«Quando sentiamo magnificare le buche keynesiane, non occorrerà essere filosofi liberisti per ricordarci che, di sicuramente pubblici ci sono i fondi sovvenzionati dai contribuenti, mentre i benefici sono spesso privati». La Repubblica, 29 aprile 2016 (c.m.c.)
UNO dei mantra più ripetuti dai politici di ogni colore e da molti commentatori è che condizione indispensabile per una maggiore crescita economica è far ripartire gli investimenti pubblici. E, per rafforzare il concetto, si sottolinea che l’Italia è terzultima in Europa, seguita solo da Grecia e Portogallo, come percentuale di spesa pubblica dedicata agli investimenti rispetto al Pil.
Il piano Juncker è stato presentato come una occasione di sviluppo e non passa giorno in cui i ministri non annuncino deroghe intelligenti al Patto di Stabilità per permettere ai Comuni di spendere in infrastrutture, nuovi stanziamenti per metropolitane, strade, ferrovie, tram, fibre ottiche e ogni opera che renda più efficiente il Paese in attesa della possibile apoteosi dell’investimento infrastrutturale, vale a dire le Olimpiadi di Roma del 2024.
Ma è proprio vero, per utilizzare il paradosso keynesiano, che mettere uomini a scavare buche e poi riempirle genera reddito? Partiamo da due recenti episodi. Il primo è l’audizione del ministro Delrio del 20 aprile sull’autostrada Pedemontana, progetto vecchio di lustri che avrebbe dovuto decongestionare il traffico nell’Alta Lombardia nell’affollata area tra Milano, Como e Varese. Ebbene, la parte finora realizzata di strada non attira traffico sufficiente, il 30% in meno rispetto al budget, nonostante sconti ed esenzioni distribuiti a pioggia agli automobilisti poco inclini a pagare il pedaggio.
Lo Stato ha già stanziato per l’opera 1,245 miliardi con contributi a fondo perduto ed è previsto un ulteriore sconto fiscale di quasi 400 milioni. Nonostante in teoria i 4,2 miliardi previsti per il completamento dell’autostrada (schizzati a 5,87 se si comprendono gli oneri finanziari) dovrebbero essere in gran parte messi a disposizione da privati, finora la parte del leone l’hanno avuta i contribuenti, avendo lo Stato versato ben 900 milioni. Né sorte migliore sembra arridere alla Brebemi, che collega Milano a Brescia ed è in cronica perdita di esercizio. Minacciando sfracelli, i soci privati della società concessionaria sono riusciti ad ottenere nel 2015 ben 320 milioni da Stato e Regioni e l’allungamento della concessione per sei anni con la garanzia che alla fine lo Stato rileverà la tratta per 1,25 miliardi.
Questi investimenti hanno creato o distrutto valore? Uno studio del 2014 di tre economisti, Maffii, Parolin e Ponti, esaminando una lista di progetti costosi ed inefficienti, ha concluso che le “grandi opere”, presentate dai governi come fiore all’occhiello dell’investimento pubblico, sono caratterizzate da alcuni elementi poco lusinghieri. Primo: sistematica assenza di valutazioni negative nelle analisi costi-benefici rese note al pubblico; secondo, scarsità di tali analisi; terzo, assoluta mancanza di terzietà delle stesse, che perdono così di credibilità in quanto eseguite da «portatori di interessi favorevoli della fattibilità dell’opera analizzata»; quarto, assenza di analisi comparative. Le conseguenze sono ovvie: scorretta definizione del progetto da attuare e delle soluzioni proposte, carenza di alternative, previsioni di domanda sovrastimate.
Un bell’esempio di come una semplice analisi comparativa potrebbe fare miracoli è fornito dalla linea Alta Velocità Milano-Venezia. Nel 2005 il costo stimato per l’opera era di 8,6 miliardi. Nel 2014 era schizzato a 13,368 miliardi, quasi 5 in più! Notevoli i 1202 milioni per il collegamento con l’aeroporto di Montichiari vicino Brescia: zero voli passeggeri e solo un paio al giorno per la posta (vogliamo dimenticarci gli inutili, deserti aeroporti in perdita di cui è disseminata l’Italia, da Siena a Pescara?). Le tratte padane orientali hanno un costo superiore a quelle occidentali, Torino-Milano e a quelle appenniniche Firenze-Bologna. Se poi facciamo la comparazione di costo per chilometro con Francia e Spagna, i binari italiani vengono pagati multipli rispetto a quelli franco-iberici.
Esempi eclatanti che vanno inquadrati in un contesto più ampio? Meglio di no. Sia lo studio del Fondo Monetario Internazionale del 2015 che quello della Banca Mondiale del 2014 mettono in luce la scarsa efficienza dei nostri investimenti pubblici a causa di aggiramento delle leggi, decisioni prese per motivi elettorali, corruzione, ritardi, innalzamento dei costi e bassa qualità di quanto realizzato. Solito pregiudizio anti- italiano? Chissà.
Certo è che nell’Allegato sulle infrastrutture al recente Def 2106, annunciando nuovi criteri di valutazione e velocizzazione delle opere pubbliche, il governo ha sottolineato carenza nella progettazione che porta a realizzazioni di bassa qualità; polverizzazione delle risorse; incertezza dei finanziamenti, addebitabile, tra l’altro, alla necessità di reperire risorse a causa dell’aumento dei costi delle opere ed ai contenziosi in fase di aggiudicazione ed esecuzione dei lavori; rapporti conflittuali con i territori dovuti anche all’incertezza sull’utilità delle opere.
Insomma, quando sentiamo magnificare le buche keynesiane, non occorrerà essere filosofi liberisti per ricordarci che, quando si impugna il badile, di sicuramente pubblici ci sono i fondi sovvenzionati dai contribuenti, mentre i benefici sono spesso privatamente allocati tra politici, burocrati ed appaltatori.
Cambiano le priorità a Rivalta di Torino: si tagliano le previsioni di espansione e si punta sulla tutela del paesaggio e delle attività agroalimentari, sulla mobilità dolce e sul recupero del centro storico e degli edifici inutilizzati. Reticula, n.8 2016 (m.b.)
Si è proceduto ad un confronto con i principali operatori del territorio proponendo una riduzione della capacità edificatoria prevista, in cambio di una maggiore flessibilità delle destinazioni di uso. Nel novembre 2013 l’Amministrazione ha lanciato un bando pubblico per raccogliere richieste di rinuncia alle destinazioni residenziali previste dal Piano di proprietari di aree agricole. La proposta, inusuale nel panorama economico e culturale italiano, caratterizzato dalla convinzione che la migliore valorizzazione dei suoli sia quella che comporta l’edificazione, ha raccolto l’adesione di una decina di proprietà per un totale di più di 30.000 mq. di superficie fondiaria. Tale risposta è dovuta all’inasprirsi della tassazione sulle aree fabbricabili e alla crisi del settore edilizio, ma ha risentito anche, almeno in parte, di una svolta culturale che vede nell’eredità di un terreno verde qualcosa di più importante di una costruzione.
Riferimenti
In eddyburg sono disponibili più di 170 articoli sul consumo di suolo, in parte raccolti nel nuovo sito, e in parte nel vecchio sito.
Per orientarsi, è utile partire da questa visita guidata.
Edward Loure, pastore della Tanzania, ha vinto il premio ambientalista Goldman. Ha difeso trenuamente ed efficacemente il dritto degli abitanti dei pascoli del Rift a difendere i loro paesaggi tutelandone l'ambiente in modo migliore dei parchi dei colonialisti. La Repubblica, 21 aprile 2016
Loure è nato nelle vaste pianure di Simanjiro, che spaziano su 3 milioni di ettari nel nord del Paese, dove da millenni vivono sia pastori sia cacciatori-raccoglitori in armonia con numerose specie di ungulati, dagli impala agli gnù e a ogni tipo di gazzelle. Da tempo, però, buona parte di quelle regioni sono state trasformate in parchi nazionali, e le popolazioni semi-nomadi che da generazioni vi allevavano bestiame sono state deportate altrove dal governo tanzaniano dopo espropri abusivi. «Noi dipendiamo dalle nostre terre, che hanno modellato la nostra cultura e il nostro modo di vita. Per noi rappresentano tutto. Se ci tolgono i nostri pascoli non avremo più vacche, e senza vacche moriremo tutti», spiega Loure.
È dal 1950 che si è cominciato a compromettere questo fragile equilibrio, sbocconcellando progressivamente le terre masai per farvi parchi per i turisti. Recentemente, la situazione s’è di molto aggravata, perché lo Stato ha iniziato a vendere quelle aree sia agli organizzatori di caccia grossa e altri safari, sia ai cosiddetti “ladri di terre”, e cioè a quegli speculatori che usano gli antichi pascoli tribali per crearvi allevamenti intensivi illegali. Tutto ciò ovviamente a scapito dei popoli autoctoni.
La stessa tribù del vincitore del premio Goldman fu deportata nel 1970, quando il governo creò il Ujamaa Community Resource Team (Ucrt), una delle prime ong locali tanzaniane in lotta per lo sviluppo sostenibile e per i diritti della terra. Lo strumento che per anni ha adoperato l’Ucrt è il Village Land Act, una legge fondiaria destinata a garantire ai villaggi locali la proprietà delle loro terre. Questo strumento giuridico ha tuttavia l’inconveniente di essere lento e costoso, e di facilitare se non di promuovere la corruzione e gli abusi politici. Col risultato che numerose zone protette dalla legge sono state vendute a grossi imprenditori agricoli, e che perciò sia i pascoli masai sia le zone di natura selvaggia si sono ridotte in maniera considerevole. Fino al giorno in cui Loure ha finalmente identificato un meccanismo giuridico chiamato il Certificates of Customary Rights Occupancy, che conferisce inalienabili diritti fondiari a un’intera comunità. Questi “certificati” differiscono dalla legge precedente in quanto riconoscono il possesso non più a singoli individui, bensì a tutto un popolo. E grazie a questo sistema, il Village Land Act può finalmente proteggere i pascoli masai dalle interessatissime mire degli tour-operator e degli speculatori agricoli.
Un articolo di Carlo Olmo e un'intervista di Francesco Erbani a Raul Pantaleo sul tema al centro della prossima Biennale architettura. Progettare per combattere il disagio abitativo e garantire il diritto alla città oppure per creare oggetti e celebrare se stessi? La Repubblica, 17 aprile 2017
La sensazione di disagio che oggi si vive per esempio scendendo alla Station Front Populaire della linea 12 del metro parigino e avviandosi verso il nascente Campus Condorcet, destinato a ospitare alcune delle più importanti università del Paese, nasce proprio dal percepire un modo di abitare fatto di case, vie e piazze pensate per una popolazione che non c’è. Il Diritto alla città, titolo di uno dei testi più citati su questi argomenti dal 1971 quando Henri Lefebvre lo pubblicò, fondamentale ascensore sociale allora, come si pratica oggi in luoghi che sono situati tra un centro abitato da chi è in grado di pagare il valore simbolico che le centralità incorporano e quella che si è abituati a chiamare città diffusa?
Periferie che hanno perso, per fortuna, la funzione di dormitori di una città moderna e industriale che non esiste più almeno in Europa, ma che conservano luoghi urbani molto identificabili e morfologie oggi criticatissime come, per restare vicino al Campus Condorcet, La Courneuve. Un grand ensemble di 4000 alloggi che Jean-Luc Godard nel 1967 rappresenta in tutti i suoi contradditori aspetti in quel film straordinario che è Due o tre cose che so di lei. E nei confronti della quale, la scelta di raderla al suolo ha trovato nelle comunità che la abitano non solo una resistenza insuperabile, ma una vera forma di patrimonializzazione dal basso del tutto inattesa. Ma gli architetti davvero oggi tornano a essere sensibili a un diritto alla città riproposto in maniera tanto diversa nelle periferie europee o nei più grandi slum del mondo?
Forse il ripensamento che porta Renzo Piano a soggiornare a New York per seguire il completamento del Campus della Columbia University ad Harlem (che firma con uno dei più famosi studi americani, la Skidmore, Owings & Merrill), ha, tra le ragioni, anche quella che ha portato Elisabeth e Christian de Portzamparc – due archistar dalla storia davvero diversa – a partecipare (vincendolo) al concorso per la biblioteca proprio del Campus Condorcet. E questo mentre un testo culto dell’architettura contemporanea, Delirious New York, della più influente archistar di oggi, Rem Koolhaas, è usato come trama dall’Office of Human Theatre per ironizzare proprio sul mondo che Koolhaas più di tutti incarna.
Una crisi di valori profonda impone ad architetti e urbanisti una riflessione su alcune rotture che si sono prodotte nel mondo dell’architettura, rotture che la prossima Biennale di Alejandro Aravena e il Padiglione Italia sembrano segnalare. La prima, forse la più evidente rottura, è quella tra linguaggi e organizzazione spaziale. Non è forse inutile ricordare che l’esercizio più sofisticato che l’architettura del Novecento abbia conosciuto sono le autentiche variazioni Goldberg che quello straordinario migrante che fu Alexander Klein progettò dal 1927 al 1931, tra Berlino e Lipsia, lavorando sull’Existenz-minimum, vale a dire su come soddisfare i bisogni elementari di un essere umano. Esercitare intelligenza, fantasia, creatività sul modulo abitativo non solo più ridotto – il modulo Loucheur su cui anche Le Corbusier lavorò negli anni Venti in Francia è di 24 metri quadrati – ma che aveva l’ambizione di contenere l’abitare dell’uomo in tutte le sue funzioni essenziali, fu davvero una straordinaria scommessa. La rottura tra linguaggi e distribuzione a favore della ricerca estetica di talune archistar non ha solo messo in discussione lo stesso mestiere dell’architetto, a favore del designer e dell’ingegnere, ma ha favorito un’altra, fondamentale rottura: quella tra involucro e costruzione. Forse quella che stiamo vivendo è la stagione in cui la materia dell’architettura è più omologa, resa tale da società di ingegneria che hanno costruito un oligopolio della costruzione dal Bahrein a San Paolo e da imprese multinazionali che arrivano a costruire architetture in cui si entra, in qualsiasi parte del mondo, e si procede per riconoscimento: dall’ingresso sino alla camera, alla stanza di riunioni, alla sala d’attesa, il percorso, la distribuzione dello spazio è eguale ovunque. Architetture che sembrano richiamare un’estetica del vuoto, quasi lacaniana.
All’architetto e al suo rapporto con la materia resta l’involucro e il suo valore di simbolo estraniato dalla distribuzione spaziale. L’estetica del riconoscimento porta con sé, quasi automaticamente la ricerca di un rococò esasperato, di involucri che devono nascere, non diventare nel tempo e con la selezione delle architetture, landmark, senza però avere come i landmark nella cultura statunitense alcun rapporto con il territorio.
Essere ridotti a mascherare la realtà forse non sarebbe stato sufficiente, se il consumo del suolo, di una risorsa in sé limitata, non avesse quasi imposto la riformulazione del paradigma progettuale. Ritornare a pensare il progetto a partire da modificazioni di un patrimonio stratificato di segni e popolato di tracce, un patrimonio in cui però è sempre più il vuoto a segnare il paesaggio – l’alloggio, il capannone, l’ufficio abbandonati e sfitti stanno diventando la norma – rende quasi necessario calare la maschera. È la rivincita del piccolo sul seriale, della qualità sulla quantità, del metodo che Alexander Klein chiama il procedere per successivi incrementi a riportare in primo piano la necessità di architettura, assieme al mutamento radicale della stessa idea di città.
Nel 2010 esce L’aventure des mots de la ville: 240 voci e 160 autori si confrontano con il mutar di senso delle parole che accompagnano il rapporto tra architettura e città. L’architettura deve oggi misurarsi con mutamenti che interessano le parole che la raccontano e farlo dall’interno di mura non più disegnate da ingegneri militari, ma da un’economia morale della terra. Vincerà La grande trasformazione di Karl Polanyi e con lei un’architettura necessaria perché solo l’intelligenza progettuale può rispondere a questo nuovo paradigma insieme economico, sociale e culturale? Se si guarda ai tanti ribaltamenti anche solo di cosa siano centro e periferia a Neza-Chalco- Itza, lo slum situato alla periferia Nord del Distretto Federale di Città del Messico con 4 milioni di abitanti, o se si riconoscono i mutamenti intervenuti nella più grande favela di Rio de Janeiro, Rocinha, anche attraverso un’architettura che accompagna l’inclusione sociale, necessità e speranza sembrano poter almeno convivere.
Quel che c'è da sapere sul consumo di suolo, attraverso gli articoli e i documenti pubblicati in eddyburg.it. Intervento alla rassegna Leggere la città, Pistoia, 9 aprile 2016.
A oggi, l’esame procede senza correzioni migliorative. Salviamo il Paesaggio ha formulato una meritoria proposta di modifica e integrazione del disegno di legge, ma, come afferma giustamente Eddyburg, prima si mette una pietra su quel documento meglio è.
«Ad una cosa non ci siamo abituati: a non poter avere le prerogative di una normale comunità, a cominciare dalla possibilità di incontrarsi senza essersi dati appuntamento. Mancano i luoghi per questo; non luoghi costruiti ad hoc, ma i luoghi del quotidiano. E per gli aquilani questi luoghi si trovavano nel centro storico». Il manifesto, 6 aprile 2016 (m.p.r.)
L’istantanea del centro storico dell’Aquila è un cielo ammantato di gru. Con lo sguardo che si paralizza, ancor più silenzioso, tra palazzi puntellati e vie interdette. Con la scritta, che comincia a sbiadire, «Zona rossa», ovvero off limits al passaggio, anche pedonale. I bracci dei mezzi meccanici sono una selva, svettano un po’ ovunque, quasi si litigano un pezzetto d’azzurro, fissando dall’alto fabbricati sbrindellati; sovrastando squarci di edifici signorili, tapparelle deformate e scardinate e pezzi di water e armadi che sonnecchiano, tra mucchi di polvere, dentro appartamenti sventrati, ma con portoni chiusi da catene e lucchetti.
Solitamente, è un brulichio di operai. A sette anni dal terremoto che alle 3.32 del sei aprile 2009 devastò il capoluogo d’Abruzzo e il suo circondario, provocando 309 vittime e oltre 1.500 feriti, è una città disorientata.
La ricostruzione, era stato promesso, sarebbe terminata entro il 2017. Ma i tempi previsti sono ancora lunghissimi. In centro diverse attività commerciali hanno timidamente riaperto e con esse anche alcuni uffici pubblici, tra cui la sede del Comune. Ma, rispetto a prima del disastro, sono una minima parte. E ciò che si coglie, negli occhi di quanti qui sono tornati ad operare e ad investire, è la rassegnazione. «Si lavora soprattutto con gli operai - affermano i commercianti -. Gli incassi languono, ma dobbiamo andare avanti. E quando i muratori staccano, è come se scattasse una sorta di coprifuoco».
«Il terremoto, quando arriva, non si limita ai pochi secondi della scossa. Continua fino a che non si esaurisce la scia dei danni che ha provocato. Quelli materiali e quelli sociali, mentali e psicologici. Perché il terremoto ti entra dentro e non ti molla. Per questo - riflette il giornalista Enrico De Pietra – non parlerei tanto di 7 anni dal sisma, ma di 7 anni di sisma. Sette anni per certi versi surreali, durante i quali, almeno apparentemente, ci siamo abituati a tutto: ai nostri morti, alla diaspora, al ritorno, alla precarietà, alla provvisorietà, alla desertificazione del centro storico, alle beghe e al malaffare. Ad una cosa non ci siamo però abituati: a non poter avere le prerogative di una normale comunità di provincia, a cominciare dalla possibilità di incontrarsi gli uni con gli altri senza essersi dati appuntamento. Mancano i luoghi per questo; non luoghi costruiti ad hoc, ma i luoghi del quotidiano. E per gli aquilani questi luoghi si trovavano nel centro storico. I quartieri tutt’intorno sono ricostruiti e ripopolati, quasi per intero, ma, non c’è verso, non sono nati per essere autonomi e aggreganti. Oggi - evidenzia - si entra nel cuore della città, la si osserva da lontano, e si capisce che si sta lavorando a pieno regime».
Sono poco più di 420 i cantieri attivi. «Sta di fatto, però, che resta un luogo… sospeso. Le stime ufficiali - aggiunge - dicono che nel 2022 il cuore dell’Aquila sarà totalmente ricostruito. Ma nessuno, nemmeno chi queste stime le ha prodotte, può onestamente dire con certezza se la previsione sarà rispettata».
La vita si concentra nelle periferie, nei pochi centri commerciali che, non essendoci alternative, sono diventati punto privilegiato di aggregazione. La vita è dislocata soprattutto nelle 19 new town, la cui nascita venne annunciata lo stesso giorno della tragedia. Mentre si piangeva, mentre si scavava sotto le cataste di macerie, sotto i rimasugli di stanze, mentre si allineavano le bare. E mentre alcuni imprenditori ridevano per gli affari che il disastro prospettava.
Sono 8.351 i cittadini ancora assistiti - quelli che hanno le proprie abitazioni inagibili -, sistemati tra i progetti Case, palazzoni antisismici ecocompatibili sorti in piena emergenza e a firma di Berlusconi e dell’allora capo della protezione civile Guido Bertolaso, e nei Map (Moduli abitativi provvisori), le cosiddette casette di legno. Ma il disagio è anche tra i banchi, per gli studenti: ci sono ancora 17 Musp (Moduli ad uso scolastico provvisorio) che ospitano circa 6 mila alunni.
«Nonostante i numerosi problemi di gestione sorti negli anni - commenta Fabio Pelini, assessore all’Assistenza alla popolazione - queste strutture sono state un punto di riferimento nelle fasi calde del post tragedia (quando ci furono 16 mila sfollati, ndr) ma, successivamente, hanno anche permesso di rispondere alle molteplici esigenze abitative emerse con l’acuirsi della crisi economica. Oggi – aggiunge – la fase più difficile ce la lasciamo alle spalle e il prossimo obiettivo è di razionalizzare l’utilizzo di questo patrimonio immobiliare, conservando gli alloggi ben fatti e smantellando quelli malconci».
Già perché gli edifici del progetto Case, per la cui realizzazione fu speso quasi un miliardo di euro, con l’operazione gestita interamente dalla Protezione civile, stanno mostrando i propri limiti. Formano sostanzialmente quartieri dormitorio, privi di servizi, che cadono a pezzi, tranne alcune eccezioni. Infiltrazioni negli appartamenti e nei garage, umidità e muffe che favoriscono pure la crescita dei funghi, perdite dagli scarichi, allagamenti, pavimenti che si scollano, problemi fognari.
Nel settembre 2014 è crollato un balcone nella frazione di Cese di Preturo e la magistratura e la Forestale hanno posto sotto sequestro 800 balconi in cinque di questi insediamenti: oltre che a Preturo, anche ad Arischia, Collebrincioni, Sassa e Coppito. E così, in queste case, le famiglie sono costrette a stare ‘sigillate’ tra le mura domestiche, senza potersi affacciare. Il 3 aprile scorso un altro balcone è crollato, sempre «per cedimento strutturale», sempre nella frazione di Cese di Preturo, dove alcune palazzine erano fortunatamente già state evacuate. A dare l’allarme è stato un signore che passeggiava con il cane. L’uomo ha sentito il tonfo e ha allertato le autorità.
Ieri dal municipio, per questa faccenda, è partita un’ordinanza con cui si dispone, per motivi di pubblica incolumità, lo sgombero di altri appartamenti.
«Se la Procura dovesse accertare che non solo i balconi ma anche i solai degli appartamenti sono a rischio a causa della stessa pessima fornitura, avrò 700 famiglie cui dare un altro tetto - dichiara il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente -. Inoltre le imprese che nel 2009 hanno costruito le new town dovrebbero, per contratto, intervenire sulle manutenzioni per 10 anni ma molte di esse sono fallite e quindi il Comune non sa su chi rivalersi». Nei casi più gravi e onerosi, dove il risanamento costerebbe milioni, il primo cittadino ipotizza il possibile abbattimento di questi complessi, costati 2.700 euro al metro quadrato e che sono esempio di «spreco di denaro e infiltrazioni mafiose».
Senza dimenticare l’inchiesta sugli isolatori sismici, installati in gran numero sotto le piastre delle new town: durante alcune prove di laboratorio in California, invece di resistere al terremoto simulato, si sono spezzati.
Va così, in una città vuota e smarrita, freneticamente a caccia di occasioni e in cerca di giustizia… Perché sette anni dopo si cerca ancora la verità su quanto accaduto quella funesta notte. C’è una ferita che s’infila e s’aggrappa, sdegnosa, ai numerosi processi spuntati dal dramma.
Tra essi, a generare più d’ogni altro rabbia e scandalo, c’è quello alla commissione Grandi Rischi. Solo pochi giorni fa la Cassazione ha depositato le motivazioni del verdetto con cui ha assolto i luminari finiti alla sbarra . «I sei esperti della Commissione - recita la sentenza 12478 - convocati a L’Aquila dalla Protezione civile, nella riunione del 31 marzo 2009, non erano al corrente del fatto che la seduta aveva la finalità di fornire alla popolazione un messaggio di rassicurazione». Allora la Protezione civile era guidata da Guido Bertolaso, attualmente candidato a sindaco di Roma.
Per la Suprema Corte, «gli scienziati - Franco Barberi, Enzo Boschi, Giulio Selvaggi, Michele Calvi, Claudio Eva e Mauro Dolce - nella riunione confermarono motivi di allarme per la situazione e negarono la teoria della prevedibilità dei terremoti».
Secondo la Suprema Corte fu solo Bernardo De Bernardinis, l’allora vice di Bertolaso, ad «aver calcato la mano» e ad aver tranquillizzato una città impaurita. «Non accadrà nulla». Ed invece fu una strage. De Bernardis fu imbeccato da Bertolaso? Ci sono telefonate, interviste e intercettazioni che lo provano ma… Bertolaso, per questo, ha due procedimenti aperti, uno penale, in cui è accusato di omicidio colposo plurimo e che il 7 ottobre si prescriverà, e l’altro civile.
«I familiari delle vittime - spiega il consigliere comunale Vincenzo Vittorini - stanno chiedendo a Bertolaso di lasciarsi processare, rinunciando all’imminente prescrizione». In tal senso c’è anche una petizione. “Che la magistratura faccia il proprio corso nell’accertare eventuali responsabilità: questo si pretende. E’ un coro di migliaia di voci a volerlo”.
Per quanto concerne il processo civile, l’ultima udienza è saltata perché Bertolaso risulta essere «irrintracciabile». Quindi niente citazione.
«Vive al quartiere Parioli - dichiara Antonietta Centofanti, referente del comitato “Familiari delle vittime del crollo della Casa dello studente” -, è visibile all’intero Paese con comparsate in tutte le reti televisive pubbliche e private, ma non è rintracciabile da un messo giudiziario che gli deve consegnare una convocazione affinché si presenti in aula. E’ una grave mancanza di rispetto, anche nei confronti dei nostri morti. Che poi quel che è accaduto riguarda tutti e questi sono i morti di tutti».
Demistificare le frottole, criticare l’uso perverso dei fatti ridotti a luoghi comuni, fare insomma controinformazione è parte del lavoro di eddyburg. Il problema della Campania non è l’agricoltura inquinata ma la mancanza di una politica decente per l’area metropolitana di Napoli
Un po' di tempo fa Salzano mi ha chiamato da Johannesburg, per chiedermi come stavo, e come andavano le cose in Campania. Nel tempo ho imparato che le imbeccate di Eddy, da qualunque parte del mondo provengano, giungono di solito al momento giusto. Con gli amici di eddyburg vorrei allora condividere una riflessione, probabilmente non scontata, sulla lezione appresa con la crisi della Terra dei fuochi, una faccenda che ho dovuto seguire da vicino.
Sebbene il tema fosse all'attenzione pubblica da un decennio (l'espressione "Terra dei fuochi" appare per la prima volta in un rapporto Legambiente sulle ecomafie del 2003, nel 2006 la usa Saviano come titolo dell'ultimo capitolo di "Gomorra") la tempesta mediatica scoppia nell'estate 2013, con l'intervista rilasciata a SkyTG24 da Carmine Schiavone, il faccendiere del clan dei Bidognetti, che racconta in prima persona i seppellimenti dei rifiuti speciali, tossici, radioattivi. L'impatto sull'opinione pubblica è enorme, con il flusso ininterrotto di reportage giornalistici che veicola, per lo più in forma implicita, un racconto che potremmo riassumere così: nella piana campana, per un quarto di secolo, sono arrivati rifiuti da ogni dove, che sono stati interrati un po' in giro. I suoli e le acque si sono contaminati. Le colture agricole praticate su quei suoli e irrigate con quelle acque si sono contaminate anch'esse. Il consumo di quei prodotti ha causato un aumento delle malattie tumorali nelle popolazioni locali. Questo schema viene dato per scontato, non è il caso di metterlo in discussione, pena l'accusa infamante di "negazionismo". Così, il capro espiatorio diventano gli agricoltori della piana campana, o più precisamente dell'intera regione. Nei negozi iniziano a comparire cartelli del tipo "Qui non si vendono prodotti campani". Il governo emana l'ennesima legge speciale per l'area napoletana, il decreto "Terra dei fuochi", un dispositivo barocco il cui obiettivo è l'individuazione delle aree agricole contaminate, da sottoporre a interdizione.
In questi tre anni, con un gruppo di lavoro di un centinaio di persone, ho lavorato anch'io al sistema dei controlli, che hanno impegnato Università, Servizio sanitario nazionale, Istituto superiore di Sanità, Istituto Zooprofilattivo per il Mezzogiorno. La piana campana è stata passata al setaccio - acqua, suoli, prodotti agricoli - migliaia di campioni, un enorme data base territoriale, che non ha in questo momento riscontro in nessuna pianura d'Europa. Lo stato di salute dei suoli agricoli della piana campana, è risultato simile a quello delle altre pianure italiane ed europee a comparabile grado di antropizzazione (sulla piana campana vivono quattro milioni di persone, è la terza area metropolitana del paese). I livelli più elevati di berillio, arsenico, manganese, sono legati al valore naturale di fondo, alla natura vulcanica dei suoli. Dei circa seimila campioni di prodotti agricoli esaminati, non uno è risultato contaminato, difforme dai severi limiti di legge. Il gruppo di lavoro governativo, istituito con il decreto Terra dei fuochi, ha identificato alla fine una quarantina di ettari che non andavano, sui centomila monitorati.
Certo l'acqua della prima falda, come in pianura padana, non è proprio pulita, ma le ricerche rigorose dell'Istituto superiore di sanità hanno confermato che l'uso agricolo di quelle acque non crea nessun problema alle produzioni. Come accade da dodicimila anni, l'agricoltura e il sistema suolo-pianta continuano a funzionare come "filtro" della società, grazie meccanismi efficienti di bloccaggio, detossificazione, assorbimento selettivo. D'altro canto, a scala mondiale, la FAO da vent'anni promuove la campagna per l'uso irriguo delle acque reflue, considerato che l'acqua pulita serve per far bere gli uomini.
Sul fronte sanitario, si scopre poi che, grazie al lavoro valoroso di Mario Fusco, epidemiologo dell'ASL Napoli 3, la piana campana ha uno dei registri tumori più longevi d'Italia, con le serie storiche di dati che dicono una cosa diversa dallo schema ufficiale. L'incidenza (il numero di nuovi casi che si verificano ogni anno su 100.000 abitanti) delle principali malattie tumorali nella piana campana, come avviene nelle altre parti d'Italia è in discesa, ed è in linea con le medie nazionali. All'opposto, la mortalità è di alcuni punti superiore. Insomma, nella cosiddetta Terra dei fuochi ci si ammala allo stesso modo, ma si muore di più, ed allora il discorso è completamente diverso, e chiama drammaticamente in causa le prestazioni del servizio sanitario nazionale e le politiche di assistenza alla persona.
Insomma, il teorema che giornali e telegiornali di mezzo mondo hanno propagandato come fatto certo, non ha retto sino ad ora la prova delle verifiche, si è rivelato del tutto infondato. Sia chiaro, nessuno intende negare la verità dei fatti giudiziari accertati. Stiamo solo dicendo che le conseguenze ecologiche di quei fatti non sono corollari, deduzioni letterarie che è possibile fare a tavolino. Lo stato di salute degli ecosistemi si misura sul campo, con le tecniche e i metodi appropriati, altrimenti è medioevo. Dopo tre anni di clamore, scopriamo quello che sapevamo già: i venti milioni di tonnellate di rifiuti giunti nella piana campana, sono finiti nelle 6 grandi discariche che in questo quarantennio hanno funzionato tra Napoli e Caserta. La loro superficie è di 400 ettari scarsi, comprese le pertinenze e le zone tampone, sui 140.000 ettari della piana. La loro perimetrazione è stata fatta a scala catastale da un decennio, nel piano regionale delle bonifiche, che ne prevedeva la messa in sicurezza, e che è rimasto lettera morta.
La cosa che ho cercato di far comprendere in questi anni, alla fine, è che il problema non sono le bonifiche (che in Italia vanno a finire male, sarebbe meglio puntare alla messa in sicurezza), ma il governo dell'area metropolitana: questo mosaico rur-urbano sconnesso nel quale vivono come possono quattro milioni di persone, e all'interno del quale lo spazio agricolo, seppur frammentato e intercluso, costituisce ancora, nonostante tutto, la porzione dominante, il sessanta per cento della superficie territoriale complessiva. In questo spazio precario attorno alla città, operano quasi quarantamila aziende agricole, che producono, su una assai limitata porzione del territorio, metà quasi del valore aggiunto agricolo regionale. La mortificazione immotivata di questa agricoltura di presidio, che ha dovuto svendere nell'anonimato in questi ultimi anni le sue pregiate produzioni, la chiusura di queste aziende, creerebbe un immane deserto economico e sociale, ed è proprio quello che i poteri criminali si augurano.
Insomma, il motore dell'agricoltura campana, una delle più importanti del paese, è ancora qui. Certo, si tratta di un'agricoltura invisibile, non considerata dalle politiche e dai programmi istituzionali, perché in fondo la sua funzione deve rimanere quello di spazio disponibile per l'espansione urbana, area di risulta per tutte le attività che la città respinge. Su queste terre nere, le più fertili dell'universo conosciuto, il consumo di suolo in epoca repubblicana non ha conosciuto requie, con le città della piana che dalla metà del '900 hanno sestuplicato la loro superficie, in un processo che non conosce fine, se le aree urbanizzate sono ancora raddoppiate nell'ultimo trentennio, come effetto dell'onda lunga della ricostruzione seguita al sisma del 1980.
Insomma, se veramente vogliamo agire, dobbiamo partire da una lettura completamente differente della crisi. Aprire gli occhi su un'area importante, il terzo sistema metropolitano del paese, nel quale nonostante l’immane spreco di suoli e paesaggi si concentra larga parte del disagio abitativo nazionale, mentre mancano all'appello attrezzature collettive e aree verdi per un'estensione pari a seimila campi di calcio . Un colossale deficit di cittadinanza, che si concreta nella drammatica carenza di tutti i servizi essenziali dai quali dipende la qualità del vivere quotidiano, dall'acqua, ai rifiuti, all'istruzione, alla mobilità, all'assistenza e alla cura della persona. Anche di tutte queste cose, alla fine, si muore.
Nella sua dimensione di spazio di vita, questo territorio scombinato, fatto di spazi agricoli e poveri pezzi di città, è l'ambiente nel quale vivono i due terzi della popolazione metropolitana, che ha oramai identificato proprio in questo disordine, nella fatica del vivere quotidiano che esso comporta, la principale minaccia alla propria esistenza e al futuro. La crisi della Terra dei fuochi sta tutta qui, nell'atteggiamento di complessivo rifiuto di un habitat percepito come ostile, a partire proprio dalle sue componenti rurali, considerate in un simile contesto alla stregua di insidiose fonti di rischio.
Così come in maniera ostile viene vissuto il rapporto con il capoluogo, ritenuto storicamente incapace di esercitare una leadership e una rappresentanza di scala territoriale, e piuttosto accusato di aver sacrificato ai propri interessi la green belt della piana, alla stregua di uno spazio di risulta, privo di valore autonomo, nel quale disordinatamente collocare funzioni ingrate, pesi molesti, scarti indesiderati
Risulta evidente come, a fronte di questa difficile eredità, la città metropolitana che stentatamente si costituisce al posto della vecchia provincia, debba a questo punto funzionare come spazio istituzionale e obbligato di confronto, l’ultima chance per mettere mano ad un’agenda seria e urgente di riequilibrio territoriale ed ambientale, a un’alleanza nuova tra il capoluogo e i territori dell’hinterland. Il progetto è chiaro: se in altri contesti nazionali ed europei la costruzione di istituzioni metropolitane è funzionale all’armonizzazione di scala superiore di una dotazione comunque congrua di servizi e funzioni, qui nell'area napoletana la cosa è diversa, e alla città metropolitana è assegnato il compito, verrebbe da dire la missione impossibile, di restituire dignità ai contesti, di dotare finalmente un sistema territoriale congestionato e sofferente degli standard minimi di cittadinanza e civiltà, che un cinquantennio di non-governo, centrale e locale, non è riuscito a garantire. E, naturalmente, mettere in sicurezza le ferite localizzate che un irrisolto ciclo dei rifiuti ha inferto al territorio e ai paesaggi.
La dimensione del problema è evidente, e vale ancora purtroppo l'esortazione del vecchio Nitti, a considerare «.. il problema di Napoli non altrimenti che come un grande problema nazionale, come un problema che tutta la nazione ha il dovere di affrontare e dichiarando lealmente che se sacrifizi occorrono, occorrono pure da ogni parte».
«La morte, purtroppo, sembra scelta con cura, decisa a tavolino da amministrazioni inefficienti, stabilita dall’ignavia o dalla mediocrità o soltanto dalla incompetenza (comunque colpevole) delle classi dirigenti». Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2016
Cadono come foglie morte in autunno. I paesi che vanno scomparendo, afflitti da un abbandono che sembra non avere fine, supereranno, a dicembre 2016, la triste soglia di 1650. È un quinto dei comuni italiani che è in cammino verso il nulla, un sesto della superficie nazionale che viene colpita dall’abbandono e lasciata inselvatichire. Il quattro per cento della popolazione migrerà e due sono le destinazioni possibili: o il cimitero oppure i grandi centri urbani. Due anni fa, in un bel rapporto curato per Confcommercio da Legambiente su dati del Cresme, furono definite ghost town, città fantasma, le mille piazze sempre più desolate e afflitte, le case vuote, le mura sbrecciate, campanili cadenti. Comunità colpite al cuore che lentamente, e nella più assurda e colpevole distrazione collettiva, si avviano all'eutanasia.
L’Istat ha invece aggregato i territori per tematiche affini. In quelle abbandonate per erosione ha individuato una piccola capitale. Le comunità siciliane che gravitano intorno a Prizzi (Palermo) hanno perso negli ultimi tre anni il 13,3 per cento degli abitanti. Paesi dai nomi dolcissimi come Contessa Entellina, Campofiorito, Roccamena, Ficuzza vanno incontro alla sepoltura e neppure tanto lentamente. E in Calabria nell’area intorno a Chiaravalle Centrale, appena sopra l’istmo, la popolazione è diminuita del 15 per cento. Che ne sarà di Acquamammone, di Pirivoglia, di San Pietro? Nei pressi dell’ultimo cantiere della Salerno Reggio Calabria, a Mormanno, la flessione è stata del 12,4 per cento.
«Il ministero delle Infrastrutture lo “raccomanda” a quello dell’Ambiente, autorizzando gli studi d’impatto ambientale», che saranno realizzati dal Corila, lo stesso ente che ha coordinato e portato a termine nel 2010 il nuovo Piano Morfologico della Laguna di Venezia, fortemente critico sull'allargamento delle attività portuali, e probabilmente per questo insabbiato. La Nuova Venezia, 18 marzo 2016 (m.p.r.)
Approfittando della stagnazione degli affari (salvo quelli che riguardano gli armamenti) le previsioni sballate dei piani regolatori si possono correggere, e cancellare aree d'espansione inutili. Un paio di esempi. La Stampa, 10 marzo 2016
Sembra la brillante trovata per un fumetto di Topolino, ma via Cemento Armato esiste davvero. A Desenzano, sul lago di Garda. Istituita negli anni del boom edilizio, questa stradina contornata di villette, giardini e complessi residenziali con piscina è un simbolo dell’espansione immobiliare che fu, con valori di 10 mila euro al metro quadro alimentati dagli acquirenti tedeschi.
Nel 1971 Desenzano aveva 10 mila abitanti; nel 2012 sono 28 mila, quando a ridosso delle elezioni viene approvato un piano regolatore che prevede centinaia di migliaia di nuove costruzioni. La nuova giunta chiama come assessore all’urbanistica Maurizio Tira, docente universitario a Brescia. Il professore fa due conti: in città ci sono 2500 alloggi invenduti, ma il nuovo piano ne prevede per ulteriori 3 mila abitanti. Così in sei mesi blocca il piano e poi ne scrive uno nuovo «a consumo di suolo zero». Una rivoluzione che vuole concludere con «un atto simbolico»: la proposta di cancellare via Cemento Armato, «diventata un anacronismo culturale e toponomastico».
A pochi mesi dalla fine del mandato, Tira ha raccontato la sua esperienza in un convegno sulla riduzione del consumo di suolo a Rivalta, cittadina dell’hinterland torinese, in cui amministratori pubblici ed esperti hanno fatto il punto su buone pratiche, modelli internazionali, ostacoli giuridici e politici. Negli ultimi anni la crisi e una nuova sensibilità hanno alimentato il dibattito. «Anche l’enciclica papale Laudato si’ incrocia il tema», spiega Paolo Pileri, docente al Politecnico di Milano e autore del libro «Che cosa c’è sotto. Il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo», di cui Altreconomia sta pubblicando un’edizione aggiornata. Pileri tiene un corso unico in Italia: con gli studenti «smonta e rimonta» i veri piani regolatori, «riscontrando previsioni demografiche superiori alla dinamica reale con punte del 60%».
Come Desenzano, anche Rivalta è un caso paradigmatico. Anche qui nel 2011 viene approvato un piano regolatore basato su una prevista crescita demografica, del tutto irrealistica, di 7 mila abitanti sui meno di 20 mila attuali. Poi vince le elezioni una lista civica ambientalista, chiamando come assessore Guido Montanari, docente di architettura al Politecnico di Torino.
Il cambio di filosofia è radicale - dal consumo di suolo agricolo alla sua tutela - ma l’approccio è pragmatico, distinguendo sulla base di criteri ambientali, paesaggistici, economici e giuridici. Ne nasce una variante al piano regolatore che elimina le edificazioni dove possibile e ne riduce l’impatto dove ci sono progetti in itinere. Risultato: edificabilità dimezzata, cancellate colate di cemento per 2 mila abitanti, salvati 30 ettari di suolo vergine, finanze comunali sane nonostante il crollo di entrate da oneri di urbanizzazione da 2,5 milioni a 600 mila euro l’anno, contenziosi giudiziari pressoché nulli. E soprattutto dieci proprietari che unilateralmente rinunciano ai diritti edificatori su 3 ettari di terreni, preferendo il verde al grigio.
«Il suolo consumato è oltre il 7% della superficie, mentre la media europea è poco più del 2%. Sono dati che mostrano una prepotenza dell’urbano sul rurale, un dilagare di funzioni non agricole». AT Altra Toscana, blog delle città, febbraio 2016
La vera crisi – ebbe a dire anni fa Salvatore Settis – è quella del paesaggio, che invece dovrebbe essere considerato la vera risorsa italiana, una risorsa apicale che comprende tutte le altre, come ha scritto Carlo Tosco. Settis e Tosco sono tra i massimi studiosi del paesaggio, ma basta guardarsi intorno e riflettere su quanto sta avvenendo nelle singole regioni o province per rendersi conto della ferite che continuiamo a infliggere al territorio e ai danni che stiamo facendo alla nostra stessa economia, basata essenzialmente sul patrimonio territoriale.
I dati a livello nazionale sono drammatici: il nostro paese ha un livello di consumo di suolo tra i più alti d’Europa. Secondo il Rapporto ISPRA 2015 il suolo consumato è oltre il 7% della superficie, mentre la media europea è poco più del 2%. Sono dati che mostrano una prepotenza dell’urbano sul rurale, un dilagare di funzioni non agricole nei campi, la perdita di un confine identitario che permetteva un dialogo reciproco tra città e campagna. Ora, chi è restato nei propri ambienti non li riconosce più, né è capace di trasmettere alle nuove generazioni la memoria dei luoghi, ma al massimo la malinconia, quando non l’angoscia o lo smarrimento, nell’omologazione di paesaggi tutti uguali e quasi sempre senza i connotati della bellezza e dell’armonia. E anche l’economia e il lavoro ne risentono negativamente: non di rado le zone con più capannoni e cemento sono anche quelle con più disoccupati o con più lavoro precario. Si tratta di un fenomeno che ci spinge anche a chiederci quanto cibo in meno è stato prodotto a causa della diminuzione della superficie coltivata.
Sepolti dall’asfalto e dal cemento per costruire strade, case, centri commerciali e capannoni industriali spesso rimasti vuoti, se ne sono andati negli ultimi trent’anni campi, pascoli e altri spazi rurali a vantaggio di uno sprawl che ha definitivamente rotto i confini tra l’urbano e il rurale, debordando nella campagna. L’abbandono e la cementificazione, che apparentemente sembrano due fenomeni opposti, hanno determinato in modo convergente una progressiva riduzione della superficie agricola, stravolgendo spesso gli assetti territoriali e paesaggistici. Dal 1956 al 2000 il consumo del suolo è passato da 8.700 a più di 21.000 chilometri quadrati, con un impegno pro-capite balzato da 170 a 340 metri quadrati; dopo il 2000 la situazione è ancora peggiorata, come dimostrano i rapporti annuali dell’ISPRA, l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione dell’ambiente. Tra le regioni più cementificate, in testa c’è la Lombardia che in 30 anni ha perso un decimo di tutto il territorio agricolo, ma le altre non ridono.
Che l’Italia stia perdendo terreni agricoli in un trend negativo e continuo è ormai un dato di fatto inconfutabile. Lo ribadisce il Ministero delle Politiche agricole in un dossier realizzato in collaborazione con Inea, Ispra e Istat (MIPAAF, 2012). Dagli anni ‘70, la superficie agricola utilizzata (SAU), che comprende seminativi, orti, arborati e colture permanenti, prati e pascoli, è diminuita di un terzo, da quasi 18 milioni di ettari a circa 11. Questo nonostante le caratteristiche ambientali e il valore paesaggistico del territorio italiano, che dovrebbero (o avrebbero dovuto) evitare l’espansione urbana in zone ad elevata fragilità ambientale e territoriale. La limitazione del consumo del suolo è, quindi, unitamente alla messa in sicurezza del territorio, una direzione strategica per l’Italia. Tutti lo dicono, ma nonostante le enunciazioni si continua a consumare suolo.
Questi dati suggeriscono inequivocabilmente che ci sarebbe bisogno di una inversione di rotta. Un sensibilità sempre più diffusa nella società spinge nella direzione di uno stop al consumo di suolo e anzi di una sua riduzione, come dimostrano i comitati nazionali e locali, sempre più diffusi, per salvare il paesaggio in nome della Costituzione italiana, che fissa tra i principi fondamentali la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione (articolo 9). Invece si va in direzione opposta, ostinata e contraria, miope e pericolosa. Dappertutto, anche in Toscana. Prendiamo l’esempio della Val di Cornia.
L’esempio della Val di Cornia
Questo lembo di Maremma, compreso tra il mare e le colline Metallifere, nella terra degli etruschi e dei borghi medievali, delle tradizioni minerarie e metallurgiche su un persistente sfondo rurale, ha conosciuto nel corso del ‘900 l’impatto dell’industria, massiccio ma centralizzato. Ad esso si è aggiunto in tempi più recenti un impatto più diffuso, legato essenzialmente a uno sviluppo edilizio progressivo, spesso immotivato e a volte puramente speculativo. Si tratta di un processo che non nasce oggi, che si è avviato concretamente negli anni ’60, in concomitanza con il boom economico. All’inizio ha preso la forma della costruzione di nuovi edifici all’interno e intorno ai centri urbani, snaturando la loro immagine. La pianificazione urbanistica è arrivata tardi a regolare e contrastare questo fenomeno, che tuttavia era spinto dalla crescita demografica ed economica. Quindi si poteva capire, in un certo senso e in quel dato contesto. Poi la popolazione ha smesso di crescere, ma il consumo di suolo è continuato senza sosta. Si è passati dall’espansione/ammodernamento dei vecchi paesi alle lottizzazioni fuori dai centri abitati, poi alle zone artigianali/industriali e commerciali, anch’esse collocate in zone rurali. Il piano strutturale della Val di Cornia, elaborato una decina d’anni fa, registra come tra anni '70 e '80 vi sia stato un significativo calo demografico a Piombino e nel resto dell’area, segno evidente di una prima crisi del sistema, ma a ciò non ha corrisposto un arresto del consumo di suolo, che anzi è aumentato; i venti anni successivi vedono in tutti i Comuni un ulteriore incremento dell’occupazione di suolo a fini residenziali, produttivi e turistici (Circondario della Val di Cornia, Piano strutturale d’area. Relazione generale, febbraio 2007, p. 224).
A differenza di quanto era avvenuto negli anni '60 e '70, questo processo di edificazione della campagna (dalle lottizzazioni, alle zone artigianali e commerciali, alle residenze turistiche), intensificatosi a cavallo del 2000, si è svolto essenzialmente entro un quadro di stasi o addirittura di declino demografico e di rallentamento della crescita economica. Ciò significa che si è consumato più suolo quando ce n’era meno bisogno, come dimostrano i grafici relativi ai due comuni principali, Piombino e Campiglia Marittima, così come rilevato dalle analisi dell’ultima pianificazione urbanistica intercomunale:
(vedi figure 1 e 2 in fondo)
Si vede bene il paradosso della forbice: meno popolazione, più consumo di suolo. Una forbice che ha tagliato risorse e opportunità di sviluppo, il contrario di quanto vanno dicendo i propugnatori di una modernità stanca e di un illusorio e spesso ideologico sviluppismo. Il consumo pro-capite di suolo ha significato in primo luogo alterazione del paesaggio, frattura del consolidato equilibrio tra città e campagna, nuovi costi ambientali in termini di uso delle risorse naturali, ridefinizione delle identità sociali. Ne derivano danni all’agricoltura e al turismo, che invece dovrebbero rappresentare il primario orizzonte di rinascita per un’area a declino industriale.
La situazione non è omogenea e tale diversificazione ci offre l’opportunità di capire quale dovrà essere il modello di riferimento per il futuro: se quello delle zone più intensivamente urbanizzate come Piombino, Venturina e San Vincenzo, oppure quelle che hanno mantenuto una maggiore disponibilità di patrimonio territoriale autentico come Suvereto, Campiglia, Castagneto Carducci o Sassetta. Sono ancora i dati ISPRA che ci indicano il quadro oggettivo della situazione: Piombino e San Vincenzo presentano un tasso di consumo di suolo superiore alla già elevata media nazionale; anche Campiglia è sopra la media, ma qui il dato andrebbe scomposto perché il consumo abnorme di suolo riguarda soprattutto Venturina. Suvereto, Sassetta e Castagneto, subito a nord della Val di Cornia, nettamente più virtuosi con un consumo di suolo ben al di sotto della media italiana.
(vedi figura 3 in fondo)
Eppure anche qui, proprio nei comuni a più elevato consumo di suolo, si va in direzione contraria. L’ultimo esempio? A Venturina, nella bella e fertile campagna a est della Monaca, minacciosi cartelli e recinzioni annunciano la costruzione di nuovi capannoni. Praticamente si apre un altro fronte di espansione edilizia, con nuovi capannoni mentre ce ne sono altri che giacciono vuoti e semiabbandonati nello stesso territorio comunale, esattamente come in tante altre parti d’Italia.
Uno scempio inutile e vano, campi fertili che se ne vanno e il paesaggio deturpato, perfino le pregiate colline retrostanti di Lecceto, del Palazzo Magona, di Villa Mussio e di Montesolaio (detta del Tavolino rovesciato), contenitori di residenze storiche e di agricoltura di qualità, risultano ferite da questi avulsi insediamenti ai loro piedi, frutto dell’impeto speculativo e da una idea anacronistica dello sviluppo economico. Non contenti, sono intanto in preparazione, per la stessa area, varianti urbanistiche che prevedono nuova occupazione di suolo con capannoni e centri commerciali, così oltre all’agricoltura morirà anche il piccolo commercio attivo nel vicino centro abitato di Venturina, cresciuto sui negozi e le attività di servizio alla popolazione del comprensorio e oggi annichilito dalla corona di centri commerciali che gli sono nati attorno. La strategia è sempre la solita, subdola e insipiente: acquisire le aree, abbandonare i campi, lasciarli incolti in attesa delle varianti per poi dire “che volete? Ormai sono tutti ceppite e terreni abbandonati”. No, erano i migliori campi della Val di Cornia, suoli fertili e sciolti di natura alluvionale, nei quali – dicevano i contadini del posto - ci verrebbe il pepe. Ora crescono qui piantagioni di cemento, freddi alberi senza frutti, trasformazione irreversibile del territorio e del paesaggio, pezzi di Maremma che se ne vanno per sempre.
Una tale analisi deve costituire la base per ragionare su un nuovo modello di sviluppo, che parta dalle vocazioni autentiche di un’area, dal patrimonio territoriale, dai valori storico-ambientali e dalla partecipazione sociale, che non riproponga i vizi di quell’economia speculativa che si è progressivamente sostituita all’economia produttiva alimentando il paradosso della forbice, generando degrado e disoccupazione, spaesamento e perdita di fiducia. L’area presa in esame è solo un esempio, da cui si possono trarre indicazioni utili per una importante e decisiva questione nazionale: quella del consumo di suolo e delle ferite inferte al paesaggio, vere e irrinunciabili risorse del Bel Paese.
Rossano Pazzagli insegna storia moderna e storia del territorio all’Università del Molise, fa parte della Società dei Territorialisti, è direttore della Summer School sul paesaggio agrario presso l’Istituto Alcide Cervi.
Le associazioni ambientaliste toscane hanno inviato una lettera con sette domande sul progetto del nuovo aeroporto al presidente della Regione Rossi. Il presidente ha risposto alla lettera e le associazioni hanno replicato.Qui tutto il carteggio.
Gentile Presidente Enrico Rossi,
Come Lei sa, l’Università di Firenze e gli uffici tecnici della Regione hanno avanzato molte riserve sul progetto del nuovo aeroporto di Firenze, attualmente proposto a Valutazione d’impatto ambientale da ENAC e Toscana Aeroporti. Le Associazioni firmatarie di questa lettera si rivolgono a Lei in qualità di governatore della Regione Toscana e quindi di garante della salute e della sicurezza dei cittadini, affinché chiarisca i punti più controversi del progetto e rassicuri gli abitanti della Piana, sul fatto che, una volta realizzato, l’aeroporto non peggiorerà le loro condizioni di vita.
1. Il progetto sottoposto a VIA è un Master Plan e non un progetto definitivo, come vuole la legge. La Regione Toscana accetterà questo strappo alle regole o chiederà al Proponente di rispettare quanto prescrive il Codice dell’ambiente?
2. La pista del nuovo aeroporto sarà di 2000 metri, come stabilito nel Piano di indirizzo territoriale, o di 2400 metri come richiesto dal Proponente?
3. La Regione Toscana si è impegnata ufficialmente a promuovere un Dibattito Pubblico sull’aeroporto, ma finora non ha rispettato il suo impegno. Lei si adopererà affinché possa finalmente svolgersi questo processo partecipativo?
4. Secondo il parere tecnico degli uffici regionali, il rifacimento del Fosso Reale e dell’intero sistema idrografico della bonifica comporterà un rischio idraulico non adeguatamente calcolato. Saranno richiesti al Proponente studi più approfonditi?
5. Nonostante il Proponente abbia affermato che la nuova pista sarà esclusivamente monodirezionale verso ovest, nel Master Plan questa risulta prevalentemente monodirezionale, con una percentuale non trascurabile di atterraggi e decolli in direzione di Firenze, il cui centro storico è patrimonio Unesco. Lei può dire qualcosa di definitivo in proposito?
6. Il Proponente dice che col nuovo scalo inquinamento atmosferico e acustico diminuiranno, ma ciò appare incongruente rispetto alla previsione d’incremento dei voli e della dimensione degli aerei. La Regione intende fare chiarezza su questo punto?
7. Il nuovo scalo non interferirà solo sul reticolo idrografico discendente da Monte Morello, ma anche sulla viabilità Nord/Sud della Piana, decretando ad esempio la cancellazione di via dell’Osmannoro: sono state adeguatamente valutate le conseguenze (funzionali, sociali, economiche) sul sistema della mobilità metropolitana?
Tommaso Addabbo, WWF Toscana
Paolo Baldeschi, Coordinatore della Rete dei comitati per la difesa del territorio
Fausto Ferruzza, Presidente Legambiente Toscana
Sibilla della Gherardesca, Presidente Fai Toscana
Maria Rita Signorini, Presidente Italia Nostra Toscana
Tommaso Addabbo, WWF Toscana
Paolo Baldeschi, Coordinatore della Rete dei comitati per la difesa del territorio
Fausto Ferruzza, Presidente Legambiente Toscana
Sibilla della Gherardesca, Presidente Fai Toscana
Mariarita Signorini, Presidente Italia Nostra Toscana
«La carta vincente di queste ciclovie è il loro appartenere alla rete ciclabile europea. È il sogno verde dei cicloamatori. Adesso ci sono i fondi per 4 itinerari che corrono lungo il Paese». La Repubblica, 24 febbraio 2016 (m.p.r.)
Roma. In bicicletta da Verona a Firenze, da Venezia a Torino, dalle sorgenti del Caposele a Santa Maria di Leuca. E nella capitale un anello solo per i ciclisti, il Grab, Grande raccordo anulare delle bici. Per la prima volta il governo finanzia itinerari ciclabili di lunga percorrenza, vere e proprie “bicistrade” pensate per lanciare il cicloturismo e, soprattutto, per attirare i turisti stranieri, pronti a varcare le Alpi per visitare sì l’Italia in sella, ma in completa sicurezza, proprio come succede da decenni nei loro paesi.
In particolare le intercettazioni della magistratura sulle vicende di Quarto sono paradigmatiche per descrivere dinamiche elettorali che si sono consolidate in alcuni contesti locali; qui l’imprenditore Cesarano - sospettato di essere colluso con la camorra - detta la strategia per sostenere al ballottaggio la candidata dei Cinquestelle, Rosa Capuozzo, chiarendo da subito le sue condizioni: "Comincia a chiamarlo. Ha preso 890 voti, è il primo degli eletti. Noi ci siamo messi con chi vince, capito?” E ancora: “L’assessore glielo diamo noi praticamente. E lui ci deve dare quello che noi abbiamo detto che ci deve dare. Ha preso accordi con noi. Dopo, così come lo abbiamo fatto salire così lo facciamo cadere”.
Il riferimento di Cesarano è al consigliere comunale De Robbio che, secondo la Direzione distrettuale antimafia di Napoli, avrebbe tentato di convincere la Sindaca ad affidare la gestione del campo sportivo comunale ad una società vicina al suo "sponsor elettorale", ricorrendo a un presunto abuso di famiglia per minacciare la stessa Capuozzo. Sempre a Cesarano, De Robbio avrebbe poi promesso la nomina di una persona di fiducia all'assessorato all'urbanistica, per favorire al meglio i suoi affari.
Siamo a Quarto, piccola cittadina della provincia napoletana, con poco più di 40.000 abitanti ma le sue tristi vicende sono simili a quelle riscontrabili in altri contesti comunali nell'Italia degli oltre 8000 campanili.
Né la collocazione geografica né l'appartenenza a questo o quello schieramento politico può più rappresentare un valido e sicuro argine a fenomeni di questo tipo. Le indagini della magistratura spaziano dalla Valle d'Aosta alla Sicilia, passando anche da una Milano dove l'ex sindaca Moratti, pochi giorni prima del maxi arresto legato all'inchiesta Parco Sud avvenuto nel luglio del 2010 alle porte del capoluogo lombardo, strillava che "la mafia a Milano non esiste" e nessun partito, neppure chi ha fatto della legalità e della trasparenza il proprio mantra elettorale, può ritenersi immune da pericolose collusioni.
Che i settori legati al ciclo dell'edilizio rappresentino gli ambiti principali per le infiltrazioni mafiose (al Sud come al Nord Italia) non è certo una novità, come testimonia l'elenco dei consigli comunali sciolti per mafia, per la maggior parte dei quali le motivazioni sono legate a questioni urbanistiche o a violazioni dei piani regolatori e purtroppo gli esiti spaziali di queste relazioni pericolose sono evidenti in termini di spreco edilizio, abusivismo, degrado ambientale e scarsa qualità degli spazi urbani e suburbani.
La relazione perversa tra interessi mafiosi, amministrazioni comunali e ciclo edilizio può essere affrontata, a mio avviso, agendo su tre aspetti diversi differenti: il primo è di natura elettorale, il secondo amministrativo e il terzo più strettamente urbanistico.
Il primo aspetto riguarda i criteri di selezione della classe dirigente politico-amministrativa: nei contesti territoriali locali è progressivamente venuto meno il ruolo dei partiti di massa, sia in termini di elaborazione di idee e sia in termini di formazione dei propri iscritti, e tale vuoto ha creato una generalizzata improvvisazione sui temi amministrativi. Inoltre le sedi locali dei partiti sono diventati luoghi in cui le discussioni sono asfittiche, ideologiche e molto spesso rincorrono rancori e recriminazioni personali anziché differenti posizioni politiche. Ecco allora che un curriculum non politico di un candidato sindaco può diventare un enorme punto di forza nella competizione elettorale in quanto indicatore di pragmatismo, di civismo e di una leadership che può essere esercitata senza dover rendere conto a nessuno del proprio operato. In queste dinamiche però il rischio è duplice: da un lato c'è quello di eleggere sindaci impreparati, inadeguati e non all'altezza di guidare processi amministrativi e burocratici anche complessi (e la bassa qualità dei governi locali ha spesso conseguenze dirette anche sulla qualità dei progetti di trasformazione territoriale), dall'altro la ricerca di nuove forze elettorali dalle quali farsi sostenere può portare a legami pericolosi che poi, solitamente, presentano il conto. In un contesto storico caratterizzato dalla crisi di rappresentanza e di fronte a un'appartenenza politica sempre più "liquida", occorre che i partiti nazionali intraprendano una seria riflessione sulle modalità di selezione della propria classe dirigente, a partire da quella locale. In questi tempi si parla spesso di tematiche trasversali e di nuove geografie politiche, l'auspicio è che la legalità non diventi tema contendibile nelle prossime campagne elettorali ma piuttosto sia un impegno chiaro e condiviso per tutti i partiti politici.
Il secondo aspetto riguarda le competenze delle amministrazioni comunali. In una fase di progressivi tagli alle amministrazioni locali, un Paese in cui il 70% dei Comuni ha meno di 5.000 abitanti non è più sostenibile. Una strategia nazionale che spinga verso gestioni di servizi ad una scala che consenta ottenere economie di scala (le Centrali Uniche di Committenza per gli acquisti delle pubbliche amministrazioni non possono bastare) ed esercizio di funzioni urbanistiche a una dimensione pertinente per poter pianificare in modo coerente e sostenibile i diversi sistemi territoriali (ambientale, infrastrutturale e insediativo) sembrano scelte non più prorogabili se si vuole impedire che gli ambiti comunali diventino nuovi feudi a conduzione familiare, soggetti a pressioni economiche (ma anche criminose) difficilmente controllabili anziché luoghi nei quali elaborare politiche per l'erogazione dei fondamentali servizi alla persona.
Il terzo aspetto riguarda il sistema normativo urbanistico vigente: le leggi urbanistiche regionali, approvate a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, hanno progressivamente elaborato norme in nome della semplificazione e dello snellimento burocratico che si sono tradotte nei fatti da un generalizzato laissez-faire. Questa de-regolamentazione é diventata uno dei principali varchi per le infiltrazioni mafiose nel mondo delle amministrazioni comunali anche considerando che l'edilizia è il settore ideale per riciclare e ripulire denaro sporco derivante da altri traffici criminosi.
L'Italia è molto indietro rispetto alle normative in vigore nei paesi del Nord Europa dove da almeno un decennio si trattano i temi della rigenerazione urbana, si lanciano bandi di idee tra progettisti per le opere pubbliche e i grandi progetti di riqualificazione urbana, si coinvolgono i rappresentanti della società civile nei progetti infrastrutturali più importanti (débat public francese), si hanno strumenti di valutazione anche economica dei progetti di trasformazione urbana (modello SoBoN di Monaco di Baviera), si affida la funzione di governo del territorio a una dimensione territoriale adeguata e comunque sovracomunale (schemi di coerenza territoriale francesi) per una pianificazione tra fabbisogni insediativi, accessibilità infrastrutturali, dotazione ambientale. Alcuni invocano strumenti speciali, come un ampliamento di competenze dell'ANAC guidato da Raffaele Cantone, che seppur utilissimi per enfatizzare l'attenzione su questi temi, non possono essere la soluzione strutturale a questo problema.
Il nostro Paese non ha più bisogno di norme speciali ma di amministratori locali competenti, preparati e consapevoli (oltre che onesti), di una razionalizzazione complessiva del sistema degli enti locali e di una complessiva riforma urbanistica, che abbia tra i suoi principi (a cui devono corrispondere adeguati strumenti) la trasparenza, la partecipazione e una regia sovracomunale nei processi di trasformazione del territorio. Solo in questo modo si potrà finalmente rompere la catena che lega gli interessi speculativi, mafiosi e non, al settore dell'edilizia e fare in modo che i Sindaci debbano sì rispondere del proprio operato, anche più di quanto sono chiamati a fare ora, ma solo nei confronti dei propri cittadini.
La denuncia di una vergognosa operazione delle giunte Orsoni e Brugnaro, con la complicità della grande maggioranza del consiglio comunale, delle diverse istituzioni coinvolte, delle associazioni che non hanno promosso una vigorosa protesta e della stampa cittadina che ha dato voce solo ai liquidatori del patrimonio pubblico. Italianostravenezia.org, 4 febbraio 2016 (m.p-r.)
Lunedì 1 febbraio il Consiglio comunale ha purtroppo approvato, con tre soli voti contrari – uno del Movimento Cinque Stelle e uno del Pd -, la delibera del passaggio in proprietà al Comune di Venezia dell’Isola della Certosa e del Forte di Sant’Andrea. Il sindaco e il suo capogruppo volevano convincere l’opposizione e il pubblico di cittadini che nella delibera si discutesse solo il passaggio di proprietà dallo Stato al Comune delle due isole, per cui lamentavano l’assurdità dell’opposizione a questo “regalo” del Demanio.
Leggiamo l’Accordo di valorizzazione, vincolante (perché se non realizzato lo Stato si riprende il bene): «Qualora al Comune di Venezia pervenga la disponibilità di spazi acquei, rive, banchine, etc. …, pertinenziali alle isole, che come detto non rientrano nel presente accordo ai fini del trasferimento, lo stesso Comune si impegna a destinarli ad usi compatibili ed integrati con i progetti di valorizzazione sopraccitati».
Cioè quando il Demanio Militare dismetterà l’area alle spalle del Forte, ecco già ratificato il Piano di Valorizzazione C2, con alberghi, centro benessere, altro ristorante, piscina a pelo d’acqua: un resort di lusso per turisti di alta fascia, che sorridenti e festosi, sorseggiando aperitivi sul bordo della piscina guarderanno i nostri figli in barchetta al Bacan,la spiaggia semisommera alla Bocca di Lido dove i veneziani "normali" vanno a bagnarsi - ndr] in perfetta continuità concettuale con l’operazione Fontego dei Tedeschi della giunta precedente.
La discussione è aperta sul carattere della massiccia presenza di persone e capitali provenenti dalla Cina: al di là dell'esito nelle primarie milanesi. Qui nella postilla l'opinione di Fabrizio Bottini, che ci ha segnalato l'articolo. La Repubblica, 8 febbraio 2016,
Cinquemila, per la Camera di Commercio. Seimilacinquecento, secondo la stima della stessa comunità cinese. Tante sono le imprese individuali a Milano con titolare nato in Cina. La differenza fra i due dati si spiega anche con i casi in cui la licenza rimane intestata al vecchio titolare, spesso italiano, ma alla cassa sta il nuovo gestore. È questa la fotografia, il giorno dopo le polemiche per l’esordio al voto della comunità cinese. «In città i cinesi sono 25mila, un’impresa ogni quattro persone - dice Angelo Ou, imprenditore di 68 anni, figlio di uno dei primi arrivati negli anni Trenta - veniamo dalle regioni di Wenzhou e Qingtian. È il vostro Triveneto. Non ci piace lavorare sotto padrone».
Delle 5.002 imprese cinesi censite in città, il 30,9 per cento è attivo nel commercio, il 25,7 nella ristorazione. Il 31, 8 percento dei cinesi vive a Chinatown, intorno a via Paolo Sarpi. Molti nelle periferie a Nord : Villapizzone, Affori, Quarto Oggiaro. «Non esiste più un quartiere cinese – dice Alessio Menonna, ricercatore di Ismu – sono ovunque ci sia sofferenza commerciale e deprezzamento degli immobili».
La crescita del numero di aziende cinesi rispetto al 2014 è del 7,2 per cento, 334 nuove società. E dal 2009 sono raddoppiate. «Negli anni della crisi, la comunità cinese è la sola che è cresciuta. Lo dicono gli indicatori, dal reddito alle case di proprietà», dice Gian Carlo Blangiardo, professore di Demografia in Bicocca. E non è l’unica tendenza: aumentano le donne imprenditrici, i dipendenti lavorano di più (68 ore a settimana) e guadagnano 1.610 euro lordi al mese. Intervistati dalla fondazione Ismu, solo il 20 per cento dei cinesi a Milano dice di capire bene l’italiano e il 9 per cento di poterlo leggere.
«Ma la novità degli ultimi anni non è il numero di imprese. Siamo noi - dice Francesco Wu, 34 anni, presidente dell’associazione dei giovani imprenditori cinesi Uniic – abbiamo messo d’accordo le 14 associazioni di commercianti cinesi in città e abbiamo insegnato ai vecchi una cosa: siamo in Italia non in Cina, se vuoi cambiare le cose puoi farlo. Devi farti sentire. Queste primarie sono state l’occasione». Figli più integrati e istruiti dei propri padri, che hanno mandato i genitori a votare. Per Giuseppe Sala. «La comunità chiede al Comune poche cose semplici, che gli assessori Majorino e Balzani hanno dimostrato di non volere - dice ancora Angelo Ou -. Meno lacci al commercio, un rappresentante nelle istituzioni e l’autorizzazione a creare alcune grandi cose». La più grande: una international school cinese per 640 studenti. Un progetto fermo da tempo.
postilla
Chi ha seguito con una certa attenzione sul social network lo svilupparsi del dibattito sui «cinesi ai seggi delle primarie» milanesi, avrà certamente notato l'abisso che separa certe strampalate teorie di integrazione, vitalità urbana, convivenza, dalla realtà su cui si vorrebbero esercitare. La comunità cinese, tra la scarsa attenzione (poco oltre il folklore e qualche diffidenza) di chi a parole si fa paladino di quei concetti, è uno dei protagonisti di punta della riqualificazione dei quartieri urbani, e della loro rivitalizzazione commerciale. Il fenomeno più vistoso è quello «open air mall» di via Paolo Sarpi, che fa da virtuale trait-d'union tra il monumentale Parco Sempione e il neomonumentalismo postmoderno di Porta Nuova. È con questo tipo di iniziative, ovviamente tutte da capire, favorire, governare, che una politica urbana davvero all'altezza dei tempi dovrebbe confrontarsi, domandandosi tanto per cominciare fin dove qualunque attività che produce ricchezza è accettabile, e dove invece occorre affiancare una piena integrazione culturale. La diffidenza di certa sinistra che ha scambiato per invasori di campo i commercianti cinesi, in fila ai seggi delle primarie sostanzialmente contro certe pedonalizzazioni che ritengono controproducenti, dimostra quanta strada ci sia da fare verso un'idea di commercio urbano meno nostalgicamente campata per aria (f.b.)
Un modello utopico di integrazione locale delle diversità culturali? Molto probabilmente no, visto che con evidenza vengono tenuti fuori tutti i fattori non esplicitamente economici, che invece nella vita vera contano, eccome se contano. La Repubblica, 6 febbraio 2016, postilla (f.b.)
Ci sono un italiano, un polacco, un turco, un arabo e un indiano: ma non è l’inizio di una di quelle barzellette all’insegna degli stereotipi etnici. È la descrizione di un pezzetto di Narborough road, la strada più multietnica d’Inghilterra, se non d’Europa o forse del mondo: 24 nazionalità, in rappresentanza di quattro continenti, una accanto all’altra, su poco più di 200 esercizi pubblici, vetrina di negozio dopo vetrina di caffè, barbiere, salumiere, in apparente armonia nel cuore di una cittadina di provincia.
«Magari gli immigrati andassero così d’accordo nel nostro paese o da qualunque altra parte », dice Gennaro Zappia, cuoco salernitano, in mano una teglia di ravioli pronti per il forno, nel ristorante che ha appena aperto al numero 2 di questa colorita via del cosmopolitismo urbano. A individuarla sono stati i sociologi della London School of Economics, la cui ricerca è finita sui giornali. “Bottegai di tutto il mondo unitevi”, suggerisce il titolo del Mail, parafrasando involontariamente il motto di Marx: uniti per commerciare in santa pace e possibilmente in prosperità, certo, mica per fare la rivoluzione. Ma questa unità è un segno di civile progresso, nel momento in cui in Europa risuonano allarmi sulle invasioni straniere e sui presunti danni di un’immigrazione senza controlli.
A un’ora di treno dalla capitale, Leicester deve la sua fama passata a Riccardo III, l’ultimo re inglese caduto in battaglia, e quella più recente a Claudio Ranieri, l’allenatore che ha sorprendentemente portato in testa alla Premier League la squadra locale. Ora l’indagine della Lse (acronimo della prestigiosa università di scienze politiche londinese) sottolinea un altro motivo di distinzione: meno di metà della popolazione locale (300mila abitanti) si autodefinisce britannica, le due università cittadine attirano studenti da ogni angolo della terra e Narborough road, l’arteria che taglia il centro, è diventata una sorta di nazioni unite del piccolo commercio. Una volta era una strada in declino, contrassegnata da abbandono, degrado e miseria. Globalizzazione e immigrazione, i due grandi accusati dai nostalgici del tempo che fu, l’hanno rivitalizzata.
Beninteso, non è una strada ricca: modeste casette a due piani costellano le vie adiacenti (90 mila sterline per un appartamento con due camere da letto, si legge nella vetrina di un’agenzia immobiliare – prezzo con cui sotto il Big Ben non compri neanche un garage). Né vi compaiono “chain stores”, le catene di negozi tutti uguali (Starbucks, Gap, Pizza Express) che hanno reso omogenee le “high street”, le vie centrali nel resto della nazione. Ma è costellata di negozietti indipendenti che trasmettono dinamismo e speranza. Vicino a Sultan (barbeque turco) c’è Alino (bar africano), di fianco a Nawroz (cucina caraibica) c’è Al Sheikh (ristorantino arabo), dopo Karczma (delicatessen polacco) c’è Vashnu Daba (alimentari indiano). E avanti così, isolato dopo isolato: un macellaio pachistano, una tabaccaia kenyota, un droghiere lettone, una sarta dello Zimbabwe, un ristoratore giamaicano. “Antonio Sun Tanning”, salone per abbronzarsi, non cela un italiano, bensì un inglese: ebbene sì, ci sono anche i nativi, con nome nostrano per sembrare più esotici. Accanto ai supermercatini “halal”, cibo secondo i dettami del Corano, sorge il salone di bellezza Platinium, con in vetrina la gigantografia di una bionda in bikini. Sul marciapiede mi sfiorano una bionda in carne e ossa che parla russo dentro un telefonino, una massaia con il velo e le sporte della spesa, un gruppo di sikh con il turbante, uno di operai polacchi. Kerreen Nelson, giamaicana, dietro il bancone dell’omonimo Nelson Soul Food, dice che è bello vedere così tante comunità diverse in buoni rapporti.
«Ci siamo guardati intorno per cercare il posto giusto», racconta Zappia, lo chef di Sapri, provincia di Salerno, fra i tavoli di “La cucina italiana”, il ristorante che ha aperto con il socio romano Alessandro Graziani. «A Londra di ristoranti italiani ce ne sono tanti, qui c’erano soltanto imitazioni e abbiamo pensato ci fosse spazio per uno genuino ». Era l’unica cosa di cui Ranieri si è lamentato arrivando ad allenare il Leicester: l’assenza di un posto dove cenare come in Italia. Adesso può portare la squadra su Narborough road e mangiare tagliolini all’astice o ravioli ai funghi come in patria. Il mondo in una strada. Non è una barzelletta.
postilla
Non è certamente un caso, se quella strada scelta dai sociologi della London School of Economics come possibile «modello di integrazione» sta nel cuore profondo della patria del liberalismo, e del conseguente amore sviscerato per una certa idea di spazio condiviso utilitaristico assai circoscritto, ma dove le cose a modo loro effettivamente funzionano. Ricordando sempre, però, che appena si esce da quell'universo altamente artificioso, nulla pare più altrettanto equilibrato, come ci dimostra ogni giorno la realtà. E del resto, basterebbe forse provare a andare appena oltre quella superficiale tolleranza da «business is business» di questa sorta di centro commerciale autogestito, dove ci si allea o ci si fa concorrenza solo per il profitto, per cogliere il senso del modello britannico della integrazione esclusivamente economica (che lascia le culture a macerarsi nella loro specificità), contrapposto a quello di scuola francese (che vorrebbe integrarle in uno Stato portatore di valori comuni di riferimento). Se esce una lezione dal racconto, anche senza ovviamente entrare nei valori specifici della ricerca LSE appena citata, è che si può praticare una ricerca di spazi comuni sperimentali, da cui forse far emergere regole più generali, ma certamente non confidando al 100% in entità del tutto astruse come lo Stato o il Mercato, a loro volta soggette a declinazioni particolari (f.b.)
Seconda parte del lavoro su Pisa che si propone di seguire passi indispensabili per cambiare cose che non funzionano come vorremmo: analizzare, denunciare, proporre. Significa anche sbugiardare bugiardi e tagliare le unghie ai rapaci. La citta invisibile, rivista online, 25 gennaio 2016
E’ interessante vedere a chi appartengono gli immobili totalmente abbandonati nel comune di Pisa. Il 61% (146mila mq) è di proprietà pubblica, mentre il restante 39% (93mila mq) è di proprietà privata.
Tra i nomi dei proprietari privati spiccano, tutti già fin troppo ricorrenti nelle cronache locali, il costruttore Bulgarella, la famiglia Pampana, la multinazionale J Colors proprietaria dell’ex colorificio. Tra i soggetti pubblici, ecco quelli meno virtuosi: a farla da padrone è il Comune di Pisa che possiede circa 97mila mq delle aree completamente abbandonate all’interno del comune stesso (il 66% di tutto il comparto pubblico), seguono l’Università e l’Azienda Ospedaliera.
Dal confronto con i dati censiti nel 2012 emerge un altro dato inconfutabile. Negli ultimi sei anni le aree abbandonate sono aumentante dell’11%, di cui 7,5% solo negli ultimi 3 anni. E di questo aumento sono responsabili esclusivamente le amministrazioni pubbliche, in particolare il Comune di Pisa che ha contribuito a creare la metà delle più recenti superfici abbandonate. Siamo di fronte alla necessità di un serio controllo del territorio finalizzato alla prevenzione di questi fenomeni responsabili del degrado urbano.
Tra il 2012 e il 2015 numerose sono state le azioni nate dal basso per la riqualificazione e il recupero di grandi aree della città: dall’ex Colorificio, alla Mattonaia, al Distretto 42: tutte azioni represse e sgomberate per lasciare nuovamente queste aree al degrado e soprattutto alla speculazione. A contrasto si nota la stesura di veri e propri tappeti rossi da parte dell’amministrazione comunale ai costruttori, con l’effetto di avere oggi decine di scheletri in cemento che non verranno completati: dalle Torri di Bulgarella all’ex-Draga della ditta Rota fallita negli scorsi mesi. Un danno urbano che ricadrà interamente sulla comunità, visto lo scandalo emerso recentemente che ha mostrato come, a garanzia di lavori di urbanizzazione mai fatti, siano state accettate fideiussioni fasulle e inutilizzabili. Tutto questo in una città che nell’occasione dell’alluvione avvenuta il 24 agosto scorso ha evidenziato una estrema fragilità sul piano del rischio idraulico.
L’unica cosa sensata sarebbe smettere di costruire, recuperando il patrimonio inutilizzato. E invece, mentre per i privati la strategia è attendere che arrivi la giusta variante urbanistica, con tempi di attesa incomparabili rispetto alla vita dei cittadini e delle cittadine comuni, per gli enti pubblici l’imperativo è vendere per “valorizzare”, secondo un meccanismo che di fatto fa sì che si moltiplichino le aste pubbliche deserte fino a che, pur di vendere in qualche modo una parte del proprio patrimonio, le cifre vengono abbassate e gli immobili svenduti tramite poco trasparenti trattative private.
Negli ultimi anni la direzione presa dagli enti locali è stata quella di adottare piani faraonici di vendita che stanno cambiando il volto di Pisa: si cerca di vendere l’area dell’ex ospedale S. Chiara, si vendono - o meglio si permutano - le caserme e lo stadio, il Palazzo dei Trovatelli e quelli delle Gondole, e ancora Palazzo Mastiani in Corso Italia, la Mattonaia dietro Borgo Stretto, per non parlare del recente caso del Palazzo ex-Telecom, dietro alla sede del Comune.
A novembre l’amministrazione comunale ha preso formalmente atto che il progetto che riguardava le caserme è definitivamente fallito: però solo dopo aver bocciato pochi mesi prima un progetto partecipato di recupero e riutilizzo dell’ex distretto militare, costruito dai cittadini del quartiere e da numerose associazioni del territorio. Ci chiediamo se ora sarà possibile riaprire la discussione sul futuro dell’area o l’amministrazione perseguirà miope le proprie fantasie speculative sulle villette di lusso.
Investire nel mantenimento dell’esistente, invece di creare nuovi volumi, è sempre più necessario: dai crolli nelle scuole ai danni provocati dall’alluvione nell’ex-convento di grandissimo pregio Fossabanda, dai soldi spesi per bonificare l’area intorno alla Mattonaia in pieno centro allo scempio delle Torri di Bulgarella, emerge in maniera evidente il quadro di un sistema che non funziona più.
Molteplici sono le proposte di immediato riutilizzo degli immobili, sia a scopo abitativo residenziale di cittadinanza e corpo studentesco, che a fini sociali e culturali, che abbiamo sottoposto alla discussione pubblica ma che finora l’amministrazione ha sempre ignorato evitando in ogni modo i confronti di merito.
E per tutti i terreni per i quali resta la destinazione edilizia: è legittimo che i diritti edificatori siano intangibili anche quando le necessità di un Comune cambiano? Il soggetto pubblico, che pure è titolare e sorgente della potestà sul territorio e sull’uso dei suoli non mette in discussione, per prassi, il diritto a costruire che ha già rilasciato. Infatti, le imprese e le banche che si sono esposte per i loro investimenti operano sostanzialmente un ricatto, in nome della salvaguardia dell’occupazione. Un ricatto sterile visti questi dati incontrovertibili: dal 2002 al 2014 la città ha perso il 10% della popolazione attiva, si è allargata in maniera impressionante la forbice reddituale con una tendenza costante indipendentemente dalla crisi conclamata del 2008, ed è evidente infine un aumento del tasso di disoccupazione che è passato dal 3,5 % del 2006 al 8,3 % del 2014.
Allora ci chiediamo che vantaggio abbiano portato alla comunità le centinaia di milioni investiti sul territorio per nuove costruzioni. Eppure il pubblico, in qualche modo soggiogato dagli interessi privati, continua a favorire la speculazione, rinunciando di fatto ad esercitare la propria funzione costituzionale di decisore sull’uso del suolo.
A Pisa però abbiamo visto che dal basso è necessario e possibile agire: la battaglia condotta e vinta dai cittadini e dalle associazione ambientaliste per imporre la previsione del Parco Urbano di Cisanello è stato forse uno dei primi casi di messa in discussione di principio di intangibilità dei diritti edificatori. Ancora una volta la concreta realizzazione è ferma a causa della colpevole inerzia dell’amministrazione.
Noi non ci scoraggiamo, la battaglia contro il consumo di suolo e per il recupero del patrimonio esistente non si ferma: è possibile, oltre che necessario proseguire su questa strada.
QUI la prima parte dello studio
Roma. Rischia di impantanarsi di nuovo il Ddl sul consumo di suolo. La discussa riforma che punta a ridurre la realizzazione di nuove costruzioni e a incentivare la rigenerazione urbana, dopo l’approvazione in commissione a fine ottobre, pareva a un passo dal traguardo. Sulla sua strada, però, si è appena messo un durissimo parere della commissione Cultura di Montecitorio che, di fatto, chiede di riscrivere il provvedimento in una ventina di passaggi. I deputati, recependo indicazioni del ministero dei Beni culturali, sottolineano i «profili assai problematici» della legge: non è coordinata con le regole sui piani paesaggistici regionali ma, soprattutto, mette sulle spalle degli enti locali un carico organizzativo giudicato eccessivo. Per il testo, atteso in aula per il mese di marzo, pare profilarsi l’ennesima riscrittura.
«Sono rimasto solo». Luigi osserva il quartiere che pochi mesi fa brulicava di vita. Silenzio. Non c’è più nessuno, come per un attacco atomico. Resta questo pensionato, Luigi Bellicoso, strano nome per una persona tanto mite. È l’ultimo abitante di una delle New Town di Cese di Preturo, i quartieri cresciuti come funghi dopo il terremoto de L’Aquila. Il miracolo reclamizzato da Silvio Berlusconi.
Nell'archivio del vecchio eddyburg c'e un'intera cartella di analisi e denunce dei devastanti eventi tra loro per chi è stato il peggiore: il sisma o il dopoterremoto, Poprio qui: Terremoto all'Aquilax
Forse il significato migliore della definizione «le primarie più belle del mondo» per Milano sta nel far emergere le differenze di strategia, le varie idee di città: qualcuna dotata di senso, altre meno. La Repubblica, 27 gennaio 2016, postilla (f.b.)
Non c’è campagna elettorale senza sogni da tradurre in slogan. Servono a dare il segno della propria visione di città, ma anche a creare un dibattito che abbia al centro il nome del candidato di turno. Il libro dei sogni dei candidati alle primarie di Milano del prossimo febbraio potrebbe iniziare così: c’era una volta una città con l’acqua dei Navigli che scorreva ovunque, autobus e tram gratis per tutti, un reddito minimo garantito dal Comune per chi si trova in difficoltà. Sono, rispettivamente, le proposte più importanti di Beppe Sala, Francesca Balzani e Pierfrancesco Majorino, il commissario Expo (in scadenza), la vicesindaco e l’assessore al welfare che, con Antonio Iannetta, si sfideranno alle primarie del 6 e 7 febbraio.
Alle proposte più concrete, quelle che si realizzano più o meno in poco tempo e senza grandi rivoluzioni, si aggiungono ormai quelle che hanno anche un forte valore simbolico. E che fanno discutere tanto: quando Balzani, ieri, ha presentato la proposta di rendere gratuiti i mezzi di superficie entro i cinque anni di mandato, tutti — dalla destra alla sinistra — hanno detto la loro. Accusandola di fare boutade elettorali senza coperture, di ipotizzare «finanza creativa con la demagogia tipica della destra» (è la frecciata di Sala), di non pensare all’equità sociale, dando così la possibilità di viaggiare gratis anche a chi non ha problemi a pagare un biglietto. Lei, ieri, ha spiegato: «Non è una promessa, ma un impegno che dovrà diventare una proposta strutturata ». Alla base del progetto c’è l’offerta di linee metropolitane a Milano (quattro, più una in costruzione) e l’idea che il trasporto pubblico sia da ripensare integralmente su area metropolitana. L’assessore alla mobilità Pierfrancesco Maran (che appoggia Sala) ha subito replicato che un’operazione del genere costerebbe almeno 160 milioni di minori introiti e quasi 60 per potenziare bus e tram. Preoccupazioni che Balzani liquida in poche parole: «Il bilancio deve essere un elemento propulsore, non per dire che non si può fare nulla: le risorse si trovano quando ci si dà una forte priorità».
Beppe Sala ha precisato subito che il suo sogno non è una priorità («prima il problema case»), che avrà bisogno di dieci anni e che non ha ancora studiato come trovare i circa 400 milioni che servirebbero per realizzarlo. Ma racconta: «Ho studiato a lungo il tema: non è un ritorno al passato, ma è pensare a una nuova mobilità per Milano, guardando a quella che diventerà. Riaprire tutta la cerchia dei Navigli, lasciando una corsia per mezzi pubblici e di soccorso e per le bici: non è follia». Un reddito di riscatto sociale «per proteggere chi è a rischio emarginazione», il primo in Italia: non sogni ma solide realtà, assicura Pierfrancesco Majorino. Tre interventi: 5mila euro annui per 10mila famiglie, sconti e gratuità per altre 70mila famiglie, 500 euro al mese per un anno per far lavorare altre 2mila persone. Costo del progetto: 55 milioni: 27 sarebbero già nel bilancio, 12 arriverebbero dal governo, mancano all’appello 16 milioni.
postilla
Benissimo fa, per una volta, la stampa a presentare sul medesimo piano le tre «strategie» dei tre principali candidati alle primarie del centrosinistra milanese. Forse un po' meno corretto sarebbe però considerarle davvero in qualche modo analoghe, schierandosi per un «progetto» o per l'altro senza porsi una questione di metodo, ovvero: c'è un'idea di città, dietro questi slogan-strategie esposti in forma necessariamente semplificata (anche troppo) durante la campagna elettorale? A parere di chi scrive una distinzione, almeno una, sta nella differenza tra piano e progetto delle tre opzioni, ovvero nella capacità di diventare contenitore-animatore-propulsore di molto altro, e riassumere in gran parte politiche pubbliche assai pervasive. Della riapertura dei Navigli fatta propria da Sala già si è detto in lungo e in largo sin dai tempi del referendum cittadino, di come il progetto in sé avesse magari obiettivi condivisibili, ma come senza la contestualizzazione di una sinora improbabile strategia metropolitana e coinvolgendo molti soggetti diversi dall'amministrazione comunale, si riducesse a ben poco (il disastro delle Vie d'Acqua Expo dovrebbe quantomeno suonare da campanello d'allarme). La solidarietà nei servizi ai più bisognosi, virtuosissima pratica messa ampiamente in campo dall'assessorato del candidato Majorino, pur del tutto condivisibile nel merito, pur apprezzabilissima nel mettere al primo posto l'obiettivo dell'eguaglianza e della solidarietà, vistosamente poco si presta a fare da contenitore di politiche locali non di settore. Resta l'ultima, l'ipotesi di parziale gratuità dei trasporti pubblici proposta da Balzani, che più è stata irrisa, messa in discussione nei presupposti minimi, contestata immediatamente dagli «specialisti». Ma che pure, anche alla luce di numerosissimi studi internazionali, ha caratteristiche piuttosto simili a quelle che hanno ispirato ad esempio i ricalcoli del Pil: un'idea di «bilancio» dove si fanno entrare negli equilibri nuovi fattori e attori, dove efficienza ed eguaglianza possono non solo convivere, ma alimentarsi l'una con l'altra. Forse anche i trasporti, come tanti altri settori, sono una cosa troppo importante perché li lasciamo ai trasportisti (f.b.)
La prima parte di un lavoro su Pisa che si propone di seguire i tre passi indispensabili per cambiare le cose che non funzionano come vorremmo: analizzare, denunciare, proporre. Che significa anche sbugiardare i bugiardi e tagliare le unghie ai rapaci. La citta invisibile, rivista online, 11 gennaio 2016
Le aree utilizzabili nel mondo per la produzione di cibo (senza necessità di sistemazioni idrauliche e altre sistemazioni agrarie, e senza irrigazione) coprono circa l’11% delle terre emerse, e sono le stesse che vengono scelte per costruzioni e infrastrutture: così oggi produzione di cibo e consumo di suolo sono in diretta concorrenza, a scapito della produzione di cibo. In particolare nel nostro Paese, che non è in grado di garantire la sicurezza alimentare: siamo in grado di produrre cibo solo per circa l’80% della popolazione italiana e, secondo il Sustainable Europe Research Institute, l’Italia è il 3° paese in Europa e il 5° nel mondo per deficit di suolo agricolo.
A fronte di questi inequivocabili dati, oggi a qualunque livello di governo, si proclama la necessità di fermare il consumo di suolo e bloccare le previsioni di nuove costruzioni. Certo, fatte salve le “dovute, necessarie eccezioni”. Di fatto, i processi economici che spingono ad investire sul mattone e che sono strettamente connessi ad un’economia finanziaria basata sulla rendita, non solo non si sono arrestati, ma in qualche modo si sono esacerbati. Perché, per “rimettere in moto l’economia” si ricorre di fatto ad ulteriore consumo di suolo, in contrasto con i proclami fatti. Quindi, data la gravità del fenomeno, è necessario porsi una domanda: quando si parla di “dovute, necessarie eccezioni” allo stop al consumo di suolo, cosa si sta davvero dicendo?
Pisa: un caso esemplare?
A Pisa abbiamo cercato di capirlo, aggiornando al 2015 i dati della campagna “Riutilizziamo Pisa”che fu condotta per la prima volta nel 2012. La mappa che identifica le aree abbandonate e gli immobili censiti è disponibile a questo link: https://goo.gl/Ws2qIv
Abbiamo trovato dati inquietanti e abbiamo sviluppato degli indici di valutazione i cui risultati non solo non restituiscono l’immagine di una pretestuosa rinascita della città, sbandierata ad ogni possibile occasione dall’amministrazione comunale, ma sono al contrario la prova che Pisa è schiacciata dal peso della speculazione e degli interessi privati. Le politiche del cemento e del consumo di territorio da un lato, e dell’abbandono di decine e decine di edifici pubblici e privati dall’altro, sono andati avanti, diventando via via più aggressive.
Pur trattandosi di una analisi non esaustiva, ma fatta principalmente sulle grandi aree, il primo dato calcolato è impressionante: circa 360mila metri quadrati sono aree abbandonate o parzialmente utilizzate, di cui 239mila completamente abbandonati. Per quanto elevatissimo il dato è sottostimato: andrebbe considerevolmente aumentato se contassimo tutte le aree abbandonate delle zone industriali (capannoni e ex uffici). Inoltre, non sono conteggiati gli alloggi sfitti di proprietà privata; in una città che ha solo circa 89.000 residenti, dal censimento del 2011 emergono 14.633 alloggi statisticamente vuoti, di cui circa 8.500 sono realmente vuoti (o affittati per brevi periodi per turismo – specie sul litorale -, o locati “in nero”) o inagibili da ristrutturare.
Come mai si continuano a prevedere nuove abitazioni quando già così tante in città non sono utilizzate? La variante di monitoraggio del piano regolatore che il Comune di Pisa ha approvato alla fine del 2015 non prevede che minimi tagli alle nuove edificazioni previste, a fronte delle numerose approvazioni di varianti per nuove aree a destinazione edilizia. Mantiene tutte le previsioni di sviluppo e nuovo consumo di suolo nella zona di Ospedaletto. Nonostante si propagandi una politica del recupero degli immobili, di fatto si prevedono una serie di abbattimenti e ricostruzioni, senza immaginare mai un vero e proprio riutilizzo del patrimonio esistente (segue).
Tiziana Nadalutti e Fausto Pascali, Municipio dei Beni Comuni
«Dopo il terremoto del 2009 è ancora il cantiere più grande d’Italia, la ricostruzione prosegue ma la gente se ne va: un terzo delle case dopo il restauro finisce sul mercato. La borghesia è fuggita sulla costa.Il sindaco sogna i turisti ma il rischio è che visitino una Pompei del Duemila». Tomaso Montanari e Corrado Zunino, la Repubblica, 7 gennaio 2016 (m.p.r.)
COSÌ RISORGE LA CITTÀ DI PIETRA.
MA ÈUNA QUINTA SENZA POPOLO
Finalmente all’Aquila si lavora davvero: grazie soprattutto alla pazienza e alla dedizione di Fabrizio Barca (fino al 2013 ministro per la coesione territoriale del Governo Monti, e vero artefice della ripartenza), a sei anni e mezzo dal terremoto la città è un grande cantiere.Un cantiere in cui non mancano, naturalmente, i problemi. La sezione aquilana di Italia Nostra fa giustamente notare che stiamo rischiando di perdere l’occasione per migliorare il tessuto edilizio: per esempio non eliminando i casermoni degli anni Sessanta e Settanta che sfigurano punti importanti della città storica, come le mura. Ed è anche vero che la ricostruzione del patrimonio architettonico non appare sempre condotta a regola d’arte (non c’è un convincente piano del colore delle facciate, tra l’altro).
AAA VENDESI L'AQUILA
di Corrado Zunino
L’Aquila. Affittasi, vendesi, poi affittasi. Il panorama largo dell’Aquila post-terremoto è ancora assediato dalle gru, che svettano sul cantiere più grande d’Italia in questa giornata di pioggia fredda, e la notte s’illuminano per ricordare le Feste. Se si zooma sugli esterni dei palazzi ricostruiti, più spesso demoliti e ricostruiti dalle fondamenta, s’inquadra invece il cartello: “Affittansi studi professionali”. Segue cellulare. L’annuncio è sul cancello che si apre su un cortile a fianco della Basilica di San Bernardino. La locale società Cogepa ha abbattuto e rifatto in cemento armato due palazzetti. I vecchi residenti non ci sono più: la Cogepa, che acquistò nel 1990, ha rilocato alcune stanze a una banca, altre a una palestra.
Una notizia che non dovrebbe muovere solo le donne. Colpito non solo un pricipio costituzionale, ma anche un diritto conquistato con una lotta che è durata un secolo. Da Nathan a Tronca: un abisso. La Repubblica, 6 gennaio 2016, con postilla
Nella Roma pubblica in dissesto anche gli asili nido (0-2 anni) vengono alienati ai privati e le scuole materne (3-6 anni) riconsegnate allo Stato. Ci voleva un commissario, il prefetto Francesco Paolo Tronca, per avviare l’operazione più impopolare, impostata dalla giunta Marino peraltro: diciassette strutture per post-infanti in cinque municipi diversi sono pronte per il passaggio al privato. Tra queste, nomi storici dell’educazione infantile. È scritto nel Documento unico di programmazione comunale (2016-2018). Le liste d’attesa restano inevase, i costi generali necessari per allargare le sezioni degli asili nido — 6,5 milioni — non sono più sostenibili da un’amministrazione che viaggia con 12 miliardi di debito sulla schiena. Già. Il Campidoglio oggi gestisce 209 asili nido in città: ospitano 13mila bambini. Le strutture private e convenzionate (con il Comune) sono 221, maggioritarie quindi, ma con un numero di piccoli inferiore: settemila. Si parte con l’alienazione nell’arco del 2016 dei primi diciassette asili e si proseguirà negli anni successivi con nuove tranche. Il piano Tronca prevede, quindi, una “riconsegna totale” delle materne allo Stato.
A Roma la privatizzazione corre a fianco dell’aumento delle rette comunali, anche questo già previsto dalla giunta Marino: per l’anno scolastico 2016-2017 i canoni saliranno tra il 6 e il 12 per cento, con un aumento medio di 200 euro per famiglia. A ottobre 2014 le mamme di Roma inscenarono la plateale protesta dei passeggini sul piazzale del Campidoglio contro il “caro terzo figlio”, ma non servì a calmierare le rette. Il commissario Tronca non sta cedendo alle critiche dei partiti e dice: «Il progetto va avanti, il Comune risparmia e si creeranno posti di lavoro».
La statalizzazione delle materne comunali e la cessione della gestione dei nidi è storia delle ultime quattro stagioni italiane, riguarda le grandi città del Centro-Nord e gli indebitamenti progressivi dei Comuni gestori. Nella primavera del 2012 Piero Fassino scelse di passare al privato sociale dieci dei 54 asili di proprietà del Comune di Torino e rivendette la decisione come un’illuminata fusione dei servizi pubblico-privati: «Il sistema misto di gestione del welfare a Torino è un gioiello», disse. La verità è che nel 2012 l’amministrazione sforò il patto di stabilità e perse la possibilità di stabilizzare 340 educatrici. Le dirottò sul privato, tutelandole sul piano contrattuale e controllando l’applicazione delle tariffe. E così, nel 2012, quando a Torino si contavano 83 scuole dell’infanzia comunali e 50 statali, iniziò una seconda conversione: quest’anno ne saranno statalizzate altre cinque.
A Bologna gli asili gestiti dal Comune sono il 66 per cento. Palazzo d’Accursio spende ogni anno 38 milioni di euro, le rette coprono solo il 13% dei costi e a settembre 926 bambini (su 2.441) resteranno fuori. A Firenze, la scorsa primavera, altri due asili comunali sono passati alle coop. «Ci mancano 65 insegnanti sulla materna e 31 educatori», si giustificò il sindaco Dario Nardella. Ribellioni di sindacati e genitori per la privatizzazione italiana dei nido si sono registrate a Biella, Teramo, l’altroieri a Perugia. Questa richiesta impellente di posti ed educatori si scontra con la lacuna della Buona scuola che — per mancanza di fondi — ha chiuso le porte all’assunzione dei docenti d’infanzia. Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd e autrice della legge 0-6 anni per la continuità didattica, dice: «Valutiamo la possibilità di finanziare i Comuni e non più le Regioni, consentendo ai nidi pubblici di allargarsi». A giorni sarà pronto il bando del concorso per l’assunzione docenti, che comprende le scuole dell’infanzia. Se non ci sarà preselezione anche a questo livello — come ha chiesto il Pd — i vincitori del nuovo bando entreranno in cattedra nel 2017, mentre il prossimo settembre il ruolo potrebbe andare alle Gae più alte in graduatoria e ai duemila idonei del concorso 2012.
postilla
Segno dei tempi la privatizzazione degli asilie delle scuole per la prima infanzia. Segno della miseria intellettuale e umanache ottenebra le menti dei nostri governanti Ma segno anche dell’incredibile“ritorno al passato” che ne nasconde la maschera rinnovatrice, buona solo pergli stolti.