale. I bracci dei mezzi meccanici sono una selva, svettano un po’ ovunque, quasi si litigano un pezzetto d’azzurro, fissando dall’alto fabbricati sbrindellati; sovrastando squarci di edifici signorili, tapparelle deformate e scardinate e pezzi di water e armadi che sonnecchiano, tra mucchi di polvere, dentro appartamenti sventrati, ma con portoni chiusi da catene e lucchetti.

Solitamente, è un brulichio di operai. A sette anni dal terremoto che alle 3.32 del sei aprile 2009 devastò il capoluogo d’Abruzzo e il suo circondario, provocando 309 vittime e oltre 1.500 feriti, è una città disorientata.

Tempi ancora lunghi

La ricostruzione, era stato promesso, sarebbe terminata entro il 2017. Ma i tempi previsti sono ancora lunghissimi. In centro diverse attività commerciali hanno timidamente riaperto e con esse anche alcuni uffici pubblici, tra cui la sede del Comune. Ma, rispetto a prima del disastro, sono una minima parte. E ciò che si coglie, negli occhi di quanti qui sono tornati ad operare e ad investire, è la rassegnazione. «Si lavora soprattutto con gli operai - affermano i commercianti -. Gli incassi languono, ma dobbiamo andare avanti. E quando i muratori staccano, è come se scattasse una sorta di coprifuoco».

«Il terremoto, quando arriva, non si limita ai pochi secondi della scossa. Continua fino a che non si esaurisce la scia dei danni che ha provocato. Quelli materiali e quelli sociali, mentali e psicologici. Perché il terremoto ti entra dentro e non ti molla. Per questo - riflette il giornalista Enrico De Pietra – non parlerei tanto di 7 anni dal sisma, ma di 7 anni di sisma. Sette anni per certi versi surreali, durante i quali, almeno apparentemente, ci siamo abituati a tutto: ai nostri morti, alla diaspora, al ritorno, alla precarietà, alla provvisorietà, alla desertificazione del centro storico, alle beghe e al malaffare. Ad una cosa non ci siamo però abituati: a non poter avere le prerogative di una normale comunità di provincia, a cominciare dalla possibilità di incontrarsi gli uni con gli altri senza essersi dati appuntamento. Mancano i luoghi per questo; non luoghi costruiti ad hoc, ma i luoghi del quotidiano. E per gli aquilani questi luoghi si trovavano nel centro storico. I quartieri tutt’intorno sono ricostruiti e ripopolati, quasi per intero, ma, non c’è verso, non sono nati per essere autonomi e aggreganti. Oggi - evidenzia - si entra nel cuore della città, la si osserva da lontano, e si capisce che si sta lavorando a pieno regime».

Sono poco più di 420 i cantieri attivi. «Sta di fatto, però, che resta un luogo… sospeso. Le stime ufficiali - aggiunge - dicono che nel 2022 il cuore dell’Aquila sarà totalmente ricostruito. Ma nessuno, nemmeno chi queste stime le ha prodotte, può onestamente dire con certezza se la previsione sarà rispettata».

Periferia «privilegiata»

La vita si concentra nelle periferie, nei pochi centri commerciali che, non essendoci alternative, sono diventati punto privilegiato di aggregazione. La vita è dislocata soprattutto nelle 19 new town, la cui nascita venne annunciata lo stesso giorno della tragedia. Mentre si piangeva, mentre si scavava sotto le cataste di macerie, sotto i rimasugli di stanze, mentre si allineavano le bare. E mentre alcuni imprenditori ridevano per gli affari che il disastro prospettava.

Sono 8.351 i cittadini ancora assistiti - quelli che hanno le proprie abitazioni inagibili -, sistemati tra i progetti Case, palazzoni antisismici ecocompatibili sorti in piena emergenza e a firma di Berlusconi e dell’allora capo della protezione civile Guido Bertolaso, e nei Map (Moduli abitativi provvisori), le cosiddette casette di legno. Ma il disagio è anche tra i banchi, per gli studenti: ci sono ancora 17 Musp (Moduli ad uso scolastico provvisorio) che ospitano circa 6 mila alunni.

«Nonostante i numerosi problemi di gestione sorti negli anni - commenta Fabio Pelini, assessore all’Assistenza alla popolazione - queste strutture sono state un punto di riferimento nelle fasi calde del post tragedia (quando ci furono 16 mila sfollati, ndr) ma, successivamente, hanno anche permesso di rispondere alle molteplici esigenze abitative emerse con l’acuirsi della crisi economica. Oggi – aggiunge – la fase più difficile ce la lasciamo alle spalle e il prossimo obiettivo è di razionalizzare l’utilizzo di questo patrimonio immobiliare, conservando gli alloggi ben fatti e smantellando quelli malconci».

Già perché gli edifici del progetto Case, per la cui realizzazione fu speso quasi un miliardo di euro, con l’operazione gestita interamente dalla Protezione civile, stanno mostrando i propri limiti. Formano sostanzialmente quartieri dormitorio, privi di servizi, che cadono a pezzi, tranne alcune eccezioni. Infiltrazioni negli appartamenti e nei garage, umidità e muffe che favoriscono pure la crescita dei funghi, perdite dagli scarichi, allagamenti, pavimenti che si scollano, problemi fognari.

Nel settembre 2014 è crollato un balcone nella frazione di Cese di Preturo e la magistratura e la Forestale hanno posto sotto sequestro 800 balconi in cinque di questi insediamenti: oltre che a Preturo, anche ad Arischia, Collebrincioni, Sassa e Coppito. E così, in queste case, le famiglie sono costrette a stare ‘sigillate’ tra le mura domestiche, senza potersi affacciare. Il 3 aprile scorso un altro balcone è crollato, sempre «per cedimento strutturale», sempre nella frazione di Cese di Preturo, dove alcune palazzine erano fortunatamente già state evacuate. A dare l’allarme è stato un signore che passeggiava con il cane. L’uomo ha sentito il tonfo e ha allertato le autorità.

Ieri dal municipio, per questa faccenda, è partita un’ordinanza con cui si dispone, per motivi di pubblica incolumità, lo sgombero di altri appartamenti.

Case nuove, crollano balconi
Per il crollo di Cese c’è un’indagine aperta, per difetti di costruzione e fornitura di materiali scadenti, con 39 indagati. Il legno, per balconi e alloggi, era stato fornito dalla Safwood, sotto inchiesta a Piacenza per crac finanziario.

«Se la Procura dovesse accertare che non solo i balconi ma anche i solai degli appartamenti sono a rischio a causa della stessa pessima fornitura, avrò 700 famiglie cui dare un altro tetto - dichiara il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente -. Inoltre le imprese che nel 2009 hanno costruito le new town dovrebbero, per contratto, intervenire sulle manutenzioni per 10 anni ma molte di esse sono fallite e quindi il Comune non sa su chi rivalersi». Nei casi più gravi e onerosi, dove il risanamento costerebbe milioni, il primo cittadino ipotizza il possibile abbattimento di questi complessi, costati 2.700 euro al metro quadrato e che sono esempio di «spreco di denaro e infiltrazioni mafiose».

Senza dimenticare l’inchiesta sugli isolatori sismici, installati in gran numero sotto le piastre delle new town: durante alcune prove di laboratorio in California, invece di resistere al terremoto simulato, si sono spezzati.

Va così, in una città vuota e smarrita, freneticamente a caccia di occasioni e in cerca di giustizia… Perché sette anni dopo si cerca ancora la verità su quanto accaduto quella funesta notte. C’è una ferita che s’infila e s’aggrappa, sdegnosa, ai numerosi processi spuntati dal dramma.

Tra essi, a generare più d’ogni altro rabbia e scandalo, c’è quello alla commissione Grandi Rischi. Solo pochi giorni fa la Cassazione ha depositato le motivazioni del verdetto con cui ha assolto i luminari finiti alla sbarra . «I sei esperti della Commissione - recita la sentenza 12478 - convocati a L’Aquila dalla Protezione civile, nella riunione del 31 marzo 2009, non erano al corrente del fatto che la seduta aveva la finalità di fornire alla popolazione un messaggio di rassicurazione». Allora la Protezione civile era guidata da Guido Bertolaso, attualmente candidato a sindaco di Roma.

Per la Suprema Corte, «gli scienziati - Franco Barberi, Enzo Boschi, Giulio Selvaggi, Michele Calvi, Claudio Eva e Mauro Dolce - nella riunione confermarono motivi di allarme per la situazione e negarono la teoria della prevedibilità dei terremoti».

Bertolaso «latitante»

Secondo la Suprema Corte fu solo Bernardo De Bernardinis, l’allora vice di Bertolaso, ad «aver calcato la mano» e ad aver tranquillizzato una città impaurita. «Non accadrà nulla». Ed invece fu una strage. De Bernardis fu imbeccato da Bertolaso? Ci sono telefonate, interviste e intercettazioni che lo provano ma… Bertolaso, per questo, ha due procedimenti aperti, uno penale, in cui è accusato di omicidio colposo plurimo e che il 7 ottobre si prescriverà, e l’altro civile.

«I familiari delle vittime - spiega il consigliere comunale Vincenzo Vittorini - stanno chiedendo a Bertolaso di lasciarsi processare, rinunciando all’imminente prescrizione». In tal senso c’è anche una petizione. “Che la magistratura faccia il proprio corso nell’accertare eventuali responsabilità: questo si pretende. E’ un coro di migliaia di voci a volerlo”.

Per quanto concerne il processo civile, l’ultima udienza è saltata perché Bertolaso risulta essere «irrintracciabile». Quindi niente citazione.

«Vive al quartiere Parioli - dichiara Antonietta Centofanti, referente del comitato “Familiari delle vittime del crollo della Casa dello studente” -, è visibile all’intero Paese con comparsate in tutte le reti televisive pubbliche e private, ma non è rintracciabile da un messo giudiziario che gli deve consegnare una convocazione affinché si presenti in aula. E’ una grave mancanza di rispetto, anche nei confronti dei nostri morti. Che poi quel che è accaduto riguarda tutti e questi sono i morti di tutti».

Demistificare le frottole, criticare l’uso perverso dei fatti ridotti a luoghi comuni, fare insomma controinformazione è parte del lavoro di eddyburg. Il problema della Campania non è l’agricoltura inquinata ma la mancanza di una politica decente per l’area metropolitana di Napoli

Un po' di tempo fa Salzano mi ha chiamato da Johannesburg, per chiedermi come stavo, e come andavano le cose in Campania. Nel tempo ho imparato che le imbeccate di Eddy, da qualunque parte del mondo provengano, giungono di solito al momento giusto. Con gli amici di eddyburg vorrei allora condividere una riflessione, probabilmente non scontata, sulla lezione appresa con la crisi della Terra dei fuochi, una faccenda che ho dovuto seguire da vicino.

Sebbene il tema fosse all'attenzione pubblica da un decennio (l'espressione "Terra dei fuochi" appare per la prima volta in un rapporto Legambiente sulle ecomafie del 2003, nel 2006 la usa Saviano come titolo dell'ultimo capitolo di "Gomorra") la tempesta mediatica scoppia nell'estate 2013, con l'intervista rilasciata a SkyTG24 da Carmine Schiavone, il faccendiere del clan dei Bidognetti, che racconta in prima persona i seppellimenti dei rifiuti speciali, tossici, radioattivi. L'impatto sull'opinione pubblica è enorme, con il flusso ininterrotto di reportage giornalistici che veicola, per lo più in forma implicita, un racconto che potremmo riassumere così: nella piana campana, per un quarto di secolo, sono arrivati rifiuti da ogni dove, che sono stati interrati un po' in giro. I suoli e le acque si sono contaminati. Le colture agricole praticate su quei suoli e irrigate con quelle acque si sono contaminate anch'esse. Il consumo di quei prodotti ha causato un aumento delle malattie tumorali nelle popolazioni locali. Questo schema viene dato per scontato, non è il caso di metterlo in discussione, pena l'accusa infamante di "negazionismo". Così, il capro espiatorio diventano gli agricoltori della piana campana, o più precisamente dell'intera regione. Nei negozi iniziano a comparire cartelli del tipo "Qui non si vendono prodotti campani". Il governo emana l'ennesima legge speciale per l'area napoletana, il decreto "Terra dei fuochi", un dispositivo barocco il cui obiettivo è l'individuazione delle aree agricole contaminate, da sottoporre a interdizione.

In questi tre anni, con un gruppo di lavoro di un centinaio di persone, ho lavorato anch'io al sistema dei controlli, che hanno impegnato Università, Servizio sanitario nazionale, Istituto superiore di Sanità, Istituto Zooprofilattivo per il Mezzogiorno. La piana campana è stata passata al setaccio - acqua, suoli, prodotti agricoli - migliaia di campioni, un enorme data base territoriale, che non ha in questo momento riscontro in nessuna pianura d'Europa. Lo stato di salute dei suoli agricoli della piana campana, è risultato simile a quello delle altre pianure italiane ed europee a comparabile grado di antropizzazione (sulla piana campana vivono quattro milioni di persone, è la terza area metropolitana del paese). I livelli più elevati di berillio, arsenico, manganese, sono legati al valore naturale di fondo, alla natura vulcanica dei suoli. Dei circa seimila campioni di prodotti agricoli esaminati, non uno è risultato contaminato, difforme dai severi limiti di legge. Il gruppo di lavoro governativo, istituito con il decreto Terra dei fuochi, ha identificato alla fine una quarantina di ettari che non andavano, sui centomila monitorati.

Certo l'acqua della prima falda, come in pianura padana, non è proprio pulita, ma le ricerche rigorose dell'Istituto superiore di sanità hanno confermato che l'uso agricolo di quelle acque non crea nessun problema alle produzioni. Come accade da dodicimila anni, l'agricoltura e il sistema suolo-pianta continuano a funzionare come "filtro" della società, grazie meccanismi efficienti di bloccaggio, detossificazione, assorbimento selettivo. D'altro canto, a scala mondiale, la FAO da vent'anni promuove la campagna per l'uso irriguo delle acque reflue, considerato che l'acqua pulita serve per far bere gli uomini.

Sul fronte sanitario, si scopre poi che, grazie al lavoro valoroso di Mario Fusco, epidemiologo dell'ASL Napoli 3, la piana campana ha uno dei registri tumori più longevi d'Italia, con le serie storiche di dati che dicono una cosa diversa dallo schema ufficiale. L'incidenza (il numero di nuovi casi che si verificano ogni anno su 100.000 abitanti) delle principali malattie tumorali nella piana campana, come avviene nelle altre parti d'Italia è in discesa, ed è in linea con le medie nazionali. All'opposto, la mortalità è di alcuni punti superiore. Insomma, nella cosiddetta Terra dei fuochi ci si ammala allo stesso modo, ma si muore di più, ed allora il discorso è completamente diverso, e chiama drammaticamente in causa le prestazioni del servizio sanitario nazionale e le politiche di assistenza alla persona.

Insomma, il teorema che giornali e telegiornali di mezzo mondo hanno propagandato come fatto certo, non ha retto sino ad ora la prova delle verifiche, si è rivelato del tutto infondato. Sia chiaro, nessuno intende negare la verità dei fatti giudiziari accertati. Stiamo solo dicendo che le conseguenze ecologiche di quei fatti non sono corollari, deduzioni letterarie che è possibile fare a tavolino. Lo stato di salute degli ecosistemi si misura sul campo, con le tecniche e i metodi appropriati, altrimenti è medioevo. Dopo tre anni di clamore, scopriamo quello che sapevamo già: i venti milioni di tonnellate di rifiuti giunti nella piana campana, sono finiti nelle 6 grandi discariche che in questo quarantennio hanno funzionato tra Napoli e Caserta. La loro superficie è di 400 ettari scarsi, comprese le pertinenze e le zone tampone, sui 140.000 ettari della piana. La loro perimetrazione è stata fatta a scala catastale da un decennio, nel piano regionale delle bonifiche, che ne prevedeva la messa in sicurezza, e che è rimasto lettera morta.

La cosa che ho cercato di far comprendere in questi anni, alla fine, è che il problema non sono le bonifiche (che in Italia vanno a finire male, sarebbe meglio puntare alla messa in sicurezza), ma il governo dell'area metropolitana: questo mosaico rur-urbano sconnesso nel quale vivono come possono quattro milioni di persone, e all'interno del quale lo spazio agricolo, seppur frammentato e intercluso, costituisce ancora, nonostante tutto, la porzione dominante, il sessanta per cento della superficie territoriale complessiva. In questo spazio precario attorno alla città, operano quasi quarantamila aziende agricole, che producono, su una assai limitata porzione del territorio, metà quasi del valore aggiunto agricolo regionale. La mortificazione immotivata di questa agricoltura di presidio, che ha dovuto svendere nell'anonimato in questi ultimi anni le sue pregiate produzioni, la chiusura di queste aziende, creerebbe un immane deserto economico e sociale, ed è proprio quello che i poteri criminali si augurano.

Insomma, il motore dell'agricoltura campana, una delle più importanti del paese, è ancora qui. Certo, si tratta di un'agricoltura invisibile, non considerata dalle politiche e dai programmi istituzionali, perché in fondo la sua funzione deve rimanere quello di spazio disponibile per l'espansione urbana, area di risulta per tutte le attività che la città respinge. Su queste terre nere, le più fertili dell'universo conosciuto, il consumo di suolo in epoca repubblicana non ha conosciuto requie, con le città della piana che dalla metà del '900 hanno sestuplicato la loro superficie, in un processo che non conosce fine, se le aree urbanizzate sono ancora raddoppiate nell'ultimo trentennio, come effetto dell'onda lunga della ricostruzione seguita al sisma del 1980.

Insomma, se veramente vogliamo agire, dobbiamo partire da una lettura completamente differente della crisi. Aprire gli occhi su un'area importante, il terzo sistema metropolitano del paese, nel quale nonostante l’immane spreco di suoli e paesaggi si concentra larga parte del disagio abitativo nazionale, mentre mancano all'appello attrezzature collettive e aree verdi per un'estensione pari a seimila campi di calcio . Un colossale deficit di cittadinanza, che si concreta nella drammatica carenza di tutti i servizi essenziali dai quali dipende la qualità del vivere quotidiano, dall'acqua, ai rifiuti, all'istruzione, alla mobilità, all'assistenza e alla cura della persona. Anche di tutte queste cose, alla fine, si muore.

Nella sua dimensione di spazio di vita, questo territorio scombinato, fatto di spazi agricoli e poveri pezzi di città, è l'ambiente nel quale vivono i due terzi della popolazione metropolitana, che ha oramai identificato proprio in questo disordine, nella fatica del vivere quotidiano che esso comporta, la principale minaccia alla propria esistenza e al futuro. La crisi della Terra dei fuochi sta tutta qui, nell'atteggiamento di complessivo rifiuto di un habitat percepito come ostile, a partire proprio dalle sue componenti rurali, considerate in un simile contesto alla stregua di insidiose fonti di rischio.

Così come in maniera ostile viene vissuto il rapporto con il capoluogo, ritenuto storicamente incapace di esercitare una leadership e una rappresentanza di scala territoriale, e piuttosto accusato di aver sacrificato ai propri interessi la green belt della piana, alla stregua di uno spazio di risulta, privo di valore autonomo, nel quale disordinatamente collocare funzioni ingrate, pesi molesti, scarti indesiderati

Risulta evidente come, a fronte di questa difficile eredità, la città metropolitana che stentatamente si costituisce al posto della vecchia provincia, debba a questo punto funzionare come spazio istituzionale e obbligato di confronto, l’ultima chance per mettere mano ad un’agenda seria e urgente di riequilibrio territoriale ed ambientale, a un’alleanza nuova tra il capoluogo e i territori dell’hinterland. Il progetto è chiaro: se in altri contesti nazionali ed europei la costruzione di istituzioni metropolitane è funzionale all’armonizzazione di scala superiore di una dotazione comunque congrua di servizi e funzioni, qui nell'area napoletana la cosa è diversa, e alla città metropolitana è assegnato il compito, verrebbe da dire la missione impossibile, di restituire dignità ai contesti, di dotare finalmente un sistema territoriale congestionato e sofferente degli standard minimi di cittadinanza e civiltà, che un cinquantennio di non-governo, centrale e locale, non è riuscito a garantire. E, naturalmente, mettere in sicurezza le ferite localizzate che un irrisolto ciclo dei rifiuti ha inferto al territorio e ai paesaggi.

La dimensione del problema è evidente, e vale ancora purtroppo l'esortazione del vecchio Nitti, a considerare «.. il problema di Napoli non altrimenti che come un grande problema nazionale, come un problema che tutta la nazione ha il dovere di affrontare e dichiarando lealmente che se sacrifizi occorrono, occorrono pure da ogni parte».

«La morte, purtroppo, sembra scelta con cura, decisa a tavolino da amministrazioni inefficienti, stabilita dall’ignavia o dalla mediocrità o soltanto dalla incompetenza (comunque colpevole) delle classi dirigenti». Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2016

Cadono come foglie morte in autunno. I paesi che vanno scomparendo, afflitti da un abbandono che sembra non avere fine, supereranno, a dicembre 2016, la triste soglia di 1650. È un quinto dei comuni italiani che è in cammino verso il nulla, un sesto della superficie nazionale che viene colpita dall’abbandono e lasciata inselvatichire. Il quattro per cento della popolazione migrerà e due sono le destinazioni possibili: o il cimitero oppure i grandi centri urbani. Due anni fa, in un bel rapporto curato per Confcommercio da Legambiente su dati del Cresme, furono definite ghost town, città fantasma, le mille piazze sempre più desolate e afflitte, le case vuote, le mura sbrecciate, campanili cadenti. Comunità colpite al cuore che lentamente, e nella più assurda e colpevole distrazione collettiva, si avviano all'eutanasia.

Gli studiosi lo chiamano “disagio”, anzi “l’Italia del disagio”. Poco alla volta chiudono i battenti i servizi elementari ed essenziali. Naturalmente prima gli ospedali, trasformati in lunghi e penosi comparti di geriatria, poi le scuole, con l’accorpamento delle distinte classi elementari e la sistemazione delle medie in luoghi distanti anche dieci chilometri dalle poche abitazioni in cui vivono ragazzi in età scolastica, poi l’ufficio postale.
L’anno scorso le Poste hanno iniziato a “razionalizzare”: un grande programma di ammodernamento che toglierà ai cittadini italiani che ancora si attardano a voler campare nei paesi che li hanno visti crescere, le essenziali relazioni civili ed economiche. Nei municipi il segretario comunale è già a “scavalco”, nel senso che si presenta al lavoro a giorni alterni, coniugando le funzioni in due o più uffici. Così anche il tecnico, in genere l’unico geometra o ingegnere di cui è dotata la pianta organica. Le chiese da tempo sono lasciate senza parroci perché la fede è grande ma i preti si fanno sempre più piccoli nel numero.
Questa è l’Italia che se ne va. Naturalmente va scomparendo di più, molto di più al Sud, massimamente nelle aree interne del Mezzogiorno con segni acuti nelle isole; di meno, molto di meno al Nord. In un rapporto fondamentale e accurato su Paesaggio e patrimonio culturale l’Istat ha raccolto una imponente mole di informazioni, le ha stese per iscritto (ma al governo le leggono?) e ha spiegato che non esiste un destino obbligato. La morte, purtroppo, sembra scelta con cura, decisa a tavolino da amministrazioni inefficienti, stabilita dall’ignavia o dalla mediocrità o soltanto dalla incompetenza (comunque colpevole) delle classi dirigenti.
I soldi sono importanti certo, e la massa di finanziamenti che si dirige in alcune porzioni d’Italia sono assai più cospicue rispetto ad altre. Ma i soldi non spiegano tutto. In Italia c’è una montagna che produce benessere, come le rocce altoatesine e quelle trentine, e per affinità le bellunesi e le lombarde, e una montagna che invece mangia la vita. La catena dell’Aspromonte è selvaggia, lussureggiante e spettacolare quanto il profilo alpino. Eppure è morente, prossima all’inselvatichimento, all’abbandono “per erosione”. E come l’Aspromonte l’appennino lucano, le Serre di San Bruno in Calabria, il cuore del Gennargentu in Sardegna, la vasta, bellissima piana nei dintorni di Enna.
Ma perfino nel Sud, scrive l’Istat nel rapporto di cui la geografa Alessandra Ferrara è una delle curatrici, c’è un altro Sud, sistemi locali persistenti e resistenti, a volte vincenti, attività produttive che danno prova di avere una capacità, un mercato, un futuro perché sono oggetto di un piano, hanno ottenuto attenzione e cura da parte di chi governa quei territori. Prima di stilare la lista delle croci, i nuovi cimiteri dentro i quali sarà purtroppo sepolta la metà del territorio italiano, riguardiamo la tabella preparata da Legambiente che offre la dimensione della progressione. Nel 1996 il “disagio” riguardava 2.830 comuni, imponendo una migrazione prospettica alle nuove leve della popolazione residente, pari a cinque milioni. Nel 2001 i comuni divengono 3.292, nel 2006 fanno 3.556, nel 2011 sono già 3.959, quest’anno si arriverà alla cifra record di 4.395.
Sono quattordici milioni gli italiani che vivono in luoghi carenti nei servizi, con prospettive di occupazione più modeste, e una resistenza nelle case che li hanno visti nascere assai più fragile. Partiranno, e se non partiranno accetteranno, dove sarà possibile, un regime di vita e un trattamento sociale iniquo. Sennariolo, nel cuore della Sardegna, è lì lì per morire. Conta 183 abitanti e chiuderà i battenti tra non molto.
Poche settimane fa l'associazione Nino Carrus che tiene il conto dei morituri ha organizzato un convegno e illustrato ai politici regionali la situazione. Entro il 2050 166 paesi saranno vuoti, foglie morte in terra, nei prossimi quattro anni una prima trentina si accomietarà definitivamente. Nell’ultimo decennio 16 mila abitanti hanno fatto le valigie, nei prossimi tre anni, se le proiezioni non barano, altri quattromila saluteranno amici e parenti. L’Unione sarda ha elencato i cari futuri estinti: Bortigiadas, Padria, Giave, Montresta, Sorradile, Nugheddu San Nicolò, Baradili, Soddì, Ula Tirso, Martis, Armungia, il paese di Emilio Lussu.

L’Istat ha invece aggregato i territori per tematiche affini. In quelle abbandonate per erosione ha individuato una piccola capitale. Le comunità siciliane che gravitano intorno a Prizzi (Palermo) hanno perso negli ultimi tre anni il 13,3 per cento degli abitanti. Paesi dai nomi dolcissimi come Contessa Entellina, Campofiorito, Roccamena, Ficuzza vanno incontro alla sepoltura e neppure tanto lentamente. E in Calabria nell’area intorno a Chiaravalle Centrale, appena sopra l’istmo, la popolazione è diminuita del 15 per cento. Che ne sarà di Acquamammone, di Pirivoglia, di San Pietro? Nei pressi dell’ultimo cantiere della Salerno Reggio Calabria, a Mormanno, la flessione è stata del 12,4 per cento.

Tra dieci anni ritroveremo Castelluccio al suo posto? Salendo lo Stivale il baratro demografico si fa ancora più profondo e raggiunge un punto di non ritorno. Stigliano è la capitale di un territorio che dal 2011 al 2014 ha perso quasi il 22 per cento dei residenti. È una fuga amara, ingiusta. Morrà il paese di Carlo Levi, Aliano? Ce la farà Accettura? Nella Daunia pugliese il buco è pari al 16,9 per cento. Castelnuovo, Colletorto, Celenza, Casalnuovo Menterotaro. Nomi che scorrono, campanili che finiscono a terra, piazze conquistate dai cani randagi. Sono pezzi del nostro cuore, segni dell’identità e della civiltà contadina. Nelle campagne in cui si faceva il grano nasce l’ortica, gli ulivi rinsecchiscono, i fiumi conquistano gli orti, le strade statali, oramai senza più manutenzione, si trasformano piano piano in mulattiere. Ponti cadenti, guard rail arruginiti, terrapieni sbrecciati, frane dappertutto.
Il volto ingiusto di un’Italia che spinge sulla costa, si assiepa davanti al mare e lascia il suo cuore, il centro appenninico, vuoto, desolato, inutile. Come un barcone di immigrati, ci sistemiamo tutti ai bordi. Le città si allungano e continuiamo a costruire, mentre esiste un patrimonio abitativo disponibile e accessibile, oltre ogni ragionevole ipotesi, pochi passi più in là. Sono 18mila gli edifici costruiti nelle zone a vincolo, aree di inedificabilità assoluta, e in questi anni di recessione gli abusi, realizzati soltanto per sottrarsi alle tasse, sono raddoppiati. Siamo giunti al principio del fifty-fifty: per ogni nuova casa edificata con licenza, una realizzata all’impronta e senza titolo.
Nell’Italia che muore esiste però la speranza di un altro Paese che resiste e anzi avanza. Ci sono aree, distretti, territori anche al Sud in cui l’economia tiene. Nell’Irpinia, con Sant’Angelo dei Lombardi e Ariano Irpino, a Fonni e San Teodoro in Sardegna, Amantea e Belvedere Marittimo in Calabria, Cassino e Sora nel Lazio, Lauria in Basilicata. La montagna o la collina dà benessere, e invece i soldi, solo i soldi, non bastano a cambiare vita. La via nera del petrolio in Lucania è un caso esemplare. Corleto Perticara è una delle capitali estrattive, dei centri propulsori di una economia texana che ha concesso in royalties ai comuni interessati un miliardo di euro. Eppure gli indicatori non danno speranza, la migrazione verso altri luoghi continua malgrado (o, forse, a causa?) del petrolio. E quanti soldi in fondi europei le aree interne (molte al Sud, ma alcune anche al centro nord) hanno ottenuto nel’ultimo quindicennio? Almeno cento miliardi di euro. Spesi come? Infine una nota estetica. Dove l’impianto urbanistico è meglio tenuto, si fa più attenzione, si è più partecipi e più indisponibili ad accettare il brutto. Il brutto si cura solo con il bello e l’Istat conferma.

«Il ministero delle Infrastrutture lo “raccomanda” a quello dell’Ambiente, autorizzando gli studi d’impatto ambientale», che saranno realizzati dal Corila, lo stesso ente che ha coordinato e portato a termine nel 2010 il nuovo Piano Morfologico della Laguna di Venezia, fortemente critico sull'allargamento delle attività portuali, e probabilmente per questo insabbiato. La Nuova Venezia, 18 marzo 2016 (m.p.r.)

Il ministero delle Infrastrutture apre al progetto Tresse Nuovo, alternativo al passaggio delle Grandi Navi dal Bacino di San Marco e sostenuto dall’Autorità Portuale di Venezia - dopo la “bocciatura” dello scavo del canale Contorta-Sant’Angelo - dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro (che per primo l’ha proposto) e anche dal presidente della Regione Luca Zaia. A dare la notizia è stato lo stesso presidente dell’Autorità Portuale da Fort Lauderdale, negli Stati Uniti, dove è in corso la fiera mondiale della crocieristica.

«In questi giorni» dichiara Costa «è giunto il via libera del Ministero delle Infrastrutture a investire per completare gli studi di impatto ambientale (Sia) del progetto Tresse Nuovo per completare la documentazione presentata alla commissione di Via. Il Ministero ha infatti ribadito il carattere prioritario del progetto Tresse Nuovo rispetto ad altri progetti tenendo conto così della volontà e dei parerei espressi dagli enti locali». La notizia, aggiunge l'Autorità Portuale, è stata comunicata ai partecipanti al Seatrade Cruise Global a Fort Lauderdale, che in più occasioni durante la Fiera e la Conferenza parallela, hanno sollevato il caso Venezia, rilevando che «l'indecisione provoca danni rilevanti all'occupazione in un'industria che altrimenti, anche nel resto d'Europa, si sta sviluppando a ritmi sostenuti».
Il passaggio testuale della lettera del Ministero guidato da Graziano Delrio - inviata per conoscenza anche al Ministero dell’Ambiente - che introduce di fatto una sorta di cortesia preferenziale per il progetto Tresse Nuovo, è il seguente: «Con l’occasione si fa presente al Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare che il carattere prioritario risiede nella circostanza che tale progetto ha ricevuto i pareri positivi di tutte le amministrazioni locali rispetto ad altri in corso di elaborazione». Il riferimento è, evidentemente al progetto “Venice Cruise 2.0”, proposto dalla Duferco e dalla società dell’ex viceministro Cesare De Piccoli, che prevede un nuovo terminal crocieristico alla bocca di porto di Lido, già all’esame della Commissione Via - il parere è atteso per il 25 aprile - e aspramente contestato da Brugnaro.
Il progetto Tresse non è ancora pronto, perché manca appunto ancora la parte dello Studio di impatto ambientale - che sarà realizzata dal Corila (Consorzio di ricerche sulla laguna) - che proprio la lettera delle Infrastrutture ora autorizza. La situazione però è ancora tutt’altro che definita, e lo conferma una dichiarazione del governatore Zaia sul problema Grandi Navi, ribadendo la «piena disponibilità» della Regione a spostarle fuori dal bacino di San Marco. «A me però risulta» ha aggiunto «che ancora i diversi Ministeri stiano litigando tra loro».
Se le Infrastrutture sono a favore, chi non è d’accordo è, evidentemente, il Ministero dei Beni Culturali, con quello dell’Ambiente - che dovrà decidere sul tracciato con i suoi tecnici - nel ruolo teorico di arbitro. «Al di là di qualsiasi corsia preferenziale, ogni progetto alternativo al passaggio delle Grandi Navi da San Marco» ha dichiarato ieri il sottosegretario ai Beni Culturali Ilaria Borletti Buitoni «dovrà comunque essere sottoposto ai criteri di esame della Commissione di Valutazione d’impatto ambientale del Ministero dell’Ambiente, gli stessi per tutti, che tutelino la laguna. Personalmente trovo che la proposta del ministro Franceschini di spostare il polo crocieristico dell’Alto Adriatico a Trieste sarebbe di estremo buon senso, perché porterebbe ugualmente i turisti a Venezia, ma evitando lo scavo di nuovi canali per navi crociera sempre più grandi».
Riferimenti
Sulla vicenda del Piano Morfologico della Laguna di Venezia si veda su eddyburg di Andrea Defina,Stefano Lanzoni, Marco Marani Per chiarire una questione Contorta, e di Domenico Patassini Contorta: note sulla valutazione di impatto ambientale (Via).

Approfittando della stagnazione degli affari (salvo quelli che riguardano gli armamenti) le previsioni sballate dei piani regolatori si possono correggere, e cancellare aree d'espansione inutili. Un paio di esempi. La Stampa, 10 marzo 2016
Sembra la brillante trovata per un fumetto di Topolino, ma via Cemento Armato esiste davvero. A Desenzano, sul lago di Garda. Istituita negli anni del boom edilizio, questa stradina contornata di villette, giardini e complessi residenziali con piscina è un simbolo dell’espansione immobiliare che fu, con valori di 10 mila euro al metro quadro alimentati dagli acquirenti tedeschi.

Nel 1971 Desenzano aveva 10 mila abitanti; nel 2012 sono 28 mila, quando a ridosso delle elezioni viene approvato un piano regolatore che prevede centinaia di migliaia di nuove costruzioni. La nuova giunta chiama come assessore all’urbanistica Maurizio Tira, docente universitario a Brescia. Il professore fa due conti: in città ci sono 2500 alloggi invenduti, ma il nuovo piano ne prevede per ulteriori 3 mila abitanti. Così in sei mesi blocca il piano e poi ne scrive uno nuovo «a consumo di suolo zero». Una rivoluzione che vuole concludere con «un atto simbolico»: la proposta di cancellare via Cemento Armato, «diventata un anacronismo culturale e toponomastico».

A pochi mesi dalla fine del mandato, Tira ha raccontato la sua esperienza in un convegno sulla riduzione del consumo di suolo a Rivalta, cittadina dell’hinterland torinese, in cui amministratori pubblici ed esperti hanno fatto il punto su buone pratiche, modelli internazionali, ostacoli giuridici e politici. Negli ultimi anni la crisi e una nuova sensibilità hanno alimentato il dibattito. «Anche l’enciclica papale Laudato si’ incrocia il tema», spiega Paolo Pileri, docente al Politecnico di Milano e autore del libro «Che cosa c’è sotto. Il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo», di cui Altreconomia sta pubblicando un’edizione aggiornata. Pileri tiene un corso unico in Italia: con gli studenti «smonta e rimonta» i veri piani regolatori, «riscontrando previsioni demografiche superiori alla dinamica reale con punte del 60%».

Come Desenzano, anche Rivalta è un caso paradigmatico. Anche qui nel 2011 viene approvato un piano regolatore basato su una prevista crescita demografica, del tutto irrealistica, di 7 mila abitanti sui meno di 20 mila attuali. Poi vince le elezioni una lista civica ambientalista, chiamando come assessore Guido Montanari, docente di architettura al Politecnico di Torino.

Il cambio di filosofia è radicale - dal consumo di suolo agricolo alla sua tutela - ma l’approccio è pragmatico, distinguendo sulla base di criteri ambientali, paesaggistici, economici e giuridici. Ne nasce una variante al piano regolatore che elimina le edificazioni dove possibile e ne riduce l’impatto dove ci sono progetti in itinere. Risultato: edificabilità dimezzata, cancellate colate di cemento per 2 mila abitanti, salvati 30 ettari di suolo vergine, finanze comunali sane nonostante il crollo di entrate da oneri di urbanizzazione da 2,5 milioni a 600 mila euro l’anno, contenziosi giudiziari pressoché nulli. E soprattutto dieci proprietari che unilateralmente rinunciano ai diritti edificatori su 3 ettari di terreni, preferendo il verde al grigio.

«Il suolo consumato è oltre il 7% della superficie, mentre la media europea è poco più del 2%. Sono dati che mostrano una prepotenza dell’urbano sul rurale, un dilagare di funzioni non agricole». AT Altra Toscana, blog delle città, febbraio 2016

La vera crisi – ebbe a dire anni fa Salvatore Settis – è quella del paesaggio, che invece dovrebbe essere considerato la vera risorsa italiana, una risorsa apicale che comprende tutte le altre, come ha scritto Carlo Tosco. Settis e Tosco sono tra i massimi studiosi del paesaggio, ma basta guardarsi intorno e riflettere su quanto sta avvenendo nelle singole regioni o province per rendersi conto della ferite che continuiamo a infliggere al territorio e ai danni che stiamo facendo alla nostra stessa economia, basata essenzialmente sul patrimonio territoriale.

I dati a livello nazionale sono drammatici: il nostro paese ha un livello di consumo di suolo tra i più alti d’Europa. Secondo il Rapporto ISPRA 2015 il suolo consumato è oltre il 7% della superficie, mentre la media europea è poco più del 2%. Sono dati che mostrano una prepotenza dell’urbano sul rurale, un dilagare di funzioni non agricole nei campi, la perdita di un confine identitario che permetteva un dialogo reciproco tra città e campagna. Ora, chi è restato nei propri ambienti non li riconosce più, né è capace di trasmettere alle nuove generazioni la memoria dei luoghi, ma al massimo la malinconia, quando non l’angoscia o lo smarrimento, nell’omologazione di paesaggi tutti uguali e quasi sempre senza i connotati della bellezza e dell’armonia. E anche l’economia e il lavoro ne risentono negativamente: non di rado le zone con più capannoni e cemento sono anche quelle con più disoccupati o con più lavoro precario. Si tratta di un fenomeno che ci spinge anche a chiederci quanto cibo in meno è stato prodotto a causa della diminuzione della superficie coltivata.

Sepolti dall’asfalto e dal cemento per costruire strade, case, centri commerciali e capannoni industriali spesso rimasti vuoti, se ne sono andati negli ultimi trent’anni campi, pascoli e altri spazi rurali a vantaggio di uno sprawl che ha definitivamente rotto i confini tra l’urbano e il rurale, debordando nella campagna. L’abbandono e la cementificazione, che apparentemente sembrano due fenomeni opposti, hanno determinato in modo convergente una progressiva riduzione della superficie agricola, stravolgendo spesso gli assetti territoriali e paesaggistici. Dal 1956 al 2000 il consumo del suolo è passato da 8.700 a più di 21.000 chilometri quadrati, con un impegno pro-capite balzato da 170 a 340 metri quadrati; dopo il 2000 la situazione è ancora peggiorata, come dimostrano i rapporti annuali dell’ISPRA, l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione dell’ambiente. Tra le regioni più cementificate, in testa c’è la Lombardia che in 30 anni ha perso un decimo di tutto il territorio agricolo, ma le altre non ridono.

Che l’Italia stia perdendo terreni agricoli in un trend negativo e continuo è ormai un dato di fatto inconfutabile. Lo ribadisce il Ministero delle Politiche agricole in un dossier realizzato in collaborazione con Inea, Ispra e Istat (MIPAAF, 2012). Dagli anni ‘70, la superficie agricola utilizzata (SAU), che comprende seminativi, orti, arborati e colture permanenti, prati e pascoli, è diminuita di un terzo, da quasi 18 milioni di ettari a circa 11. Questo nonostante le caratteristiche ambientali e il valore paesaggistico del territorio italiano, che dovrebbero (o avrebbero dovuto) evitare l’espansione urbana in zone ad elevata fragilità ambientale e territoriale. La limitazione del consumo del suolo è, quindi, unitamente alla messa in sicurezza del territorio, una direzione strategica per l’Italia. Tutti lo dicono, ma nonostante le enunciazioni si continua a consumare suolo.

Questi dati suggeriscono inequivocabilmente che ci sarebbe bisogno di una inversione di rotta. Un sensibilità sempre più diffusa nella società spinge nella direzione di uno stop al consumo di suolo e anzi di una sua riduzione, come dimostrano i comitati nazionali e locali, sempre più diffusi, per salvare il paesaggio in nome della Costituzione italiana, che fissa tra i principi fondamentali la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione (articolo 9). Invece si va in direzione opposta, ostinata e contraria, miope e pericolosa. Dappertutto, anche in Toscana. Prendiamo l’esempio della Val di Cornia.

L’esempio della Val di Cornia

Questo lembo di Maremma, compreso tra il mare e le colline Metallifere, nella terra degli etruschi e dei borghi medievali, delle tradizioni minerarie e metallurgiche su un persistente sfondo rurale, ha conosciuto nel corso del ‘900 l’impatto dell’industria, massiccio ma centralizzato. Ad esso si è aggiunto in tempi più recenti un impatto più diffuso, legato essenzialmente a uno sviluppo edilizio progressivo, spesso immotivato e a volte puramente speculativo. Si tratta di un processo che non nasce oggi, che si è avviato concretamente negli anni ’60, in concomitanza con il boom economico. All’inizio ha preso la forma della costruzione di nuovi edifici all’interno e intorno ai centri urbani, snaturando la loro immagine. La pianificazione urbanistica è arrivata tardi a regolare e contrastare questo fenomeno, che tuttavia era spinto dalla crescita demografica ed economica. Quindi si poteva capire, in un certo senso e in quel dato contesto. Poi la popolazione ha smesso di crescere, ma il consumo di suolo è continuato senza sosta. Si è passati dall’espansione/ammodernamento dei vecchi paesi alle lottizzazioni fuori dai centri abitati, poi alle zone artigianali/industriali e commerciali, anch’esse collocate in zone rurali. Il piano strutturale della Val di Cornia, elaborato una decina d’anni fa, registra come tra anni '70 e '80 vi sia stato un significativo calo demografico a Piombino e nel resto dell’area, segno evidente di una prima crisi del sistema, ma a ciò non ha corrisposto un arresto del consumo di suolo, che anzi è aumentato; i venti anni successivi vedono in tutti i Comuni un ulteriore incremento dell’occupazione di suolo a fini residenziali, produttivi e turistici (Circondario della Val di Cornia, Piano strutturale d’area. Relazione generale, febbraio 2007, p. 224).

A differenza di quanto era avvenuto negli anni '60 e '70, questo processo di edificazione della campagna (dalle lottizzazioni, alle zone artigianali e commerciali, alle residenze turistiche), intensificatosi a cavallo del 2000, si è svolto essenzialmente entro un quadro di stasi o addirittura di declino demografico e di rallentamento della crescita economica. Ciò significa che si è consumato più suolo quando ce n’era meno bisogno, come dimostrano i grafici relativi ai due comuni principali, Piombino e Campiglia Marittima, così come rilevato dalle analisi dell’ultima pianificazione urbanistica intercomunale:

(vedi figure 1 e 2 in fondo)

Si vede bene il paradosso della forbice: meno popolazione, più consumo di suolo. Una forbice che ha tagliato risorse e opportunità di sviluppo, il contrario di quanto vanno dicendo i propugnatori di una modernità stanca e di un illusorio e spesso ideologico sviluppismo. Il consumo pro-capite di suolo ha significato in primo luogo alterazione del paesaggio, frattura del consolidato equilibrio tra città e campagna, nuovi costi ambientali in termini di uso delle risorse naturali, ridefinizione delle identità sociali. Ne derivano danni all’agricoltura e al turismo, che invece dovrebbero rappresentare il primario orizzonte di rinascita per un’area a declino industriale.

La situazione non è omogenea e tale diversificazione ci offre l’opportunità di capire quale dovrà essere il modello di riferimento per il futuro: se quello delle zone più intensivamente urbanizzate come Piombino, Venturina e San Vincenzo, oppure quelle che hanno mantenuto una maggiore disponibilità di patrimonio territoriale autentico come Suvereto, Campiglia, Castagneto Carducci o Sassetta. Sono ancora i dati ISPRA che ci indicano il quadro oggettivo della situazione: Piombino e San Vincenzo presentano un tasso di consumo di suolo superiore alla già elevata media nazionale; anche Campiglia è sopra la media, ma qui il dato andrebbe scomposto perché il consumo abnorme di suolo riguarda soprattutto Venturina. Suvereto, Sassetta e Castagneto, subito a nord della Val di Cornia, nettamente più virtuosi con un consumo di suolo ben al di sotto della media italiana.
(vedi figura 3 in fondo)

Eppure anche qui, proprio nei comuni a più elevato consumo di suolo, si va in direzione contraria. L’ultimo esempio? A Venturina, nella bella e fertile campagna a est della Monaca, minacciosi cartelli e recinzioni annunciano la costruzione di nuovi capannoni. Praticamente si apre un altro fronte di espansione edilizia, con nuovi capannoni mentre ce ne sono altri che giacciono vuoti e semiabbandonati nello stesso territorio comunale, esattamente come in tante altre parti d’Italia.

Uno scempio inutile e vano, campi fertili che se ne vanno e il paesaggio deturpato, perfino le pregiate colline retrostanti di Lecceto, del Palazzo Magona, di Villa Mussio e di Montesolaio (detta del Tavolino rovesciato), contenitori di residenze storiche e di agricoltura di qualità, risultano ferite da questi avulsi insediamenti ai loro piedi, frutto dell’impeto speculativo e da una idea anacronistica dello sviluppo economico. Non contenti, sono intanto in preparazione, per la stessa area, varianti urbanistiche che prevedono nuova occupazione di suolo con capannoni e centri commerciali, così oltre all’agricoltura morirà anche il piccolo commercio attivo nel vicino centro abitato di Venturina, cresciuto sui negozi e le attività di servizio alla popolazione del comprensorio e oggi annichilito dalla corona di centri commerciali che gli sono nati attorno. La strategia è sempre la solita, subdola e insipiente: acquisire le aree, abbandonare i campi, lasciarli incolti in attesa delle varianti per poi dire “che volete? Ormai sono tutti ceppite e terreni abbandonati”. No, erano i migliori campi della Val di Cornia, suoli fertili e sciolti di natura alluvionale, nei quali – dicevano i contadini del posto - ci verrebbe il pepe. Ora crescono qui piantagioni di cemento, freddi alberi senza frutti, trasformazione irreversibile del territorio e del paesaggio, pezzi di Maremma che se ne vanno per sempre.

Una tale analisi deve costituire la base per ragionare su un nuovo modello di sviluppo, che parta dalle vocazioni autentiche di un’area, dal patrimonio territoriale, dai valori storico-ambientali e dalla partecipazione sociale, che non riproponga i vizi di quell’economia speculativa che si è progressivamente sostituita all’economia produttiva alimentando il paradosso della forbice, generando degrado e disoccupazione, spaesamento e perdita di fiducia. L’area presa in esame è solo un esempio, da cui si possono trarre indicazioni utili per una importante e decisiva questione nazionale: quella del consumo di suolo e delle ferite inferte al paesaggio, vere e irrinunciabili risorse del Bel Paese.

Consumo di suolo comune per comune, anno 2012. Valori in percentuale.
La media italiana fa riferimento all'anno 2013. Fonte: ISPRA 2015.

Rossano Pazzagli insegna storia moderna e storia del territorio all’Università del Molise, fa parte della Società dei Territorialisti, è direttore della Summer School sul paesaggio agrario presso l’Istituto Alcide Cervi.

Le associazioni ambientaliste toscane hanno inviato una lettera con sette domande sul progetto del nuovo aeroporto al presidente della Regione Rossi. Il presidente ha risposto alla lettera e le associazioni hanno replicato.Qui tutto il carteggio.


SETTEDOMANDE
SUL NUOVO AEROPORTO DI FIRENZE
AL PRESIDENTE ENRICO ROSSI

Gentile Presidente Enrico Rossi,

Come Lei sa, l’Università di Firenze e gli uffici tecnici della Regione hanno avanzato molte riserve sul progetto del nuovo aeroporto di Firenze, attualmente proposto a Valutazione d’impatto ambientale da ENAC e Toscana Aeroporti. Le Associazioni firmatarie di questa lettera si rivolgono a Lei in qualità di governatore della Regione Toscana e quindi di garante della salute e della sicurezza dei cittadini, affinché chiarisca i punti più controversi del progetto e rassicuri gli abitanti della Piana, sul fatto che, una volta realizzato, l’aeroporto non peggiorerà le loro condizioni di vita.

1. Il progetto sottoposto a VIA è un Master Plan e non un progetto definitivo, come vuole la legge. La Regione Toscana accetterà questo strappo alle regole o chiederà al Proponente di rispettare quanto prescrive il Codice dell’ambiente?

2. La pista del nuovo aeroporto sarà di 2000 metri, come stabilito nel Piano di indirizzo territoriale, o di 2400 metri come richiesto dal Proponente?

3. La Regione Toscana si è impegnata ufficialmente a promuovere un Dibattito Pubblico sull’aeroporto, ma finora non ha rispettato il suo impegno. Lei si adopererà affinché possa finalmente svolgersi questo processo partecipativo?

4. Secondo il parere tecnico degli uffici regionali, il rifacimento del Fosso Reale e dell’intero sistema idrografico della bonifica comporterà un rischio idraulico non adeguatamente calcolato. Saranno richiesti al Proponente studi più approfonditi?

5. Nonostante il Proponente abbia affermato che la nuova pista sarà esclusivamente monodirezionale verso ovest, nel Master Plan questa risulta prevalentemente monodirezionale, con una percentuale non trascurabile di atterraggi e decolli in direzione di Firenze, il cui centro storico è patrimonio Unesco. Lei può dire qualcosa di definitivo in proposito?

6. Il Proponente dice che col nuovo scalo inquinamento atmosferico e acustico diminuiranno, ma ciò appare incongruente rispetto alla previsione d’incremento dei voli e della dimensione degli aerei. La Regione intende fare chiarezza su questo punto?

7. Il nuovo scalo non interferirà solo sul reticolo idrografico discendente da Monte Morello, ma anche sulla viabilità Nord/Sud della Piana, decretando ad esempio la cancellazione di via dell’Osmannoro: sono state adeguatamente valutate le conseguenze (funzionali, sociali, economiche) sul sistema della mobilità metropolitana?

Tommaso Addabbo, WWF Toscana
Paolo Baldeschi, Coordinatore della Rete dei comitati per la difesa del territorio
Fausto Ferruzza, Presidente Legambiente Toscana
Sibilla della Gherardesca, Presidente Fai Toscana
Maria Rita Signorini, Presidente Italia Nostra Toscana

LE RISPOSTE DEL PRESIDENTE

qui puoi scaricare il file .pdf della risposta del presidente Enrico Rossi



LA REPLICA: GRAZIE DELLA DISPONBILITA'
MA LEI CONFERMA I NOSTRI DUBBI
Firenze, 26 febbraio ’16
GentilePresidente Enrico Rossi,
La ringraziamo per aver risposto alle nostre domande, dimostrando unasensibilità istituzionale che volentieri Le riconosciamo. Dobbiamo, tuttavia,esprimere il nostro disappunto per il loro contenuto, più preoccupato dellacorrettezza delle procedure adottate, che della loro “sostanza” politica. E,affinché Lei non pensi che il nostro disappunto nasca da pregiudizi o da presedi posizione ideologiche, vogliamo entrare, sia pur brevemente, nel meritodelle Sue risposte.
Alla prima domanda, se Lei accetterà che sia sottoposto a VIA unMasterplan e non un progetto definitivo, come prescrive il Codicedell’Ambiente, Lei risponde che così si fa per ‘prassi consolidata’, comesostiene lo stesso ENAC. Inutile ricordarLe che nessuna prassi consolidata puògiustificare una così plateale “deroga” alle regole.
Alla seconda domanda, sulla lunghezza della pista –2000 metri, come prescriverebbe il PIT, o 2400 metri, come vuole imporre l’ENAC– Lei sposa completamente il parere di quest’ultimo ente, che alle osservazionidell’Università di Firenze ha risposto: “Ladefinizione della lunghezza della nuova pista di volo di Firenze non può derivare da valutazioni di carattereprettamente urbanistico-territoriale, ma discende da valutazioni di carattereaeronautico di competenza dell'ENAC.” Vale a dire che non è l’aeroporto che deve adattarsi al territorio,bensì, viceversa, il territorio che deve piegarsi alle esigenze dell’aeroporto.
Alla terza domanda, sulmancato Dibattito Pubblico, Leirisponde che questo importante strumento partecipativo non è obbligatorio perle opere d’iniziativa privata. Tuttavia, a parere unanime dei giuristi cheabbiamo consultato, la legge 46/2013 ne sancisce l’obbligatorietà qualora, comein questo caso, l’iniziativa privata comporti opere la cui realizzazione egestione abbiano caratteri palesemente pubblici. D'altra parte,Lei sembra dimenticare che è proprio la Variante al Pit sul Parco della Piana,approvata dalla Regione Toscana, a prevedere il Dibattito pubblicosull'aeroporto.
Alla quarta domanda, sulle carenze dello Studio diImpatto Ambientale relativamente al rischio idraulico, Lei risponde che laRegione ha richiesto che siano individuate dalcompetente Ministero dell'Ambiente le successive fasi in cui siano presentatigli sviluppi progettuali e le relative verifiche che il proponente è tenuto aottemperare e che consentano lo svolgimento delle attività di controllo e monitoraggiodegli impatti ambientali, valutando anche la costituzione di uno specificoOsservatorio". Questa è, appunto, la strategia seguita fin qui dall’ ENAC: rimandaretutti gli approfondimenti e le modifiche al progetto, a successive fasi, non più controllabili. Poco o niente può fare unOsservatorio che, nel migliore dei casi, agisce ex post. La disastrosa esperienza dell’Osservatorio TAV in Mugelloe il mutismo dell’Osservatorio sul sottoattraversamento di Firenze, dimostranoahinoi l’inefficacia di questi istituti.
Allaquinta domanda, sulla monodirezionalità della pista, Lei ribadisce ciò che l’ENACha dichiarato ufficialmente, ma che ècontraddetto sia da tabelle presenti nello SIA (che prevedono un 18-20% disorvoli su Firenze), sia dalla seguente risposta dell’ENAC alle osservazionidell’Università di Firenze: “L'operativitàdella pista con uso ‘prevalente’ suuna direzione di decollo e atterraggio è, invece, essenzialmente legata alleprocedure di volo pubblicate in AIP, che nel progetto presentatoprevedono atterraggi e decolli sulla direttrice da/verso Prato.” “Uso prevalente”, perciò, e non “esclusivamente mono/direzionale”, népotrebbe essere altrimenti a causa dei dati anemometrici e della mancanza diuna pista di rullaggio che impedisce l’agibilità di uno scalo monodirezionale.
Alla sesta domanda, sull’inquinamento atmosfericoche, nonostante l’aumento del numero dei voli e delle dimensioni degli aerei,dovrebbe, secondo l’ENAC diminuire, Lei sostanzialmente non risponde. Né la VAS(effettuata su una previsione di pista di 2000 metri) ha mai trattato effettivamentela questione.
Alla settima domanda, che chiedeva se fosse statostudiato l’impatto del progetto sul sistema complessivo della mobilitàmetropolitana, Lei risponde che la Giunta Regionale ha condizionato il proprioparere favorevole al progetto, alla sottoscrizione di un Accordo di Programma tra tutti i soggetti interessati, per larealizzazione di una serie di opere infrastrutturali – dalla terza corsiaautostradale, fino alla realizzazione del ponte sull’Arno a Signa, etc. Lei,tuttavia, sa benissimo che gli accordi di programma non comportano alcunimpegno istituzionale (tanto meno da parte dei privati, come Autostrade per l’Italia) e che, senzarisorse finanziarie è come se fossero scritti sulla sabbia.
Sulla base di queste considerazioni, le Associazionifirmatarie della lettera a Lei rivolta, non possono che dichiararsi delusedalle Sue riposte che, in gran parte, riproducono le posizioni dell’ENAC,lasciando sostanzialmente intendere che non si farà sufficiente chiarezza su unprogetto palesemente incompleto, contradditorio, proceduralmente iniquo e, aparere dei tecnici, dannoso per la sicurezza del territorio e dei suoiabitanti. Non si tratta, ci creda, di posizioni aprioristiche, ma anzi ampiamentedocumentate da pareri tecnici e scientifici ‘super partes’. In ballo, ci creda, non c’è soltanto la salutee la sicurezza dei cittadini, bensì la credibilità stessa delle istituzioni dicui Lei è, in questo frangente, il primo garante. Detto ciò, saremo felici,come Lei auspica nella sua lettera, di poter proseguire questo confronto inmodo proficuo e costruttivo.
Cordialmente,

Tommaso Addabbo, WWF Toscana
Paolo Baldeschi, Coordinatore della Rete dei comitati per la difesa del territorio
Fausto Ferruzza, Presidente Legambiente Toscana
Sibilla della Gherardesca, Presidente Fai Toscana
Mariarita Signorini, Presidente Italia Nostra Toscana

«La carta vincente di queste ciclovie è il loro appartenere alla rete ciclabile europea. È il sogno verde dei cicloamatori. Adesso ci sono i fondi per 4 itinerari che corrono lungo il Paese». La Repubblica, 24 febbraio 2016 (m.p.r.)

Roma. In bicicletta da Verona a Firenze, da Venezia a Torino, dalle sorgenti del Caposele a Santa Maria di Leuca. E nella capitale un anello solo per i ciclisti, il Grab, Grande raccordo anulare delle bici. Per la prima volta il governo finanzia itinerari ciclabili di lunga percorrenza, vere e proprie “bicistrade” pensate per lanciare il cicloturismo e, soprattutto, per attirare i turisti stranieri, pronti a varcare le Alpi per visitare sì l’Italia in sella, ma in completa sicurezza, proprio come succede da decenni nei loro paesi.

La legge di stabilità stanzia 91 milioni in tre anni per la progettazione e la realizzazione di un sistema nazionale di ciclovie turistiche, con priorità per il tratto della Ciclovia del Sole da Verona a Firenze, per VenTo, sigla immaginifica per individuare il percorso da Venezia a Torino lungo il Po, la Ciclovia dell’Acquedotto pugliese e il Grab, 44 km per collegare Colosseo, Appia Antica, parchi e sistema fluviale della capitale con i quartieri di nuova costruzione. «Non sono molti soldi - riconosce il deputato Paolo Gandolfi, coordinatore dell’intergruppo parlamentare mobilità ciclistica, che ha organizzato il convegno di domani alla Camera “Italia in bici” - ma nella legge quadro sulla ciclabilità ora in commissione è previsto che i finanziamenti alle infrastrutture ciclabili siano rinnovati ogni anno, come si fa per le strade. È un cambio di passo».
Un cambio di passo reso possibile dall’attività di lobby di gruppi e comitati territoriali, dal pressing dei social e dall’impegno di alcune regioni. «Per ottenere la ciclovia lungo l’Acquedotto pugliese si è costituito un coordinamento di 56 associazioni e 20 imprese, per esempio pro loco, aziende alberghiere, tour operator. Tutti hanno capito che questa ciclovia sarà un volano di sviluppo turistico», dice Cosimo Chiffi, giovane economista, portavoce del coordinamento. «Dalle sorgenti del Caposele a Santa Maria di Leuca sono 500 km e tre regioni. Per la prima fase puntiamo ai 250 km da Venosa a Villa Castelli, sfruttando la strada sterrata di servizio all’acquedotto, più una bretella da Bari a Gioia del Colle», spiega Lello Sforza, mobility manager della Regione Puglia.
Il progetto di VenTo è del Politecnico di Milano, 632 km da Venezia a Torino e 47 da Pavia a Milano per un totale di 679 km. «La pista più lunga del sud Europa - dice uno dei progettisti, Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale e ambientale - Alla fine dei lavori su questa ciclovia non ci saranno tratti promiscui, si potranno muovere soltanto i ciclisti, come succede sulle ciclabili europee. Perché i cicloturisti non esperti richiedono sicurezza e facillità di percorrenza. A servizio della ciclovia ci sarà poi la linea ferroviaria esistente.Tutto questo produrrà almeno 300mila passaggi all’anno». E già la Regione Friuli-Venezia Giulia lavora per prolungare la pista da Venezia a Trieste.
La carta vincente di queste ciclovie è il loro appartenere alla rete ciclabile europea. VenTo, che nel sistema europeo è un pezzo di Eurovelo 8, si incrocia a Pavia con Eurovelo 5, che arriva da Londra e Bruxelles e prosegue per Roma e Brindisi, a Mantova invece incontra Eurovelo 7, che parte da Capo Nord, passa per Berlino, Praga, Lienz e poi entra in Italia a Dobbiaco con la Ciclopista del Sole. «Con 20 milioni completeremo i 400 km del tratto Verona - Firenze » assicura Antonio Dalla Venezia della Fiab, «la scommessa è dare continuità a un itinerario lungo il cuore d’Europa». E per incoraggiare la formula treno più bici la legge di stabilità finanzia anche le velostazioni, parcheggi per bici nelle stazioni ferroviarie con officine e spazi ristoro.
La crescente collusione tra criminalità organizzata e amministrazioni locali (dal Mare di Sicilia alle Alpi) impone di intervenire su molti aspetti: ecco tre temi su cui si propone di lavorare. Il dibattito è aperto

Quarto, Bagheria e Brindisi sono solo gli ultimi episodi che vedono coinvolti sindaci e assessori comunali in vicende poco chiare che rendono evidente come, nel corso degli ultimi decenni, i settori legati al mondo dell'edilizia hanno giocato una parte sempre più rilevante nella costruzione del consenso a livello locale e molte volte anche nella selezione della classe dirigente.

In particolare le intercettazioni della magistratura sulle vicende di Quarto sono paradigmatiche per descrivere dinamiche elettorali che si sono consolidate in alcuni contesti locali; qui l’imprenditore Cesarano - sospettato di essere colluso con la camorra - detta la strategia per sostenere al ballottaggio la candidata dei Cinquestelle, Rosa Capuozzo, chiarendo da subito le sue condizioni: "Comincia a chiamarlo. Ha preso 890 voti, è il primo degli eletti. Noi ci siamo messi con chi vince, capito?” E ancora: “L’assessore glielo diamo noi praticamente. E lui ci deve dare quello che noi abbiamo detto che ci deve dare. Ha preso accordi con noi. Dopo, così come lo abbiamo fatto salire così lo facciamo cadere”.

Il riferimento di Cesarano è al consigliere comunale De Robbio che, secondo la Direzione distrettuale antimafia di Napoli, avrebbe tentato di convincere la Sindaca ad affidare la gestione del campo sportivo comunale ad una società vicina al suo "sponsor elettorale", ricorrendo a un presunto abuso di famiglia per minacciare la stessa Capuozzo. Sempre a Cesarano, De Robbio avrebbe poi promesso la nomina di una persona di fiducia all'assessorato all'urbanistica, per favorire al meglio i suoi affari.

Siamo a Quarto, piccola cittadina della provincia napoletana, con poco più di 40.000 abitanti ma le sue tristi vicende sono simili a quelle riscontrabili in altri contesti comunali nell'Italia degli oltre 8000 campanili.

Né la collocazione geografica né l'appartenenza a questo o quello schieramento politico può più rappresentare un valido e sicuro argine a fenomeni di questo tipo. Le indagini della magistratura spaziano dalla Valle d'Aosta alla Sicilia, passando anche da una Milano dove l'ex sindaca Moratti, pochi giorni prima del maxi arresto legato all'inchiesta Parco Sud avvenuto nel luglio del 2010 alle porte del capoluogo lombardo, strillava che "la mafia a Milano non esiste" e nessun partito, neppure chi ha fatto della legalità e della trasparenza il proprio mantra elettorale, può ritenersi immune da pericolose collusioni.

Che i settori legati al ciclo dell'edilizio rappresentino gli ambiti principali per le infiltrazioni mafiose (al Sud come al Nord Italia) non è certo una novità, come testimonia l'elenco dei consigli comunali sciolti per mafia, per la maggior parte dei quali le motivazioni sono legate a questioni urbanistiche o a violazioni dei piani regolatori e purtroppo gli esiti spaziali di queste relazioni pericolose sono evidenti in termini di spreco edilizio, abusivismo, degrado ambientale e scarsa qualità degli spazi urbani e suburbani.

La relazione perversa tra interessi mafiosi, amministrazioni comunali e ciclo edilizio può essere affrontata, a mio avviso, agendo su tre aspetti diversi differenti: il primo è di natura elettorale, il secondo amministrativo e il terzo più strettamente urbanistico.

Il primo aspetto riguarda i criteri di selezione della classe dirigente politico-amministrativa: nei contesti territoriali locali è progressivamente venuto meno il ruolo dei partiti di massa, sia in termini di elaborazione di idee e sia in termini di formazione dei propri iscritti, e tale vuoto ha creato una generalizzata improvvisazione sui temi amministrativi. Inoltre le sedi locali dei partiti sono diventati luoghi in cui le discussioni sono asfittiche, ideologiche e molto spesso rincorrono rancori e recriminazioni personali anziché differenti posizioni politiche. Ecco allora che un curriculum non politico di un candidato sindaco può diventare un enorme punto di forza nella competizione elettorale in quanto indicatore di pragmatismo, di civismo e di una leadership che può essere esercitata senza dover rendere conto a nessuno del proprio operato. In queste dinamiche però il rischio è duplice: da un lato c'è quello di eleggere sindaci impreparati, inadeguati e non all'altezza di guidare processi amministrativi e burocratici anche complessi (e la bassa qualità dei governi locali ha spesso conseguenze dirette anche sulla qualità dei progetti di trasformazione territoriale), dall'altro la ricerca di nuove forze elettorali dalle quali farsi sostenere può portare a legami pericolosi che poi, solitamente, presentano il conto. In un contesto storico caratterizzato dalla crisi di rappresentanza e di fronte a un'appartenenza politica sempre più "liquida", occorre che i partiti nazionali intraprendano una seria riflessione sulle modalità di selezione della propria classe dirigente, a partire da quella locale. In questi tempi si parla spesso di tematiche trasversali e di nuove geografie politiche, l'auspicio è che la legalità non diventi tema contendibile nelle prossime campagne elettorali ma piuttosto sia un impegno chiaro e condiviso per tutti i partiti politici.

Il secondo aspetto riguarda le competenze delle amministrazioni comunali. In una fase di progressivi tagli alle amministrazioni locali, un Paese in cui il 70% dei Comuni ha meno di 5.000 abitanti non è più sostenibile. Una strategia nazionale che spinga verso gestioni di servizi ad una scala che consenta ottenere economie di scala (le Centrali Uniche di Committenza per gli acquisti delle pubbliche amministrazioni non possono bastare) ed esercizio di funzioni urbanistiche a una dimensione pertinente per poter pianificare in modo coerente e sostenibile i diversi sistemi territoriali (ambientale, infrastrutturale e insediativo) sembrano scelte non più prorogabili se si vuole impedire che gli ambiti comunali diventino nuovi feudi a conduzione familiare, soggetti a pressioni economiche (ma anche criminose) difficilmente controllabili anziché luoghi nei quali elaborare politiche per l'erogazione dei fondamentali servizi alla persona.

Il terzo aspetto riguarda il sistema normativo urbanistico vigente: le leggi urbanistiche regionali, approvate a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, hanno progressivamente elaborato norme in nome della semplificazione e dello snellimento burocratico che si sono tradotte nei fatti da un generalizzato laissez-faire. Questa de-regolamentazione é diventata uno dei principali varchi per le infiltrazioni mafiose nel mondo delle amministrazioni comunali anche considerando che l'edilizia è il settore ideale per riciclare e ripulire denaro sporco derivante da altri traffici criminosi.

L'Italia è molto indietro rispetto alle normative in vigore nei paesi del Nord Europa dove da almeno un decennio si trattano i temi della rigenerazione urbana, si lanciano bandi di idee tra progettisti per le opere pubbliche e i grandi progetti di riqualificazione urbana, si coinvolgono i rappresentanti della società civile nei progetti infrastrutturali più importanti (débat public francese), si hanno strumenti di valutazione anche economica dei progetti di trasformazione urbana (modello SoBoN di Monaco di Baviera), si affida la funzione di governo del territorio a una dimensione territoriale adeguata e comunque sovracomunale (schemi di coerenza territoriale francesi) per una pianificazione tra fabbisogni insediativi, accessibilità infrastrutturali, dotazione ambientale. Alcuni invocano strumenti speciali, come un ampliamento di competenze dell'ANAC guidato da Raffaele Cantone, che seppur utilissimi per enfatizzare l'attenzione su questi temi, non possono essere la soluzione strutturale a questo problema.

Il nostro Paese non ha più bisogno di norme speciali ma di amministratori locali competenti, preparati e consapevoli (oltre che onesti), di una razionalizzazione complessiva del sistema degli enti locali e di una complessiva riforma urbanistica, che abbia tra i suoi principi (a cui devono corrispondere adeguati strumenti) la trasparenza, la partecipazione e una regia sovracomunale nei processi di trasformazione del territorio. Solo in questo modo si potrà finalmente rompere la catena che lega gli interessi speculativi, mafiosi e non, al settore dell'edilizia e fare in modo che i Sindaci debbano sì rispondere del proprio operato, anche più di quanto sono chiamati a fare ora, ma solo nei confronti dei propri cittadini.

La denuncia di una vergognosa operazione delle giunte Orsoni e Brugnaro, con la complicità della grande maggioranza del consiglio comunale, delle diverse istituzioni coinvolte, delle associazioni che non hanno promosso una vigorosa protesta e della stampa cittadina che ha dato voce solo ai liquidatori del patrimonio pubblico. Italianostravenezia.org, 4 febbraio 2016 (m.p-r.)

Lunedì 1 febbraio il Consiglio comunale ha purtroppo approvato, con tre soli voti contrari – uno del Movimento Cinque Stelle e uno del Pd -, la delibera del passaggio in proprietà al Comune di Venezia dell’Isola della Certosa e del Forte di Sant’Andrea. Il sindaco e il suo capogruppo volevano convincere l’opposizione e il pubblico di cittadini che nella delibera si discutesse solo il passaggio di proprietà dallo Stato al Comune delle due isole, per cui lamentavano l’assurdità dell’opposizione a questo “regalo” del Demanio.

Peccato però che l’Accordo di valorizzazione, senza il quale non si può attuare il passaggio di proprietà (Accordo firmato a metà dicembre dai rappresentanti del Demanio, del Mibact, arch. Codello, e del Comune di Venezia, vicesindaco Colle, Lega), così reciti: «Il Comune di Venezia si impegna, anche attraverso la partecipazione di soggetti privati, a realizzare integralmente il Programma di valorizzazione presentato che si allega sotto la lettera C del presente accordo per farne parte integrante».
Cosa contemplano gli allegati C (che le opposizioni e i cittadini evidentemente avevano ben letto)? L’allegato C3 (Integrazione al Programma di valorizzazione), redatto nel 2015, divide gli interventi da realizzarsi nel Forte in più momenti, il primo della durata di 3 e 5 anni prevede interventi minimi e obbligatori (quali bonifica, messa in sicurezza dei percorsi, sfalcio dell’erba, cartellonistica, etc.) del partner privato che si aggiudicherà la gara, per il costo di un solo milione di euro; le tranche seguenti dei lavori, di medio-lungo termine fino a 25 anni, prevedono interventi solo «a facoltà de partner» e per «la sostenibilità socio economica del progetto». In una parola, facoltativi e a favore del partner, e fra questi c’è il progetto del restauro del Forte, il restauro dello stesso, un albergo, un anfiteatro, un ristorante, un bar etc. Per assurdo, il partner che si aggiudicherà la gara potrebbe attuare gli interventi minimi per un milione di euro e lasciare il Forte al suo degrado per altri 25 anni.
L’altro allegato, C2, del 2011, prevede interventi anche sull’area alle spalle del Forte, area che fa parte dell’idroscalo Miraglia, ancora in gestione al Ministero della Difesa ma in via di dismissione. Sono interventi pesantissimi, definiti dall’allegato C3 «un considerevole compendio di nuova edificazione nell’area di pertinenza del Forte, verso nord»: e cioè due alberghi, un centro benessere e pure una piscina a filo d’acqua (proprio alle spalle del limite del bastione nord, fronte Laguna). L’opposizione, in particolare la documentata e precisa Monica Sambo, ha chiesto dunque di stralciare, eliminare l’allegato C2 che prevedeva queste edificazioni nell’area esterna, non compresa nel presente passaggio di proprietà. Niente da fare. La maggioranza non ha voluto eliminare l’allegato C2, pur dichiarando che tali interventi non si faranno.

Leggiamo l’Accordo di valorizzazione, vincolante (perché se non realizzato lo Stato si riprende il bene): «Qualora al Comune di Venezia pervenga la disponibilità di spazi acquei, rive, banchine, etc. …, pertinenziali alle isole, che come detto non rientrano nel presente accordo ai fini del trasferimento, lo stesso Comune si impegna a destinarli ad usi compatibili ed integrati con i progetti di valorizzazione sopraccitati».

Cioè quando il Demanio Militare dismetterà l’area alle spalle del Forte, ecco già ratificato il Piano di Valorizzazione C2, con alberghi, centro benessere, altro ristorante, piscina a pelo d’acqua: un resort di lusso per turisti di alta fascia, che sorridenti e festosi, sorseggiando aperitivi sul bordo della piscina guarderanno i nostri figli in barchetta al Bacan,la spiaggia semisommera alla Bocca di Lido dove i veneziani "normali" vanno a bagnarsi - ndr] in perfetta continuità concettuale con l’operazione Fontego dei Tedeschi della giunta precedente.

La discussione è aperta sul carattere della massiccia presenza di persone e capitali provenenti dalla Cina: al di là dell'esito nelle primarie milanesi. Qui nella postilla l'opinione di Fabrizio Bottini, che ci ha segnalato l'articolo. La Repubblica, 8 febbraio 2016,

Cinquemila, per la Camera di Commercio. Seimilacinquecento, secondo la stima della stessa comunità cinese. Tante sono le imprese individuali a Milano con titolare nato in Cina. La differenza fra i due dati si spiega anche con i casi in cui la licenza rimane intestata al vecchio titolare, spesso italiano, ma alla cassa sta il nuovo gestore. È questa la fotografia, il giorno dopo le polemiche per l’esordio al voto della comunità cinese. «In città i cinesi sono 25mila, un’impresa ogni quattro persone - dice Angelo Ou, imprenditore di 68 anni, figlio di uno dei primi arrivati negli anni Trenta - veniamo dalle regioni di Wenzhou e Qingtian. È il vostro Triveneto. Non ci piace lavorare sotto padrone».

Delle 5.002 imprese cinesi censite in città, il 30,9 per cento è attivo nel commercio, il 25,7 nella ristorazione. Il 31, 8 percento dei cinesi vive a Chinatown, intorno a via Paolo Sarpi. Molti nelle periferie a Nord : Villapizzone, Affori, Quarto Oggiaro. «Non esiste più un quartiere cinese – dice Alessio Menonna, ricercatore di Ismu – sono ovunque ci sia sofferenza commerciale e deprezzamento degli immobili».

La crescita del numero di aziende cinesi rispetto al 2014 è del 7,2 per cento, 334 nuove società. E dal 2009 sono raddoppiate. «Negli anni della crisi, la comunità cinese è la sola che è cresciuta. Lo dicono gli indicatori, dal reddito alle case di proprietà», dice Gian Carlo Blangiardo, professore di Demografia in Bicocca. E non è l’unica tendenza: aumentano le donne imprenditrici, i dipendenti lavorano di più (68 ore a settimana) e guadagnano 1.610 euro lordi al mese. Intervistati dalla fondazione Ismu, solo il 20 per cento dei cinesi a Milano dice di capire bene l’italiano e il 9 per cento di poterlo leggere.

«Ma la novità degli ultimi anni non è il numero di imprese. Siamo noi - dice Francesco Wu, 34 anni, presidente dell’associazione dei giovani imprenditori cinesi Uniic – abbiamo messo d’accordo le 14 associazioni di commercianti cinesi in città e abbiamo insegnato ai vecchi una cosa: siamo in Italia non in Cina, se vuoi cambiare le cose puoi farlo. Devi farti sentire. Queste primarie sono state l’occasione». Figli più integrati e istruiti dei propri padri, che hanno mandato i genitori a votare. Per Giuseppe Sala. «La comunità chiede al Comune poche cose semplici, che gli assessori Majorino e Balzani hanno dimostrato di non volere - dice ancora Angelo Ou -. Meno lacci al commercio, un rappresentante nelle istituzioni e l’autorizzazione a creare alcune grandi cose». La più grande: una international school cinese per 640 studenti. Un progetto fermo da tempo.

postilla

Chi ha seguito con una certa attenzione sul social network lo svilupparsi del dibattito sui «cinesi ai seggi delle primarie» milanesi, avrà certamente notato l'abisso che separa certe strampalate teorie di integrazione, vitalità urbana, convivenza, dalla realtà su cui si vorrebbero esercitare. La comunità cinese, tra la scarsa attenzione (poco oltre il folklore e qualche diffidenza) di chi a parole si fa paladino di quei concetti, è uno dei protagonisti di punta della riqualificazione dei quartieri urbani, e della loro rivitalizzazione commerciale. Il fenomeno più vistoso è quello «open air mall» di via Paolo Sarpi, che fa da virtuale trait-d'union tra il monumentale Parco Sempione e il neomonumentalismo postmoderno di Porta Nuova. È con questo tipo di iniziative, ovviamente tutte da capire, favorire, governare, che una politica urbana davvero all'altezza dei tempi dovrebbe confrontarsi, domandandosi tanto per cominciare fin dove qualunque attività che produce ricchezza è accettabile, e dove invece occorre affiancare una piena integrazione culturale. La diffidenza di certa sinistra che ha scambiato per invasori di campo i commercianti cinesi, in fila ai seggi delle primarie sostanzialmente contro certe pedonalizzazioni che ritengono controproducenti, dimostra quanta strada ci sia da fare verso un'idea di commercio urbano meno nostalgicamente campata per aria (f.b.)

Un modello utopico di integrazione locale delle diversità culturali? Molto probabilmente no, visto che con evidenza vengono tenuti fuori tutti i fattori non esplicitamente economici, che invece nella vita vera contano, eccome se contano. La Repubblica, 6 febbraio 2016, postilla (f.b.)

Ci sono un italiano, un polacco, un turco, un arabo e un indiano: ma non è l’inizio di una di quelle barzellette all’insegna degli stereotipi etnici. È la descrizione di un pezzetto di Narborough road, la strada più multietnica d’Inghilterra, se non d’Europa o forse del mondo: 24 nazionalità, in rappresentanza di quattro continenti, una accanto all’altra, su poco più di 200 esercizi pubblici, vetrina di negozio dopo vetrina di caffè, barbiere, salumiere, in apparente armonia nel cuore di una cittadina di provincia.

«Magari gli immigrati andassero così d’accordo nel nostro paese o da qualunque altra parte », dice Gennaro Zappia, cuoco salernitano, in mano una teglia di ravioli pronti per il forno, nel ristorante che ha appena aperto al numero 2 di questa colorita via del cosmopolitismo urbano. A individuarla sono stati i sociologi della London School of Economics, la cui ricerca è finita sui giornali. “Bottegai di tutto il mondo unitevi”, suggerisce il titolo del Mail, parafrasando involontariamente il motto di Marx: uniti per commerciare in santa pace e possibilmente in prosperità, certo, mica per fare la rivoluzione. Ma questa unità è un segno di civile progresso, nel momento in cui in Europa risuonano allarmi sulle invasioni straniere e sui presunti danni di un’immigrazione senza controlli.

A un’ora di treno dalla capitale, Leicester deve la sua fama passata a Riccardo III, l’ultimo re inglese caduto in battaglia, e quella più recente a Claudio Ranieri, l’allenatore che ha sorprendentemente portato in testa alla Premier League la squadra locale. Ora l’indagine della Lse (acronimo della prestigiosa università di scienze politiche londinese) sottolinea un altro motivo di distinzione: meno di metà della popolazione locale (300mila abitanti) si autodefinisce britannica, le due università cittadine attirano studenti da ogni angolo della terra e Narborough road, l’arteria che taglia il centro, è diventata una sorta di nazioni unite del piccolo commercio. Una volta era una strada in declino, contrassegnata da abbandono, degrado e miseria. Globalizzazione e immigrazione, i due grandi accusati dai nostalgici del tempo che fu, l’hanno rivitalizzata.

Beninteso, non è una strada ricca: modeste casette a due piani costellano le vie adiacenti (90 mila sterline per un appartamento con due camere da letto, si legge nella vetrina di un’agenzia immobiliare – prezzo con cui sotto il Big Ben non compri neanche un garage). Né vi compaiono “chain stores”, le catene di negozi tutti uguali (Starbucks, Gap, Pizza Express) che hanno reso omogenee le “high street”, le vie centrali nel resto della nazione. Ma è costellata di negozietti indipendenti che trasmettono dinamismo e speranza. Vicino a Sultan (barbeque turco) c’è Alino (bar africano), di fianco a Nawroz (cucina caraibica) c’è Al Sheikh (ristorantino arabo), dopo Karczma (delicatessen polacco) c’è Vashnu Daba (alimentari indiano). E avanti così, isolato dopo isolato: un macellaio pachistano, una tabaccaia kenyota, un droghiere lettone, una sarta dello Zimbabwe, un ristoratore giamaicano. “Antonio Sun Tanning”, salone per abbronzarsi, non cela un italiano, bensì un inglese: ebbene sì, ci sono anche i nativi, con nome nostrano per sembrare più esotici. Accanto ai supermercatini “halal”, cibo secondo i dettami del Corano, sorge il salone di bellezza Platinium, con in vetrina la gigantografia di una bionda in bikini. Sul marciapiede mi sfiorano una bionda in carne e ossa che parla russo dentro un telefonino, una massaia con il velo e le sporte della spesa, un gruppo di sikh con il turbante, uno di operai polacchi. Kerreen Nelson, giamaicana, dietro il bancone dell’omonimo Nelson Soul Food, dice che è bello vedere così tante comunità diverse in buoni rapporti.

«Ci siamo guardati intorno per cercare il posto giusto», racconta Zappia, lo chef di Sapri, provincia di Salerno, fra i tavoli di “La cucina italiana”, il ristorante che ha aperto con il socio romano Alessandro Graziani. «A Londra di ristoranti italiani ce ne sono tanti, qui c’erano soltanto imitazioni e abbiamo pensato ci fosse spazio per uno genuino ». Era l’unica cosa di cui Ranieri si è lamentato arrivando ad allenare il Leicester: l’assenza di un posto dove cenare come in Italia. Adesso può portare la squadra su Narborough road e mangiare tagliolini all’astice o ravioli ai funghi come in patria. Il mondo in una strada. Non è una barzelletta.

postilla

Non è certamente un caso, se quella strada scelta dai sociologi della London School of Economics come possibile «modello di integrazione» sta nel cuore profondo della patria del liberalismo, e del conseguente amore sviscerato per una certa idea di spazio condiviso utilitaristico assai circoscritto, ma dove le cose a modo loro effettivamente funzionano. Ricordando sempre, però, che appena si esce da quell'universo altamente artificioso, nulla pare più altrettanto equilibrato, come ci dimostra ogni giorno la realtà. E del resto, basterebbe forse provare a andare appena oltre quella superficiale tolleranza da «business is business» di questa sorta di centro commerciale autogestito, dove ci si allea o ci si fa concorrenza solo per il profitto, per cogliere il senso del modello britannico della integrazione esclusivamente economica (che lascia le culture a macerarsi nella loro specificità), contrapposto a quello di scuola francese (che vorrebbe integrarle in uno Stato portatore di valori comuni di riferimento). Se esce una lezione dal racconto, anche senza ovviamente entrare nei valori specifici della ricerca LSE appena citata, è che si può praticare una ricerca di spazi comuni sperimentali, da cui forse far emergere regole più generali, ma certamente non confidando al 100% in entità del tutto astruse come lo Stato o il Mercato, a loro volta soggette a declinazioni particolari (f.b.)

Seconda parte del lavoro su Pisa che si propone di seguire passi indispensabili per cambiare cose che non funzionano come vorremmo: analizzare, denunciare, proporre. Significa anche sbugiardare bugiardi e tagliare le unghie ai rapaci. La citta invisibile, rivista online, 25 gennaio 2016

E’ interessante vedere a chi appartengono gli immobili totalmente abbandonati nel comune di Pisa. Il 61% (146mila mq) è di proprietà pubblica, mentre il restante 39% (93mila mq) è di proprietà privata.

Tra i nomi dei proprietari privati spiccano, tutti già fin troppo ricorrenti nelle cronache locali, il costruttore Bulgarella, la famiglia Pampana, la multinazionale J Colors proprietaria dell’ex colorificio. Tra i soggetti pubblici, ecco quelli meno virtuosi: a farla da padrone è il Comune di Pisa che possiede circa 97mila mq delle aree completamente abbandonate all’interno del comune stesso (il 66% di tutto il comparto pubblico), seguono l’Università e l’Azienda Ospedaliera.

Dal confronto con i dati censiti nel 2012 emerge un altro dato inconfutabile. Negli ultimi sei anni le aree abbandonate sono aumentante dell’11%, di cui 7,5% solo negli ultimi 3 anni. E di questo aumento sono responsabili esclusivamente le amministrazioni pubbliche, in particolare il Comune di Pisa che ha contribuito a creare la metà delle più recenti superfici abbandonate. Siamo di fronte alla necessità di un serio controllo del territorio finalizzato alla prevenzione di questi fenomeni responsabili del degrado urbano.

Tra il 2012 e il 2015 numerose sono state le azioni nate dal basso per la riqualificazione e il recupero di grandi aree della città: dall’ex Colorificio, alla Mattonaia, al Distretto 42: tutte azioni represse e sgomberate per lasciare nuovamente queste aree al degrado e soprattutto alla speculazione. A contrasto si nota la stesura di veri e propri tappeti rossi da parte dell’amministrazione comunale ai costruttori, con l’effetto di avere oggi decine di scheletri in cemento che non verranno completati: dalle Torri di Bulgarella all’ex-Draga della ditta Rota fallita negli scorsi mesi. Un danno urbano che ricadrà interamente sulla comunità, visto lo scandalo emerso recentemente che ha mostrato come, a garanzia di lavori di urbanizzazione mai fatti, siano state accettate fideiussioni fasulle e inutilizzabili. Tutto questo in una città che nell’occasione dell’alluvione avvenuta il 24 agosto scorso ha evidenziato una estrema fragilità sul piano del rischio idraulico.

L’unica cosa sensata sarebbe smettere di costruire, recuperando il patrimonio inutilizzato. E invece, mentre per i privati la strategia è attendere che arrivi la giusta variante urbanistica, con tempi di attesa incomparabili rispetto alla vita dei cittadini e delle cittadine comuni, per gli enti pubblici l’imperativo è vendere per “valorizzare”, secondo un meccanismo che di fatto fa sì che si moltiplichino le aste pubbliche deserte fino a che, pur di vendere in qualche modo una parte del proprio patrimonio, le cifre vengono abbassate e gli immobili svenduti tramite poco trasparenti trattative private.

Negli ultimi anni la direzione presa dagli enti locali è stata quella di adottare piani faraonici di vendita che stanno cambiando il volto di Pisa: si cerca di vendere l’area dell’ex ospedale S. Chiara, si vendono - o meglio si permutano - le caserme e lo stadio, il Palazzo dei Trovatelli e quelli delle Gondole, e ancora Palazzo Mastiani in Corso Italia, la Mattonaia dietro Borgo Stretto, per non parlare del recente caso del Palazzo ex-Telecom, dietro alla sede del Comune.

A novembre l’amministrazione comunale ha preso formalmente atto che il progetto che riguardava le caserme è definitivamente fallito: però solo dopo aver bocciato pochi mesi prima un progetto partecipato di recupero e riutilizzo dell’ex distretto militare, costruito dai cittadini del quartiere e da numerose associazioni del territorio. Ci chiediamo se ora sarà possibile riaprire la discussione sul futuro dell’area o l’amministrazione perseguirà miope le proprie fantasie speculative sulle villette di lusso.

Investire nel mantenimento dell’esistente, invece di creare nuovi volumi, è sempre più necessario: dai crolli nelle scuole ai danni provocati dall’alluvione nell’ex-convento di grandissimo pregio Fossabanda, dai soldi spesi per bonificare l’area intorno alla Mattonaia in pieno centro allo scempio delle Torri di Bulgarella, emerge in maniera evidente il quadro di un sistema che non funziona più.

Molteplici sono le proposte di immediato riutilizzo degli immobili, sia a scopo abitativo residenziale di cittadinanza e corpo studentesco, che a fini sociali e culturali, che abbiamo sottoposto alla discussione pubblica ma che finora l’amministrazione ha sempre ignorato evitando in ogni modo i confronti di merito.

E per tutti i terreni per i quali resta la destinazione edilizia: è legittimo che i diritti edificatori siano intangibili anche quando le necessità di un Comune cambiano? Il soggetto pubblico, che pure è titolare e sorgente della potestà sul territorio e sull’uso dei suoli non mette in discussione, per prassi, il diritto a costruire che ha già rilasciato. Infatti, le imprese e le banche che si sono esposte per i loro investimenti operano sostanzialmente un ricatto, in nome della salvaguardia dell’occupazione. Un ricatto sterile visti questi dati incontrovertibili: dal 2002 al 2014 la città ha perso il 10% della popolazione attiva, si è allargata in maniera impressionante la forbice reddituale con una tendenza costante indipendentemente dalla crisi conclamata del 2008, ed è evidente infine un aumento del tasso di disoccupazione che è passato dal 3,5 % del 2006 al 8,3 % del 2014.

Allora ci chiediamo che vantaggio abbiano portato alla comunità le centinaia di milioni investiti sul territorio per nuove costruzioni. Eppure il pubblico, in qualche modo soggiogato dagli interessi privati, continua a favorire la speculazione, rinunciando di fatto ad esercitare la propria funzione costituzionale di decisore sull’uso del suolo.

A Pisa però abbiamo visto che dal basso è necessario e possibile agire: la battaglia condotta e vinta dai cittadini e dalle associazione ambientaliste per imporre la previsione del Parco Urbano di Cisanello è stato forse uno dei primi casi di messa in discussione di principio di intangibilità dei diritti edificatori. Ancora una volta la concreta realizzazione è ferma a causa della colpevole inerzia dell’amministrazione.

Noi non ci scoraggiamo, la battaglia contro il consumo di suolo e per il recupero del patrimonio esistente non si ferma: è possibile, oltre che necessario proseguire su questa strada.

QUI la prima parte dello studio

La commissione Cultura rileva che «non c’è il necessario coordinamento con il Codice dei beni culturali del 2004». Chissà se qualcuno si accorge che per il consumo di suolo non serve a niente, ma anzi...Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2016

Roma. Rischia di impantanarsi di nuovo il Ddl sul consumo di suolo. La discussa riforma che punta a ridurre la realizzazione di nuove costruzioni e a incentivare la rigenerazione urbana, dopo l’approvazione in commissione a fine ottobre, pareva a un passo dal traguardo. Sulla sua strada, però, si è appena messo un durissimo parere della commissione Cultura di Montecitorio che, di fatto, chiede di riscrivere il provvedimento in una ventina di passaggi. I deputati, recependo indicazioni del ministero dei Beni culturali, sottolineano i «profili assai problematici» della legge: non è coordinata con le regole sui piani paesaggistici regionali ma, soprattutto, mette sulle spalle degli enti locali un carico organizzativo giudicato eccessivo. Per il testo, atteso in aula per il mese di marzo, pare profilarsi l’ennesima riscrittura.

Dopo il disco verde presso le commissioni Ambiente e Agricoltura di fine ottobre, la speranza dei relatori Chiara Braga e Massimo Fiorio era chiudere la partita subito, entro il 2015. Questi piani, però, sono saltati ben presto. Il provvedimento, infatti, è stato licenziato senza tutti i pareri parlamentari prescritti: in attesa del loro arrivo, è stato messo in lista di attesa. Nel frattempo, è partita la sessione dedicata alla legge di Stabilità 2016, che ha congelato tutto, allungando i tempi. Lentamente i pareri stanno arrivando. Al momento si sono espresse cinque commissioni che, in larga maggioranza, non hanno avuto nulla da ridire.
C’è però un’eccezione molto pesante: la commissione Cultura che, pronunciandosi sul testo, ha assestato un colpo piuttosto duro alla versione del provvedimento uscita dalla prima fase di lavori. Formalmente, si tratta di un parere favorevole. Anche se, a leggere con attenzione il testo, si trae un’impressione tutta differente. La commissione, infatti, spiega che nel Ddl«non mancano profili assai problematici». Nello specifico, non c’è il necessario coordinamento con il Codice dei beni culturali del 2004: tradotto in parole povere, vuol dire che la legge disegnata in questi mesi non tiene conto come dovrebbe delle regole sui piani paesaggistici regionali. Poi, le norme sui borghi rurali sono troppo permissive nei passaggi che riguardano la demolizione e ricostruzione. Ma è il rilievo finale quello più pesante. La riforma, secondo la commissione Cultura, pone un «eccessivo carico organizzativo e decisionale sugli enti locali».
Al di là del merito, però, pesa anche la fonte di queste osservazioni. Ne parla Gianna Malisani, relatrice del parere: «Abbiamo rispettato le indicazioni dell’Osservatorio nazionale per la qualità del paesaggio del ministero dei Beni culturali. È un organo costituito da direttori del ministero ed esperti del settore che si è espresso sottolineando problemi condivisi anche da me». Il parere della commissione non è vincolante, ma sarà difficile non tenerne conto. Anche se Fiorio esclude un nuovo passaggio in commissione: «Affronteremo le ultime questioni in Aula, dove il testo è già calendarizzato a marzo».
Riferimenti
Si veda su eddyburg di Vezio De Lucia Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione e la relativa postilla di Edoardo Salzano. Sul consumo di suolo si veda la relativa sezione di eddyburg Città e Territorio/Temi e problemi/Consumo di suolo.
«Dal 2 settembre, le New Town nate dopoil terremoto del 2009, si stanno sgretolando con la gente dentro». Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)

«Sono rimasto solo». Luigi osserva il quartiere che pochi mesi fa brulicava di vita. Silenzio. Non c’è più nessuno, come per un attacco atomico. Resta questo pensionato, Luigi Bellicoso, strano nome per una persona tanto mite. È l’ultimo abitante di una delle New Town di Cese di Preturo, i quartieri cresciuti come funghi dopo il terremoto de L’Aquila. Il miracolo reclamizzato da Silvio Berlusconi.

Ma il 2 settembre 2015 i Complessi Anti-sismici Sostenibili Eco-compatibili, le famose CASE, hanno preso ad andare in pezzi. Con la gente dentro. Ha cominciato un balcone, una mattina un crac ed è andato giù. Poi sono arrivati gli uomini del Corpo forestale coordinati dal Comandante Nevio Savini, che da anni collaborano con la Procura, e hanno scoperto che i balconi non tenevano più. Marci. Allora hanno cominciato a sigillarli, quelli costruiti da una ditta di Piacenza e da un consorzio della Campania. Ottocento. Sulle facciate sono emerse crepe.
Quel quartiere e gli altri costruiti dalle stesse ditte (490 abitazioni) saranno evacuati. Quasi mille persone. Alberto Maurizi della Forestale ha perso giorni per visitare le famiglie e spiegare loro cosa stava succedendo. «Hai preso tutto?», chiede Matteo Valente alla moglie mentre chiude la porta e carica la Panda. Ci hanno stipato la loro vita.
Un progetto da 800 milioni sotto inchiesta
Ma che cosa è successo alle CASE? «Una città ricostruita in 4 mesi», titolavano trionfanti i giornali nel 2009. I dati della Protezione civile parlavano di 4.449 alloggi per 15mila persone. Un progetto da quasi 800 milioni. Da allora, come ricorda il procuratore Fausto Cardella, è stato un fiorire di inchieste. Il magistrato è preoccupato: «Abbiamo 6 pm invece di 14. È stato fatto un lavoro enorme». Ma il rischio è la prescrizione. Una cosa è certa: in tanti ci si sono riempiti le tasche. Soprattutto la camorra. «Molti progetti sono stati realizzati da associazioni di imprese guidate da una ditta aquilana che faceva da testa di legno», dicono gli investigatori. Il guaio, sostiene Cardella, «non sono gli appalti pubblici che hanno regole rigide. Ma quelli privati»: gli isolati della città sono stati uniti in “aggregati” e ognuno dato a un privato che affida gli appalti. Una manna per i clan. Inchieste come Dirty Job hanno rivelato che i lavoratori, spesso della Campania, dovevano restituire al datore di lavoro fino al 50% del compenso.
Ci si è arricchiti su tutto. L’ultima inchiesta è quella sui balconi, condotta dal pm Roberta D’Avolio. Il bando di gara prevedeva tempi stretti e penali alte. Risultato? «Per non pagare sanzioni - dice l’accusa - una ditta piacentina avrebbe usato legno fresco invece che stagionato». I solai si sono piegati, l’acqua si è accumulata sui balconi. Fino a farli crollare. Scrivono i periti della Procura: «Il rivestimento inferiore, frontale e laterale non è stato realizzato in legno trattato per esterni… i solai sono stati realizzati con pannelli costituiti da tavolati in legno massello chiodato e incollato in modo discontinuo». E così qualcuno si sarebbe arricchito, altri - alti dirigenti della Protezione civile - non avrebbero vigilato, ma mille persone devono di nuovo lasciare le case.
C’è stato di peggio, come lo scandalo degli isolatori sismici. Un’inchiesta - già ci sono state condanne in Appello - condotta dal pm Fabio Picuti. Gli esperti la descrivono così: «Il bando prevedeva che le case dovessero poggiare su isolatori sismici». Una saggia cautela o un modo per riempire le tasche a qualcuno? «I costi sono raddoppiati e si sono realizzate piattaforme di cemento che resteranno per sempre anche se le CASE dureranno pochi anni». Dai collaudi è emerso che quasi il 50% degli isolatori non sarebbero in regola. «Erano privi dei certificati di omologazione e qualificazione…alcuni campioni non hanno superato le prove rompendosi». Il costo è quasi raddoppiato. Senza garantire la sicurezza. L’ombra della truffa assume a volte tinte tragicomiche. Il pm Simonetta Ciccarelli ha portato a processo un’impresa di pompe funebri che avrebbe certificato di aver sepolto una quarantina di vittime che non aveva mai visto. La cresta sui defunti.
I muri in cartongesso e i ruderi abbandonati
Ma il balcone crollato ha distrutto il mito delle CASE. Basta infilare il dito nel legno marcio di Cese di Preturo. Ma anche in altre, come ad Assergi, ai piedi del Gran Sasso. Qui Francesca Di Noto racconta «di muri in cartongesso che si sciolgono con la neve, prese della corrente senza nemmeno i fili, specchi fotovoltaici non collegati». Il vicino mostra un buco nel pavimento. Dovevano durare 15 anni le CASE. Vanno a pezzi dopo 6. «Resteranno centinaia di ruderi», sospira Camilla Inverardi - architetto con la passione per il suo mestiere e per L’Aquila - indicando i complessi con stili a volte surreali. «Non c’è stato un disegno preciso nella ricostruzione. A partire dai colori. Ma guardate queste case! Azzurro puffo, giallo evidenziatore e viola cocotte. Il colore della nostra città era il bianco, come la pietra delle montagne».
Oggi la ricostruzione è ripartita. Per le strade l’aria è piena di polvere di calce. Ma non bastano i palazzi. La sfida è riportarci la vita. L’impressione è che la regia sia da perfezionare: «C’è una ricostruzione a macchia di leopardo», ancora Inverardi. «Così chi ha recuperato la casa non può andarci ad abitare perché le strade intorno sono un cantiere». Per non dire degli allacci, l’elettricità, l’acqua. I lavori interferiscono con i cantieri delle case e si bloccano a vicenda. Intanto ecco voci di progetti mirabolanti, come una specie di ponte di Brooklyn sull’Aterno, roba da 8 milioni mentre le scuole attendono di essere ricostruite. Per non parlare del “cratere”, l’area intorno a L’Aquila. Qui a essere distrutta è anche la legalità: c’è chi ha comprato ruderi, caduti prima del sisma, e li ha trasformati in case abusive, ristoranti e negozi. E ci sono paesi che di notte sono un ammasso di ombra. Antonio Moretti, geologo dell’università, abita ad Arischia, borgo a venti chilometri da L’Aquila. Fino al 6 aprile 2009 ci vivevano in 5 mila. Adesso dalle finestre escono buio e freddo umido. A ogni rudere corrisponde un nome: “Qui abitava Attilio”, “qui c’era il panettiere”. Se ne sono andati tutti.
Riferimenti

Nell'archivio del vecchio eddyburg c'e un'intera cartella di analisi e denunce dei devastanti eventi tra loro per chi è stato il peggiore: il sisma o il dopoterremoto, Poprio qui: Terremoto all'Aquilax

Forse il significato migliore della definizione «le primarie più belle del mondo» per Milano sta nel far emergere le differenze di strategia, le varie idee di città: qualcuna dotata di senso, altre meno. La Repubblica, 27 gennaio 2016, postilla (f.b.)

Non c’è campagna elettorale senza sogni da tradurre in slogan. Servono a dare il segno della propria visione di città, ma anche a creare un dibattito che abbia al centro il nome del candidato di turno. Il libro dei sogni dei candidati alle primarie di Milano del prossimo febbraio potrebbe iniziare così: c’era una volta una città con l’acqua dei Navigli che scorreva ovunque, autobus e tram gratis per tutti, un reddito minimo garantito dal Comune per chi si trova in difficoltà. Sono, rispettivamente, le proposte più importanti di Beppe Sala, Francesca Balzani e Pierfrancesco Majorino, il commissario Expo (in scadenza), la vicesindaco e l’assessore al welfare che, con Antonio Iannetta, si sfideranno alle primarie del 6 e 7 febbraio.

Alle proposte più concrete, quelle che si realizzano più o meno in poco tempo e senza grandi rivoluzioni, si aggiungono ormai quelle che hanno anche un forte valore simbolico. E che fanno discutere tanto: quando Balzani, ieri, ha presentato la proposta di rendere gratuiti i mezzi di superficie entro i cinque anni di mandato, tutti — dalla destra alla sinistra — hanno detto la loro. Accusandola di fare boutade elettorali senza coperture, di ipotizzare «finanza creativa con la demagogia tipica della destra» (è la frecciata di Sala), di non pensare all’equità sociale, dando così la possibilità di viaggiare gratis anche a chi non ha problemi a pagare un biglietto. Lei, ieri, ha spiegato: «Non è una promessa, ma un impegno che dovrà diventare una proposta strutturata ». Alla base del progetto c’è l’offerta di linee metropolitane a Milano (quattro, più una in costruzione) e l’idea che il trasporto pubblico sia da ripensare integralmente su area metropolitana. L’assessore alla mobilità Pierfrancesco Maran (che appoggia Sala) ha subito replicato che un’operazione del genere costerebbe almeno 160 milioni di minori introiti e quasi 60 per potenziare bus e tram. Preoccupazioni che Balzani liquida in poche parole: «Il bilancio deve essere un elemento propulsore, non per dire che non si può fare nulla: le risorse si trovano quando ci si dà una forte priorità».

Beppe Sala ha precisato subito che il suo sogno non è una priorità («prima il problema case»), che avrà bisogno di dieci anni e che non ha ancora studiato come trovare i circa 400 milioni che servirebbero per realizzarlo. Ma racconta: «Ho studiato a lungo il tema: non è un ritorno al passato, ma è pensare a una nuova mobilità per Milano, guardando a quella che diventerà. Riaprire tutta la cerchia dei Navigli, lasciando una corsia per mezzi pubblici e di soccorso e per le bici: non è follia». Un reddito di riscatto sociale «per proteggere chi è a rischio emarginazione», il primo in Italia: non sogni ma solide realtà, assicura Pierfrancesco Majorino. Tre interventi: 5mila euro annui per 10mila famiglie, sconti e gratuità per altre 70mila famiglie, 500 euro al mese per un anno per far lavorare altre 2mila persone. Costo del progetto: 55 milioni: 27 sarebbero già nel bilancio, 12 arriverebbero dal governo, mancano all’appello 16 milioni.

postilla

Benissimo fa, per una volta, la stampa a presentare sul medesimo piano le tre «strategie» dei tre principali candidati alle primarie del centrosinistra milanese. Forse un po' meno corretto sarebbe però considerarle davvero in qualche modo analoghe, schierandosi per un «progetto» o per l'altro senza porsi una questione di metodo, ovvero: c'è un'idea di città, dietro questi slogan-strategie esposti in forma necessariamente semplificata (anche troppo) durante la campagna elettorale? A parere di chi scrive una distinzione, almeno una, sta nella differenza tra piano e progetto delle tre opzioni, ovvero nella capacità di diventare contenitore-animatore-propulsore di molto altro, e riassumere in gran parte politiche pubbliche assai pervasive. Della riapertura dei Navigli fatta propria da Sala già si è detto in lungo e in largo sin dai tempi del referendum cittadino, di come il progetto in sé avesse magari obiettivi condivisibili, ma come senza la contestualizzazione di una sinora improbabile strategia metropolitana e coinvolgendo molti soggetti diversi dall'amministrazione comunale, si riducesse a ben poco (il disastro delle Vie d'Acqua Expo dovrebbe quantomeno suonare da campanello d'allarme). La solidarietà nei servizi ai più bisognosi, virtuosissima pratica messa ampiamente in campo dall'assessorato del candidato Majorino, pur del tutto condivisibile nel merito, pur apprezzabilissima nel mettere al primo posto l'obiettivo dell'eguaglianza e della solidarietà, vistosamente poco si presta a fare da contenitore di politiche locali non di settore. Resta l'ultima, l'ipotesi di parziale gratuità dei trasporti pubblici proposta da Balzani, che più è stata irrisa, messa in discussione nei presupposti minimi, contestata immediatamente dagli «specialisti». Ma che pure, anche alla luce di numerosissimi studi internazionali, ha caratteristiche piuttosto simili a quelle che hanno ispirato ad esempio i ricalcoli del Pil: un'idea di «bilancio» dove si fanno entrare negli equilibri nuovi fattori e attori, dove efficienza ed eguaglianza possono non solo convivere, ma alimentarsi l'una con l'altra. Forse anche i trasporti, come tanti altri settori, sono una cosa troppo importante perché li lasciamo ai trasportisti (f.b.)

La prima parte di un lavoro su Pisa che si propone di seguire i tre passi indispensabili per cambiare le cose che non funzionano come vorremmo: analizzare, denunciare, proporre. Che significa anche sbugiardare i bugiardi e tagliare le unghie ai rapaci. La citta invisibile, rivista online, 11 gennaio 2016

In base ai dati forniti da ISPRA, al 2014 in Italia si sono consumati 8 mq di suolo al secondo. Un rettangolo di 2 metri per 4, la grandezza di una camera singola in affitto a Pisa. La media negli ultimi 50 anni è stata di 7 mq al secondo. Il ritmo è quindi elevato, soprattutto se si considerano le medie europee e la crisi, che invece dovrebbe aver contribuito significativamente a ridurre l’edificazione.

Le aree utilizzabili nel mondo per la produzione di cibo (senza necessità di sistemazioni idrauliche e altre sistemazioni agrarie, e senza irrigazione) coprono circa l’11% delle terre emerse, e sono le stesse che vengono scelte per costruzioni e infrastrutture: così oggi produzione di cibo e consumo di suolo sono in diretta concorrenza, a scapito della produzione di cibo. In particolare nel nostro Paese, che non è in grado di garantire la sicurezza alimentare: siamo in grado di produrre cibo solo per circa l’80% della popolazione italiana e, secondo il Sustainable Europe Research Institute, l’Italia è il 3° paese in Europa e il 5° nel mondo per deficit di suolo agricolo.

A fronte di questi inequivocabili dati, oggi a qualunque livello di governo, si proclama la necessità di fermare il consumo di suolo e bloccare le previsioni di nuove costruzioni. Certo, fatte salve le “dovute, necessarie eccezioni”. Di fatto, i processi economici che spingono ad investire sul mattone e che sono strettamente connessi ad un’economia finanziaria basata sulla rendita, non solo non si sono arrestati, ma in qualche modo si sono esacerbati. Perché, per “rimettere in moto l’economia” si ricorre di fatto ad ulteriore consumo di suolo, in contrasto con i proclami fatti. Quindi, data la gravità del fenomeno, è necessario porsi una domanda: quando si parla di “dovute, necessarie eccezioni” allo stop al consumo di suolo, cosa si sta davvero dicendo?

Pisa: un caso esemplare?

A Pisa abbiamo cercato di capirlo, aggiornando al 2015 i dati della campagna “Riutilizziamo Pisa”che fu condotta per la prima volta nel 2012. La mappa che identifica le aree abbandonate e gli immobili censiti è disponibile a questo link: https://goo.gl/Ws2qIv

Abbiamo trovato dati inquietanti e abbiamo sviluppato degli indici di valutazione i cui risultati non solo non restituiscono l’immagine di una pretestuosa rinascita della città, sbandierata ad ogni possibile occasione dall’amministrazione comunale, ma sono al contrario la prova che Pisa è schiacciata dal peso della speculazione e degli interessi privati. Le politiche del cemento e del consumo di territorio da un lato, e dell’abbandono di decine e decine di edifici pubblici e privati dall’altro, sono andati avanti, diventando via via più aggressive.

Pur trattandosi di una analisi non esaustiva, ma fatta principalmente sulle grandi aree, il primo dato calcolato è impressionante: circa 360mila metri quadrati sono aree abbandonate o parzialmente utilizzate, di cui 239mila completamente abbandonati. Per quanto elevatissimo il dato è sottostimato: andrebbe considerevolmente aumentato se contassimo tutte le aree abbandonate delle zone industriali (capannoni e ex uffici). Inoltre, non sono conteggiati gli alloggi sfitti di proprietà privata; in una città che ha solo circa 89.000 residenti, dal censimento del 2011 emergono 14.633 alloggi statisticamente vuoti, di cui circa 8.500 sono realmente vuoti (o affittati per brevi periodi per turismo – specie sul litorale -, o locati “in nero”) o inagibili da ristrutturare.

Come mai si continuano a prevedere nuove abitazioni quando già così tante in città non sono utilizzate? La variante di monitoraggio del piano regolatore che il Comune di Pisa ha approvato alla fine del 2015 non prevede che minimi tagli alle nuove edificazioni previste, a fronte delle numerose approvazioni di varianti per nuove aree a destinazione edilizia. Mantiene tutte le previsioni di sviluppo e nuovo consumo di suolo nella zona di Ospedaletto. Nonostante si propagandi una politica del recupero degli immobili, di fatto si prevedono una serie di abbattimenti e ricostruzioni, senza immaginare mai un vero e proprio riutilizzo del patrimonio esistente (segue).
Tiziana Nadalutti e Fausto Pascali, Municipio dei Beni Comuni

«Dopo il terremoto del 2009 è ancora il cantiere più grande d’Italia, la ricostruzione prosegue ma la gente se ne va: un terzo delle case dopo il restauro finisce sul mercato. La borghesia è fuggita sulla costa.Il sindaco sogna i turisti ma il rischio è che visitino una Pompei del Duemila». Tomaso Montanari e Corrado Zunino, la Repubblica, 7 gennaio 2016 (m.p.r.)


COSÌ RISORGE LA CITTÀ DI PIETRA.
MA ÈUNA QUINTA SENZA POPOLO

di Tomaso Montanari

Finalmente all’Aquila si lavora davvero: grazie soprattutto alla pazienza e alla dedizione di Fabrizio Barca (fino al 2013 ministro per la coesione territoriale del Governo Monti, e vero artefice della ripartenza), a sei anni e mezzo dal terremoto la città è un grande cantiere.Un cantiere in cui non mancano, naturalmente, i problemi. La sezione aquilana di Italia Nostra fa giustamente notare che stiamo rischiando di perdere l’occasione per migliorare il tessuto edilizio: per esempio non eliminando i casermoni degli anni Sessanta e Settanta che sfigurano punti importanti della città storica, come le mura. Ed è anche vero che la ricostruzione del patrimonio architettonico non appare sempre condotta a regola d’arte (non c’è un convincente piano del colore delle facciate, tra l’altro).

Ma, insomma, finalmente l’Aquila inizia a risorgere. Quella di pietra, però. Perché il pericolo, ogni giorno più concreto, è che a risorgere sia una quinta monumentale, condannata a rimanere vuota. Da una parte si raccolgono i frutti della scellerata decisione dell’epoca Berlusconi-Bertolaso: quella di spezzare i nessi sociali dividendo gli aquilani in 19 cosiddette new towns, minando così alle fondamenta la speranza stessa di una rinascita della città. Dall’altra parte, ciò che è mancato, e che continua drammaticamente a mancare, è una attenta politica di sostegno a favore di chi decide di ritornare a vivere in centro. Il futuro dell’Aquila si gioca assai di più sul tempo che passa prima di ottenere l’allaccio del gas che non su quello della riapertura dei musei e delle chiese monumentali. È la mancanza di servizi pubblici, di negozi, delle condizioni elementari per la vita quotidiana a indurre gli aquilani a non tornare, o addirittura a tentare di vendere le loro case riconquistate.
«Quando senti gli anziani riporre nei giovani la speranza della ricostruzione di questa città, ancora paralizzata da una precarietà indefinita e spaventosa, puoi solo constatare che questi anziani non sanno quanto poco si parli del futuro dell’Aquila, tra i giovani dell’Aquila». Così ha detto una giovane aquilana al suo concittadino Valerio Valentini, giornalista e poeta che ha firmato su Internazionale un reportage intitolato: «l’Aquila paralizzata non crede più nel futuro». E questo è il punto: anche se moltissimi cittadini (come quelli che hanno dato vita all’associazione e al sito «Jemo ‘nnanzi») continuano a lottare per costruirlo, quel futuro.
Quasi tre anni fa l’Aquila ospitò la più grande riunione di storici dell’arte della storia repubblicana: al centro di quella manifestazione c’era la richiesta di una «ricostruzione civile». Perché proprio chi studia le pietre sa che quelle pietre non vivono senza la presenza capillare di un popolo. Il rischio, assai concreto, è che l’Aquila ricostruita diventi un grande guscio vuoto, una specie di quinta monumentale buona solo per un uso turistico, aperta ogni mattina da impiegati che risiedono invece in luoghi anonimi e alienanti.
In altre parole, il terremoto - e soprattutto la gestione del dopo-terremoto - possono trasformare l’Aquila in una sorta di laboratorio perverso dove viene accelerato quello svuotamento delle città storiche che in Venezia conosce il suo tragico traguardo, ma che ormai minaccia concretamente anche Firenze, per non parlare di feticci turistici come San Gimignano o Alberobello.
Se l’Aquila muore, a morire è la nostra stessa fiducia in un futuro sostenibile e umano per le nostre città storiche. È per questo che ora la sua ricostruzione non può più essere solo edilizia e ingegneristica: deve diventare sociale, civile. Politica, nel senso più pieno.

AAA VENDESI L'AQUILA
di Corrado Zunino

L’Aquila. Affittasi, vendesi, poi affittasi. Il panorama largo dell’Aquila post-terremoto è ancora assediato dalle gru, che svettano sul cantiere più grande d’Italia in questa giornata di pioggia fredda, e la notte s’illuminano per ricordare le Feste. Se si zooma sugli esterni dei palazzi ricostruiti, più spesso demoliti e ricostruiti dalle fondamenta, s’inquadra invece il cartello: “Affittansi studi professionali”. Segue cellulare. L’annuncio è sul cancello che si apre su un cortile a fianco della Basilica di San Bernardino. La locale società Cogepa ha abbattuto e rifatto in cemento armato due palazzetti. I vecchi residenti non ci sono più: la Cogepa, che acquistò nel 1990, ha rilocato alcune stanze a una banca, altre a una palestra.

Ancora “Affittasi- vendesi”. Il cartello della Belvedere Edilfulvi srl è appoggiato su un casale in pietra di via del Cembalo, centro storico, zona rossa dopo il sisma. Il circolo Acli del Cembalo, comprensivo di campo da bocce, è diventato un palazzetto con ottanta metri calpestabili e centoventi di solarium. «Ci siamo ampliati un po’», rivela Alfredo Fulvi. Sotto terra ha ricavato un garage per dieci auto a cento metri dal Duomo: «Chi acquista compra anche un reddito assicurato». Il costruttore ha speso 600mila euro terreno compreso: ha demolito e ricostruito e ora messo sul mercato. «Non è certo una speculazione».
Tecnocasa, affiliato, propone in vendita. Studio Elide in locazione. Locale commerciale - 350 mq - intero o frazionato si vende nella prima periferia, viale Nicolò Persichetti. E così a Preturo, a Bazzano: cartelli sui balconi e le ringhiere. Dopo il 6 aprile 2009 quasi tutto ha cambiato destinazione d’uso nell’Aquila vecchia e nelle sue 64 frazioni: sedi di cori polifonici, associazioni di alpini, pizzerie. La geografia sociale è cambiata in una notte. La periferia, con 5 miliardi spesi sulla ricostruzione privata e 300 milioni sul pubblico, è recuperata al 95 per cento. Per un terzo è già in vendita. In questi mesi si stanno riconsegnando locali e palazzi in centro storico. Nella Banca Unicredit di corso Vittorio Emanuele hanno allargato il mercatino della Befana. Attorno alla chiesa di Santa Maria Paganica, che ha ancora il tetto sventrato, sono rientrati lo storico notaio e il vecchio penalista e nel Palazzo Antinori ha aperto un’enoteca. “Baci e abbacchi” sei anni dopo è raccomandato da TripAdvisor.
Case crepate, puntellate, aperte - tutte, ma proprio tutte il 6 aprile hanno avuto almeno una lesione - e poi d’improvviso le strade attorno alla Villa comunale tornano a grondar cartelli: “Vendonsi”. Sì, se ne è andata la borghesia dall’Aquila, come ricorda il sindaco Massimo Cialente. Al Bar del Corso sono addolorati per la partenza del medico del palazzo: ha riaperto uno studio a Pescara.
Spiega il costruttore Fulvi, quello del solarium sui resti della bocciofila Acli: «Ci sono zone dell’Aquila che hanno ripreso un po’ di vita, alcuni negozi sono tornati nei palazzi a piano terra, ma ci sono tante case in vendita. Si può fare qualche affare». Molti qui avevano investito nell’immobiliare: tutte le famiglie possedevano la seconda casa, qualcuna la terza, la quarta. Molti dopo il terremoto si sono spostati sulla costa adriatica, nei paesi vicini, Coppito e Pizzoli, qualcuno anche a Roma. E hanno venduto la casa in più. Per dare una mano a chi in famiglia aveva perso il lavoro, chiuso un’attività commerciale, una piccola fabbrica d’artigianato.
Nella modernità L’Aquila ha vissuto di affitti, di impieghi d’ufficio, di rendita. Non c’è industria qui, solo un po’ di farmaceutico. Non esiste turismo. Le diciannove New towns del Progetto case con undicimila ospitati, le duemila casette di legno dei villaggi Map, la possibilità di lasciare l’appartamento instabile del centro storico per uno di pari valore “in qualsiasi comune d’Italia” (ne hanno usufruito in seicento). Oggi, sì, il surplus è diventato un’offerta drogata di immobili nuovi: ci sono più case che persone all’Aquila e il mercato è crollato.
Il titolare della Belvedere srl, l’ingegnere Francesco Laurini: «La ristrutturazione con il totale finanziamento di Stato ha riguardato in maniera indiscriminata ogni immobile, fosse stato costruito nei Sessanta o nel 2008. Il finanziamento è arrivato anche a chi non aveva l’abitabilità e oggi tre appartamenti ogni dieci sono sul mercato e ogni appartamento ha subito un deprezzamento del trenta per cento». Prima del 6 aprile le case migliori entro le mura trecentesche valevano 5.000 euro a metro quadrato, oggi 3.000 euro.
La grande paura della bolla immobiliare precede quella dello spopolamento, l’addio all’Aquila da parte di chi - sei anni più vecchio - ha elaborato il lutto, incrostato l’emozione e poi si è accorto che qui non c’è futuro. La disoccupazione è al 27 per cento, vecchi e bambini compresi: significa che un aquilano su due in età da lavoro non ha lavoro. Le residenze parametrate con l’ultimo censimento dicono che sono partite tremila persone, millecinquecento sono rientrate. Si sono riempiti i paesi intorno, ma questa stagione è decisiva per capire se L’Aquila diventerà la nuova Pompei con i tour operator a mostrare case rifatte a regola d’arte senza fornelli accesi in cucina.
Giustino Parisse, caporedattore della redazione locale del Centro che nella vicina Onna ha perso due figli e il padre, dice: «Alcune persone si sono già spostate tre volte. Non tutti hanno la forza, l’età e la motivazione per restare o per tornare. Rispetto ai giorni migliori ci sono diecimila studenti universitari in meno, duemila iscrizioni in meno nelle scuole, ottocento solo al classico. Alla mono-economia dell’affitto non è subentrato altro. Il 2019, anno in cui la città dovrebbe essere pronta, appare lontano. Questi sono i mesi più difficili e l’esodo va fermato oggi ». C’è l’insegnante che manifestava con le carriole e ora ha riparato, delusa, nella capitale. Chi, con una residenza fittizia e i soldi di Stato, ha comprato casa al figlio nelle Marche.
Il sindaco Cialente, anche lui stanco, chiede ancora due anni di aiuti per sopravvivere. Dice: «Era una tradizione. Chi andava in pensione prendeva la liquidazione, acquistava un appartamento, si pagava una parte del mutuo con gli affitti degli studenti e quando il figlio si sposava gli passava la casa. Ora pochi credono nel rilancio. L’università, l’industria tecnologica, il turismo. Tutto da fondare o rifondare mentre lo tsunami della crisi economica ha finito quello che il terremoto aveva iniziato. Ho 270 milioni in mano, li sto investendo sul lavoro. Oggi non abbiamo neppure lavoro nero: non ci sono gli uffici da pulire, i negozi sono diventati più piccoli, quattrocento commessi sono stati spazzati via. Due anni ancora e salviamo L’Aquila. Chiedo ai miei di resistere: non svendete appartamenti che oggi nessuno ha i soldi per comprare. Saremo una città modello. Attrarremo i ragazzi con la scuola internazionale e per la prima volta gli intellettuali».

Una notizia che non dovrebbe muovere solo le donne. Colpito non solo un pricipio costituzionale, ma anche un diritto conquistato con una lotta che è durata un secolo. Da Nathan a Tronca: un abisso. La Repubblica, 6 gennaio 2016, con postilla

Nella Roma pubblica in dissesto anche gli asili nido (0-2 anni) vengono alienati ai privati e le scuole materne (3-6 anni) riconsegnate allo Stato. Ci voleva un commissario, il prefetto Francesco Paolo Tronca, per avviare l’operazione più impopolare, impostata dalla giunta Marino peraltro: diciassette strutture per post-infanti in cinque municipi diversi sono pronte per il passaggio al privato. Tra queste, nomi storici dell’educazione infantile. È scritto nel Documento unico di programmazione comunale (2016-2018). Le liste d’attesa restano inevase, i costi generali necessari per allargare le sezioni degli asili nido — 6,5 milioni — non sono più sostenibili da un’amministrazione che viaggia con 12 miliardi di debito sulla schiena. Già. Il Campidoglio oggi gestisce 209 asili nido in città: ospitano 13mila bambini. Le strutture private e convenzionate (con il Comune) sono 221, maggioritarie quindi, ma con un numero di piccoli inferiore: settemila. Si parte con l’alienazione nell’arco del 2016 dei primi diciassette asili e si proseguirà negli anni successivi con nuove tranche. Il piano Tronca prevede, quindi, una “riconsegna totale” delle materne allo Stato.

A Roma la privatizzazione corre a fianco dell’aumento delle rette comunali, anche questo già previsto dalla giunta Marino: per l’anno scolastico 2016-2017 i canoni saliranno tra il 6 e il 12 per cento, con un aumento medio di 200 euro per famiglia. A ottobre 2014 le mamme di Roma inscenarono la plateale protesta dei passeggini sul piazzale del Campidoglio contro il “caro terzo figlio”, ma non servì a calmierare le rette. Il commissario Tronca non sta cedendo alle critiche dei partiti e dice: «Il progetto va avanti, il Comune risparmia e si creeranno posti di lavoro».

La statalizzazione delle materne comunali e la cessione della gestione dei nidi è storia delle ultime quattro stagioni italiane, riguarda le grandi città del Centro-Nord e gli indebitamenti progressivi dei Comuni gestori. Nella primavera del 2012 Piero Fassino scelse di passare al privato sociale dieci dei 54 asili di proprietà del Comune di Torino e rivendette la decisione come un’illuminata fusione dei servizi pubblico-privati: «Il sistema misto di gestione del welfare a Torino è un gioiello», disse. La verità è che nel 2012 l’amministrazione sforò il patto di stabilità e perse la possibilità di stabilizzare 340 educatrici. Le dirottò sul privato, tutelandole sul piano contrattuale e controllando l’applicazione delle tariffe. E così, nel 2012, quando a Torino si contavano 83 scuole dell’infanzia comunali e 50 statali, iniziò una seconda conversione: quest’anno ne saranno statalizzate altre cinque.

A Bologna gli asili gestiti dal Comune sono il 66 per cento. Palazzo d’Accursio spende ogni anno 38 milioni di euro, le rette coprono solo il 13% dei costi e a settembre 926 bambini (su 2.441) resteranno fuori. A Firenze, la scorsa primavera, altri due asili comunali sono passati alle coop. «Ci mancano 65 insegnanti sulla materna e 31 educatori», si giustificò il sindaco Dario Nardella. Ribellioni di sindacati e genitori per la privatizzazione italiana dei nido si sono registrate a Biella, Teramo, l’altroieri a Perugia. Questa richiesta impellente di posti ed educatori si scontra con la lacuna della Buona scuola che — per mancanza di fondi — ha chiuso le porte all’assunzione dei docenti d’infanzia. Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd e autrice della legge 0-6 anni per la continuità didattica, dice: «Valutiamo la possibilità di finanziare i Comuni e non più le Regioni, consentendo ai nidi pubblici di allargarsi». A giorni sarà pronto il bando del concorso per l’assunzione docenti, che comprende le scuole dell’infanzia. Se non ci sarà preselezione anche a questo livello — come ha chiesto il Pd — i vincitori del nuovo bando entreranno in cattedra nel 2017, mentre il prossimo settembre il ruolo potrebbe andare alle Gae più alte in graduatoria e ai duemila idonei del concorso 2012.

postilla

Segno dei tempi la privatizzazione degli asilie delle scuole per la prima infanzia. Segno della miseria intellettuale e umanache ottenebra le menti dei nostri governanti Ma segno anche dell’incredibile“ritorno al passato” che ne nasconde la maschera rinnovatrice, buona solo pergli stolti.


Incredibile, poi, che il segnale forte vengada Roma, la città che fu governata dal sindaco Ernesto Nathan negli anni tra il1907 e il 1912. Fu allora che a Roma s’istituirono i primi 150 asili comunali.Nathan era un sindaco che si poneva l’obiettivo di migliorare le condizioni divita delle masse che la veloce urbanizzazione aveva condotto nella città e altempo stesso di tagliare le unghie alla speculazione edilizia. Nell’Italia diRenzi e delle teste di paglia che lo sopportano si fa esattamente il contrario,senza mediazioni.

Se le istituzioni del regno renziano eliminano gli essenziali elementi del welfareconquistato nel corso di un secolo sarebbe bello se altre realtà sociali siimpadronissero delle conquiste del passato per difenderne la sopravvivenza. Nonè forse cosí che Syriza e Podemos acquistarono il consenso popolare che liportò alla vittoria elettorale?
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