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Riflessione su alcune ragioni della de-ideologizzazione del PD e della conseguente resa della ex-sinistra all'ideologia TINA (There Is No Alternative), causa principale del prolungato suicidio dell'erede del Pci.

il manifesto, 23 luglio 2013
«Mentalità e corpo del partito lontani dalla rappresentanza sociale del mondo del lavoro, vera discontinuità progettuale per la sinistra - e "cose" nate dal 1991 e la struttura di politici di professione: sono questi i termini che rendono difficile la svolta congressuale»

Nelle ultime settimane, nell'ambito di un intelligente forum del Corriere della Sera, mi hanno colpito queste righe pubblicate in un post: «Ci sentiamo soli anche quando siamo in molti a condividere il destino, ... Siamo indifferenti (...) non ce ne importa più niente delle loro manovre e manovrine, ci hanno spento ogni passione insieme alle speranze ....Maledetti loro, maledetti noi che non abbiamo più un briciolo di forza per reagire, subiamo, abbozziamo, imprechiamo un po' e via andare (...). Non siamo più capaci di fare massa, abbiamo visto tutto quello che c'era da vedere e abbiamo capito che c'è poco o niente da fare. (...)». Sempre sullo stesso giornale, ma in un altro forum, uno dei partecipanti alla discussione dice di sentirsi in uno stato di «disperazione che diventa resa».

Il nesso tra la prevalenza ideologica e pratica del non ci sono alternative allo stato di cose presente e la «disperazione che diventa resa» è del tutto evidente. Quale è stato, quale è, il contributo del Pd alla trasformazione di questa ideologia in senso comune?

Alfredo Reichlin in un recente intervento ha fatto riferimento ad «un grande bagaglio di valori, di bisogni, e di passioni che ancora esiste» e che dovrebbe trovare, proprio nel suo partito, risposte adeguate (l'Unità, 9 luglio). In verità Reichlin non sembra molto ottimista sul fatto che il Pd sia in grado di elaborare una riflessione politica al livello delle domande poste dalla disperazione sociale. Egli sottolinea la «pochezza del (...) dibattito congressuale», pochezza che attiene alla mancanza di «autonomia culturale» del partito, che indica in questi termini: convinzione prevalente «che il mondo non presenta scelte diverse». Nonostante il profondo ed assai ragionevole pessimismo, egli spera in una «vera svolta» al congresso» del Pd, perché è di una vera svolta che c'è «bisogno». Purtroppo nella storia non c'è alcun rapporto determinato tra bisogni e svolte nella direzione indicata da quei bisogni. In particolare nella storia dei subalterni, di coloro la cui disperazione tante volte si è conclusa in una resa.

Una «svolta» in cui, con diverse gradazioni nell'oscillazione tra ottimismo e pessimismo, confidano anche molti degli intervenuti su questo giornale a proposito del dibattito precongressuale del Pd. «Svolta» legata a quello che Asor Rosa ha chiamato «l'anello mancante», cioè il «progetto». Il progetto, appunto, non una generica carta d'intenti, bensì un insieme strutturato capace di coniugare una visione strategica centrata su «l'organizzazione democratica e partecipativa, la difesa degli interessi e del sociale, la rappresentanza del lavoro» e tutti i passaggi intermedi necessari e congruenti omogenei con la strategia. Un progetto che il Pd non ha, dice ancora Asor Rosa, ma che, forse, a seconda degli sforzi e della convinzione di alcune delle forze in quel campo, potrebbe configurarsi come l'esito del congresso. L'alternativa è un Pd «perduto» e «se il Pd è perduto, dovremo lavorare, qualcun altro dovrà lavorare per decenni perché un nuovo processo abbia inizio» (il manifesto 18 giugno).

Sono questioni di grandi rilevanza, di fronte alle quali, però, ci si deve porre qualche interrogativo. Perché quel progetto, finora, è stato del tutto assente dalla elaborazione e dalla pratica politica del Pd? Il Pd ha una storia alle spalle e non solo quella a partire dall'ottobre 2007. La linea della «normalizzazione», che è vero progetto, non è stata soltanto quella che ha interessato i «mesi passati», bensì quella che ha caratterizzato «cose» e Pd nei molti anni passati, a partire dal 1991. L'insistita ricerca del «paese normale» ha rappresentato il filo della continuità capace di dare ragione a scelte politiche supposte contingenti. Senza questo preciso orizzonte culturale e politico non si spiegano i due ultimi governi «costituenti». E quello attuale che, come dice giustamente Asor Rosa, «si delinea come il governo più importante e più decisivo per le nostre sorti dal 1946 ad oggi».

La normalità, secondo il «Grande dizionario della lingua italiana», è «una condizione abituale, consueta e ampiamente accettata e che non presenta alcuna irregolarità, né lascia presagire alcun elemento di imprevisto e di inquietudine». L'«Enciclopedia Einaudi» precisa che nella normalità «non si pende né a destra né a sinistra». Noi «somos reformistas, no de izquierdas», così la carta d'identità del Pd come immediatamente presentata dal suo fondatore.

Che poi la realtà di quel partito sia stata e sia più mossa rispetto alla fotografia inaugurale che ne ha fatto Veltroni è altrettanto vero, ma si tratta di movimenti nell'ambito di una comune mentalità informata ai criteri della «normalità». Come c'insegna Braudel, la mentalità è una struttura, non si modifica sulla base delle scadenze congressuali.

D'altra parte come sarebbe stato possibile partecipare alla definizione degli obbiettivi economico sociali degli ultimi due governi, votare convintamente fiscal pact e costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, senza una larga condivisione dei suddetti criteri di «normalità», che sono quelli della teoria economica mainstream?

Oltre le strutture culturali esistono poi altri elementi strutturali che rendono improbabili mutamenti radicali dei modi di essere di quel partito.

Quando si cercava di comprendere scelte politiche e gestione delle stesse anche attraverso l'analisi delle strutture organizzative atte a sostenerle, una importante rivista di riflessione politico-teorica in cui Asor Rosa (e Tronti) hanno avuto un ruolo di primo piano, pubblicava un'accurata ricerca sul ceto politico del Pci tra compromesso storico e svolta dei primi anni Ottanta («Laboratorio Politico», 2-3, 1982). La ricerca individuava con molta chiarezza le caratteristiche del quadro intermedio che aderisce al Pci nei primissimi anni Settanta e che alla metà del decennio approdava a ruoli dirigenti e professionali anche a livello nazionale. Un blocco di politici di professione sempre più caratterizzato da un'immissione precoce negli apparati e da una carriera tutta interna al partito. E, aggiunge l'autrice del saggio, la sociologa Chiara Sebastiani, «una componente fortemente individuale sembra prevalere sulla formale dedizione al partito; e una identificazione con il partito organizzazione assai più che con il partito classe».

«... tutto mi induceva a credere che il partito avesse subito una sconfitta dalla quale non si sarebbe rialzato. Avevo aderito a un corpo promesso alla vittoria e mi pareva impossibile associarmi a una sconfitta». In questa considerazione di uno dei protagonisti di un romanzo di Paul Nizan del 1938 ci sono motivi di riflessione per spiegare tante scelte fatte a ridosso del «meraviglioso '89» da gran parte di quel tipo di «ceto politico». Il ceto politico intermedio-dirigente del Pd ha portato alle estreme conseguenze le logiche della progressione di carriera, disancorandola dalla rappresentanza sociale. Non conosco studi specifici a proposito, ma solo alcune esperienze che penso si avvicinino molto ad un ideal-tipo.

Un neodeputato e attuale membro della segreteria nazionale del Pd, ad esempio, si è iscritto al PdS alla metà degli anni Novanta in una importante realtà industriale. Era ancora studente e non aveva nessuna esperienza politica. Pochi mesi dopo era già segretario della federazione di quella zona industriale. Da allora la brillante carriera procede rapidamente: consigliere regionale, segretario regionale e via a crescere. Qualche mese fa dichiarava di essere dalemiano, ma di guardare anche «con attenzione e stima a Matteo» (Il Tirreno, 24 maggio). Chi è interessato a conoscere l'evoluzione attuale del nostro potrebbe avere indicazioni essenziali sui meccanismi che muovono davvero le strutture portanti del Pd.

Ora, elemento centrale dell'«anello mancante» dovrebbe essere, tra i molti indicati da Asor Rosa, tutti strettamente legati, quello della rappresentanza sociale del mondo del lavoro. Ma un partito che prenda sul serio una questione del genere deve avere tradizione di legami sociali e di riferimenti culturali di grande spessore. La questione rimanda, infatti, al nodo del rapporto tra la fase attuale della crisi della democrazia e l'attuale fase di accumulazione. Rimanda insomma ad un insieme di strumenti analitici e di comportamenti del tutto contraddittori con la struttura «mentalità» e con la struttura organizzativa del «corpo» del partito.

In un libro molto bello e recentissimo (Racconti dell'errore, Einaudi, 2013), un libro di letteratura creativa che insegna molto a chi fa il mestiere di studioso di storia, Asor Rosa delinea un atteggiamento che nella sostanza è il suo: Il Vecchio «ad onta della sua fama di sbandierato estremismo - presumeva di mettere d'accordo, con grande moderazione, o se preferite, con astuto spirito di compromesso, capra e cavoli». Atteggiamento assai lodevole, comune anche a chi scrive che, del resto, estremista non è mai stato. Credo, però, che in questo caso il salvataggio sia davvero impossibile.

Joe Stack, chi era costui? Cresciuto in un orfanatrofio nel vecchio quartiere industriale di Harrisburg, in Pennsylvania, dove ha visto intorno a sé l'impoverimento di quella che era la «classe operaia privilegiata», ha trascorso una vita travagliata tra debiti e tentativi falliti di autoimprenditorialità. Finché ha espresso il suo odio per il governo e i politici, per il salvataggio delle istituzioni finanziarie, per le multinazionali e le compagnie di assicurazione, in un suo «manifesto», consegnato ai posteri prima di lanciarsi nel febbraio 2010 con un piccolo aereo contro il palazzo dell'agenzia federale delle entrate ad Austin, in Texas. Per Noam Chomsky (intervistato da David Bersamian in Sistemi di potere. Conversazioni sulle nuove sfide globali, Ponte alle Grazie, pp. 185, euro 15) quella di Stack è «un'analisi profonda e convincente della società americana».

Non è facile inquadrare con precisione Chomsky. I suoi riferimenti intellettuali e politici, come bene emerge da queste conversazioni realizzate tra il 2010 e il 2012, vanno cercati soprattutto nella tradizione giuridica della Magna Carta e nell'orizzonte morale dell'illuminismo. Nelle sue analisi c'è tanto Dewey e poco materialismo, più Bakunin che Marx: l'attenzione è rivolta ai lati oscuri dei «sistemi di potere», come recita in modo azzeccato il titolo, mentre il capitalismo è tenuto sullo sfondo. Forse potrebbe essere definito un fustigatore della cattiva coscienza liberal americana, sempre pronto a denunciare l'incoerenza tra gli ideali propugnati dalla società a stelle e strisce e la realtà di oppressione che storicamente ne contraddistingue lo sviluppo. Da questo punto di vista, l'analisi di Chomsky è inequivocabile: a differenza delle altre nazioni, quella americana si ammanta di una missione «trascendente», da imporre con le armi e la conquista. È questa la teologia politica su cui poggia l'imperialismo degli Stati Uniti, a cui nessuno dei diversi governi si è sottratto. Vanno così in pezzi tutti i miti dei liberal americani: da John Kennedy allo stesso George Washington.

Chomsky invita alla prudenza nel parlare di declino americano: concede che ci siano state delle trasformazioni, ammette che si possa parlare di un indebolimento della capacità di attuare una politica egemonica (come il fallimento della guerra in Iraq dimostra), ma vede tutto sommato una continuità nelle forme del dominio imperialista. Insomma, i «sistemi di potere» emergono da queste pagine come immutabili e comunque invincibili.

Sono note le tesi chomskyane sul linguaggio, a cui è dedicato un capitolo specifico delle conversazioni: esiste nel cervello umano una facoltà innata che consente all'essere umano di apprendere il linguaggio, la cui acquisizione è dunque un fattore biologico. Non è questo il luogo per discutere tali tesi; va tuttavia segnalato l'apparente contraddizione tra lo scrupoloso impegno nello studio del linguaggio e il quasi completo disinteresse per la rete e i social media, liquidati come semplici sistemi dottrinari del potere volti a ridurre le persone alla passività e all'atomizzazione. I concetti dovrebbero essere strappati dall'empireo dell'astrazione indeterminata e immersi nella verifica dei processi materiali. Ma qui il discorso riguarderebbe i vizi del ruolo dell'intellettuale sopravvissuti all'esaurimento della sua funzione storica, e ci condurrebbe lontano.

Per restare sul punto, non si può dire che sia la produzione di soggettività al centro degli interessi di Chomsky. Il soggetto è sempre quello che ha in mano le leve del potere, così come la lotta di classe è esclusivamente quella condotta dai padroni. Chomsky è sicuramente attento ai movimenti, come le «primavere arabe» o Occupy Wall Street. E tuttavia, nel rimarcare la sostanziale caducità dei movimenti in termini di durata, Chomsky sottolinea a più riprese come a mancare siano il partito e il sindacato; solo questi possono restaurare un rapporto lineare tra lotte e sviluppo del welfare, come fu negli anni '30 con il New Deal.

Qui forse andrebbe prestata più attenzione a quello che lo stesso Chomsky sostiene in un'altra parte dell'intervista: «Circa la metà della popolazione pensa che tutti quelli che siedono al Congresso, compreso il loro stesso rappresentante, debbano essere mandati a casa. Per questo il centro non regge più». Non serve dunque limitarsi a denunciare le malefatte del potere o i drammatici rischi della fase attuale, ma dobbiamo anche saperne cogliere le potenzialità. Piaccia o meno, da questa scommessa radicale non c'è un fuori. Perciò l'alternativa alla disperazione nichilista di Stack non può che essere il ripensamento di una prospettiva di distruzione del capitalismo, che è un rapporto sociale di produzione e non solo un sistema di potere.

«Molte persone sono sempre più deluse dagli stati-nazione da questo sentimento sta nascendo una reinvenzione dei valori. Si orientano attraverso i social media. Difendono l’ambiente contro le élite e riscriveranno le categorie politiche Il grande sociologo spiega come».

La Repubblica, 17 luglio 2013

Da che parte, a chi guardare per ritrovare la strada della Sinistra, variamente smarrita un po’ in tutto il mondo? Ulrich Beck, il sociologo della “società del rischio”, è da tempo convinto che ogni risposta nazionale ai problemi globali sia destinata a fallire. Vale anche in questo caso. Più che una cassetta degli attrezzi per riparare i partiti progressisti offre un campionario di pratiche, una serie di istantanee da una realtà che sta cambiando più in fretta delle imbolsite élite politiche. Dalla Primavera araba a quella che ha battezzato la Generazione dei Nuovi Colombo, dall’uso strategico delle catastrofi alle “New York svizzere”, scorge embrioni di una nuova Sinistra
post-ideologica, giovane, ambientalista, altamente connessa. Ultima speranza per rivitalizzare quella perdente dei padri.


Professore, cosa significa “sinistra” nell’estate
del 2013?

«Dieci anni fa le avrei risposto che eravamo oltre destra e sinistra. Oggi non ne sono più così sicuro. Nel mondo sono successe così tante cose che credevamo inimmaginabili. Credo che ci sia bisogno di reimparare, reinventare la metafora della sinistra. Abbiamo anche bisogno di un nuovo linguaggio, una nuova fenomenologia di cosa sono oggi destra e sinistra».
Quali valori ha in mente?
«Purtroppo è più facile definirli in negativo che in positivo. Ma proverò. Per cominciare, al posto della solidarietà di classe è subentrato un “individualismo morale”, ovvero un individualismo che, grazie al senso di connessione che ci danno le nuove tecnologie, si sente responsabile per gli altri, una volta percepiti come distanti. Un nuovo individualismo che presuppone una dimensione cosmopolita. Poi un’attenzione ai problemi globali, ma in un modo molto locale e personale, ben diverso dall’agenda degli stati-nazione. Un esempio lampante è quello dell’ambiente, in cima alle preoccupazioni dei giovani di ogni paese. E infine la reinvenzione dello stato sociale su una base transnazionale, nel nostro caso europea. Solo così si possono dare risposte all’insicurezza economica, e
quindi esistenziale, delle nuove generazioni. Nessuna sinistra può dirsi tale senza farsi carico di questi punti».


Di recente si è occupato molto dei movimenti di protesta globali: è lì che bisogna cercare le tracce della nuova sinistra?


Di certo si può dire che molte persone sono sempre più deluse dalla politica degli stati-nazione, quella che si preoccupa delle élite economiche. Ed è da questa delusione che sta nascendo una reinvenzione dei valori di sinistra. Dalla Primavera araba a Istanbul e a Rio, e ora di nuovo al Cairo, la vera posta in gioco è ripensare la natura stessa dello Stato. Un paragone è impossibile, tuttavia vedo caratteristiche comuni. Intanto, ognuna di queste ribellioni non sarebbe
stata possibile senza i social media. E poi sembra più importante il dissenso in sé e l’esperienza di essere coinvolti nella protesta rispetto a richieste
specifiche. Infine ritorna il tema della disfunzionalità della politica e delle sue élite ».

Lei sta parlando di movimenti che potremmo definire in senso lato di sinistra. I partiti però non sono un’altra cosa?


«Certo. È nella natura della protesta che la gente voglia soprattutto il cambiamento. Ma le cose da cambiare sono così tante che serviranno decenni. Nel frattempo sia i partiti di destra che di sinistra si trasformeranno o scompariranno. In sempre più paesi le proteste potranno divampare e poi spegnersi. Il peggior populismo e la destra più estrema potranno prosperare. E la socialdemocrazia potrà passare un lungo periodo in ritirata».
Non esattamente un scenario tranquillizzante.
Ma torniamo a movimenti e partiti...

«Una delle differenze principali è che i partiti sono creature dello stato-nazione.
Mentre la “generazione globale”, quella dei social media, si trova in una situazione simile a quella di Colombo, quando il suo viaggio gli fece incontrare un continente nuovo e imprevisto. Questi Nuovi Colombo stanno esplorando un mondo nuovo, per il quale ancora non esistono né nomi né mappe. È una nuova era di scoperta. E le proteste potrebbero continuare fino a quando la politica stessa non sarà rifondata».

Nell’attesa però i temi classici della “vecchia” sinistra, tipo diseguaglianza economica e lavoro, sono più attuali che mai. Interessano anche ai movimenti della nuova sinistra?

«Certo. Ma hanno scarsissima fiducia nel fatto che i partiti possano prendersi cura dei
loro problemi esistenziali e rappresentare i loro legittimi interessi. Lo si vede bene in Brasile, un paese trasformato in meglio dal partito al potere, dove la disoccupazione è scesa ai minimi storici. Dal quale, ciononostante, si sta alzando un forte grido di dolore dal basso contro uno stato distante e un’élite corrotta».
Il catalogo dei leader progressisti recenti a grandi speranze ha fatto seguire anche delusioni: Blair, Zapatero, per certi versi Obama, ora Hollande. Perché è tanto difficile mantenere promesse di sinistra?
«Tutte queste persone hanno usato mantra simili: più mercato, più tecnologia, più crescita, più flessibilità. Parole d’ordine che non forniscono alcuna rassicurazione nei tempi in cui viviamo. Piuttosto il contrario. Hanno usato mezzi e risposte della politica degli stati-nazione, spesso in una versione neoliberale. Perciò hanno deluso».
E invece i giovani, la sua
Generazione dei Nuovi Colombo, quali parole chiave hanno a cuore?
«Un sondaggio svolto dal centro di ricerca che dirigo mostra che i giovani sono incerti su quasi tutto. Tranne che sulla questione ambientale, che ha per loro un’alta priorità. E qui si realizza un nuovo paradosso della società del rischio che i vecchi partiti sembrano non afferrare, e che chiamerò “catastrofismo illuminante”. Ovvero, drammatizzare il cambiamento climatico e la crisi ambientale non ha altro scopo che evitare la catastrofe. Chi mette in guardia contro di essa lo fa solo per essere smentito. Quest’uso profilattico delle catastrofi future ha creato un nuovo tipo di movimento di protesta, auto-mobilitante, che va oltre le frontiere».


Vede un partito o un leader al quale la sinistra europea dovrebbe guardare per
ispirarsi e tornare a vincere?


«Più che a livello nazionale o globale si possono trovare modelli vincenti al livello di comunità, più precisamente delle città globalizzate. Ero a Basilea di recente e lì è in atto un dibattito eccitante sulle “piccole New York” svizzere. Specialmente Zurigo si è trasformata negli ultimi vent’anni in un posto che detta le tendenze metropolitane. La sua caratteristica è essere un collage di diversi milieu globalizzati. Come a New York queste comunità si sono reinventate in diverse parti della città, con un viavai continuo di nuove facce, storie, tendenze, tipo il giardinaggio urbano o le biciclette a scatto fisso. Sorprendentemente questo ambiente cosmopolita di minoranze ha conquistato una chiara maggioranza nella politica cittadina. Succede lo stesso a Basilea, Berna ma anche a Monaco e Berlino e forse in altre città nel mondo. Qui i problemi sono spesso identificati come globali. Gli abitanti hanno un orientamento cosmopolita. Usano mezzi di comunicazione globali e sono altamente connessi. Da non sottovalutare è che queste piccole New York svizzere hanno un gran successo anche in termini di occupazione. A confronto con realtà del genere le politiche tradizionali sembrano davvero molto passate di moda

«La democrazia italiana è incompiuta. Essendo a disposizione, il suo Stato si fa dispositivo, piattaforma che serve da punto d’appoggio per manovre utili a altri».

La Repubblica, 17 luglio 2013

SIAMO talmente abituati a considerare l’Italia un paese diverso, più sguaiato e uso all’illegalità di altre democrazie, che nella diversità ci siamo installati, e non chiediamo più il perché ma solo il come. Il perché conta invece, è la domanda essenziale se vogliamo capire chi siamo: non una nazione che fa delle leggi le proprie mura di cinta ma un paese immerso nell’anomia, nell’assenza di leggi scritte o non scritte.Di conseguenza, un paese a disposizione. Gli storici forse, o gli antropologi, potrebbero rispondere. Perché siamo una terra dove ben due volte, nell’ultimo decennio, sono stati sequestrati cittadini stranieri con regolari passaporti e deportati con spettacolare violenza nei paesi da cui erano fuggiti per scampare alle torture o alla morte.

Il 17 febbraio 2003 fu il caso dell’imam di Milano, Abu Omar; oggi è toccato a Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov (anche ricercato per frode), e alla figlia di 6 anni Alua: in ambedue le occasioni lo Stato si è inchinato a mafiosi diktat di potenze straniere, sperando che l’affare non venisse mai a galla.
Perché siamo sempre in stato di emergenza, di necessità, sempre in mano a governanti che hanno l’impudenza di dire che non sanno quel che fanno, che sono stati aggirati da poteri interni o esterni incontrollati. Perché la fine della guerra fredda non ci ha resi più liberi di fare un’altra politica ma ci ha ancora più seppelliti nella necessità, imbarbarendoci al punto che un vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, può paragonare il ministro di colore Cécile Kyenge a un orango, senza subito decadere dalla carica che ricopre.

Anche questo è anomia: tutto è permesso ai potenti, quando non hanno nulla da temere.
Siamo abituati a ingoiare ogni misfatto e a ridacchiare di noi stessi: dei politici che ignorano le proprie azioni, di Calderoli che fa la sua «simpatica battuta», del poliziotto che grida alla Shalabayeva battute analoghe («puttana russa»). L’aggettivo simpatico dilaga nel nostro parlare: Thomas Mann se ne accorse e inorridì, descrivendo l’alba del fascismo nella novella Mario e il Mago. Anche il sequestro di Alma e Alua è orrido.

C’è qualcosa di radicalmente marcio in Italia, se davvero crediamo che un’operazione così vasta (40 uomini della pubblica sicurezza mobilitati per l’assalto) sia nata nelle menti di una polizia del tutto sconnessa dal potere politico.
Nella sua inchiesta sulla deportazione di Alma e Alua, Carlo Bonini ricostruisce su Repubblica una storia torbida, che comincia al ministero dell’Interno con un vertice segreto, la mattina del blitz, tra l’ambasciatore kazako Yelemessov, il suo primo consigliere, e il capogabinetto di Alfano, Giuseppe Procaccini. Qui si concorda l’enorme operazione, e la sua natura violenta.

Chi legge l’inchiesta non potrà sottrarsi a sgradevoli reminiscenze: in quelle stesse stanze del Viminale Borsellino, convocato d’urgenza mentre interrogava il pentito Gaspare Mutolo sui patti Stato-mafia, sentì quel che a suo parere aveva precipitato l’assassinio di Falcone, e che 18 giorni dopo avrebbe ucciso anche lui: il «puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».
L’assenza tragica del «fresco profumo della libertà». In quelle stanze non trovò solo il nuovo ministro Mancino. Trovò Contrada, uomo dei Servizi di cui subito intuì la mafiosità.
Quel puzzo di compromesso morale permane. Non abbiamo magari tutte le prove ma lo sappiamo: la democrazia italiana è incompiuta. Essendo a disposizione, il suo Stato si fa dispositivo, piattaforma che serve da punto d’appoggio per manovre utili a altri. Il dispositivo intrappola perfino ministri onesti come Emma Bonino, che seppe subito dell’avvenuto sequestro e forse tentò rimedi: ma troppo tardi, troppo in segreto. Ancora una volta Berlusconi è coinvolto, non direttamente come nel caso Abu Omar ma tramite Alfano.


In uno Stato-piattaforma è ineluttabile il patteggiare sotterraneo con poteri esterni o occulti. La democrazia degenera in finzione, i ministri scaricano le colpe
sulla polizia, o i Servizi, o i capigabinetto. «Non sapevamo », ripetono: in italiano si chiama omertà.
Invece di Alfano s’è dimesso il capogabinetto Procaccini: in stato di necessità i governi non hanno da cadere.

Resta che non basta un gesto, per emendare la democrazia a bassa intensità che siamo diventati.Per riattivare gli anticorpi che ci sveleniscano, e che pure esistono: la Costituzione, i magistrati, i parlamentari liberi, l’informazione indipendente. Non a caso la destra berlusconiana si scatena da anni contro di loro. Li accusa di eversione: non della democrazia, ma dello Stato-dispositivo che domina i cittadini e li depotenzia.
Per questo sono state così importanti, nel 2010, le rivelazioni di Wikileaks sulla deportazione di Abu Omar in Egitto, dove poi fu torturato e spezzato. Grazie a loro fu scoperchiata la completa identità di vedute fra
Berlusconi e il governo Usa, sull’indipendenza dei giudici italiani. In un cablogramma confidenziale del 2005, gli americani si lamentano dei nostri magistrati. «Sono ferocemente indipendenti. Non rispondono ad alcuna autorità governativa, neanche al ministro della Giustizia. È quasi impossibile dissuaderli dall’agire come vogliono»: cioè dal chiedere l’estradizione degli agenti Cia implicati del sequestro dell’imam.
Sotto accusa a quei tempi era Armando Spataro, il procuratore che chiese e infine ottenne la condanna in terzo grado dell’ex direttore del Sismi Pollari e del suo numero due, Marco Mancini. Ma non poté processare gli agenti americani. Il segreto di Stato fu difeso da Berlusconi come dal governo Prodi, l’estradizione venne bloccata. Fu con Enrico Letta, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che l’ambasciatore Usa Ronald Spogli provò a negoziare l’impunità della Cia.
Letta non gli rispose a muso duro, come avrebbe dovuto. Già allora amava rinviare, sopire: mandò Spogli dal ministro della Giustizia Mastella, che solerte obbedì al potente alleato. Lo stesso avviene oggi.

Il Kazakistan è uno Stato torturatore ma ricco di petrolio. Il suo Presidente Nazarbayev gode dell’amicizia di Berlusconi.
Fin dalla guerra fredda il potere politico a Roma ha questa malleabilità, questa inconsistenza. È uno Stato-non Stato, simile alla Grecia pur avendo avuto una Resistenza che non fu estromessa su pressione americana come a Atene (in una guerra civile di tre anni, dal ‘46 al ’49) ma che pesò, dando vita al Comitato di liberazione nazionale e poi alla Costituzione. Ciononostante siamo andati somigliando a quel che la Grecia fu per decenni: una piattaforma militare, uno Stato in cui i cittadini non credono. Non abbiamo avuto i colonnelli, abbiamo gli anticorpi, ma il miasma fiutato da Borsellino resta. I ministri della Repubblica non sanno la verità che ammettono, quando dicono che i misfatti avvengono «a loro insaputa». Ammettono che i governanti sono marionette, che le elezioni sono inutili: altri decidono chi siamo.


Ritrovare il fresco profumo della libertà è compito nostro e dell’Europa, se non vuole essere anche lei un dispositivo. Urgente è mettere in comune i debiti, ma anche la democrazia, le leggi. Manca l’unione bancaria, ma anche una vincolante Costituzione comune: che bandisca le deportazioni di chi trova asilo in terra europea; che dia la cittadinanza agli immigrati nati nell’Unione, perché la «mondializzazione dell’indifferenza » è inevitabile se il diritto del suolo non sostituirà quello del sangue. Una comune legge, infine, dovrebbe vietare ai rappresentanti delle nazioni parole come quelle dette da Calderoli. La politica estera, l’integrazione degli immigrati, il diritto d’asilo non sono a disposizione. Né di signori esterni, né di signori interni che non temono sanzione alcuna, quando imbarbariscono.

Chiesero ad Einstein a quale razza appartenesse, rispose: razza umana. A sentire le gesta di certi italiani si direbbe loro non appartengano a quella razza. E' uno stato normale quello che ha tra gli esponenti figure simili? Una società normale quella che li elegge?

La Repubblica, 15 luglio 2015

ROBERTO Calderoli deve dimettersi dalla vice presidenza del Senato perché chi parla come l’ex ministro non è degno di ricoprire alcuna carica istituzionale, tantomeno una così importante, in un paese civile. Punto e basta. Almeno in questo caso, per favore, non apriamo il solito dibattito da talk show, dove tutti hanno un po’ ragione e un po’ torto. Qui la ragione sta tutta da una parte, il torto dall’altra.

Si dirà, ma qual è la novità? Sono ormai vent’anni che sopportiamo il continuo imbarbarimento del discorso pubblico, la progressiva perdita di dignità culturale della politica, archiviando ogni passo verso il baratro dell’intolleranza come occasionale “gaffe”, prontamente seguita da svogliate, ipocrite scuse. Il risultato concreto di questo vecchio che avanza è l’aver ridotto a pezzi l’immagine dell’Italia agli occhi del mondo, l’infelice laboratorio di una regressione collettiva. Allora, che cosa cambia una in più o in meno? Il fatto è che esistono punti di non ritorno e questo dell’offesa di Calderoli al ministro Cécilie Kyenge segnala esattamente questo.

Sarebbe un tragico errore considerare la vicenda come un episodio isolato, per quanto deplorevole, o peggio una semplice voce dal sfuggita. Da un lato l’offesa di Calderoli è il precipitato di un ventennio di sotto cultura politica. Dall’altro, collegato agli altri fatti di questi giorni, annuncia il definito assalto agli ultimi baluardi di opinione pubblica democratica sopravvissuti nel nostro Paese.

Proviamo a guardarci un istante con lo sguardo degli altri. Siamo una nazione finita nelle prime pagine dei giornali stranieri, soltanto nell’ultima settimana, per queste tre notizie. Abbiamo bloccato i lavori del Parlamento in polemica contro una (forse) imminente condanna definitiva di un leader politico per evasione fiscale. Seconda notizia, abbiamo espulso e consegnato nelle mani di un regime dittatoriale in qualche modo amico, o meglio amico degli amici, una donna e una bambina colpevoli soltanto di essere moglie e figlia di un dissidente. Terza notizia, il vice presidente del Senato della Repubblica ha “scherzosamente” definito “un orango” una donna nera che è ministro del governo. Non stiamo a far paragoni con nazioni di superiore civiltà e quindi non staremo a raccontare che cosa sarebbe successo negli Stati Uniti se un vice presidente del senato americano avesse definito “un orango” Condoleeza Rice. Ora, che cosa si può e si deve pensare di un paese in cui tutto questo passa in prescrizione in una sola settimana, senza alcuna assunzione di responsabilità da parte di nessuno, senza conseguenze, confuso nel grigio pietrisco della cronaca quotidiana?

Enrico Letta ha fatto bene a rivolgersi a Roberto Maroni per chiedere le dimissioni di Calderoli. Se Maroni fosse un vero leader politico, invece che un semplice erede, ne coglierebbe l’opportunità istituzionale, politica e personale. Istituzionale perché il presidente della Regione Lombardia è uno dei principali registi dell’Expo 2015, un evento ad alto rischio, il cui (improbabile) successo è legato all’afflusso di “orango” e “bingo bongo” dai paesi emergenti dell’ex Terzo Mondo, dall’Africa, dall’Asia, dal Sud America. Visto che un massiccio arrivo a Milano 2015 di milioni di visitatori californiani o tedeschi o scandinavi, ansiosi di scoprire le novità tecnologiche del-l’Italia è, per usare un eufemismo, piuttosto incerto. Politico e personale perché se davvero la Lega, dismessa la bandiera pur nobile del federalismo, è ormai ridotta a sventolare lo straccio lurido del razzismo, allora non le serve un leader azzimato come Bobo Maroni. È molto più adatto uno dei dobermann addestrati alla caccia allo straniero.

Naturalmente, Maroni tutto questo non lo capirà. L’ha già dimostrato, anzi. A non capire le cose è infatti rapidissimo. Neppure il più acuto Enrico Letta sembra comprendere che la difesa del suo vice Alfano è insostenibile davanti agli elettori del Pd. Quello che si scrive è dunque inutile, ma noi continueremo a farlo. Perché almeno, come diceva il titolo di un vecchio giornale satirico, possiamo vergognarci per loro.

Non perdete l'intervista a un grande intellettuale dei nostri anni. Antigone e Creonte, Dostoiewskij e Tolstoi, legge e giustizia, le varie facce della natura umana. E un pensiero-guida: «La verità esiste, nessuno la può afferrare completamente e però esistendo, non è insensato cercarla».

La Repubblica, 14 luglio 2013

L’appuntamento con Gustavo Zagrebelsky è nella nuova università torinese che accoglie Giurisprudenza e Scienze politiche. Il campus, dedicato a Luigi Einaudi, ha un’aria sinuosa e trasparente. Colpisce il tetto che sembra l’enorme guscio di una tartaruga. Il professore mi attende all’ingresso. Non c’è nulla di formale, come ci si aspetterebbe da un grande giurista. Noto che tra le mani stringe un libro: una raccolta di saggi dedicata al Grande Inquisitore. Mi informa che sull’argomento sta preparando un libro e che della tantissime interpretazioni che sono state offerte delle pagine di Dostoevskij quella che lo ha maggiormente convinto è del teologo Dietrich Bonhoeffer. Penso alla sua morte avvenuta in un campo di concentramento nazista per impiccagione. E al fatto che lì, in quell’aprile del 1945, l’inquisitore prese il volto di un tiranno folle e crudele che ne decretò la condanna a morte.

Questa sua predilezione per Dostoevskij da cosa nasce?
«Dal senso di inquietudine e di confessione che attraversa i suoi romanzi. Più mi addentro nei suoi personaggi e più resto turbato dall’impasto di abiezione e salvazione che essi restituiscono».

È la duplicità della natura umana.
«Che non trovo per esempio in Tolstoj, il quale ci regala dei bellissimi monumenti classici, mentre in Dostoevskij si avverte un tormento continuo. Non credo sia secondario che egli scrivesse sotto l’assillo dei debiti».

Detto da un giurista è curioso.
«Perché? Dostoevskij era attento non tanto alle dottrine generali ma alla condizione umana; seguiva i processi e descriveva i comportamenti degli avvocati, degli imputati e dei giudici. Anche un giurista non può ignorare la vita delle persone».

Non dovrebbe occuparsi di norme generali e astratte?
«Certo, ma il diritto giusto non esiste in assoluto. Il suo dramma è che la norma pura e semplice può agire con violenza sulla condizione particolare, ma al tempo stesso la singolarità delle situazioni può distruggere la norma».

E allora?
«La discussione resta aperta. Pascal diceva che alla legge si ubbidisce perché è legge».

E se la legge è ingiusta?
«Se si introduce un elemento di valutazione di giustizia il rischio è la distruzione dell’ordine, perché ciascuno può dire: la legge è ingiusta e io non obbedisco. È una vecchia questione».

Talmente antica da risalire ad Antigone?
«Quella tragedia è una delle grandi fonti di ispirazione del diritto. Antigone ne rappresenta il lato tradizionale, il sangue, il genos, gli dèi; mentre Creonte è la legge modernizzatrice e artificiale. Credo ci sia bisogno di entrambi gli aspetti. Se uno dei due si libera dell’altro, il diritto può diventare uno strumento pericoloso. Il compito del giurista si svolge lì in mezzo».

Per fare esattamente cosa?
«Per difendere la duplicità. Mi sono formato in questa università e la mia impostazione era forgiata sui principi di Hans Kelsen. Mi sembrava un sistema perfetto. Ma le norme possono essere equivoche. Interpretabili. Ed ecco allora il bisogno di andare oltre Kelsen».

E quindi oltre Bobbio?
«Bobbio fu un pilastro di questa università e vide in Kelsen
di riferimento fondamentale. Ma lui, che si definiva positivista aggiungeva che era un positivista inquieto».

È stato uno dei suoi maestri?
«È stato un mio professore ammiratissimo e ricordo che le sue lezioni erano belle anche esteticamente. Però il mio vero maestro fu Leopoldo Elia, che insegnava diritto costituzionale».

Perché ha scelto il mondo del diritto?

«Mi piacerebbe risponderle: per convinzione e decisione. In realtà fu per caso. L’iscrizione a giurisprudenza avvenne perché ritenevo fosse una facoltà non molto complicata e in grado di aprire molte strade. Mio padre voleva che prendessi ingegneria. Mi portò da un suo amico, un celebre fisico russo che abitava a Torino e si chiamava Gleb Wataghin. Aveva fatto costruire nel suo laboratorio un acceleratore di particelle. Era un ometto vulcanico. Davanti a quell’acceleratore restai muto. Non sapevo cosa chiedere. E Wataghin disse a mio padre: tutto, ma non la fisica!».

Il caso ha governato spesso la sua vita?
«Quasi sempre. È incredibile come io mi sia inserito nelle situazioni senza nessun particolare progetto. Devo aggiungere che ho avuto una vita professionale molto fortunata. E mi considero un uomo libero che, con un certo tormento, si illude di fare al momento la cosa giusta».

E quali sono i suoi tormenti?
«Non essere abbastanza chiaro in quel che dico o scrivo. Poi ci sono i tormenti più personali. A me pesa moltissimo per esempio dire qualcosa che possa dispiacere a qualcuno col quale ho un buon rapporto. E questo tanto più, in quanto viviamo in un tempo in cui la gente si offende facilmente. Davanti a certe reazioni anch’io, a volte, non so trattenermi».

Nel senso?
«Contrariamente a quello che si vede sono un iracondo. Però cerco di tenere sotto controllo gli scoppi d’ira. Ritrovo in me molto di mio padre. L’ira, insieme alla vodka e al gioco, è una caratteristica del popolo russo».

Lei ha origini russe?
«La mia famiglia proveniva da San Pietroburgo. I miei nonni erano in vacanza a Nizza nel 1914 quando scoppiò la guerra e furono chiuse le frontiere. Mio padre era nato nel 1909, quindi all’epoca era un bambino. Poi, quando ci fu la rivoluzione in Russia il nonno, che era ufficiale a Mosca, riuscì a rientrare. Di lui per anni non avemmo più notizie. Salvo poi ricomparire con nostra sorpresa. Il regime sovietico lo espulse come persona inutile e non gradita».

Suo padre che faceva?
«Per dare una mano alla famiglia all’inizio fece il garzone di un ciabattino. Poi nella comunità russa di Nizza ci fu una spaccatura. Noi emigrammo a San Remo. Circolava in famiglia la storiella che la nonna era convinta di aver trovato il sistema per sbancare il casinò. Naturalmente dilapidò quel poco di gioielli che ci era rimasto. Mio padre, al quale non mancavano le risorse, si mantenne agli studi di Economia e Commercio con una serie di lavoretti, tra cui la composizione di brevi racconti che spediva al Corriere mercantile di Genova, spacciandoli come novelline di Gogol da lui tradotte».

Iracondo e intraprendente
«Era dotato di quel fascino russo che ha quasi sempre un fondo dissipativo. Di lui, una specie di gagà senza un soldo, si innamorò perdutamente mia madre, una valdese che veniva dalla Val Chisone».

Che cos'è l'ira?
«Spinoza la mette tra le passioni tristi. Per dirla con il mio amato Dostoevskij è la prova che il nostro impasto è fatto di cose belle e pessime».

Un giurista non dovrebbe misurarsi più con Kafka che con Dostoevskij?
«Non dimentichi le mie origini. In entrambi troviamo l’angoscia, l’assurdo, il nulla, la spersonificazione. Ma mentre in Kafka sembra esserci la resa, in Dostoevskij c’è la resistenza. Kafka è già precipitato; Dostoevskij è sul crinale dell’abisso. Uno parla di una società minacciata dal nulla l’altro di una società vinta dal nulla. Come giurista mi interessa più Dostoevskij».

Forse anche per la drammatizzazione del problema di Dio. Si nota in lei un interesse per i testi biblici.
«In effetti, ho una certa propensione. Ho perfino dedicato tre anni, nel tempo libero dall’attività alla Corte Costituzionale, alla traduzione di un grande testo di Chaim Cohn che ha studiato i resoconti evangelici dal punto di vista ebraico. Mi è servito come esercizio d’autodisciplina per resistere alla tentazione di trasformarmi in giurista tutto di un pezzo».
Anche interessarsi di democrazia è un modo per uscire dallo specialismo giuridico?
«Un giurista non ha solo la legge di cui occuparsi. Un tempo si poteva teorizzare la democrazia come il miglior modo di convivenza, adesso si rischia di dire le stesse cose dando l’impressione di fare una predica».

Evitando la predica, c’è un aspetto della democrazia al quale non possiamo rinunciare?
«Credo che la sua essenza consista nell’allontanare giorno dopo giorno il momento dei coltelli. Parlando, discutendo, confrontandosi e anche confliggendo sugli interessi ma sempre fermandosi un attimo prima che si sfoderino i pugnali. Perciò abrogare l’idea di democrazia significa legittimare il sopruso».

Vent’anni fa non si sarebbe posto il problema in questi termini.
«Non ne sarei così sicuro. È un paese il nostro che non ha quasi mai saputo discutere».

Viviamo nell'età del disprezzo?
«Siamo passati dall’ammirazione per il potere all’invidia e alla conseguente frustrazione. Oggi non si invidia più ma si disprezza. La società si è divisa tra i molti che disprezzano e i pochi che sono disprezzati».

Chi sono i pochi?
«Sono le oligarchie che un tempo erano nascoste e oggi sono percepite come tali».

Ovvero gli inammissibili privilegi di cui ancora godono?
«Sono mondi — finanziari e politici — chiusi all’esterno e molto litigiosi al loro interno. Da qui ne consegue quello che per me è diventato il chiodo fisso: aprire il mondo dei piccoli numeri ai grandi numeri, immettere energie sociali nuove in questo mondo chiuso ».

La democrazia è ancora dubbio?
«Mi ribello all’idea che chi professa l’etica del dubbio sia un nichilista ».

Magari è solo un relativista
«Non trovo sia un insulto, se relativismo significa atteggiamento non dogmatico e pluralistico, non sia cioè l’alternativa secca tra vero e falso, amico e nemico. L’etica del dubbio si fonda sulla premessa che la verità esiste ma che nessuno la può afferrare completamente e che però esistendo non è insensato cercarla».

Un atto di fede
«No, una dimensione terza che un tempo era Dio, poi lo Stato. Oggi quel terzo dobbiamo crearlo dal basso».

Sembra affiorare l'anima russa
«Non mi dispiacerebbe. Provengo da una famiglia con una lunga storia alle spalle. Noi, i figli, sappiamo poco anche di quella che, poi, è stata la vita di esuli, tra la Costa Azzurra e la riviera ligure. Sembra quasi che volutamente si sia steso un velo di oblio su vicende dolorose che sarebbe stato molto interessante cercare di riportare alla luce. In fondo, si è trattato d’una sia pur piccola scheggia di una grande storia europea».

E cosa le fa venire in mente?
«Penso a nostro padre che riposa vicino a nostra madre nel piccolo cimitero di San Germano Chisone, in terra valdese. Chi si aspetterebbe mai di trovare lì, su una lapide, la croce ortodossa? Quante vicende, traversie, dolori, sradicamenti e nuovi radicamenti; quanta storia!».

Quando dice figli pensa a sè e a suo fratello?
«In realtà siamo in tre. Io, quello che una volta si diceva «il più piccolo». Poi, Vladimiro, giurista anche lui, di tre anni più vecchio di me. Il più grande di tutti è Pierpaolo, non giurista, che ci protegge».

Da cosa?
«Dall’ipertrofia giuridica».

«L'Unità, 13 luglio 2013

La lettura politica di un’enciclica non è opportuna. Opportune sono altre letture: teologica, pastorale, ecclesiale. E, per rispetto, è bene lasciare queste letture a chi di dovere. E tuttavia un politico pensante sarebbe bene che dedicasse qualche ora del suo tempo ad attraversare questa sapienza mondana che viene da un altro mondo. C’è molto da imparare. Discorso religioso e discorso politico non si intrecciano soltanto fuori dell’Occidente secolarizzato. Stanno anche qui da noi, insieme, solo in modi diversi, per diverse ragioni, con diversa intensità. In Italia, poi, c’è una storia che pesa, antica e moderna, che impone larghi tratti di lingua comune. Il dibattito pubblico, dall’intreccio dei discorsi, ha tutto da guadagnare, per sollevare il suo livello, per corrispondere sempre più da vicino nella vita delle persone. Lumen fidei ci interroga. Disporsi all’ascolto è il primo passo. Impegnarsi nella risposta, è il secondo. Il terzo, fondamentale, è l’assunzione del problema. E il problema è il senso della fede in un mondo che, siccome non crede più nelle cose grandi, finisce per credere solo alle cose futili. È singolare questo testo. Le quattro mani, dei due Papi, si sentono. La vedo così: la speranza di Bergoglio viene ad aggiungersi alla disperazione di Ratzinger. L’incredulità sfocia nell’idolatria, «l’opposto della fede». E c’è idolatria secondo la definizione che Martin Buber riprende dal rabbino Koch «quando un volto si rivolge riverente a un volto che non è un volto». L’altra faccia dell’incredulità è l’indifferenza. Papa Francesco va a Lampedusa a denunciare quella «globalizzazione dell’indifferenza», dove «l’illusione del futile, del provvisorio» nasconde la tragedia del nostro tempo, che, tutte, sono a carico dei dannati della Terra.

Ma la mano di Papa Benedetto è dominante. Chi ha voluto l’Anno delle fede pensava già di concluderlo con questa riflessione a tutto campo. Dal giovane Nietzsche a Wittgenstein, tra Paolo e Agostino, lo spostamento è da fides et ratio a fides atque veritas. Credere non è il contrario di cercare, è la sua vera condizione. Bisogna sapere che cosa si cerca. La critica al relativismo viene presa da un’altra parte, da una orizzonte di fede, il solo in grado di dare luce. Chi crede, vede. E il vedere credendo è un cammino, una via, anzi un viaggio. Ecco però il punto essenziale: non in solitudine, ma in comunità. È impossibile credere da soli. E chi crede non è mai solo. Chi crede da solo si illude, e rimane vittima delle illusioni del mondo. Perché è «la crisi di verità», il contestostorico in cui viviamo, quello in cui ci fanno vivere. Qui è «il grande oblio nel mondo contemporaneo».

La critica dell’individualismo dominante nel tempo presente è il filo che lega il teologo Ratzinger al pastore Bergoglio. Diventa indifferente a chi dei due vada attribuita la frase: «La fede non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva, ma nasce da un ascolto ed è destinata a pronunciarsi e a diventare annuncio». Fede e verità significa questo: il doppio senso in cui si può dire il detto di Isaia. Nella versione greca: se non credete, non comprenderete. Nella versione ebraica: se non credete, non resterete saldi. Comprendere, con la ragione, vuole dire stare saldi, nella fede. Allora la verità grande è «la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale».

Di qui, il bellissimo concetto di «esistenza credente». Io credo questo, oggi, l’unica figura di esistenza veramente libera. Perché il credere a niente porta al credere a tutto. E questa è l’oppressione moderna, la dittatura occidentale, garantita dai diritti, praticata dai comandi, visto che nessun’altra forma di convivenza è possibile, oltre a questa che ci è data. Se la fede è «toccare con il cuore», come dice Agostino, e come sta praticando Bergoglio, allora c’è da introdurre, nel mondo così com’è, la passione di un altro futuro, per le persone, per la società. Mi piacerebbe trovare in un documento congressuale l’audacia e la forza che trovo in una indicazione di questa Enciclica: «Trasformare il mondo, illuminare il tempo».

Un truce episodio di negazione dei diritti umani, sotto l'ombrello delle larghe intese. Odor di petrolio e l'ombra del Cavaliere, sussurra la stampa del giorno. Ecco, intanto. come sono andati i fatti. La Repubblica, 13 luglio 2012

COME è stato possibile? Chi lo ha reso possibile? E perché? Repubblica ha avuto accesso ai documenti amministrativi e giudiziari del caso Ablyazov. Ha raccolto le testimonianze di chi ha avuto parte diretta in questa vicenda.

SONO dodici diverse fonti - inquirenti, legali, ministeriali e di polizia - che consentono una prima ricostruzione di dettaglio di quanto accaduto tra la mattina del 27 maggio e la sera del 31, quando, all’aeroporto di Ciampino, Alma Shalabayeva, moglie del dissidente, sale insieme alla figlia Alua sulla scaletta dell’aereo che l’indomani mattina la riporterà ad Astana.

28 Maggio. Kazaki in Questura
l 28 maggio, dunque. La storia comincia da qui. Quel martedì mattina, i due kazaki che si presentano in Questura nell’ufficio del capo della Squadra Mobile Renato Cortese, non stanno nella pelle. Sono Andrian Yelemessov, l’ambasciatore in Italia, e il suo primo consigliere Nurlan Zhalgasbayev. L’agenzia privata di investigazioni Syra, che ha i suoi uffici a Roma, per un compenso di cinquemila euro, ha individuato per conto del Regime di Astana la casa in via di Casal Palocco 3 dove si rifugerebbe il dissidente Mukhtar Ablyazov. I kazaki prospettano a Cortese “un colpaccio”. L’arresto di un uomo che dipingono come un pezzo da 90. «Tra i più pericolosi ricercati dall’Interpol». I due, per suonare ancora più convincenti, agitano pezzi di carta che vendono come proprie informazioni di intelligence e polizia e che dipingono l’uomo come «pericolosissimo ». Abituato «a girare armato ».«Fiancheggiatore e finanziatore del terrorismo». Cortese non sa chi diavolo sia Ablyazov. Spiega ai kazaki che nel nostro Paese si può arrestare qualcuno in forza di un provvedimento legittimo. Non di una soffiata. Consulta la banca dati della Polizia in cui quel nome non compare. Una ricerca internet potrebbe dire qualcosa di più su colui che, dal 2001, ha assunto il ruolo di oppositore del presidente Nazarbaev. Ma il Capo della Mobile, su insistenza dei kazaki, chiama la nostra divisione Interpol al Viminale. Il funzionario dall’altro capo del telefono lo conforta. Nella loro banca dati, quel Mukhtar «ha il bollino rosso». Sulla sua testa, pende un mandato di cattura internazionale kazako per appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato. E la telefonata deve confortare Cortese se è vero che, nel pomeriggio, proprio dall’ufficio Interpol arriva un fax che certifica e sollecita alla Mobile l’ordine di cattura internazionale. Del suo status di rifugiato politico ottenuto a Londra non una sola menzione. La circostanza non è burocraticamente presente nella banca dati dell’Interpol, dunque «non esiste».

Kazaki al Viminale

La solerzia dell’Interpol e il repentino via libera dato a Cortese hanno una ragione. Il pomeriggio del 28, l’ambasciatore kazako e il suo primo consigliere salgono anche i gradini del Viminale e vengono ricevuti da un alto dirigente del Dipartimento di Pubblica sicurezza, di fronte al quale ripetono il siparietto della Questura. E devono suonare convincenti, perché vengono rassicurati sul fatto che il blitz ci sarà. Ad horas. Chi è il dirigente? Informa il ministro Angelino Alfano? Fonti qualificate del Viminale, proteggendone l’identità, spiegano che «il nome del dirigente è oggetto dell’inchiesta interna disposta dal ministro». «Anche perché - aggiungono le stesse fonti - quel dirigente non ritiene di dover informare il ministro, né prima, né dopo, della visita e della richiesta dei diplomatici kazaki».

28-29 maggio. In 30 per il Blitz
E’ un fatto che la richiesta kazaka viene cotta e mangiata. Nella notte tra il 28 e il 29, dopo un rapido sopralluogo in via di Casalpalocco 3, una grande villa con giardino protetta da un muro di recinzione alto 2 metri, una trentina di poliziotti della squadra mobile, cui vengono aggregati anche agenti della Digos, fa irruzione.
La visita non è di quelle in guanti bianchi. Mukhtar Ablyazov non c’è. Perché in casa, insieme alla moglie Alma e alla piccola figlia Alua, c’è un solo uomo, Bolat Seraliyev, il cognato del “Grande Ricercato”. Viene malmenato fino a fargli sanguinare il naso (o almeno così certificherà il pronto soccorso) e insieme alla sorella Alma finisce in una cella dell’Ufficio Immigrazione. Mentre nei borsoni della mobile finisce quanto sequestrato nella villa: 50 mila euro, dei gioielli, una scheda di memoria su cui è una foto digitale di Mukhtar che porta la data del 25 maggio.

Il passaporto diplomatico. La Farnesina

Alle 7.30 del mattino del 30 maggio, Alma Ablyazov è «una pratica ordinaria» sul tavolo del direttore dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta. E come tale viene trattata. Burocratica-macinata come le altre 7 mila espulsioni che ogni anno questo ufficio “evade”. La donna racconta di essere rimasta 15 ore senza bere o mangiare. Di non aver avuto accesso a interpreti in grado di spiegare la sua condizione. Va meglio al fratello Bolat che, accompagnato dai poliziotti nella villa di Casalpalocco, ne torna con un permesso di soggiorno rilasciato in Lettonia che lo rende legale nell’area Schengen. Anche Alma ne avrebbe uno identico. Ma non lo mostra, né dice di averlo. Consegna piuttosto alla polizia un passaporto diplomatico della Repubblica Centroafricana. Il documento viene spedito per accertamenti al “Centro falsi documentali” della Polizia di Fiumicino e, il pomeriggio del 30, l’esito è che si tratta di un «falso».

L’Ufficio Immigrazione contatta la Farnesina. E anche qui, la burocrazia cade dal pero. Nemmeno al nostro ministero degli Esteri sanno che quella donna è la moglie di un dissidente kazako. Sanno solo che, qualche anno prima, è stata proposta console onorario del Burundi in Italia. Nomina che non ha avuto corso. Ma dello status diplomatico della donna non c’è traccia. Insomma, per quanto li riguarda e dunque per la polizia ce ne è abbastanza per espellerla.

Errori materiali. Un solo dubbio

Il 30 pomeriggio, mentre Alma riesce a incontrare per la prima volta gli avvocati dello studio Vassalli- Olivo, incaricati della sua difesa da uno studio di corrispondenza di Ginevra, il suo destino è già segnato. Il prefetto di Roma Pecoraro vista il decreto di espulsione predisposto dall’Ufficio immigrazione. E poco importa che contenga un paio di significativi errori materiali. Che, nel prestampato, sia rimasta barrata la casella dei precedenti penali (che Alma non ha). E che la donna risulti “già entrata clandestinamente in Italia” nel 2004 dal Brennero (in realtà la segnalazione di polizia riguarda un suo arrivo ad Olbia insieme al marito per una vacanza). Alla vigilia dell’udienza del giudice di Pace che deve decidere dell’espulsione, il pm Eugenio Abbamonte e il Procuratore Giuseppe Pignatone, sollecitati dagli avvocati dello studio Vassalli che prefigurano le ricadute “umanitarie” di quell’espulsione, chiedono all’Ufficio Immigrazione un supplemento di documenti. Che arriva ed è sufficiente al loro nulla-osta.

La sera del 31, «tutte le carte sono a posto», secondo la regola aurea che muove la burocrazia italiana e la libera da ogni responsabilità. Alma Shalabayeva viene consegnata insieme a sua figlia alle autorità kazake all’aeroporto di Ciampino. Il Paese è precipitato in un affaire internazionale di evidente gravità. Ma nessuno sembra saperlo.
L'interessante anticipazione di parte del dialogo sul tema “Democrazia e oligarchie” che si terrà lunedì 8 luglio all’Archiginnasio di Bologna (vedi in calce).
 Singolare convergenza di diagnosi e terapia tra due intellettuali molto diversi, ma entrambi "radicali", che guardano cioè alla radice delle cose.

La Repubblica, 6 luglio 2013

GustavoZagrebelsky


Nell’ultima pagina dell’Intervista 
sul potere,
a cura di Antonio Carioti, tu fai cenno al ritorno alla prevalenza delle oligarchie, dopo due secoli di lotte democratiche, come un problema molto grave del mondo in cui viviamo.
Mi piacerebbe partire da qui per questo nostro dialogo, di cui il tuo libro-intervista costituisce l’occasione. Anche a me sembra che questa sia la questione politica principale del nostro tempo. Qui c’è forse la chiave per comprendere l’incomprensibile, a iniziare dalla fine della politica e dal trionfo della tecnica, che nasconde alla vista il potere, le sue forme, i suoi attori. In un recente saggio apparso su 
Micromega,
ho definito l’oligarchia come il regime della disuguaglianza, del privilegio, del potere nascosto e irresponsabile, cioè del governo concentrato tra i pochi che si difendono dal cambiamento: sempre gli stessi che si riproducono per connivenze, clientele.

Le forme della democrazia vacillano, ma non sono travolte. La sostanza, però, sta andando perduta. Questo mi pare il tempo dell’ipocrisia democratica, addirittura su scala mondiale.
Questa valutazione non nega quella che Michels definì la “legge ferrea delle oligarchie”. Non si può non convenire che gruppi dirigenti 
esistono sempre e hanno un ruolo decisivo nei partiti così come negli Stati democratici di ogni tipo. Ma c’è una differenza tra 
élites
 aperte al ricambio e controllate da contropoteri forti come la magistratura indipendente e la libera stampa, e oligarchie chiuse.
Nell’intervista tu fai riferimento a un ritorno ai caratteri “primordiali” delle antiche oligarchie, fondate innanzitutto su ricchezza e discendenza aristocratica: in che modo si manifesta secondo te questo ritorno?


Luciano Canfora


Penso soprattutto a fenomeni macroscopici e istruttivi al tempo stesso. Facciamo un esempio. Il Presidente degli Stati Uniti viene eletto (e sia pure da una minoranza degli aventi diritto, dato l’assenteismo patologico dell’elettorato statunitense) ma le decisioni fondamentali le prendono altri: forze decisive e retrosceniche che possono in fondo infischiarsene dei riti elettorali. Ai fini dell’egemonia politico-militare è necessario un disinvolto e illegale spionaggio informatico? Il Presidente forse ne ignora persino l’esistenza, ma esso viene praticato, da chi ne ha il potere, senza scrupoli anche a costo di gravi crisi con i cosiddetti alleati europei non meno che con gli antagonisti russi o cinesi. Il Presidente predica contro il fiorente e libero commercio delle armi, i cui effetti sono atroci? Ma la potentissima lobby dei produttori di armi paralizza ogni decisione in proposito. Questa è la sostanza della macrorealtà americana, questo è, via via, il modello che si afferma per ogni dove.


Michels aveva intuito una “legge” ma la realtà da lui studiata era 
piccola cosa rispetto a quella inquietante e brutale che è sotto i nostri occhi. L’analisi di Michels e dei suoi maestri elitisti si riferiva a formazioni politiche ottocentesche o protonovecentesche come i partiti politici o più in generale la classe politica. Il problema è che essa è stata soppiantata nel suo ruolo, pur restando al suo posto, da forze di ben altra dinamicità, consistenza e potenza, totalmente sottratte al “gioco” elettorale o alla “verifica”
popolare.
Sono queste le nuove oligarchie. L’imperativo del momento è riuscire a squadernarne la natura e la dominanza: prima di tentare di combatterle. Ci vorrebbe un nuovo Marx, capace di studiare il potere economico-finanziario del tempo presente e del prossimo venturo!
 Purtroppo per ora ci dobbiamo accontentare dei talmudisti (invero sempre meno numerosi), protesi alla chiosa del Marx “antico”, laddove la realtà che ci sta di fronte e ci sovrasta domanda ormai di essere “disvelata” sin dalla radice. E senza la compiacente e reticente benevolenza dei “tecnici”, competenti certo, e però complici dei nuovi poteri che reggono le fila degli organismi decisivi.

Platone aveva sognato, nei libri centrali della
Repubblica,
che al vertice dello “Stato ideale” giungessero dei “filosofi-reggitori”, assurti con ascetica dedizione alla comprensione e contemplazione del sommo bene e del giusto e perciò legittimati a governare tutti gli altri. Al posto dei filosofi-reggitori, il nostro onnipotente, ricco e armatissimo «primo mondo» ha collocato i grandi conoscitori protagonisti della finanza. Essi sanno quello che vogliono, ma è
da temere che non vogliano né il sommo bene né la giustizia.
Dunque la domanda da porsi, per intanto (poiché non è possibile attendere inerti e passivamente l’avvento del nuovo “grande analista” della modernità) è la seguente:
in una situazione di questo genere quale possibilità vi è di riappropriarsi, come cittadini comuni, del potere di poter contare?


Gustavo Zagrebelsky


Parli di “forze retrosceniche”. Sono sempre esistite. Che la politica “sulla scena” delle istituzioni sia una messinscena per distogliere gli occhi del pubblico dalla realtà del potere (che “sta nel nucleo più profondo del segreto”, ha scritto Elias Canetti) è un’idea realistica. Un tempo, il retroscena era visto come il luogo dell’oscurità, degli intrighi, dei complotti, delle cose indicibili: tutte cose negative,
da combattere in pubblico, attraverso istituzioni veritiere. Pensiamo, per esempio, alla 'glasnost’ di Gorbacëv che, per un certo periodo, ha coltivato quest’idea. Oggi? Oggi siamo di fronte a qualcosa di nuovo. Le conseguenze sulla vita delle persone sono evidentissime, la matrice anche: il predominio dell’economia sregolata e manovrata dalla finanza speculativa. Ma è una matrice incorporea che, per ora, sembra inafferrabile, non stanabile “sollevando un velo”.

Constatiamo il declino della politica, fino alla pantomima dei suoi riti: personaggi inconsistenti, che talora si presentano come “tecnici”, rivelandosi così esecutori di volontà altrui; “posti” come posta d’una lotta che, usurpando la parola, continua a chiamarsi politica; nessun progetto dotato d’autonomia; parole d’ordine 
tanto astratte quanto imperiose: lo chiedono “i mercati”, la “Europa”, lo “sviluppo”, la “concorrenza”. Questo degrado, che si manifesta macroscopicamente come immobilismo e consociativismo, è la conseguenza di quello che è oggi il vero “nucleo del potere”. Per poter essere contrastato con i mezzi della democrazia, deve essere innanzitutto compreso, senza fermarsi solo a deplorarne le conseguenze, scambiandole con le cause.
Tu poni la domanda cruciale: che fare affinché ci si possa riappropriare di almeno un poco dell’espropriata nostra capacità politica?
Noi apparteniamo alla cerchia di chi esercita una professione intellettuale. Il nostro compito primario (non voglio dire esclusivo) è cercare di capire, non di cambiare il mondo. Sarà pur vero, come tu dici, che non sono alle viste nuovi Marx o Tocqueville. Ma il nostro compito, nel piccolissimo che è alla nostra portata, è di questa natura. Il che significa innanzitutto rifiutare il ruolo di consulenti che con tanta abbondanza questo sistema di sterilizzazione della politica offre a chi ci sta. Sarebbe
 già una bella rivoluzione.

Lunedì 8, ore 20.00, all'Archiginnasio, BolognaDEMOCRAZIA E OLIGARCHIE. Luciano Canfora dialoga con Gustavo Zagrebelsky. Coordina Giuseppe Laterza. Luciano Canfora è autore di Intervista sul potere (Laterza), curato da Antonio Carioti; Gustavo Zagrebelsky ha pubblicato con Ezio Mauro di La felicità della democrazia. Un dialogo (Laterza).

!La Consulta: l'esclusione dei sindacati che non firmano i contratti è incostituzionale. Ora il Lingotto volti pagina. Un colpo per la Fiat: «Ora una legge che ci tuteli». E in Parlamento si discuta di rappresentanza»Il manifesto, 4 luglio 2013
Una bella sorpresa d'estate. O una doccia gelata. A seconda di chi la guardi, la sentenza emessa ieri dalla Corte costituzionale è certamente importante, e potrebbe cambiare i rapporti di forza interni alla Fiat: bene l'ha presa la Fiom, a cui i giudici della Consulta hanno dato ragione. Male, malissimo l'ha accolta l'ad del Lingotto, Sergio Marchionne: che adesso chiede una legge, per operare con certezza sulla rappresentanza.

La vittoria della Fiom, attenzione, consiste nella bocciatura dell'articolo 19 (o meglio, di una parte di esso) di una legge amatissima a sinistra, lo Statuto dei lavoratori: quell'articolo, applicato alla lettera dalla Fiat, aveva escluso la Fiom dalla rappresentanza aziendale. I fatti erano avvenuti quando il Lingotto aveva deciso di uscire dalla Confindustria e crearsi un contratto su misura per le proprie fabbriche, e lo aveva successivamente siglato con tutti i sindacati, tranne la Fiom.

La Fiat aveva a quel punto deciso di applicare alla lettera l'articolo 19, escludendo - legalmente - la Fiom dall'elezione delle Rsa: lo Statuto dispone infatti all'articolo 19 che possano avere Rsa solo i sindacati firmatari del contratto. In realtà non è la formula originaria dello Statuto del 1970 ad aver introdotto queste regole: fu una riforma di quell'articolo, successiva a un referendum del 1995, a definirle. Ma, evidentemente, contro la Costituzione. La Fiom ha deciso quindi di fare immediatamente ricorso, in particolare appellandosi agli articoli 2, 3 e 39 della nostra Carta fondamentale: secondo i suoi legali, l'articolo 19 dello Statuto lede il principio solidaristico e viola i principi di uguaglianza e libertà sindacale, in particolare il «divieto» di discriminazione sulla base dell'appartenenza a un partito o a un sindacato. La Consulta, ieri, ha evidentemente ritenuto fondati i rilievi della Fiom.

La Corte, si legge nella nota emessa alla fine della camera di consiglio, «ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 19, 1 c. lett. b della legge 20 maggio 1970, n. 300 ("Statuto dei lavoratori") nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori».

In serata è arrivata una nota molto critica della Fiat: «Con questa decisione - dicono a Torino - la Corte ha ribaltato l'indirizzo che aveva espresso nelle precedenti numerose decisioni sull'argomento nei 17 anni durante i quali è in vigore l'articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori nella sua attuale formulazione. Sembra che la Consulta abbia collegato il diritto a nominare le Rsa alla partecipazione alla negoziazione dei contratti. Se questa lettura è corretta, la decisione non appare riferibile alla posizione assunta dalla Fiom, che, a priori, ha sempre rifiutato qualsiasi trattativa sui contenuti del contratto di Fiat S.p.A. e di Fiat Industrial».

«Fiat - continua l'azienda - ha sempre preso tutte le decisioni di tipo industriale tenendo conto della legislazione vigente e in particolare, dell'articolo 19 dello Statuto, modificato nel 1996 in seguito al referendum del 1995. Ricordiamo che il referendum che ha introdotto l'articolo 19 nella sua presente forma fu promosso da Rifondazione Comunista e dai Cobas con l'appoggio pieno della Fiom». «Viste le incertezze sollevate da questa decisione della Corte, la Fiat rimette piena fiducia nel legislatore affinchè definisca un criterio di rappresentatività più solido e più consapevole delle delicate dinamiche delle relazioni industriali, che dia certezza di applicazione degli accordi, garantisca la libertà di contrattazione e la libertà di fare impresa».

Incassa Maurizio Landini: «La Costituzione rientra in fabbrica - dice il leader Fiom - È una vittoria di tutti i lavoratori. Non ci sono più alibi: il governo convochi subito un tavolo con la Fiat e tutti i sindacati per garantire l'occupazione e un futuro industriale». «È ora - conclude - che il Parlamento approvi una legge sulla rappresentanza». Critica invece la Fim Cisl: «Nella sentenza ci sono contraddizioni». Soddisfazione per la pronuncia da Cgil, Pd, Sel e Prc.

In questo articolo scritto per

il manifesto (3 luglio 2013) il filosofo francese esplora il rapporto tra teoria e prassi, e tra filosofia e sociologia, alla luce dell'opera di Pierre Bourdieu. Con una nota di Fabrizio Denunzio

La riflessione che Pierre Bourdieu ha dedicato ai problemi generali della pratica si è principalmente sviluppata attraverso tre opere: Per una teoria della pratica (1972), Il senso pratico (1980) e Ragioni pratiche (1994). Sono, questi, i successivi tentativi di riscrivere uno stesso testo, arricchito di nuovi concetti, come ad esempio quello di «campo» divenuto operativo dopo il 1980, e alimentato di nuovi riferimenti, senza che, tuttavia, i suoi orientamenti principali ne vengano modificati. Questi orientamenti definiscono il progetto di una «teoria della pratica» che unisce l'intero percorso di Bourdieu e gli conferisce, sebbene lui rifiuti questo termine, una dimensione autenticamente filosofica.

La reticenza di Bourdieu a fare rientrare il suo percorso sotto la categoria del filosofico si spiega con il suo rifiuto della pretesa teoricista che, a titolo di una sorta di platonismo latente, ha attribuito, a torto o a ragione, alla filosofia in quanto tale e che la porterebbe, una volta estratta dalla pratica la sua teoria, a presentare quest'ultima, la teoria, come la verità essenziale della pratica, senza rendersi conto che questa «pratica» di cui la teoria dice di dare la verità, non esiste se non per la teoria da cui essa è costruita: così il principale insegnamento che può impartire una teoria della pratica protetta da ogni deriva liturgica è, giustamente, che quella «pratica» non esiste, o almeno quella non esiste se non per quanti cerchino di determinarne la verità assoluta facendone la teoria, mentre in realtà esistono solo delle pratiche, al plurale, costruitesi e decostruitesi nella storia di cui sono allo stesso tempo i prodotti e le condizioni, poiché sono esse che determinano gli schemi della sua evoluzione.
Illusione filosofica

La migliore critica dell'illusione teoricista, che pretende di pensare «la pratica» nello stesso momento in cui ignora sistematicamente la realtà effettiva delle pratiche, spetterebbe, finalmente, di proporla alla sociologia che, simultaneamente, mostrerebbe la genesi di questa illusione: ed è in nome di questa esigenza critica che Bourdieu, come si sa, è «passato» dalla filosofia, alla quale deve la sua formazione iniziale, alla sociologia di cui egli prevede di formulare, contemporaneamente alle verità che la filosofia manca, la verità dell'operazione di sviamento di queste stesse verità effettuate dalla filosofia.

In effetti, il sociologo, come lo definisce Bourdieu, studia le formazioni pratiche nelle quali il materiale (l'oggettivo) è indissociabile dal simbolico (il soggettivo), secondo un processo di stratificazione inspiegabilmente ignorato da Marx quando, seguendo il percorso tipico del suo materialismo causalista, ha preteso di separare i due piani delle infrastrutture e delle sovrastrutture cercando simultaneamente di installare un rapporto di determinazione univoca dal primo al secondo. Il sociologo, se si interroga sulle condizioni nelle quali perviene alla conoscenza del suo oggetto, sarebbe a dire se si fa epistemologo della sua disciplina e pratica con un massimo di conoscenza critica il suo «mestiere di sociologo», come accade precisamente nel caso di Bourdieu, si trova, dunque, particolarmente ben piazzato e armato per pensare la pratica, o meglio, per elaborare e mettere in opera un concetto di pratica adattata ai suoi interessi teorici e capace di «informarli», nel doppio senso di istruirli e ordinarli per permettere il loro adattamento a un contenuto proprio.

Ma cos'è pensare la pratica nell'articolazione del materiale e del simbolico come lo fa il sociologo? Si tratta semplicemente di sviluppare la conoscenza di questa articolazione, strutturandone quanto più precisamente possibile le procedure, correndo il rischio di reificarle? O si tratta di ben altra cosa, cioè di saper situare se stessi nel punto in cui questa articolazione funziona, sarebbe a dire pensare la pratica considerandola in quanto pratica, in modo da pensarla dentro la pratica, senza uscire dall'ordine della pratica né pretendere di esercitare su di essa uno sguardo sovrastante e disimpegnato, il quale troverebbe in questo disimpegno le sue garanzie teoriche?

È alla seconda prospettiva che, di certo, vanno le preferenze di Bourdieu: lui si è costantemente interessato a pensare la pratica in quanto tale, cioè come pratica nella sua pratica, invece di cercare di estrapolarla con l'obiettivo di pensarla, sarebbe a dire non più «in pratica», ma «in teoria», proiettandola in una specie d'astrazione dove, svuotata di ogni contenuto, funziona a vuoto, esposta ad alternative irrisolvibili come quelle della libertà e della necessità, dell'individuale e del collettivo, della coscienza e della regola, alternative intrappolate che permetterebbero appunto di contrastare una conoscenza della pratica allo stato pratico.

Allora, come accedere a un sapere di ciò che è la pratica allo stato pratico? Bisognerebbe rinunciare ai benefici che si possono aspettare da una spiegazione teorica per rimettersi interamente alla pratica affinché essa, direttamente, dica che tipo di pratica sia? Per uscire da questa difficoltà Bourdieu, all'inizio di Per una teoria della pratica, riformula la distinzione spinoziana dei modi di conoscenza spiegando che «il mondo sociale può essere oggetto di tre modi di conoscenza teorica», che lui definisce «fenomenologica», «oggettivista» e «prassiologica».

La conoscenza in tre mosse
L'approccio fenomenologico del mondo sociale è quello che stabilisce con esso una relazione di prossimità e di familiarità basata su di una sorta di intuizionismo che gli permette presumibilmente di avvicinarlo a nudo nel suo vissuto esistenziale, nella sua esperienza primaria di cui questo approccio si propone semplicemente di dare una descrizione quanto più fedele possibile. L'approccio oggettivista è quello che, al contrario, taglia ogni legame con il vissuto e la soggettività nella quale è immerso, impegnandosi a fare emergere le strutture latenti in azione nella vita sociale che essa dirige all'insaputa dei suoi agenti, quindi senza comunicazione con l'esperienza cosciente che essi stessi fanno spontaneamente. Infine, l'approccio prassiologico, rifiuta le alternative dei precedenti, effettua una qualche sorta di reinserimento della teoria nella pratica e dell'oggettivo nel soggettivo, interessandosi alle condizioni nelle quali il sistema di relazioni che comanda l'esistenza del mondo sociale è assimilato da quelli che ne realizzano la riproduzione sotto forma di disposizioni acquisite o habitus che contano per essi come una seconda natura.

I tre approcci così come sono definiti si situano dialetticamente gli uni in rapporto agli altri in una relazione di superamento, in base alla quale la seconda si dà come obiettivo quello di determinare ciò che, per definizione, è eluso dalla prima, movimento riprodotto per suo conto dalla terza: «Nella misura in cui si costituisce in opposizione all'esperienza primaria, apprensione pratica del mondo sociale, la conoscenza oggettivista si trova sviata dalla costruzione delle teoria della conoscenza pratica del mondo sociale di cui essa produce almeno in senso negativo l'assenza, producendo la conoscenza teorica del mondo sociale in opposizione ai presupposti impliciti della conoscenza pratica del mondo sociale». Sarebbe a dire che, per risolvere l'opposizione oggettivo-soggettivo, altrimenti detto, per sfuggire al dilemma Lévi-Strauss/Sartre, la sociologia deve elaborare una «teoria della conoscenza pratica del mondo sociale» capace di comprendere come, le leggi alle quali questo obbedisce, funzionino in pratica, governando dall'interno e non dal di fuori, le operazioni degli agenti che fanno esistere concretamente questo mondo sociale sotto la stessa forma in cui si presenta nella loro propria esperienza pratica che è, allo stesso tempo, quella della soggettività oggettivata, dell'individuale socializzato, e dell'oggettività soggettivata, del sociale individualizzato. (

Una fertile presa di posizione nel campo politico
nota di Fabio Denunzio
L'articolo che Pierre Macherey, con l'abituale generosità che lo distingue, ha gentilmente dato a «il manifesto», è molto utile per dissolvere i dubbi che ciclicamente vengono sollevati sullo statuto epistemologico e politico delle scienze sociali e sul rapporto - che si vorrebbe subalterno - che queste hanno con una disciplina egemonica come la filosofia, o meglio, la filosofia politica. Dubbi che Macherey deve aver avuto ben presenti dal momento che ha scelto strategicamente di lavorare in un dispositivo sociologico come quello di Pierre Bourdieu.
Darò solo tre brevi indicazioni di lettura per mostrare come il filosofo francese, in questo breve e intenso articolo, sottragga la sociologia alla subalternità alla quale la filosofia la vuole storicamente costringere, la restituisca alla sua dignità epistemologica, e la immetta nel campo delle lotte politiche.
Innanzitutto, la filosofia. Lì dove i sociologi sanno che i tre modi di conoscenza avanzati da Bourdieu per relazionarsi al mondo sociale rappresentano altrettante correnti socio-antropologiche - l'approccio fenomenologico è quello etnometodologico e interazionista di Harold Garfinkel, quello oggettivista è quello strutturalista di Lévi-Strauss, quello prassiologico è quello bourdieusiano sul campo della ricerca algerina del popolo cabilo - Macherey li fa derivare direttamente da Spinoza. Con questo gesto l'immaginazione, la ragione e la scienza intuitiva spinoziane, elementi di una complessa ontologia, si ritrovano al centro di una sociologia che non ha mai smesso di riferirsi ai principi di rilevamento quantitativo dei dati per dimostrare le proprie asserzioni.
Poi, l'epistemologia. Quando Macherey insiste su quanto Bourdieu prescriveva ai ricercatori in scienze sociali, cioè di oggettivare sempre la posizione soggettiva nel campo di analisi, quindi di riflettere continuamente sul modo in cui si costruisce l'oggetto di riflessione, in realtà dimostra che la sociologia non ha bisogno di nessuna nuova fondazione del suo statuto epistemologico, è sufficiente quello datole da Bourdieu: articolare l'oggettivo e il soggettivo, il materiale e il simbolico, tutto ciò che, debitamente intessuto, dà vita alle formazioni sociali.
Infine, le lotte politiche. Cos'è tutto questo insistere di Macherey sulla pratica? Nient'altro che la valorizzazione di quel vecchio vizio dei sociologi di voler essere presenti sul campo, lì dove i fatti avvengono. Ora, dal momento che, come ha insegnato Bourdieu, questi campi non sono mai neutri, piuttosto, sono contrassegnati da forze e da conflitti, essere sul campo, in pratica, significa prendere posizione. Innanzitutto, contro quei meccanismi di potere simbolico che arbitrariamente assegnano i significati ai fenomeni, alle cose e alle scienze e li vogliono unici e irrevocabili.
L'entusiasmo di Macherey per la prassi bourdieusiana, allora, non è altro che l'entusiasmo per una sociologia che non ha ridotto il mondo sociale ad un qualcosa di astratto da utilizzare per gli esercizi intellettuali più arditi delle élite culturali, ma ne ha fatto il luogo, molto concreto e molto «basso» in cui gli agenti sociali, si devono impegnare in una lunga lotta «cognitiva» per comprendere cosa li condiziona e cosa li può liberare occupando la posizione oggettiva che gli è stata assegnata dalla storia.Traduzione di Fabrizio Denunzio

ULa trappola. Il vero volto del maggioritario, Sellerio, 2013 sulla legge truffa 2013 (in preparazione), con postilla

[...] La Costituzione sancisce che l’Italia è una Repubblica democratica, e dal concetto che fa risiedere nel popolo la sovranità deriva il carattere rappresentativo di tutto il nostro ord inamento, al centro del quale stanno le grandi Assemblee legislative, la Camera e il Senato della Repubblica, a cui tutti i poteri sono coordinati e da cui tutti i poteri derivano. [...] Questo è il nostro ord inamento, questo e non altro. È evidente che in siffatto ordinamento l’elemento che si può considerare prevalente, e che certamente è essenziale, è la rappresentatività. È un elemento essenziale per ciò che si riferisce ai rapporti tra i cittadini e le assemblee supreme dello Stato. Ma che vuol dire che un ordinamento costituzionale sia rappresentativo? I dibattiti dottrinali sul contenuto giuridico di questo concetto – e i colleghi che hanno frequentato le università giuridiche come studenti o che tuttora le frequentano come professori lo sanno meglio di me – sono stati infiniti. Li lascio in disparte perché ritengo giusta l’opinione che se questi dibattiti davano scarso aiuto per il progresso delle dottrine politiche, ciò derivava dal fatto che in essi si confondevano rapporti di diritto privato con rapporti di diritto pubblico.

Non possono confondersi i rapporti di rappresentanza e di mandato, quali sono definiti dal codice e dalle leggi civili, con il mandato e la rappresentanza politici. Si tratta di cose diverse. Il più noto e grande dei nostri costituzionalisti moderni, dopo aver dibattuto a lungo questo problema, giunge alla conclusione, che mi sembra la sola esatta, che nel diritto pubblico non si arriva a capire le cose se non si tiene continuamente presente la storicità dei fatti e del diritto s esso. Lo so che una volta fui aspramente rimbrottato da quella parte, perché la nostra visione del mondo sarebbe storicistica. [...]

Una visione storicistica


Vorrei replicare, ad ogni modo, che è vero, sì, che la nostra visione del mondo è storicistica, ma che non bisogna mai dimenticare che cosa ciò vuol dire e che cosa è la storia. La storia è l’umanità nel proprio sviluppo. La storia è l’uomo, quale si afferma e realizza nelle sue relazioni e con la natura e con la società. [...] Se guardiamo, allora, alla storia, incontriamo all’i nizio e partiamo da una visione della rappresentanza come istituto di diritto privato, nel senso che essa riguarda la tutela, attraverso un delegato o mandatario, di determinati interessi di gruppi precostituiti. Di qui la composizione bizzarra, ma in quel momento storicamente giustificata, data l’organizzazione della società, dei parlamenti medioevali. Qualcosa di questa composizione rimane anche in alcuni ordinamenti che pretendono di presentarsi come costituzionali e rappresentativi, ma non lo sono.
Alludo alle assemblee rappresentative elette secondo il principio della curia, applicando il quale si ha in partenza una schiacciante maggioranza di “deputati” delle classi possidenti e una minima rappresentanza di operai, di contadini, di lavoratori. Ho voluto ricordare questa bizzarra forma di degenerazione di una istituzione che dovrebbe essere rappresentativa, perché è quella che maggiormente rassomiglia al sistema che viene proposto qui dall’onorevole Scelba.
La volontà sovrana del potere esecutivo
Non vi è dubbio, infatti, che la visione che traspare dalla legge in discussione ci prospetta un Parlamento diviso in curie, non più secondo un criterio economico o sociale, ma secondo un criterio politico. Precede alla elezione del Parlamento un’azione del governo per riuscire, partendo dai dati delle precedenti consultazioni, a raccoglier determinate forze politiche a proprio appoggio. A questo gruppo è quindi già assegnato, prima che si sia proceduto alle elezioni, un numero fisso di mandati, e un numero fisso e ridotto di mandati è assegnato, in modo precostituito, agli oppositori del governo. A questo ci vorrebbe riportare l’onorevole Scelba: al Parlamento eletto per curie. Ed è peggio, direi, il Parlamento per curie ordinate secondo un criterio politico che non secondo un criterio economico, perché scompare qualsiasi base oggettiva della differenziazione.
Unica base rimane la volontà sovrana del potere esecutivo. Tutti però, finora, sono stati d’accordo che un siffatto sistema di scelta degli organi rappresentativi non ha nulla a che fare non dico con la democrazia, ma neanche con il liberalismo. I parlamenti liberali, quando sorgono, affermano il principio della rappresentanza politica, il quale “si fonda – è ancora Vittorio Emanuele Orlando che parla – sull’ipotesi che i bisogni e i sentimenti politici dei cittadini abbiano una maniera diretta, esterna di manifestarsi”. Queste manifestazioni vengono raccolte; da esse esce la rappresentanza di tutto il paese. Ed ecco subito un altro concetto non facile a districare, quello che definisce la natura nostra, di deputati in quanto rappresentanti. Noi siamo, si, rappresentanti dei nostri elettori. Nessuno lo può negare: essi si rivolgono a noi, ci inviano lettere, ci sottopongono quesiti; ad essi parliamo, con essi esiste un legame particolare. Ciascuno di noi però – e la Costituzione lo afferma – rappresenta tutto il paese. Nel dibattito intorno a questo concetto, l’estensore della relazione a questo disegno di legge fa naufragio. Mi rincresce doverglielo dire e sottolineare: fa naufragio. La realtà è che nello sviluppo della scienza del diritto pubblico il fascismo ci ha spinti molto all’indietro. Quando noi oggi andiamo a rivedere i testi e i trattati di diritto costituzionale che andarono per la maggiore durante il fascismo, siamo costretti a inorridire. Ci troviamo di fronte a tale mostruosa contorsione di concetti, a tali bizzarri travestimenti di idee un tempo chiare, per cui comprendiamo come oggi chi oggi appartenne a quella schiera non possa comprendere nulla.

Quanto male, onorevole Tesauro, ci ha fatto il fascismo! Perché, veda, c’è stato chi al fascismo – e fu il re – sottomise la nazione, sacrificandogli la carta costituzionale. Vi è stato un onorevole De Gasperi che al fascismo sacrificò il proprio partito, mandandolo disperso. Vi è stato chi ha s acrificato al fascismo interessi vitali del popolo, e così via. Tutti, dunque, hanno peccato, tutti coloro che sottomisero al fascismo ciò che era degno di vivere per sé, che aveva un valore, che doveva essere difeso fino all’ultimo; ma chi ha sottomesso a l fascismo il pensiero, la scienza, ha commesso il peccato più grave.

Lei ha peccato contro lo spirito, onorevole Tesauro, e questo peccato non è remissibile. Lei lo sa! La difficoltà da cui Ella non è riuscito a districarsi è di comprendere come mai il deputato, eletto da un gruppo di cittadini, sia rappresentante di tutto il paese. Sono nato a Genova, mi hanno eletto a Roma, rappresento tutta l’Italia. Come mai? Perché? Questo non si comprende, se non si guarda a tutto lo sviluppo del sistema. La cosa – dice sempre Vittorio Emanuele Orlando - , cioè la rappresentanza come tale, è una nozione che non presenta difficoltà se si riconduce a un “fatto esterno e visivo”. Qui affiora, attraverso questa ardita semplificazione, il concetto giusto, che è in pari tempo, vedremo subito, il concetto nuovo della rappresentanza politica e, quindi, dell’ordinamento costituzionale rappresentativo.

Democrazia e geografia

Curioso! Questo concetto nuovo venne formulato la prima volta più di 150 anni fa, nell’Assemblea nazionale francese, nel 1789, dal conte di Mirabeau. “Le assemblee rappresentative – diceva – possono essere paragonate a carte geografiche, che debbono riprodurre tutti gli ambienti del paese con le loro proporzioni, senza che gli elementi più considerevoli facciano scomparire i minori” . Ecco il concetto nuovo, per cui la rappresentanza viene ridotta quasi a un elemento visivo, e quindi immediatamente compresa nel suo valore sostanziale. A questo concetto si riferiscono i grandi pubblicisti il cui pensiero, successivamente, contribuisce a far progredire tutto il sistema delle istituzioni liberali e democratiche. Ecco Cavour, per il quale “il grande problema che una legge elettorale deve risolvere si è di costituire un’assemblea che rappresenti, quanto più esattamente e sinceramente sia po ssibile, gli interessi veri, le opinioni e i sentimenti legittimi della nazione”

Potrei abbondare nelle citazioni. Desidero osservare che esse vengono anche da uomini che non furono di parte democratica avanzata o di parte liberale del tutto conseguente. Ecco il barone Sidney Sonnino, per esempio. “L’Assemblea elettiva – egli dice – dovrebbe stare alla intiera cittadinanza nella stessa relazione che una carta geografica al paese che raffigura. Come le carte si fanno in proporzione di 1 a 20 mila o di 1 a 50 mila, così la Camera dovrebbe potersi dire il ritratto fotografico della nazione, dei suoi interessi, delle sue opinioni e dei suoi sentimenti, nella proporzione del numero dei deputati ai numero dei cittadini”

Il Parlamento specchio del Paese

Così si arriva alla visione, insita fin dall’inizio nella concezione degli istituti rappresentativi, ma elaborata pienamente con una certa lentezza, del Parlamento come specchio della nazione. Fu un costituzionalista inglese, il Lorrimer, che per primo formulò questa idea nel titolo stesso di un suo trattato famoso che parla del Costituzionalismo del futuro o del Parlamento come specchio della nazione.

Un filosofo inglese, Stuart Mill, sviluppando lo stesso concetto, nel suo scritto assai noto di Considerazioni sul governo rappresentativo, asse riva, con piena coscienza, che, arrivati a questo concetto, arrivati cioè a stabilire questa proporzionalità fra la rappresentanza e il paese, si giunge a dare “al governo rappresentativo un lineamento che corrisponde al suo periodo di maturità e di trionfo”

Ruggero Bonghi, da noi, in un articolo sulla Nuova antologia del 16 gennaio 1889, incalzava affermando che se si riesce a ottenere che una nazione si specchi “tutta com’è e quanta è nel suo Parlamento”, allora “il governo rappresentativo sarà assicura to in perpetuo”. Dal Parlamento liberale, per quale ancora poteva prevalere il vecchio principio del diritto pubblico romano, valido per le decisioni ma non per la rappresentanza, che volontà della maggioranza è volontà di tutti, si giunge così, non per ciò che si riferisce al diritto di decisione, che sempre è della maggioranza, ma per ciò che si riferisce alle basi dell’istituto rappresentativo, ad asserire il grande principio nuovo.

Rappresentanza ed equità

E veramente qui si apre un nuovo periodo storico: passiamo dall’epoca liberale all’epoca democratica, dai parlamenti liberali passiamo ai parlamenti e agli ordinamenti democratici. La natura di questo passaggio è chiara, sia nella scienza che nello sviluppo storico. Occorre dire che i costituzionalisti non erano partiti, nella loro indagine, dalla ricerca di un principio nuovo. Erano partiti, piuttosto, da una ricerca di equità. Il Guizot, che esprime questa ricerca di equità nel modo più chiaro, lo asserisce: “Se la maggioranza è spostata per artificio, vi è menzogna; se la minoranza è preliminarmente fuori combattimento, vi è oppressione. Nell’un caso e nell’altro, il governo rappresentativo è corrotto”.

Partiti dalla ricerca dell’equità non si poteva però non arrivare alla elaborazione di tutta una nuova concezione politica. Lo sviluppo storico seguiva, d’altra parte, lo sviluppo del pensiero, che lo accompagnava e rischiarava. È uno sviluppo storico che comprende tutto il secolo XIX e nel quale gli anni decisivi furono il 1848 e il 1871. Il 1848 è l’anno in cui appare sulla scena per la prima volta in modo autonomo una classe, la classe operaia, che rivendica non soltanto una rappresentanza e quindi una parte del potere, ma collega questa rivendicazione al proprio programma di trasformazione sociale. Nel 1871 la classe opera ia va assai più in là della rivendicazione di una parte del potere per se stessa. Essa afferma la propria capacità di costruire un nuovo Stato.

Questi grandi fatti storici si impongono all’attenzione di tutti. Agli uomini politici di più chiaro spirito liberale e democratico essi indicano la necessità di fare quel passo che separa i parlamenti liberali dai parlamenti democratici rappresentativi. Di non accontentarsi cioè di dire che la maggioranza rappresenta l’opinione generale, anche quella della minoranz a, ma di costruire un organismo nel quale si rispecchi la nazione, sperando e augurando che questo consenta uno sviluppo progressivo senza scosse rivoluzionarie.

La rivoluzione operaia del giugno 1848 è soffocata nel sangue. Sull’atto di nascita del regime borghese, istallatosi in Francia dopo il secondo crollo napoleonico, sta la macchia di sangue delle fucilate con le quali venne fatta strage degli eroici combattenti della Comune. È una macchia indelebile. Si spegne l’eco delle fucilate, ma resta odor di polvere nell’aria! Il movimento operaio si afferma, va avanti. Il problema è posto, bisogna progredire, bisogna tener conto delle forze nuove che si affermano. Per questo vi è chi comprende che ormai è necessario forgiare l’ordinamento dello Stato in modo che consenta questo progresso e lasci che queste forze, nello Stato stesso, si possano affermare.
Per questo il sistema di rappresentanza proporzionale delle minoranze nel Parlamento, che è l’approdo tecnico del movimento, può veramente essere definito il punto più alto che sino ad ora è stato toccato dalla evoluzione dell’ordinamento rappresentativo di una società divisa in classi. Così lo hanno sentito tutti i nostri politici, e non solo quelli che ho già citato. Filippo Turati, quando propose, nel 1919, di passare alla rappresentanza proporzionale, asseriva per questo che la sua proposta aveva un valore storico. Sidney Sonnino si richiamava apertamente, nel proporre e difendere la proporzionale, al fatto storico della Comune. Si trattava di dare una impronta definitiva di democraticità, di rappresentatività e di giustizia all’ordinamento costituzionale dello Stato, nel momento in cui il movimento sociale non può più essere soppresso con la forza. Naturalmente, il modo in cui si realizza il principio non è uniforme [...].
Lo so. Non è stato trovato ancora un modo di avere la perfetta proporzionalità della rappresentanza. Rimane sempre un certo scarto tra la realtà del paese e la rappresentanza nella Camera, a seconda che si adotti un determinato sistema di co nteggio dei voti e dei rappresentanti in rapporto ai voti, oppure un altro sistema. Ma questo non ha niente a che fare con l’abbandono del principio. Quello che interessa è il principio. Il principio per cui noi siamo rappresentanti di tutto il paese nella misura in cui la Camera è specchio della nazione. Dello specchio, veramente, si può dire che ogni parte, anche piccolissima, di esso, è eguale al tutto, perché egualmente rispecchia il tutto che gli sta di fronte. Qualora il principio venga abbandonato, è distrutta la base dell’ordinamento dello Stato che la nostra Costituzione afferma e sancisce. Quali sono, ora, le conseguenze che debbono derivare da questa nozione dell’ordinamento costituzionale rappresentativo? Prima conseguenza è l’uguaglianza del voto, che la nostra Costituzione solennemente stabilisce, e l’uguaglianza del voto non può ridursi al fatto che tutte le schede siano eguali, messe nell’urna con lo stesso gesto della mano. Non si tratta di questo.
L’uguaglianza deve essere nell’effetto che ha il voto per la composizione dell’assemblea come specchio della nazione. Se non vi è questa uguaglianza, cioè l’uguaglianza negli effetti, non vi è più sistema rappresentativo, vi è un’altra cosa, si ritorna addietro. Di qui deriva, poi, la funzione politica del Parlamento. Soltanto quando il Parlamento sia organizzato come specchio della nazione, in modo oggettivamente rappresentativo, esso può diventare e diventa quel centro di elaborazione della vita e dell’indirizzo politico della nazione, che esclude o dovrebbe escludere le sopraffazioni, gli scontri violenti, gli urti sanguinosi, le rivoluzioni. Anche in questa concezione del parlamentarismo vi è fra i politici una unanimità che va da Turati ad Amendola, dai vecchi rappresentanti del partito popolare ai liberali più in vista del secolo scorso e del secolo attuale. Secondo la legge attuale, la fisionomia del Parlamento diventa un’altra, diventa quella che Giovanni Amendola (e mi riferisco a lui perché la sua formulazione è particolarmente evidente) prevedeva respingendo la legge Acerbo. “Non esiste, disse, una maggioranza precostituita. Il paese è costituito da tante forze, di tante unità morali quanti sono i partiti, i gruppi, le tendenze. Ognuna di queste forze, ognuna di queste unità non può da sola a vere la maggioranza. Ma esiste la possibilità della costituzione di un edificio più complesso, nel quale le singole volontà, le singole idealità entrino, non già per sovrapporsi meccanicamente e per determinare una coalizione morta, ma per essere un elemen to necessario alla vita e all’unità del governo, capace di manifestarsi in un’azione governativa”. Ecco la visione delle funzioni dell’istituto parlamentare che corrisponde alla esatta concezione dell’assemblea rappresentativa e del modo come essa deve corrispondere alla struttura del paese [...].

Parlamento e partiti

Vi è poi un ultimo richiamo che pur occorre fare [...]. La nostra Costituzione è una delle poche che [...] introduce nel quadro costituzionale il partito politico e gli attribuisce determinati diritti in rapporto con de terminati doveri. Al partito politico è attribuito il diritto di partecipare a determinare la politica nazionale con metodo democratico. È evidente che il metodo democratico esclude l’anatema [...] contro un partito, qualunque esso sia, a meno che non sia i l ricostituito partito fascista, e che è la sola esplicita eccezione.

Tutti i partiti politici hanno dunque questo diritto, e hanno la facoltà di esercitarlo in modo eguale. Essi debbono partecipare in modo eguale a determinare la politica nazionale. Quando però voi abbiate messo un gruppo di partiti nelle condizioni in cui li vorrebbe mettere la legge Scelba (e in questo momento prescindo dalla qualificazione di questi partiti, siano essi di sinistra, di destra o di centro), partecipano essi ancora, con metodo democratico e con eguaglianza di diritti, alla determinazione della politica nazionale? No, una parte dovranno diventare partiti propagandisti, potranno usare della tribuna parlamentare come mezzo di propaganda; ma il principio nuovo che tutti i partiti partecipano a determinare la politica nazionale scompare, è cancellato. La Costituzione è violata, la Costituzione è messa sotto i piedi [...]. In conseguenza di tutto questo e assieme con tutto questo (e forse non se ne sarebbero accorti tutti, se non fo sse intervenuto l’estensore della relazione di maggioranza a particolarmente e imprudentemente sottolinearlo) da questa legge si modificano i rapporti che passano tra la base dello Stato, che è il popolo, nel quale risiede la sovranità, e il governo, attra verso le assemblee rappresentative.
Il carattere stesso del governo qui viene cambiato. Che cosa è il governo? È la espressione della maggioranza. Chi designa il governo, chi registra la maggioranza? Il Parlamento. Dove si forma la maggioranza? Nel Parlamento. Anche questa è una nozione elementare. Soltanto in questo caso un ordinamento costituzionale è parlamentare. Ricordatevi le discussioni che avemmo alla Costituente, quando si trattò di scegliere tra un regime parlamentare e un regime non parlamentare. A grande maggioranza e senza esitazione scegliemmo un regime parlamentare, cioè volemmo un ordinamento costituzionale nel quale la maggioranza e quindi il governo e la designazione di esso uscissero dalle assemblee rappresentative, che debbono essere a loro volta lo specchio della nazione. Con questa legge Scelba le cose cambiano, e cambiano radicalmente, come del resto cambiavano già con la legge Acerbo. Anche qui, onorevole Tesauro, il fatti si corrispondono...

TESAURO (relatore per la maggioranza): non è esatto!

TOGLIATTI: attenda, e mi scusi se faccio qualche volta il suo nome. Veda, quando tra i presenti a un’assemblea si muove uno spettro, è inevitabile che quello spettro attiri l’attenzione e ad esso ci si rivolga. Onorevole Tesauro, lei qui è lo spettro del regime fascista [...].

Il governo plebiscitario Giovanni Amendola, nel suo così profondo discorso sulla legge Acerbo, già aveva rilevato il punto cui in questo momento mi voglio riferire, e la cosa era evidente: “Con la legge in discussione, diceva, noi trapiantiamo nel campo elettorale il problema più propriamente politico, cioè quello della costituzione della maggioranza. Si richiede al paese direttamente di designare la maggioranza, di investirla della facoltà di governare. Noi arriviamo, attraverso queste formule dissimulate, le quali tuttavia non possono nascondere la sostanza, al governo plebiscitario”. L’estensore della relazione di maggioranza non poteva confermar questo, a proposito della legge Scelba, in modo più chiaro, e forse non si è nemmeno accorto di dire enormità quando è giunto a scrivere che “la singolarità del sistema proposto non sta, di conseguenza, nell’introdurre il principio del potere conferito alla maggioranza, principio già accolto dal nostro come da altri ordinamenti democratici, ma nel determinare che la maggioranza, alla quale spetta il potere, non è quella voluta dagli eletti al Parlamento, ma quella che al Parlamento è indicata dallo stesso corpo elettorale”. Qui usciamo dall’ordinamento parlamentare, qui siamo in regime plebiscitario, qui si modifica e perfino si confessa di modificare un altro dei lineamenti fondamentali del nostro ordinamento costituzionale. A questo punto mi si permetterà di inserire un’osservazione relativa al tema politico di fondo. L’argomento con il quale tutto si volle giustificare al tempo della legge Acerbo, e tutto si cerca di giustificare anche ora, è che sia necessario fare queste violazioni della Costituzione per creare una possibilità di buon funzionamento delle Assemblee. È evidente che le Assemblee debbono funzionare, chi lo nega? Le Assemblee non possono funzionare se non vi è una maggioranza, perché solo da una maggioranza sorge un governo, anzi da una maggioranza sorge anche il potere supremo del Presidente della Repubblica, per cui voi, proponendo questa legge, tendete a modificare anche la figura del Presidente. Ripeto, nessuno nega che vi debba essere una maggioranza e che si debba governare fondandosi sopra una maggioranza. Però, come si risolve questo problema? In regime parlamentare questo problema si riso lve nell’Assemblea parlamentare, attraverso la capacità politica di colui il quale governa. Voi avete avuto nel 1948, il 18 aprile, la maggioranza per il Parlamento. La vostra maggioranza, anzi, è stata nel Parlamento leggermente superiore a quella che ave vate nel paese. Non ne facciamo questione, perché ciò derivava da imperfezioni che sono di tutti i sistemi elettorali rappresentativi. Il nostro sistema elettorale non era però allora preordinato per costituire una maggioranza e per far eleggere dal paese il governo. Comunque: avete avuto il governo e avete governato. Bene o male? È problema politico. Oggi avete ancora quella maggioranza? Se l’avete ancora, a che scopo una legge come questa, che sovverte l’ordinamento costituzionale dello Stato? Prendetevi un’altra volta la maggioranza, se affermate di averla, e cercate di governare meglio di quanto non abbiate governato finora, mi auguro io, nell’interesse dei lavoratori italiani e di tutta l’Italia. Se non avere più quella maggioranza, ciò nondimeno continuate a essere una forza notevole nel paese, come nessuno nega nel momento attuale.

Accettate di essere nell’Assemblea quello che siete nel paese in realtà. Allora, quando il Parlamento sarà specchio reale di quello che è il paese, proprio allora dovrà mani festarsi la vostra capacità politica, si vedrà cioè se abbiate o non abbiate quel tanto di capacità e di onestà, per cui dovete tener conto dell’esistenza e della forza di determinate minoranze, tener conto che esse rappresentano un bisogno, un interesse, un programma, una spinta ideale non trascurabili e non sopprimibili. Voi questo problema lo volete scartare. Forse perché sia in voi la coscienza di non avere uomini atti a risolverlo? Può darsi. Non nego che sia nei vostri dirigenti questa coscienza. Ma l ’ordinamento costituzionale è quello che è. È rappresentativo, non plebiscitario. Non potete spingerci addietro, a un regime plebiscitario, dal quale uscirebbe non più un ordinamento democratico, ma, per il primo istante, uscirebbe un regime oligarchico. Oligarchia infatti è quell’ordinamento, nel quale è precostituito il gruppo che deve governare; e voi l’avete precostituito, servendovi dei mezzi a disposizione del potere esecutivo, e che non voglio più né definire né qualificare [...]

Postilla

Non è solo una lezione politica sulla democrazia rapprentativa, sulla sua storia e sulla sua validità. Non è dunque solo uno scritto che ogni cittadino in quanto tale (in quanto homo politicus) dovrebbe conoscere. Ma dà anche interessanti informazioni su una visione della democrazia in quanto tale (in quanto espressione della sovranità del popolo, al di là della dialettica tra d. diretta e d. rappresentativa) e quella del territorio e del paesaggio. Scopriamo infatti le radici lontane dell’espressione Parlamento come specchio della nazione, della democrazia rappresentativa come “carta geografica”, e quindi la comunanza tra il Togliatti, difensore del Parlamento come specchio del Paese e del Croce come “paesaggio volto della Patria, cioè tra i concetti di rappresentanza e di identità. Ci ha sollecitati a rintracciare e rieditare (scaricandolo da questo sito) lo scritto di Togliatti lo splendido pamphlet, denso e leggibile come pochi altri La Trappola, il vero volto del maggioritario, di Luciano Canfora, Sellerio, Palermo 2013 (vedi in eddyburg la recensione di Di Lello sul manifesto)

Nel dibattito aperto dall'articolo di Giorgio Lunghini sul lavoro e sul "reddito di cittadinanza" il tentativo di proporre un percorso in 12 punti per uscire dal dilemma più reddito o più occupazione.

il manifesto, 28 giugno 2012, Con postilla e qualche riferimento

Nelle storie parallele della sinistra e dello sviluppo capitalistico, lavoro e reddito hanno sempre costituito due facce della stessa medaglia e camminato nella stessa direzione: più lavoro e più reddito nelle fasi di crescita, meno lavoro e minori redditi in quelle di crisi. Nel tempo sinistra e sindacati hanno conquistato strumenti per affrontare le crisi con ammortizzatori sociali a difesa del reddito anche quando il lavoro diminuiva. Con essi la relazione diretta tra lavoro e reddito veniva incrinata nella convinzione comune che la tenuta dei redditi avrebbe evitato la caduta della domanda e favorito la ripresa dell'occupazione.

Negli ultimi anni un attacco a quella relazione è venuto dal fronte opposto: riducendo il lavoro stabile e sviluppando quello precario, anche nei pochi anni in cui il lavoro complessivo è aumentato, i redditi da lavoro sono diminuiti. Con la crisi, quella relazione è stata ripristinata - meno lavoro e meno redditi in una spirale recessiva di cui non si intravede la fine - ed adesso, tra disoccupati che corrispondono alle definizioni statistiche e scoraggiati con diverse sfumature, le persone cui viene negato il diritto sia al lavoro che al reddito superano i cinque milioni.

In questo contesto, ed a quanto sembra solo nella sinistra italiana, si sta sviluppando un dibattito sulle possibili vie d'uscita che introduce ulteriori elementi di separazione, anzi di vero e proprio divorzio, tra lavoro e redditi: le proposte di reddito di cittadinanza e di reddito inserimento, di reddito minimo e di reddito sociale nascono da questa linea di ricerca e tendono a garantire forme di reddito sganciate dalla prestazione lavorativa. A queste proposte si aggiungono quelle che intendono affrontare la lotta alla disoccupazione agendo non sul reddito, ma sul lavoro attraverso la ridistribuzione delle ore lavorate.
I sostenitori le due opzioni sono mossi dalla convinzione che i livelli di disoccupazione raggiunti non saranno facilmente assorbiti, mentre altri a sinistra vedono in queste ipotesi il pericolo di una accettazione della realtà e di una rinuncia al diritto al lavoro. Siamo di fronte, così, ad un dibattito sul futuro di lavoro e reddito che non è nuovo a sinistra. Senza risalire fino a Marx e Keynes, esso ha alle spalle, elaborazioni affascinanti come quelle degli anni ottanta e di Andrè Gorz, concrete sperimentazioni generali come quella francese sulle 35 ore ed applicazioni emergenziali per affrontare situazioni di crisi di settori produttivi.

Quale è il bilancio di quelle esperienze? Se si esclude quella tedesca nel settore auto che ha ricalcato il modello dei contratti di solidarietà tra lavoratori di una azienda per difendere il posto di tutti, l'esperienza delle "35 ore in un solo paese" è stata di fatto vanificata dalle leggi ferree della competizione globale, mentre le teorie di Gorz sulla distribuzione del lavoro tra persone e nell'arco della vita sono rimaste nel libro dei sogni della sinistra. Ci ritroviamo così con una disoccupazione che ha raggiunto dimensioni senza precedenti in tutti i paesi sviluppati, mentre niente lascia prevedere che ci potrà essere una ripresa con tassi di crescita tali da consentirne il riassorbimento.

Perché è accaduto tutto questo e siamo di fronte oggi ad una crisi che sta trascinando verso il baratro lavoro e redditi insieme? Erano quelle, teorie e pratiche infondate ed utopiche? Sono state promosse in tempi non ancora maturi? Ci sono oggi le condizioni per introdurre una vera e propria rivoluzione nel lavoro che riguarda tempi, redditi e loro distribuzione?

Le risposte debbono muoversi tra due esigenze estreme: quella di misure immediate per alleviare i drammi del lavoro perduto e la disperazione di chi lo cerca invano; quella di soluzioni convincenti e di lungo periodo adeguate al carattere strutturale della crisi. Tra questi due estremi si dovrebbe delineare un percorso di lavoro che vorrei provare a indicare per punti.

1) Una ripresa economica, incentrata sui settori produttivi avanzati, nel recupero - urbano ed ambientale - e nei servizi alla persona è senza dubbio condizione importante per bloccare la caduta e creare nuovo lavoro.

2) Ma questo processo difficilmente potrà dare risultati significativi a breve-medio termine. Quindi misure straordinarie che attenuino gli effetti più pesanti della disoccupazione si impongono.
3)L'istituzione di un reddito di cittadinanza può rispondere a questa esigenza fungendo da ammortizzatore sociale di emergenza.

4) Essa è l'unica capace di saldare presente e futuro introducendo un principio di valore strategico: la ricchezza va distribuita non solo a coloro che contribuiscono a produrla col lavoro prestato nella sfera del mercato creando valori di scambio, ma anche a coloro che prestano attività sociali, cooperative e di cura che generano valori d'uso senza riceverne, però, una remunerazione.

5)In questo modo il reddito di cittadinanza potrebbe diventare uno strumento di "emersione e riconoscimento" di quelle attività e di loro "valorizzazione".

6) Se è vero come è vero che tantissime attività (lavoro domestico e di cura in primo luogo) producono Pil se svolte come lavoro retribuito e valgono zero se svolte gratuitamente nell'ambito familiare e del volontariato sociale, una loro "valorizzazione" tramite un reddito di cittadinanza avrebbe un altro valore strategico: far cadere quel muro che separa artificiosamente lavoro e non lavoro. occupazione e disoccupazione.

7) La distinzione tra occupati e non, infatti, è sempre più lontana dal rappresentare la realtà: all'interno del mondo del lavoro esistono ormai tante posizioni in termini di sicurezza e durata del lavoro che si può parlare di veri e propri mondi differenziati e qualche volta addirittura configgenti. Non molto diversa è la situazione nella sfera dei non occupati dove convivono aree di disperata emarginazione accanto ad aree di creatività e di impegno sociale che, in alcuni casi sono veri e propri avamposti di una nuova relazione tra lavoro e vita.

8) Insomma oggi tra occupati e non si snoda un mondo estremamente variegato in un continuum con mille sfumature. Un mondo ancora molto ancora da indagare, ma certamente non più racchiudibile nello schema classico occupati-disoccupati.

9) In questo nuovo contesto la ridistribuzione del lavoro è il secondo sentiero da percorrere. Essa può offrire risposte all'emergenza nelle situazioni di crisi con contratti aziendali di solidarietà.

10) Ma la ridistribuzione del lavoro può essere anche una risposta strategica alla diminuzione strutturale del lavoro necessario: ridistribuire il lavoro significa mettere in discussione anche i ruoli sociali, la separazione tra lavoro produttivo e lavori domestici e di cura, la relazione tra tempi di vita e di lavoro.

11) Si potrebbe, insomma, pensare ad un contratto nazionale ed europeo di solidarietà per la liberazione del lavoro e dal lavoro.

12)Ed infine: un percorso così ambizioso e complesso può essere tracciato solo da economisti ed esperti senza una partecipazione attiva dei soggetti interessati, delle mille sfumature di occupati e non e senza una sinistra politica e sindacale che elabori, ed a livello europeo, un progetto di futuro di fronte ad una crisi epocale come quella in cui siamo immersi?

Postilla

Nel 6° punto l'autore allude alla questione di fondo: è accettabile il rapporto tra lavoro e persona proprio del sistema capitalistico? A nostro parere no. Abbiamo affrontato questo tema in più occasioni (come in questa nota), e vi ritorneremo. La questione oggi è sintetizzabile in due punti: (1) è necessario definire l'obiettivo da proporsi , cioè quale concezione del lavoro in relazione alla persona si voglia assumere; occorre poi (2) valutare quali siano le proposte necessarie e possibili oggi in relazione alla loro coerenza con l'obiettivo. Quest'ultimo, a nostro parere, deve partire dal riconoscimento del fatto che il lavoro è lo strumento universale che l'uomo impiega per conoscere e trasformare il mondo in relazione ai suoi crescenti bisogni (che non si riducono a quelli elementari): che quindi non può essere "alienato" (finalizzato ad altro da sè, nella fattispecie alla formazione di profitto), e deve essere socialmente riconosciuto (quindi retribuito), quale che sia la sua rilevanza ai fini della produzione di merci. Si veda in proposito il pragrafo "il bisogno, il lavoro" della mia relazione qui)) . Sull'argomento si vedano anche gli articoli di Giorgio Lunghini, Piero Bevilacqua, quelli di Chiara Saraceno, Marco Bascetta e Sandro Mezzadra nella cartelle Lavori e - last but not least - quelli di Carlo Marx e di Claudio Napoleoni

«La diversità e la cooperazione sono un bene e un arricchimento, non un disturbo o un intoppo da superare. La democrazia è deliberazione tra diversi non semplice decisionismo per una massa di identici».

La Repubblica, 27 giugno 2013

La nostra democrazia sta attraversando una fase di tensioni e schizofrenie che non cessano di stupire. Il fondatore del blog antipartito Beppe Grillo transita il suo movimento dalla società al Parlamento, salvo poi lamentare il fatto che gli eletti del Movimento 5Stelle obbediscono al popolo italiano invece che a lui o al suo blog. Parlamentarista dichiarato quando in Parlamento i suoi non c’era ancora, sfodera ora una vocazione autoritaria e dispotica che col Parlamento va poco d’accordo. Il carattere deliberativo delle istituzioni democratiche impone un’attenzione alle differenze di vedute e una pratica della tolleranza che mal si adatta con i capipopolo. Non vi è dubbio che la strada del leader plebiscitario possa sembrare quella più semplice e naturale in tempi di crisi; quella che meglio pare adattarsi al maggioritarismo e che riesce a unire una massa larga nel nome di un capo rappresentativo. In questa impazienza con la democrazia deliberativa e parlamentare il leader del M5S si trova in sintonia con il leader del Pdl, il quale ha in questi anni portato parte dell’opinione di centrodestra (e non solo) a condividere vocazioni presidenzialiste.

Accanto a questi movimenti tendenti verso un apex verticale di leadership centralistica è in corso un fenomeno che va nella direzione opposta. In questi giorni la senatrice del Pd Laura Puppato e altri deputati e senatori del suo partito, di Sel e di Scelta Civica hanno messo in essere un concreto tentativo volto a contenere la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche e nello stesso tempo a sfuggire al semplificazionismo plebiscitario. Hanno lanciato una piattaforma dal nome significativo “Tu Parlamento” e anticipato così gli attivisti del M5S che ne hanno parlato tanto senza però riuscire a concretizzare, silenziati dalla voce del loro leader extra-parlamentare. “Tu Parlamento” è il nome di un piano partecipativo promosso da rappresentanti di diverse formazioni politiche. Lo scopo è di permettere ai cittadini di avanzare proposte al Parlamento per affrontare con più efficacia le emergenze politiche, economiche e sociali del Paese. Le proposte vengono rivolte direttamente ai rappresentanti delle forze politiche presenti in Parlamento che si sentono impegnati a valorizzare l’ascolto democratico come fattore di rinnovamento del Paese e della politica.
La partecipazione alla deliberazione è in sintonia con il piano di coinvolgimento democratico offerto dalle nuove tecnologie e previsto dall’Action Plan 2011-2015 dell’Agenda Digitale Europea. Infine, “Tu Parlamento” porta al cuore dello Stato un’attività deliberativa maturata nel nostro Paese già da alcuni anni e in corso in diverse regioni, dalla Lombardia al Lazio, dall’Emilia-Romagna alla Toscana. Sbarca a Roma con un importante messaggio: stabilire un canale di comunicazione tra il dentro e il fuori del Parlamento contribuendo a realizzare non tanto la democrazia partecipativa, ma quella rappresentativa vera e propria. E infatti uno degli aspetti di quest’ultima è la circolazione di informazioni e di idee tra eletti ed elettori per realizzare al meglio il controllo e l’autogoverno democratico, bloccando la trasformazione oligarchica che le elezioni possono facilitare.
Bisogna dare atto al gruppo di parlamentari che hanno istituito “Tu Parlamento” di aver avuto l’intelligenza di mettere in cantiere un modello di democrazia alternativo a quello plebiscitario. Un modello che riconosce l’esigenza di aprire al pluralismo e alla collegialità invece che affidarsi all’agglomerato di masse di cittadini identificati passivamente con un leader carismatico. La piattaforma partecipativa, ma meglio sarebbe dire comunicativa, propone una forma di azione democratica che è attenta alle opinione dei singoli e delle comunità locali, alla raccolta di informazioni da tutti i punti del Paese, all’apporto delle più diverse competenze; che infine impegna i parlamentari a porgere attenzione, ad ascoltare e soprattutto apprendere e decidere con più competenza. Invertendo l’abitudine a essere autoreferenziali e lontani dalla vita ordinaria delle persone.
Il dar vita a un’attività congiunta parlamento-cittadini fa pensare all’azione politica come a un agire collettivo che sia in grado di cogliere e capire la complessità, che non l’azzeri per coltivare il sogno di facili semplificazioni. La democrazia non è fatta di una massa di eguali che prende forma e voce grazie a un leader. È al contrario cooperazione anche conflittuale di diversi, perché liberi e uguali nei diritti; diversi che si accordano per cercare insieme la soluzione ai problemi che essi stessi sollevano e vogliono risolvere. Le società complesse hanno bisogno di democrazia perché devono poter fare affidamento sulla diversità delle opinioni e delle competenze, sullo scambio orizzontale invece che sul comando monocratico. Si tratta di uno stile di azione pubblica che diffida naturalmente dell’ideologia semplificatrice, un vangelo che dalle scienze economiche si vuole trasportare come su carta carbone alla politica. A dire il vero con poca saggezza, poiché anche chi un po’ mastica di teoria della scelta razionale sa che la diversità e la cooperazione sono un bene e un arricchimento, non un disturbo o un intoppo da superare. La democrazia è deliberazione tra diversi non semplicedecisionismo per una massa di identici.

Due questioni inseparabili: come costruire una società e un'economia fondate su una concezione "umana" del lavoro; come cominciare a farlo da subito.

Il manifesto, 19 giugno 2013

Alla fine ci si torna sempre. A quella contrapposizione di principio tra reddito di cittadinanza e piena occupazione, impermeabile al mutare delle circostanze e indifferente al corso della storia e cioè, per dirla in una sola parola, squisitamente dottrinaria. Ci ritorna sul manifesto del 15 giugno Giorgio Lunghini a partire dalla sua dichiarata affezione per la seguente formulazione di Adam Smith: «Il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma».

A me sembra che ciò che il mondo contemporaneo consuma in un anno o in un giorno dipenda assai più da ciò che scommette, ipotizza, immagina, proietta che non da ciò che realmente produce. L'alea di un futuro consumabile è ogni giorno sul mercato. Il capitale finanziario e gli effetti che esso determina materialmente sulle nostre vite, non scompaiono semplicemente perché ne decretiamo l'irrealtà. Non si chiamano forse «prodotti» i pacchetti finanziari che il mellifluo funzionario della banca offre alla sua clientela? E ha ancora un senso parlare di «Repubblica fondata sul lavoro» a proposito di un paese in cui il più grande dei sindacati è quello che rappresenta i pensionati, massa crescente di rentiers di cui mi sembrerebbe un po' efferato reclamare l'eutanasia?

Dovremmo dunque evitare di ricondurre costantemente la discussione sul reddito di cittadinanza iuxta propria principia. Se non per un aspetto più filosofico che economico, ossia la contrapposizione o quantomeno l'attrito tra l'etica del lavoro e l'etica della libertà. Negare questo attrito comporta, come sappiamo, conseguenze assai funeste. Ma una volta messo al sicuro il principio converrà volgere lo sguardo alle condizioni in cui ci troviamo, sottraendo il lavoro a quell'astrattezza sovrastorica che ne maschera le metamorfosi formali e sostanziali, e collocare in questo contesto il tema del reddito incondizionato.

Quel reddito - sostiene Lunghini - «è semplicemente l'eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi». Questa eccedenza, come sappiamo, è inerente al rapporto capitalistico e, più in generale, a ogni processo di accumulazione. Ma può prendere diverse strade, a seconda dei rapporti di forze e delle conseguenti politiche redistributive. Questione che, di fronte all'enorme concentrazione della ricchezza cui assistiamo, non è certo trascurabile. Tuttavia la questione più importante è un'altra.

Secondo Lunghini il reddito di cittadinanza costituirebbe un palliativo incapace di garantire autonomia politica ed economica ai non occupati, suscettibile di accrescerne il numero e l'emarginazione. Tutte queste conseguenze effettivamente negative derivano da un punto di vista che considera il reddito di cittadinanza, come un puro e semplice ammortizzatore sociale, una compensazione in termini di reddito garantito di quanto non offre più il mercato del lavoro salariato. Ed è un presupposto sbagliato. Per rendersene conto bisogna porsi almeno due domande: di cosa si occupano i non occupati? E cosa se ne fa il capitale delle loro vite? I cosiddetti non occupati, tra cui bisogna annoverare un gran numero di lavoratori intermittenti, temporanei, occasionali, costituiscono il più grande se non l'unico laboratorio di sperimentazione e progettazione di nuovi servizi e attività culturali, sociali, politiche, nonché di attività produttive minori, in perenne conflitto con norme e regolamentazioni imposte da burocrazie nazionali ed europee che operano al servizio di corporazioni e poteri forti. Il tutto fiscalmente penalizzato nell'illusione, di incrementare il mercato del posto fisso. Per tornare a una formula più volte ribadita esiste una vasta cooperazione sociale produttrice di ricchezza, non riconosciuta in termini di reddito e di garanzie. Quanto alla seconda domanda, il capitale cattura a piene mani, trasformando in sua proprietà o in suo prodotto, procedimenti e risultati di questo insieme complesso di attività, avvalendosi anche di un apparato giuridico e contrattuale che spudoratamente lo agevola.

Volendo dirla in maniera un po' sfacciatamente provocatoria, tutti i discorsi sulla piena occupazione non fanno i conti con il fatto che la piena occupazione esiste già e si dà appunto in questa forma e con queste modalità. Si potrà certo obiettare che siccome i singoli e le collettività cercano sempre di tirare a campare, messa così la piena occupazione c'è sempre stata, ragion per cui questo discorso sarebbe privo di senso. Tuttavia mi sentirei di controbattere che in altre epoche e in altri contesti la massa degli esclusi vegetava in condizioni soggettive e oggettive di sostanziale passività. Non è certo questo il caso della "inoccupazione" contemporanea segnata da un attivismo evoluto e inventivo che produce indirettamente profitti, ma non riceve direttamente alcun reddito. Considerare dunque il reddito di cittadinanza, non come un ammortizzatore sociale, ma come retribuzione della partecipazione a questo processo di produzione della ricchezza costituirebbe la base dell'autonomia economica e politica dei singoli e non la sua negazione. La possibilità di sottrarre il proprio agire a una condizione di ricatto.

Ma proprio qui si manifesta il punto decisivo del conflitto e cioè il controllo sulla cooperazione sociale e sull'attività dei singoli. Se, infatti, attraverso il reddito di cittadinanza retribuiamo, senza la sacra mediazione del mercato, un insieme di interazioni sociali e di scelte produttive a prescindere dalla forma o direzione che esse prenderanno, o dal genere di bisogni e di desideri che intendono soddisfare, allora, e qui torniamo ai principi, il lavoro sarà subordinato a un'etica della libertà. E ci troveremmo più dalle parti della costituzione americana che di quella italiana, il che non significa viaggiare verso la legittimazione del capitalismo selvaggio. Il feticismo del reddito da lavoro come unico fondamento dell'autonomia del singolo deriva dal fatto che il lavoro presuppone sempre un datore di lavoro o un committente, un comando, un controllo e dunque, in ultima analisi, una eteronomia.

Il presupposto da cui muove Lunghini non può che essere pienamente condiviso: «Il livello della produzione capitalistica non viene deciso in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di una umanità socialmente sviluppata, bensì in base al saggio dei profitti». Se si vuole sostenere una crescita dell'occupazione che poggi sulla soddisfazione dei bisogni insoddisfatti, e in quanto tali inesauribili, bisognerà avventurarsi «fuori dalla dimensione capitalistica e mercantile della società», agendo negli spazi, se ve ne sono, che essa non intende occupare.

Tutto il problema sta nella natura di quel «fuori». Ossia nella scelta e nella forme di esecuzione di quei lavori concreti strettamente vincolati ai valori d'uso, e soprattutto nel soggetto investito di questa scelta. Che per Lunghini è ancora una volta lo stato, sia pure attraverso «istituzioni tutte da inventare», che quelle già inventate a questo scopo sono piuttosto agghiaccianti. Chi deciderà se gli ausiliari del traffico siano lavoro socialmente utile? Se la street art risponda o meno a un bisogno sociale? In quali quantità e con quali modalità dovremo distribuire il nostro tempo nel mosaico di attività che compongono la vita precaria? E soprattutto quale sarà il livello di reddito equo per il nostro operare a favore dei bisogni sociali ossia per il "lavoro socialmente utile", certificato da qualcuno come tale? E anche, una volta usciti dall'economia di mercato continuerà ad imporsi una qualche forma di calcolo costi-benefici e con quali parametri? Le risposte che sono state date a questi quesiti non possono certo dirsi soddisfacenti.

Se è vero che i "lavori concreti" contribuirebbero, attraverso il soddisfacimento di bisogni sociali, anche alla produttività del lavoro astratto impegnato nella produzione di valori di scambio, e magari al contenimento del suo costo, non è altrettanto vero che contribuirebbero ad accrescere l'autonomia della comunità operosa del precariato. Il reddito di cittadinanza non è che la possibilità di agire, avendo garantite dignitose condizioni di vita, fuori dal mercato senza per questo dover sottostare all'esame di uno "stato etico", alla sua idea di "concretezza" e "utilità". È, al tempo stesso, un mezzo di produzione e uno strumento di libertà. Un investimento al buio sulle soggettività e sulla potenza della loro interazione. Bisogna fidarsi di questi "spiriti animali" senza scopo di lucro? Forse. Dello stato è abbastanza assodato che no. Tra le tante definizioni che del reddito di base sono state date se ne potrebbe allora aggiungere un'altra: reddito di libertà.

Sull'argomento vedi anche l'articolo di Piero Bevilacqua e la postilla di eddyburg all'articolo di Lunghini

Un sentiero di lettura sulla produzione culturale. Dai saggi dello storico Eric Hobsbawm al «forte» relativismo culturale di Rino Genovese, allo sciame dell'intelligenza collettiva in Rete. Gramsci, Sartre, Roosevelt Benda e il movimento 5Stelle.

Il manifesto, 18 giugno 2013

La sua morte è stata annunciata più volte, per essere in seguito altrettanto repentinamente smentita. Il primo che ne ha stilato un obituary, attraverso un libro segnato da una malcelata nostalgia per il passato alle sue spalle, la cui popolarità è inversamente proporzionale alla conoscenza delle tesi lì espresse, è Julien Benda, che ne Il tradimento dei chierici denunciava la scomparsa dell'intellettuale custode di valori universali a favore di un personaggio pubblico impegnato nell'agone politico. Il tradimento, stava nella rinuncia alla sua separatezza dalla mondanità: separatezza tanto importante quanto indispensabile per continuare a illuminare la caverna dove uomini e donne vivono, diradando così le ombre che impediscono la ricerca della verità. Tempo un decennio - il Tradimento dei chierici fu pubblicato nel 1927 - e gli intellettuali diventarono una presenza abituale nella sfera pubblica, grazie alle loro prese di posizione contro il fascismo e il nazismo, ma anche per l'impegno, al di là dell'Oceano, nel New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt. Sempre negli anni Trenta, dal carcere Antonio Gramsci scriveva le note sull'intellettuale organico come una conseguenza della modernità capitalistica. La partecipazione dell'intellettuale alla vita pubblica, più che decretarne la morte, segnalava il potere che esercitava nell'arena politica.

La gabbia della parcellizzazione

È stato dunque l'intellettuale organico la figura che, nel bene e nel male, si è imposta nel Novecento. Anche il maître-à-penser caro a Jean-Paul Sartre era un intellettuale che si incamminava sulla strada dell'impegno politico, rivendicando un'autonomia di giudizio dal partito che doveva rappresentare la classe, ma si considerava tuttavia organico a un progetto di trasformazione radicale della società. Doveva compiersi il giro di boa degli anni Settanta affinché fosse nuovamente annunciata la morte dell'intellettuale. Anche questa volta l'annuncio veniva dalla Francia e se ne fece portavoce, tra gli altri, Michel Foucault.

L'intellettuale organico e il maître à penser, veniva detto, erano figure divenute improponibili in una realtà che vedeva una parcellizzazione del sapere veicolata dall'industria culturale e dall'uso sempre più intensivo del sapere nella produzione di merci. Il problema, tuttavia, non era il ritorno alla condizione solitaria, separata dalla realtà sociale dell'intellettuale, bensì la politicizzazione dei saperi disciplinari.

L'intellettuale specifico, e la forma mondana che ha assunto, il tecnico, è una figura che non afferma né valori universali né l'adesione a una politica della trasformazione, ma che punta semmai a un uso politico delle proprie competenze. È questa la parabola che emerge da una serie di scritti dello storico Eric Hobsbawm pubblicati dopo la sua morte, avvenuta nell'ottobre del 2012, e tradotti in Italia da Rizzoli con il titolo La fine della cultura (pp. 310, euro 20), del breve scritto di Rino Genovese Il destino dell'intellettuale (manifestolibri, pp. 126, euro 15) e dall'ambizioso saggio del giovane ricercatore Francesco Antonelli Da élite a sciame (Le Lettere, pp. 362, euro 24).

Sono tre libri tra loro molto diversi, sia per stile enunciativo che per le «discipline» dei tre autori, storico il primo, filosofo il secondo, sociologo il terzo. In ogni caso, tutti e tre riflettono sulla morte dell'intellettuale. Per Hobsbawm si è consumata nel secolo breve, dovuta a quel punto di non ritorno che è stata la sconfitta dei progetti politici di trasformazione radicale della società. Questo non significa che la sua scomparsa abbia lasciato un vuoto. Più prosaicamente, se la modernità ha visto manifestarsi l'intellettuale organico o specifico, nel capitalismo postmoderno il protagonista nella socializzazione del sapere è l'opinion maker, cioè il produttore di opinione pubblica che non fa leva sull'adesione a valori universali, né su una competenza specifica, ma soltanto su una competenza nell'uso di un mezzo di produzione «specifico», come radio, televisione, carta stampata e, più recentemente, la Rete.

Un vitale disincanto

Il libro dello storico inglese è costruito partendo dalla cosiddetta «autoriflessività» della modernità borghese per poi spaziare sul ruolo della cultura nella formazione delle identità nazionali, tanto in Europa che nel resto del mondo e di come tale ruolo si presenti in una forma caricaturale nei tanti etnonazionalismi che si sono presentati sulla scena pubblica dopo il crollo del socialismo reale. Annota con disincanto la marginalità che hanno ormai alcuni «manufatti culturali», indipendentemente dal successo di pubblico che hanno alcuni festival culturali dedicati, ad esempio, all'opera classica, al jazz e al teatro. Tutto questo per giungere alla conclusione sulla fine della cultura. L'accesso al sapere è garantito, ovviamente. È un diritto acquisito. La differenza è se tale diritto debba essere garantito dal mercato, come avviene in gran parte dei paesi capitalistici, o da una qualche forma di intervento pubblico in favore dei produttori di cultura.

Per quanto riguarda la figura dell'intellettuale, Hobsbawm riflette sull'eclissi dell'intellettuale organico (lo storico inglese ha letto e studiato gli scritti di Antonio Gramsci dal carcere ben prima che venissero tradotti in inglese) e sulla fragilità che ha sempre avuto la figura del maître-à-penser. Anche su questo passaggio prevale il disincanto. Hobsbawm sostiene, e qui la sua posizione coincide quasi alla lettera con quanto ha sostenuto, alla metà degli anni Novanta, Edward Said in un ciclo di conferenze alla Reith Lectures e poi raccolto nel volume Dire la verità (Feltrinelli), che l'intellettuale deve esprimere il dissenso quando è necessario, esercitando così uno spirito critico, anche quando questo è in contraddizione con la sua posizione politica. La posta in gioco è dunque l'autonomia dell'intellettuale da potere, sia di quello politico che di quello esercitato dall'industria culturale e dal mercato. Tutto ciò non contrasta la tendenza della produzione dell'opinione pubblica da parte di altre figure, come attori, attrici, sportivi, giornalisti, presentatori, ma facilita la messa a fuoco politica della costruzione di punti di vista critici sulla realtà.

Sulla stessa posizione è Rino Genovese nel Destino dell'intellettuale, saggio dolceamaro sull'incapacità del Sessantotto di immaginare una figura intellettuale diversa da quella dell'intellettuale organico che si chiude con l'auspicio di una rinnovata presa di parola degli intellettuali nella difesa di valori universali - verità, giustizia, libertà e uguaglianza - nella prospettiva di un relativismo culturale «forte», cioè consapevole del fatto che l'intellettuale è sempre «situato» in un contesto geopolitico.

I lavoratori della conoscenza

Gli scritti di Hobsbawm e quelli di Rino Genovese si fermano sul ciglio di quel nuovo modo di produzione dell'opinione pubblica, che invece è varcato da Francesco Antonelli nel suo Da élite a sciame. Anche qui l'autore parte da molto lontano; assume come dirimenti sia la riflessione di Benda che quella di Antonio Gramsci, mettendo in evidenza l'entrata nell'agone politico dei «colti» e assegnando al partito di massa il ruolo di medium dell'intellettuale pubblico. Antonelli tuttavia è interessato a comprendere cosa viene dopo la morte dell'intellettuale pubblico, facendo sue alcune tesi sul capitalismo cognitivo, in particolare modo quelle che sottolineano non solo che il sapere e la conoscenza sono diventati mezzi produttivi, ma anche il fatto che la produzione di senso è ormai un settore produttivo come molti altri. Per questo preferisce parlare di intelligenza collettiva e di parallela obsolescenza sia degli intellettuali pubblici che di quelli specifici. Per l'autore, chi vive del lavoro intellettuale deve essere qualificato come un lavoratore della conoscenza. È questa la figura erede dell'intellettuale.

Rimangono tuttavia indefiniti alcuni aspetti legati alla figura dell'intellettuale. Il rapporto con il potere, in primo luogo. C'è poi la necessità di definire qual è il rapporto tra gli intellettuali-lavoratori della conoscenza e i i movimenti che tendono a trasformare la realtà. Infine: una volta che l'intellettuale è ormai un lavoratore della conoscenza, quale sono le modalità di organizzazione di questa componente del lavoro vivo? Lo sciame indicato nel libro di Antonelli più che una risposta a questa ultima domanda indica semmai i comportamenti dei lavoratori della conoscenza, ma fornisce anche alcune tendenze presenti nella produzione dell'opinione pubblica. Con l'eclissi dell'intellettuale e l'ascesa della Rete, infatti, la produzione dell'opinione pubblica richiede un «modello di business» per la produzione di senso. Già perché la supposta morte dell'intellettuale è contemporanea non solo alla pervasività dell'industria culturale, ma alla interdipendenza tra produzione e circolazione della conoscenza e formazione dell'opinione pubblica. Come infatti dimostrano alcune vicende della politica italiana, che corre il rischio di diventare un laboratorio sociale, il ruolo dei media è rappresentabile come una efficace fabbrica del consenso, ma allo stesso tempo indicano che la politica e la produzione dell'opinione pubblica possono diventare un fattore diretto nella sviluppo di imprese che operano nella Rete, come dimostra il rapporto tra crescita di influenza del Movimento cinque stelle, la redditività economica dei blog, dei siti e delle imprese legate a quel movimento. Lo stesso si può dire dei social network, dove l'opinione pubblica è «spacchettata» e ridotta a un ammasso di dati che viene venduto per pianificare campagne pubblicitarie e politiche mirate.

In una situazione di questo tipo, decretare la morte dell'intellettuale è cosa facile. Eppure, quello spazio lasciato dalla sua scomparsa non rimane certo vuoto. La presenza di una coscienza critica, che più che illuminare la caverna dove viviamo serve a destrutturare i rapporti di potere vigenti e dunque a fornire materiali per una politica di trasformazione della realtà, è una presenza sempre più necessaria, sapendo che ogni riproposizione dell'aura dell'intellettuale è solo un'operazione di testimonianza e di nostalgia per un passato che non c'è più.

Meno battuta è la strada indicata da chi vede nel «lavoratore della conoscenza» il suo erede. Da qui la necessità di definire la sua autonomia dall'industria culturale e dalle imprese che operano in Rete. Una strada impervia, sicuramente, ma quella da perseguire per conseguire la produzione e la circolazione di una coscienza critica sulla realtà. Benedetto Vecchi

La sua morte è stata annunciata più volte, per essere in seguito altrettanto repentinamente smentita. Il primo che ne ha stilato un obituary, attraverso un libro segnato da una malcelata nostalgia per il passato alle sue spalle, la cui popolarità è inversamente proporzionale alla conoscenza delle tesi lì espresse, è Julien Benda, che ne Il tradimento dei chierici denunciava la scomparsa dell'intellettuale custode di valori universali a favore di un personaggio pubblico impegnato nell'agone politico. Il tradimento, stava nella rinuncia alla sua separatezza dalla mondanità: separatezza tanto importante quanto indispensabile per continuare a illuminare la caverna dove uomini e donne vivono, diradando così le ombre che impediscono la ricerca della verità. Tempo un decennio - il Tradimento dei chierici fu pubblicato nel 1927 - e gli intellettuali diventarono una presenza abituale nella sfera pubblica, grazie alle loro prese di posizione contro il fascismo e il nazismo, ma anche per l'impegno, al di là dell'Oceano, nel New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt. Sempre negli anni Trenta, dal carcere Antonio Gramsci scriveva le note sull'intellettuale organico come una conseguenza della modernità capitalistica. La partecipazione dell'intellettuale alla vita pubblica, più che decretarne la morte, segnalava il potere che esercitava nell'arena politica.

La gabbia della parcellizzazione

È stato dunque l'intellettuale organico la figura che, nel bene e nel male, si è imposta nel Novecento. Anche il maître-à-penser caro a Jean-Paul Sartre era un intellettuale che si incamminava sulla strada dell'impegno politico, rivendicando un'autonomia di giudizio dal partito che doveva rappresentare la classe, ma si considerava tuttavia organico a un progetto di trasformazione radicale della società. Doveva compiersi il giro di boa degli anni Settanta affinché fosse nuovamente annunciata la morte dell'intellettuale. Anche questa volta l'annuncio veniva dalla Francia e se ne fece portavoce, tra gli altri, Michel Foucault.

L'intellettuale organico e il maître à penser, veniva detto, erano figure divenute improponibili in una realtà che vedeva una parcellizzazione del sapere veicolata dall'industria culturale e dall'uso sempre più intensivo del sapere nella produzione di merci. Il problema, tuttavia, non era il ritorno alla condizione solitaria, separata dalla realtà sociale dell'intellettuale, bensì la politicizzazione dei saperi disciplinari.

L'intellettuale specifico, e la forma mondana che ha assunto, il tecnico, è una figura che non afferma né valori universali né l'adesione a una politica della trasformazione, ma che punta semmai a un uso politico delle proprie competenze. È questa la parabola che emerge da una serie di scritti dello storico Eric Hobsbawm pubblicati dopo la sua morte, avvenuta nell'ottobre del 2012, e tradotti in Italia da Rizzoli con il titolo La fine della cultura (pp. 310, euro 20), del breve scritto di Rino Genovese Il destino dell'intellettuale (manifestolibri, pp. 126, euro 15) e dall'ambizioso saggio del giovane ricercatore Francesco Antonelli Da élite a sciame (Le Lettere, pp. 362, euro 24).

Sono tre libri tra loro molto diversi, sia per stile enunciativo che per le «discipline» dei tre autori, storico il primo, filosofo il secondo, sociologo il terzo. In ogni caso, tutti e tre riflettono sulla morte dell'intellettuale. Per Hobsbawm si è consumata nel secolo breve, dovuta a quel punto di non ritorno che è stata la sconfitta dei progetti politici di trasformazione radicale della società. Questo non significa che la sua scomparsa abbia lasciato un vuoto. Più prosaicamente, se la modernità ha visto manifestarsi l'intellettuale organico o specifico, nel capitalismo postmoderno il protagonista nella socializzazione del sapere è l'opinion maker, cioè il produttore di opinione pubblica che non fa leva sull'adesione a valori universali, né su una competenza specifica, ma soltanto su una competenza nell'uso di un mezzo di produzione «specifico», come radio, televisione, carta stampata e, più recentemente, la Rete.

Un vitale disincanto

Il libro dello storico inglese è costruito partendo dalla cosiddetta «autoriflessività» della modernità borghese per poi spaziare sul ruolo della cultura nella formazione delle identità nazionali, tanto in Europa che nel resto del mondo e di come tale ruolo si presenti in una forma caricaturale nei tanti etnonazionalismi che si sono presentati sulla scena pubblica dopo il crollo del socialismo reale. Annota con disincanto la marginalità che hanno ormai alcuni «manufatti culturali», indipendentemente dal successo di pubblico che hanno alcuni festival culturali dedicati, ad esempio, all'opera classica, al jazz e al teatro. Tutto questo per giungere alla conclusione sulla fine della cultura. L'accesso al sapere è garantito, ovviamente. È un diritto acquisito. La differenza è se tale diritto debba essere garantito dal mercato, come avviene in gran parte dei paesi capitalistici, o da una qualche forma di intervento pubblico in favore dei produttori di cultura.

Per quanto riguarda la figura dell'intellettuale, Hobsbawm riflette sull'eclissi dell'intellettuale organico (lo storico inglese ha letto e studiato gli scritti di Antonio Gramsci dal carcere ben prima che venissero tradotti in inglese) e sulla fragilità che ha sempre avuto la figura del maître-à-penser. Anche su questo passaggio prevale il disincanto. Hobsbawm sostiene, e qui la sua posizione coincide quasi alla lettera con quanto ha sostenuto, alla metà degli anni Novanta, Edward Said in un ciclo di conferenze alla Reith Lectures e poi raccolto nel volume Dire la verità (Feltrinelli), che l'intellettuale deve esprimere il dissenso quando è necessario, esercitando così uno spirito critico, anche quando questo è in contraddizione con la sua posizione politica. La posta in gioco è dunque l'autonomia dell'intellettuale da potere, sia di quello politico che di quello esercitato dall'industria culturale e dal mercato. Tutto ciò non contrasta la tendenza della produzione dell'opinione pubblica da parte di altre figure, come attori, attrici, sportivi, giornalisti, presentatori, ma facilita la messa a fuoco politica della costruzione di punti di vista critici sulla realtà.

Sulla stessa posizione è Rino Genovese nel Destino dell'intellettuale, saggio dolceamaro sull'incapacità del Sessantotto di immaginare una figura intellettuale diversa da quella dell'intellettuale organico che si chiude con l'auspicio di una rinnovata presa di parola degli intellettuali nella difesa di valori universali - verità, giustizia, libertà e uguaglianza - nella prospettiva di un relativismo culturale «forte», cioè consapevole del fatto che l'intellettuale è sempre «situato» in un contesto geopolitico.

I lavoratori della conoscenza

Gli scritti di Hobsbawm e quelli di Rino Genovese si fermano sul ciglio di quel nuovo modo di produzione dell'opinione pubblica, che invece è varcato da Francesco Antonelli nel suo Da élite a sciame. Anche qui l'autore parte da molto lontano; assume come dirimenti sia la riflessione di Benda che quella di Antonio Gramsci, mettendo in evidenza l'entrata nell'agone politico dei «colti» e assegnando al partito di massa il ruolo di medium dell'intellettuale pubblico. Antonelli tuttavia è interessato a comprendere cosa viene dopo la morte dell'intellettuale pubblico, facendo sue alcune tesi sul capitalismo cognitivo, in particolare modo quelle che sottolineano non solo che il sapere e la conoscenza sono diventati mezzi produttivi, ma anche il fatto che la produzione di senso è ormai un settore produttivo come molti altri. Per questo preferisce parlare di intelligenza collettiva e di parallela obsolescenza sia degli intellettuali pubblici che di quelli specifici. Per l'autore, chi vive del lavoro intellettuale deve essere qualificato come un lavoratore della conoscenza. È questa la figura erede dell'intellettuale.

Rimangono tuttavia indefiniti alcuni aspetti legati alla figura dell'intellettuale. Il rapporto con il potere, in primo luogo. C'è poi la necessità di definire qual è il rapporto tra gli intellettuali-lavoratori della conoscenza e i i movimenti che tendono a trasformare la realtà. Infine: una volta che l'intellettuale è ormai un lavoratore della conoscenza, quale sono le modalità di organizzazione di questa componente del lavoro vivo? Lo sciame indicato nel libro di Antonelli più che una risposta a questa ultima domanda indica semmai i comportamenti dei lavoratori della conoscenza, ma fornisce anche alcune tendenze presenti nella produzione dell'opinione pubblica. Con l'eclissi dell'intellettuale e l'ascesa della Rete, infatti, la produzione dell'opinione pubblica richiede un «modello di business» per la produzione di senso. Già perché la supposta morte dell'intellettuale è contemporanea non solo alla pervasività dell'industria culturale, ma alla interdipendenza tra produzione e circolazione della conoscenza e formazione dell'opinione pubblica. Come infatti dimostrano alcune vicende della politica italiana, che corre il rischio di diventare un laboratorio sociale, il ruolo dei media è rappresentabile come una efficace fabbrica del consenso, ma allo stesso tempo indicano che la politica e la produzione dell'opinione pubblica possono diventare un fattore diretto nella sviluppo di imprese che operano nella Rete, come dimostra il rapporto tra crescita di influenza del Movimento cinque stelle, la redditività economica dei blog, dei siti e delle imprese legate a quel movimento. Lo stesso si può dire dei social network, dove l'opinione pubblica è «spacchettata» e ridotta a un ammasso di dati che viene venduto per pianificare campagne pubblicitarie e politiche mirate.

In una situazione di questo tipo, decretare la morte dell'intellettuale è cosa facile. Eppure, quello spazio lasciato dalla sua scomparsa non rimane certo vuoto. La presenza di una coscienza critica, che più che illuminare la caverna dove viviamo serve a destrutturare i rapporti di potere vigenti e dunque a fornire materiali per una politica di trasformazione della realtà, è una presenza sempre più necessaria, sapendo che ogni riproposizione dell'aura dell'intellettuale è solo un'operazione di testimonianza e di nostalgia per un passato che non c'è più.

Meno battuta è la strada indicata da chi vede nel «lavoratore della conoscenza» il suo erede. Da qui la necessità di definire la sua autonomia dall'industria culturale e dalle imprese che operano in Rete. Una strada impervia, sicuramente, ma quella da perseguire per conseguire la produzione e la circolazione di una coscienza critica sulla realtà.

Sottrarre una grande massa di cittadini all'obbligo di un lavoro qualunque per sopravvivere è una scelta di umana liberazione. Articolo in attesa di pubblicazione su

il manifesto

Sul manifesto del 15 giugno Giorgio Lunghini è intervenuto per contestare l'utilità di perseguire il « reddito di cittadinanza o altre forme di reddito garantito », in nome di un'altra possibile prospettiva: quella della riduzione della giornata lavorativa, con la conseguente distribuzione del lavoro fra una più ampia platea di aspiranti. L' obiezione avanzata da Lunghini è di gran rilievo sia sotto il profilo storico che teorico. Sotto il profilo storico è il caso di ricordare che la riduzione della giornata lavorativa, avviata con delimitazione per legge nelle fabbriche inglesi negli anni '30 dell'Ottocento, segna una pagina nuova nella storia del capitale. Come ricordava Marx, cessa allora l'estrazione di plusvalore assoluto, sottratto agli operai allungando indefinitamente la durata del loro lavoro, e inizia l'epoca del plusvalore relativo: quello che il capitalista – di fronte al vincolo dell'orario - estrae accrescendo la produttività del lavoro tramite le macchine e la continua riorganizzazione del processo produttivo.

Le lotte operaie volte a ridurre la giornata lavorativa costituiranno da allora la spinta progressiva che percorre il capitalismo per tutto il corso dell'800 e del '900, contribuendo a cambiare profondamente il volto delle società industriali. Infine, sotto il profilo teorico, la prospettiva di una progressiva riduzione dell'orario si inserisce nell'orizzonte della “liberazione dell'uomo dal lavoro” che , com'è noto, costituisce uno scenario di utopia concreta, vagheggiato già da Marx e di certo nelle possibilità materiali dell'umanità futura.

Dove nascono allora i problemi? Come lo stesso Lunghini riconosce, le difficoltà che oggi sbarrano la strada verso un tale obiettivo sono enormi: « una politica di riduzione dell'orario di lavoro( a parità di salario) suscita oggi ovvie e probabilmente insuperabili resistenze da parte dei capitalisti ». D'altra parte, essa non potrebbe costituire la via solitaria di un solo stato e occorrerebbe approdare ad accordi internazionali per risolvere i problemi di competitività fra i vari paesi. D'altro canto, la riduzione dell'orario « presuppone salari di partenza relativamente elevati e una situazione economica florida, tendenzialmente di piena occupazione ». Scenario dunque lontanissimo da quello attuale. Ma le possibilità di percorrere la prospettiva della riduzione della giornata lavorativa appaiono oggi ancor più proibitive per ragioni che non compaiono nell'analisi di Lunghini. E vanno brevemente ricordate.

Oggi sono sempre più numerosi gli analisti che considerano l'attuale crisi peggiore della Grande Depressione del 1929. Solitamente, tuttavia costoro trascurano un aspetto che segna una profonda differenza tra il nostro tempo e la situazione dei rapporti di classe e del quadro politico internazionale negli anni Trenta. Oggi, il rapporto di potere tra capitale e lavoro è sprofondato in una asimmetria abissale fra le due forze. Il capitale ha a disposizione una forza di lavoro docile e rassegnata, un “esercito industriale di riserva “a livello mondiale quale mai era esistito nella storia umana. Sa che ha poco da temere dalle sporadiche esplosioni di rabbia dei lavoratori, i quali ad altro non ambiscono che ad avere una qualche occupazione e ad essere intensivamente sfruttati. Non ci si fa molto caso, ma l'ottusità con cui i gruppi dirigenti europei rispondono alla crisi con le medesime politiche che l'hanno generata si spiega anche – oltre all'esaurimento storico delle prospettive neoliberiste – con l'assenza di una minaccia di classe di proporzionata grandezza. Essi sanno bene che esiste tutto lo spazio politico per uscire se non dalla crisi, dalla sua fase più turbolenta, guadagnando ulteriore flessibilità e manovrabilità della variabile lavoro.

Si comprende bene tutto questo se noi osserviamo la creatività e l'intelligenza politica dispiegata dalla borghesia, dagli intellettuali, dal ceto politico nella Grande Depressione. Roosevelt non solo avviò il New Deal, esprimendo una capacità di progetto che sembra essersi avvizzita nei cervelli degli attuali governanti. Su sua iniziativa il Senato degli USA aveva istituito nel 1933 la giornata lavorativa di 30 ore: una legge che poi non venne ratificata alla Camera per la vittoriosa opposizione del lobby industriali. Ma 5 anni dopo, con il Fair Labor Standards Act, che stabiliva un tetto massimo di 44 ore introduceva di fatto la media di 40 ore settimanali. Ma in Usa operavano allora sindacati fra i più combattivi del mondo. In Europa, intorno al 1930, Keynes vagheggiava nelle Possibilità economiche per i nostri nipoti, lo scenario avvenire di una giornata lavorativa ridotta a tre ore. Ma a quell'epoca le rivolte operaie erano un pericolo non sottovalutabile. Per i dirigenti degli anni 30 la Rivoluzione d'Ottobre non era una favola remota. Essa aveva mostrato al mondo intero che operai e contadini guidati da un partito potevano rovesciare una società, abbattere il capitalismo. E quella minaccia costituì per decenni la spinta riformatrice del capitalismo in tutto l'Occidente.

E oggi, in Europa, dove si trova un'aggregazione politica di forze riformatrici antagoniste che abbiano almeno un profilo continentale? Dove sono le idee, le proposte, il fervore riformatore, che sarebbero necessari? E in Italia? Temo che nessuno l'abbia osservato. Negli ultimi tre-quattro mesi la cronaca quotidiana è stata intessuta da uno stillicidio di notizie tragiche: imprese chiuse e operai gettati sul lastrico, milioni di persone cadute in miseria, rinuncia crescente alle cure mediche fra i meno abbienti, disoccupazione giovanile senza precedenti , persone che si impiccavano o si davano fuoco per aver perso l'impresa o il lavoro. E qualcuno, in questi mesi, ha sentito una proposta, una idea, una qualche voce da parte dei sindacati, e in primissimo luogo da parte di uno dei maggiori e più gloriosi sindacati europei, vale a dire la CGIL? Nulla, gelo, silenzio. Nessuno pensa, nessuno elabora idee nel sindacato? Suo solo compito è difendere occupati e cassintegrati? Ma sono decenni che, limitandosi a tale frontiera difensiva, aggrappandosi all'esistente, il sindacato non fa che indietreggiare, acconciandosi ad un ruolo sempre più subalterno e ininfluente. Della rappresentanza politica del mondo del lavoro, osservando l'attuale stato del PD , appare ovvio che non è neppure il caso di parlare.

Se questo è, assai sommariamente, il quadro della nostra situazione come facciamo a proporre la riduzione della giornata lavorativa? Per la verità Lunghini avanza anche proposte alternative come quella dei « Lavori prestati non nella sfera della produzione delle merci, ma nella sfera della riproduzione sociale e della manutenzione almeno dell'ambiente ». Non si comprende, tuttavia, per quale ragione, allorché si sofferma sul finanziamento del reddito di cittadinanza questo appare destinato ad essere sostenuto dal reddito dei lavoratori occupati. Al contrario, i lavori fuori dal circuito della produzione di merci ricadrebbero sulle rendite e sulla fiscalità progressiva. Supponiamo per la differenza di dimensioni dei costi. Ma allora questi lavori alternativi sono una ben piccola cosa? Francamente non si comprende perché non si possa ricorrere alle risorse finanziarie della rendita per finanziare il reddito di cittadinanza. Questo già accade in tanti Paesi d'Europa e i lavoratori occupati non se ne lamentano.

A me sembra che Lunghini si rappresenti un sistema industriale che tiene poco conto dalla gigantesca metamorfosi in senso finanziario subita dal capitale. Immense quantità di denaro sono oggi in giro per il mondo in cerca di profitti. E' qui che occorre attingere le risorse per fornire almeno ai senza lavoro un reddito che li sottragga al “ricatto della vita” a cui oggi soggiacciono. Ma Lunghini tiene anche poco conto della leva politica che la battaglia per il reddito rende utilizzabile. La sua richiesta costituirebbe una rivendicazione di larga popolarità, capace di mobilitare vaste forze. Separare, sia pure parzialmente, il reddito dal lavoro significa incominciare a pensare la ricchezza nazionale prodotta come un bene comune da ripartire. Sottrarre una grande massa di cittadini all'obbligo di un lavoro qualunque per sopravvivere è una scelta di umana liberazione, che può agevolare l'impiego di masse crescenti verso lavori volontari, esterni al ciclo di riproduzione delle merci. Per valorizzare la società, prima che l'economia. Un progetto che si può attuare subito e non fra vent'anni, quando saremo tutti morti.

www.amigi.org

Il saggio di Luciano Canfora edito da Sellerio (

La trappola. Il vero volto del maggioritario) «è un vero e proprio atto di accusa alla sinistra, indegna erede della tradizione del parlamentarismo democratico fondata sul voto uguale sancito dall'art. 48 della Costituzione». Il manifesto, 14 giugno 2013

Del porcellum si continuerà a disquisire a lungo, dato che piace tanto a tutti e non sarà cambiato, almeno così si promette, se non a conclusione delle riforme costituzionali. Fuori dal coro di questo annoso dibattito tra politici professionisti che va avanti da anni, inconcludente come acqua pestata nel mortaio (Napolitano), oltre ai contributi critici della migliore dottrina costituzionalista italiana ampiamente ospitata in questo giornale, abbiamo da poco anche il saggio di Luciano Canfora edito da Sellerio La trappola. Il vero volto del maggioritario: un vero e proprio atto di accusa alla sinistra, indegna erede della tradizione del parlamentarismo democratico fondata sul voto uguale sancito dall'art. 48 Cost.

La vicenda di questa tradizione è ripercorsa con la maestria dello storico partendo da una premessa: l'aver ottenuto con la legge maggioritaria alle ultime elezioni il triplo dei deputati dello schieramento avverso nonostante una manciata di voti in più «è stato il più grande scandalo mai verificatosi nella storia politica italiana, più scandaloso persino del risultato ottenuto dal 'listone' mussoliniano (e associati), grazie alla legge Acerbo, nelle elezioni politiche dell'aprile 1924». Secondo Canfora la legge elettorale è intimamente connessa all'assetto costituzionale e se la si cambia in senso maggioritario, si altera il principio basilare del voto uguale (un uomo - un voto).
Questo assunto è stato sempre presente nelle riflessioni e nelle battaglie della sinistra, tanto da determinarla ad ingaggiare una grande battaglia, parlamentare e popolare (scioperi e scontri con la polizia), contro la proposta di legge della Democrazia cristiana che, nella imminenza delle elezioni politiche del 1953, voleva introdurre un premio di maggioranza al partito che avesse raggiunto il 50% più uno dei voti: la (allora) famigerata "legge truffa". Ricordando che la Costituente del '46 e il primo parlamento repubblicano del '48 erano stati eletti con una legge rigorosamente proporzionale, a supporto delle sue argomentazioni l1:sCanfora riporta integralmente l'intervento alla Camera di Togliatti nella seduta dell'8 dicembre 1952, indicato proprio come una lezione di diritto costituzionale».
L'escursus storico e giuridico di Togliatti è minuzioso e puntuale e ritorna sempre sul punto focale: «Non esistono eccezioni nella dottrina, ed evidente risulta, per conseguenza, che quando il diritto elettorale venga radicalmente modificato è la Costituzione che viene posta in discussione e toccata. Quando poi si giunga a dimostrare che un determinato ordinamento elettorale che si propone è contrario a determinate norme fissate dalla Costituzione, è la Costituzione stessa che viene violata, distrutta». Togliatti ricorda al presidente del consiglio proponente (e lo si dovrebbe ricordare anche all'attuale) il giuramento di fedeltà alla Costituzione e il suo obbligo di difenderla e, semmai, di avere il buon senso di far proporre al suo partito, la Dc, almeno una modifica della Carta.
Canfora, con realismo, visti i tempi, si pone il problema della difficoltà politica di tornare ad una pura e semplice legge elettorale proporzionale e, come extrema ratio, propone una legge simile a quella tedesca, proporzionale e con uno sbarramento al 5%, proprio per non tradire sino in fondo la Costituzione. Una lettura piacevole, ma amara, con la speranza che dalla stessa almeno parte della sinistra tragga un qualche insegnamento che ci aiuti ad uscire dalla trappola del maggioritario.
Riagganciandomi immodestamente a Togliatti, su questo punto, per la legge elettorale e la riforma semipresidenzialistica dello Stato, e cioè per la soppressione del voto uguale e per l'abbandono della funzione di terzietà del Capo dello Stato, penso che chi si accinge ad una riforma radicale della Costituzione avrebbe il dovere non di manipolarla attraverso l'uso disinvolto dell'art. 138 (che è stato concepito per aggiustamenti parziali), ma di accettare la sfida eleggendo, con voto proporzionale, una assemblea costituente. Certo anche questo passaggio sembra urtare contro il dettato dell'art. 139 Cost. che, prescrivendo come la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale, non sembra alludere solo alla impossibilità del ritorno di un re, ma anche ad uno stravolgimento della "forma repubblicana" come è strutturata dalla Costituzione vigente, voto uguale e Capo dello Stato organo terzo compresi.
Un libro ( "Il soggetto produttivo da Foucault a Marx" di Pierre Macherey) che esplora la celebre definizione metaeconomica del lavoro dell'uomo di Marx («L'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo») e le sue ricadute sulla società di oggi

Il manifesto, 13 giugno 2013

«Marx per me non esiste», dichiarò Michel Foucault in un dialogo del 1976 con la redazione della rivista Hérodote. E aggiungeva: «voglio dire questa specie d'entità che s'è costruita attorno a un nome proprio, e che si riferisce ora a un certo individuo, ora alla totalità di quel che ha scritto, ora a un immenso processo storico che deriva da lui». C'è qui una chiave per intendere il rapporto intrattenuto da Foucault con Marx, tema che continua a essere al centro di molti studi e dibattiti (si veda ad esempio il bel libro curato da Rudy Leonelli, Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, Bulzoni, 2010): la radicale distanza di Foucault dal marxismo, inteso come compatto edificio dogmatico, si accompagnava in lui alla diffidenza nei confronti di ogni tentativo di «accademicizzare» Marx, di ridurlo a un «autore» come un altro. Quest'ultima è un'operazione certo legittima, continuava Foucault nell'intervista del 1976, ma equivale a «misconoscere la rottura che lo stesso Marx ha prodotto». Quella rottura nel cui solco Foucault ha continuato per molti versi a pensare - non senza produrre ulteriori rotture, che lo hanno spesso condotto lontano da Marx.
Il lungo saggio di Pierre Macherey, che la casa editrice ombre corte manda ora in libreria nella forma di un piccolo libro (Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx, pp. 95, postfazione di Toni Negri e Judith Revel, euro 10), interviene con grande originalità nel dibattito su questi temi. In questione non è, nel lavoro di Macherey, la ricerca delle influenze di Marx su Foucault, né l'alternativa tra l'«ipotesi di un Marx (già) foucaultiano e quella di un Foucault (ancora) marxista». Memore della lezione di Althusser, di cui fu uno dei collaboratori al tempo di Leggere il Capitale (1965), Macherey propone piuttosto una lettura «sintomatica» di alcuni testi di Marx, facendovi agire un insieme di ipotesi avanzate da Foucault, in primo luogo a proposito del potere. E al contempo, immergendole nella concettualità marxiana, punta a precisare e a ridefinire lo statuto teorico delle ipotesi di Foucault.

Gestire i corpi


L'indagine di Macherey prende le mosse dalla definizione di «bio-potere» offerta da Foucault in La volontà di sapere (1976). È lo stesso linguaggio qui utilizzato da Foucault - «l'investimento del corpo vivente, la sua valorizzazione e la gestione distributiva delle sue forze» - a segnalare lo scarto che la categoria di «bio-potere» determina nell'analisi del potere. Più che nell'ambito tradizionalmente politico è sul piano dell'«economia» che questa analisi deve ora situarsi: ma, commenta Macherey, l'economia non appare qui in primo luogo incentrata «sui valori dei beni scambiabili, sulla base di una economia delle cose; essa si preoccupa piuttosto principalmente della gestione della vita, dei corpi e delle loro 'forze'».
Vita, corpi, forze: sono termini essenziali nella critica marxiana dell'economia politica, e in particolare in quel concetto di forza lavoro che ne costituisce l'architrave. «L'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo»: così Marx definisce la forza lavoro nel primo libro del Capitale, e già Paolo Virno, in un libro di diversi anni fa (Il ricordo del presente, Bollati Boringhieri, 1999), aveva invitato a guardare a questo concetto per cogliere l'«origine non mitologica» della biopolitica foucaultiana. Macherey, per parte sua, assume la definizione marxiana della forza lavoro come filo conduttore di un'analisi del capitalismo che evidenzia la natura cruciale dei conflitti che al suo interno investono la produzione stessa di soggettività.
Decisiva, a questo riguardo, è la natura «potenziale» della forza lavoro, la distinzione fra le attitudini e le facoltà che ne definiscono il concetto e il «lavoro» vero e proprio: una volta ceduto al capitalista il diritto all'«uso» della propria forza lavoro, il possessore di quest'ultima «diventa actu», per citare ancora Marx, «quel che prima era solo potentia, forza lavoro in azione, lavoratore». È in questa distinzione, che riprende e riformula quella aristotelica tra potenza e atto, è nel «genio» con cui il capitale sfrutta il differenziale tra ciò che il lavoratore «può fare» e ciò che «concretamente fa» che Marx individua il «segreto» della produzione del plusvalore - e dunque l'origine dello sfruttamento. Commenta Macherey: «la metafisica funziona a condizione di prenderla per il verso giusto, facendola entrare in fabbrica».
La mercificazione della potenza umana, ovvero il fatto che una classe di donne e uomini sia costretta a rendere merce la propria forza lavoro (a vestire i panni dei «possessori di forza lavoro»), è il fondamento del capitalismo. Le conseguenze che ne derivano dal punto di vista della soggettività sono evidentemente di enorme importanza. Il lavoratore appare un «soggetto diviso», nel senso che, pur rimanendo «interamente padrone della propria forza lavoro», ne ha alienato l'uso (il che porta Macherey a sottolineare come il contratto di lavoro vada inteso propriamente come un contratto di «locazione» della forza lavoro e non, secondo la lettera del testo marxiano, come contratto di «compravendita»). Ma soprattutto doppia appare la natura della stessa forza lavoro: quando il capitalista acquista il diritto all'«uso» della forza lavoro, paga con il salario quello che essa «è già», ne retribuisce per così dire il valore «a riposo». Mentre quando la forza lavoro, sotto il suo comando, viene messa al lavoro, essa non è semplicemente «forza produttrice» ma forza produttiva, ovvero creatrice di valore in eccesso rispetto a quello corrisposto originariamente dal capitalista al suo possessore. E soprattutto, la «forza lavoro» come forza produttiva appare come «portatrice di potenzialità sulle quali possono essere esercitati una pressione e un controllo atti a intensificare tali potenzialità».

Rapporti di forze


Si vede bene, in questo senso, come il concetto marxiano di forza lavoro apra immediatamente lo spazio per indagare le operazioni del «bio-potere». Lavorando sulla traccia del riferimento esplicito a Marx in uno dei primi testi di Foucault in cui compare questo concetto (la conferenza tenuta a Bahia nel 1976, Le maglie del potere), Macherey rilegge in modo molto efficace alcuni concetti e temi marxiani - dal «lavoro sociale» alla «cooperazione», dal «dispotismo» di fabbrica al «campo di lavoro» - per mostrare come lo svolgimento della problematica della forza lavoro determini un'implicazione reciproca di «bio-potere» e produzione di soggettività. Si potrebbe perfino dire, annota Macherey, che «la produzione industriale capitalistica inventa l'essenza umana, sotto forma di forza produttiva, per sfruttarla». Sono in particolare le figure collettive assunte dal lavoro (a partire da quella del «lavoro sociale») a determinare l'entrata in scena di tecnologie di potere del tutto immanenti alla cooperazione produttiva, e che dunque soltanto per una sorta di paradossale illusione ottica possono essere considerate come parte di una «sovra-struttura».
Leggendo in particolare i capitoli del primo libro del Capitale dedicati alla cooperazione e alla giornata lavorativa, Macherey svolge considerazioni di grande interesse sul tema foucaultiano della «società di norme», lavorando sul doppio significato (descrittivo e prescrittivo) del termine «norma». La produzione di norme per la razionalizzazione dell'organizzazione del lavoro (ovvero per l'intensificazione della sua «produttività») appare da questo punto di vista un terreno essenziale di analisi, per comprendere tanto la tendenza delle norme a porsi come una «seconda natura», come un habitus «che orienta i comportamenti umani senza apparire alla coscienza come il principio che li dirige», quanto i limiti e le «resistenze» con cui quella tendenza necessariamente si scontra. Capitale e potere (lo notano nella loro postfazione Negri e Revel) sono in fondo definiti da Marx e Foucault in termini di «rapporti di forze», e l'elemento della lotta ne è dunque costitutivo.
Se un appunto si può muovere al lavoro di Macherey è di non aver svolto fino in fondo questo aspetto del suo discorso, di aver indicato con grande precisione il terreno su cui opera il «bio-potere» nel capitalismo ma di non aver intrapreso (riservandola forse a un'occasione successiva) l'analisi delle modalità con cui l'eccesso costitutivo del «lavoro vivo» marxiano può essere appropriato dai suoi soggetti come base di una diversa «forza produttiva», di una cooperazione nel segno dell'eguaglianza e della libertà. Non è certo una questione che si presti a scorciatoie analitiche o politiche, ma proprio oggi - di fronte a un capitalismo che pare esaltare la duttilità e la «flessibilità» della forza lavoro marxiana, rovesciandole nella crisi in precarietà e immiserimento di massa - mi sembra indispensabile ribadirne l'urgenza.

«Costituente dei Beni Comuni», un nuovo appuntamento sulla scia della «Commissione Rodotà» ,

Il manifesto, 13 giugno 2'013

Oggi al Cinema Palazzo, alle 16, anche in occasione di una discussione sull'ormai celebre Il diritto di avere diritti di Stefano Rodotà, si terrà una nuova importante puntata della «Costituente dei Beni Comuni» (Cbc). Come noto, il cammino congiunto di giuristi e movimenti sociali per dare una «costituzione giuridica» ai beni comuni (di qui la locuzione Costituente) è un'importante novità teorica dal punto di vista della produzione normativa. Per la prima volta in un sistema giuridico occidentale una carovana di giuristi per lo più accademici (gran parte portatori dell'esperienza della «Commissione Rodotà») si reca sui territori per raccogliere direttamente le testimonianze e sentire i bisogni di quella maggioranza di italiani che non si vogliono rassegnare al dominio del pensiero unico e che ritengono sia un dovere costituzionale dar seguito al pronunciamento referendario sui beni comuni che proprio oggi compie 2 anni.

Questo processo di produzione normativa non è sottoposto ad alcun ordine costituito (come invece era stata la Commissione Rodotà dipendente dal Ministero della Giustizia) e in questo senso mira a proporre quella «sapienza civile», legittimata dalla forza della ragione e non dalla ragione della forza, che giuristi degni del nome dovrebbero saper elaborare per rispondere alle istanze sociali. Redigendo una serie di proposte, al centro delle quali si colloca un «Codice dei beni comuni» che costruisce sul disegno di Legge Delega della Commissione Rodotà, e monitorandone con attenzione il destino parlamentare, la Cbc cerca di essere coerente con la chiara indicazione democratica di invertire la rotta rispetto al riformismo neoliberale che era uscita maggioritaria dal voto referendario di due anni fa. Lanciata in aprile al Teatro Valle in un'assemblea affollatissima, la Cbc si è riunita una prima volta all'Aquila nel cuore della città devastata fisicamente dal terremoto e socialmente dal post-terremoto ed una seconda volta a Pisa presso il Colorificio trasformato in municipio dei beni comuni, raccogliendo in entrambe le occasioni quattro-cinquecento partecipanti, cittadini attivi singoli o aggregati in vari movimenti raccoltisi per significare bisogni sociali e proposte teoriche e di prassi volte alla loro soluzione. Insomma, nelle assemblee itineranti si ottengono materiali per quel «costituzionalismo dei bisogni» più che mai necessitante di raccogliere intorno a sé ogni sforzo teorico e pratico non soltanto volto a difendere la Costituzione formale ma anche ad attuarla, e talvolta financo superarla, facendola comunque vivere in tutta la sua ricchezza e la sua attualità.
Non può dunque sorprendere che, nell'ambito di un dibattito politico approfondito complesso e talvolta anche spigoloso sulla natura, sulla forza e sulla legittimità di un processo costituente (dichiarato o criptico poco importa), la Cbc abbia dato vita ad un gruppo di lavoro, affidato principalmente ai costituzionalisti Azzariti e Lucarelli (entrambi redattori dei quesiti referendari sull' acqua bene comune) denominato «Convenzione per la democrazia costituzionale», presentato martedì al Teatro Valle di cui si è dato conto sul manifesto di ieri. Di fronte alla preoccupante assenza di dibattito intorno al lavoro che i «saggi» governativi stanno producendo, il dibattito franco aperto e disinteressato in corso fra i giuristi ed i movimenti su beni comuni e costituzione costituisce una prova limpida di serietà e passione civile che certamente saprà dare il suo importante contributo critico al non-dibattito dei saggi fatto di opposte tifoserie su temi quanto mai impegnativi.
A Pisa il primo giugno la Cbc ha discusso per oltre quattro ore intorno al vero perno del costituzionalismo borghese, la proprietà privata e i limiti della sua tutela, discutendo di politica in modo alto senza che si sia mai sentito pronunciare il nome di un leader o una sigla di partito. Oggi al Cinema Palazzo la discussione si articolerà principalmente intorno alla destinazione d'uso dei beni riconosciuti come comuni ad esito di lotte costituzionalmente orientate, e su come le comunità (preesistenti o soggettivate tramite le occupazioni) possano o debbano governarsi per poter essere legittimi custodi di beni comuni. Poi il giorno 20 nuovamente al Teatro Valle sarà il turno dei giuristi da soli in sede redigente che avranno a disposizione un primo articolato emerso «mettendo in bella copia» sotto forma di «parte generale» del «Codice dei Beni Comuni» le esperienze fin qui ascoltate.
Posto che tenere separati diritto e politica altro non è che ideologia borghese, è evidente che la novità del processo di redazione normativa costituisce anche un importante esperienza politica. I numerosi partecipanti alle assemblee itineranti della Costituente si famigliarizzano con la Costituzione, con il diritto e condividono esperienze dando vita a un potente cammino egemonico. Soprattutto essi sperimentano il dissenso talvolta anche marcato fra i giuristi che sono così percepiti, com'è giusto che sia, non come tecnici portatori di un sapere oggettivo ma come cittadini e intellettuali ciascuno portatore di una propria esperienza e cultura politica. Anche per noi giuristi, abituati al chiuso delle biblioteche, si tratta di un'esperienza nuova e difficile di cui dobbiamo ancora prendere appieno le misure. Tutti i partecipanti, abituali o occasionali, giuristi o non giuristi alla Cbc sono però accomunati da un grande e condiviso disegno: dar seguito finalmente onesto e serio al desiderio di cambiamento così chiaramente espresso nel corso della «primavera italiana» del 2011.

Ecco che cosa si nasconde, e si produce, dietro la paura del "populismo".

La Repubblica, 12 giugno 2013

Del popolo che partecipa alla vita politica , che licenzia i governi inadempienti e ne sceglie di nuovi, che fa sentire la propria voce. È la paura che le classi alte, colte, ebbero già nella Grecia classica. Aristotele paventava la degenerazione democratica, se sovrano fosse diventato il popolo e non la legge. Ancora più perentorio un libello anonimo (La Costituzione degli Ateniesi, attribuito a Senofonte) uscito nel V secolo aC: «In ogni parte del mondo gli elementi migliori sono avversari della democrazia (...). Nel popolo troviamo grandissima ignoranza e smoderatezza e malvagità. È la povertà soprattutto, che lo spinge ad azioni vergognose ». Il dèmos respinge le persone per bene: «vuole essere libero e comandare, e del malgoverno gliene importa ben poco ». Sotto il suo dominio tutte le procedure si rallentano, ed è il caos che oggi chiamiamo ingovernabilità.
L’orrore del populismo o dei democratici demagoghi ha queste radici, che Marco D’Eramo illustra con maestria in un saggio uscito il 16 maggio su Micromega. Ma è dopo la Rivoluzione francese, e in special modo quando comincia a estendersi gradualmente il diritto di voto, nella seconda parte dell’800, che fa apparizione un’offensiva ampia, e concitata, contro il suffragio universale. Inorridiscono i democratici stessi.
Nei primi anni del ’900, il giurista Gaetano Mosca vede già le plebi e le mafie del Sud distruggere istituzioni e buon governo. È diffusa l’idea che i migliori, e le migliori politiche, saranno travolti e annientati dal popolo elettore. Si formano chiuse oligarchie, con la scusa di tutelare il popolo dai suoi demoni. È una paura che va a ondate, e non sempre l’oggetto che spaventa è esplicitamente indicato.
Quella che oggi torna a dilagare pretende addirittura di salvare la democrazia, imbrigliandola e tagliando le ali estremiste (gli «opposti estremismi», spiega d’Eramo, diventano sinonimi di populismo). Ma gli elementi dell’annosa offensiva contro il suffragio universale sono tutti presenti, sotto traccia. Il popolo smoderato e incolto va vigilato, spiato: o perché chiede troppo, o perché rischia di avere troppi grilli per la testa. Sono aggirate anche le Costituzioni, fatte per proteggere i cittadini dai soprusi delle cerchie dominanti. Ovunque le democrazie sono alle prese con i danni collaterali di questa ferrea legge oligarchica.

Accade proprio in questi giorni in America, dove prosegue una guerra antiterrorista sempre più opaca, condotta senza che il popolo (e neppure gli alleati per la verità) possa dire la sua. Il culmine l’ha raggiunto Obama, che pure aveva criticato la torbida sconfinatezza delle guerre di Bush. Il 6 giugno, viene svelata un’immensa operazione di sorveglianza dei cittadini americani da parte dell’Agenzia di sicurezza nazionale: milioni di numeri telefonici e indirizzi mail, raccolti non in zone belliche ma in patria col consenso segreto di vari provider. Indignato, il New York Times commenta: «Il Presidente ha perso ogni credibilità» (poi per prudenza rettifica: «Ha perso ogni credibilità su tale questione »). Analogo orrore dei popoli è ravvivato dalla crisi economica, governata com’è da trojke e tecnici separati dai cittadini: anch’essa, come la guerra, va affidata a pochi che sanno (poche persone per bene, pochi migliori, direbbe lo Pseudo-Senofonte). Gli ottimati sapienti stanno come su una zattera, e non a caso il loro nome è «traghettatori ». Sotto la scialuppa ribolle il popolo: forza infernale, miasma imprevedibile e contaminante. Infiltrato da meticci, demagoghi, gente colpevole due volte: sia quand’è sprecona, sia quando non consuma abbastanza. Sono invisi anche gli sradicati, o meglio chi pensa all’interesse generale oltre che locale: se vuoi lusingare un partito, oggi, digli che non è un meteco ma «ha un forte radicamento territoriale». Nei cervelli dei traghettatori s’aggira il fantasma, temuto come la peste dagli anni ’70, dell’esplosione sociale e dell’ingovernabilità.

È in questa cornice che le parole si storcono, sino a dire il contrario di quel che professano. La riforma significava miglioramento delle condizioni dei cittadini, del loro potere di influire sulla politica. Furono grandi riforme il suffragio universale, e subito dopo l’introduzione del Welfare: ambedue malandate. Adesso il riformista escogita strategie per tenere al guinzaglio gli eccessi esigenti dei governati. Il proliferare in Italia di comitati di saggi (per cambiare la Costituzione, per il Presidenzialismo) è sintomo di un crescente scollamento di chi comanda dal popolo, e al tempo stesso dai suoi rappresentanti.

Ci si adombra, quando il Parlamento è definito una tomba. Per fortuna non lo è. Ma un Parlamento fatto di nominati più che di veri eletti somiglia parecchio a un sepolcro imbiancato: e così resterà, finché non avremo diritto a una legge elettorale decente. Tale è la paura del popolo-elettore, che per forza quest’ultimo si ritrae e fugge. Si esprime in vari modi (nei referendum, sul web, attraverso la stampa indipendente) ma ogni volta sbatte la testa contro un muro. Lo Stato ne diffida, al punto di spiare milioni di cittadini come in America. E i nemici peggiori diventano i reporter e le loro fonti, che gettano luce sulle malefatte dei governi. Nel 2010 fu il caso di Wikileaks. Oggi è il turno del Guardiane del Washington Post, che hanno scoperchiato il piano di sorveglianzaspionaggio (nome in codice: Prism) del popolo americano. Non restano che loro, fra lo Stato-Panoptikon che ti tiene d’occhio e i cittadini mal informati. In inglese le gole profonde che narrano i misfatti si chiamano whistleblower: soffiano il fischietto, in presenza di violazioni gravi della legalità, e antepongono il dovere civico alla fedeltà aziendale. Ben più spregiativamente, politici e giornali benpensanti li definiscono spie, se non traditori. «Non chiamateli talpe!», chiede molto opportunamente Stefania Maurizi su Repubblica online di lunedì. Il soldato Bradley Manning, che smascherò tramite Wikileaks i crimini Usa nella guerra in Iraq, è da 3 anni in prigione. Ora è processato, rischia l’ergastolo.

Il whistleblowerche ha rivelato il piano di sorveglianza voluto da Obama è Edward Snowden, 29 anni, ex assistente della Cia e della Nsa: è rifugiato a Hong Kong, e da lì fa sapere: «L’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa) ha costruito un’infrastruttura che intercetta praticamente tutto. Con la sua capacità, la vasta maggioranza delle comunicazioni umane è digerita automaticamente, senza definire bersagli chiari. Se volessi vedere le tue email o il telefono di tua moglie, devo solo usare le intercettazioni. Posso ottenere le tue email, password, tabulati telefonici, carte di credito. Non voglio vivere in una società che fa questo genere di cose. Non voglio vivere in un mondo in cui ogni cosa che faccio e dico è registrata. Non è una cosa che intendo appoggiare o tollerare». Il popolo reagisce ai soprusi e all’indifferenza del potere in vari modi: impegnandosi in associazioni (ricordiamo i referendum italiani sul finanziamento dei partiti e sull’acqua, o il voto contro il Porcellum); oppure ritirandosi quando si accorge di non contare nulla. Altre volte smette di credere e diserta le urne, come alle amministrative di questi giorni. Ma sempre potrà sperare di avere, come alleati, i whistleblower che toglieranno il sigillo alle illegalità, alle cose nascoste o sporche della politica.

Ecco cosa produce lo sgomento causato dal dèmos. Il popolo stesso s’impaura, entra in secessione. La paura del suffragio universale non è mai finita, sempre ricomincia. Nacque nell’800, ma come nella ballata di Coleridge: «Dopo di allora, ad ora incerta – Quell’agonia ritorna».

«L
L’autonomia economica e politica delle persone presuppone un reddito da lavoro. Il reddito di cittadinanza corre il rischio di far aumentare il numero dei non occupati e la loro l'emarginazione, lasciando irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti
Forse per ragioni di età, sono ancora affezionato alla idea di Adam Smith e alla Costituzione. Secondo Smith, “Il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma”. Più breve e efficace, l’Articolo 1 della Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica [corsivo aggiunto], fondata sul lavoro”. Sul lavoro, non sul reddito. Circa il reddito di cittadinanza o altre forme di reddito garantito, d’altra parte, non ho cambiato l’idea che coltivavo qualche anno fa, e qui la riprendo.

Quando una improbabile crescita dell’economia è sì condizione necessaria per realizzare la piena occupazione, ma non anche sufficiente, il problema di fondo di una società capitalista si aggrava. Problema di fondo che si può evocare con questo disegnino:


Se si è d’accordo su ciò, e se si conviene che presupposto della democrazia è la democrazia economica; e che a sua volta la democrazia economica presuppone la massima occupazione possibile e una distribuzione della ricchezza e del reddito né arbitraria né iniqua, allora si deve anche convenire che nessuna forma di reddito garantito costituisce una soluzione del problema. Il reddito di cui dispongono i lavoratori non occupati è il risultato di un trasferimento da parte dei lavoratori occupati, attraverso lo Stato o direttamente all’interno della famiglia. Quel reddito è semplicemente l’eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi. Il palliativo rappresentato da un reddito di cittadinanza o di esistenza non risolverebbe la questione dell’autonomia economica e politica dei non occupati, probabilmente ne aumenterebbe il numero, ne certificherebbe l’emarginazione, favorirebbe il voto di scambio e lascerebbe irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti. L’autonomia economica e politica presuppone un reddito da lavoro.

Diverse e positive sarebbero le conseguenze dell’altra soluzione cui si può pensare: una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro; tuttavia una politica di riduzione dell’orario di lavoro (a parità di salario) suscita oggi ovvie e probabilmente insuperabili resistenze da parte dei capitalisti, e implicitamente assume che le merci possano soddisfare tutti i bisogni. Nello stato attuale del mondo, la redistribuzione del lavoro come forma di trascendimento è una prospettiva da perseguire con determinazione ma difficilissimamente praticabile in un paese solo, se non altro per i vincoli di competitività nel settore che produce sovrappiù. Per tutta la lunga durata della depressione che si annuncia, la riduzione dell’orario di lavoro rischia di essere una forma di rispettabile compromesso aziendale tra capitale e lavoratori occupati, che però non fa diminuire la disoccupazione e rimane confinato alla logica della produzione di merci. L’idea che giustifica le politiche di riduzione dell’orario di lavoro è quella di una ripartizione dei guadagni di produttività tra imprese e lavoratori, in termini, per questi ultimi, di minori tempi di lavoro anziché di maggior salario. Dunque presuppone salari di partenza relativamente elevati e una situazione economica e sociale florida, tendenzialmente di piena occupazione. L’esatto contrario della situazione attuale. Altrimenti si tratta di licenziamenti ‘parziali’ accettati in cambio di aspettative di stabilità del posto di lavoro, ma con una ulteriore divisione tra occupati e non occupati e con una maggiore ‘flessibilità’ all’interno della fabbrica e sul mercato del lavoro.

Il livello della produzione capitalistica non viene deciso in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di una umanità socialmente sviluppata, bensì in base al saggio dei profitti. La produzione di merci si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la realizzazione del profitto impone questo arresto. Anche se la produzione di merci riprendesse a crescere, non si avranno variazioni significative nell’occupazione se non in lavori servili, precari e a basso reddito. Si avrà dunque una crescita sia dei bisogni sociali insoddisfatti sia della disoccupazione. La soluzione di questo problema – troppe merci, poco lavoro – va cercata altrove, al di fuori della dimensione capitalistica e mercantile della società. C’è oggi coincidenza tra una situazione di crisi gravissima e prospettive di nuovi spazî politici. Non si tratta di uscire dal capitalismo, ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella quale le merci non pagano. Questa terra esiste, lo dimostrano da un lato i tanti bisogni sociali insoddisfatti, dall’altro le tante attività che non sono mosse dall’obiettivo del profitto. Volontariato, associazionismo, movimenti ambientalisti, cooperative, centri sociali, attività tutte sospette in quanto non si piegano al criterio del calcolo e del lucro, sono tutti segni non sospetti di questa realtà (al punto che a queste attività si assegna una funzione surrogatoria).

Nella produzione di merci “col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, scompaiono dunque anche le diverse forme concrete di questi lavori, le quali non si distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme a lavoro umano eguale, lavoro umano in astratto”. Si tratta proprio di ciò, di promuovere e organizzare lavori concreti (in contrapposizione al lavoro astratto impiegato nella produzione di merci), lavori destinati immediatamente alla produzione di valori d’uso, lavori che non siano meri ammortizzatori sociali, ma lavori capaci di soddisfare i bisogni sociali che la produzione di merci non soddisfa. Così come ci sono bisogni assoluti e bisogni relativi, ci sono servizi tecnicamente individuali e servizi tecnicamente sociali. L’azione più importante dello Stato, attraverso istituzioni appropriate e tutte da inventare, si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che altrimenti nessuno prende, a quanto altrimenti non si fa del tutto.

Si tratterebbe dunque di destinare parte del sovrappiù realizzato nella produzione di merci, alla messa in moto non di lavoro improduttivo (nel senso smithiano-marxiano del termine) destinato al soddisfacimento di bisogni relativi, ma alla promozione di lavori immediatamente destinati alla soddisfazione dei bisogni sociali assoluti. Lavori prestati non nella sfera della produzione di merci ma nella sfera della riproduzione sociale e della manutenzione almeno dell’ambiente. Principalmente lavori di cura, in senso lato, delle persone e della natura. Lavori di cui vi è una domanda che i mercati del lavoro e delle merci non registrano, perché corrispondono a bisogni privi di potere d’acquisto individuale.

Mentre il lavoro astratto socialmente necessario dipende dalle tecniche di produzione adottate nella produzione di merci e si scambia sul mercato del lavoro, i lavori concreti dipendono dai bisogni sociali, questi sì inesauribili, e si scambiano non su un mercato ma nella società. In quanto intesi al soddisfacimento di bisogni sociali, i lavori concreti hanno di necessità una dimensione territoriale ben precisa e richiedono e impongono forme democratiche di rilevazione e controllo locale della domanda e di organizzazione decentrata dell’offerta. I lavori concreti non sono esposti alla concorrenza internazionale e devono rispondere a criteri di efficacia piuttosto che di efficienza competitiva. A parità dei salari monetari consentiti dalla congiuntura capitalistica e dai rapporti tra capitale e lavoro salariato, i valori d’uso prodotti dai lavori concreti comporterebbero un aumento dei salari reali e non avrebbero effetti inflazionistici. Per il lavoro astratto i lavori concreti non sarebbero un onere ma un arricchimento, poiché producendo valori d’uso servono direttamente a soddisfare i bisogni sociali, ma indirettamente servono anche a migliorare le condizioni e la stessa produttività dei valori di scambio prodotti dal lavoro astratto.

Le risorse si potrebbero trovare facilmente: se mai si volesse provvedere all’eutanasia delrentier, e alla costituzionale progressività delle imposte sui redditi e sulle ricchezze. Tuttavia di questo disegno occorre considerare gli aspetti politici, poiché si tratterebbe di governare una transizione dal paradosso della povertà nell’abbondanza a quello stato dell’economia e della società prefigurato da Lafargue e da Keynes. Anche per le sue implicazioni tecniche e organizzative, questa è una prospettiva di benessere nell’austerità, ma meglio sarebbe dire di benessere nella sobrietà. Un discorso sull’austerità che si limiti a una critica del consumismo e all’esortazione moralistica è un discorso politicamente sterile. L’alternativa non è tra benessere e austerità, è tra le possibili forme di austerità: la miseria che ci aspetta se si lascia fare, rivestita di forme nuove di fascismo, oppure una vitale sobrietà. L’apologia del mercato nasconde il disegno di cancellare la politica, riducendola a amministrazione dell’esistente. Questa opera di disvelamento e di persuasione è compito della politica, della politica in quanto critica, indirizzo e governo del processo economico-sociale di produzione e riproduzione. Utopia? Sì, ma è bene, ammonisce un grande intellettuale, che non tanto l’intellettuale quanto l’uomo in generale si senta responsabile di qualche cosa d’altro che di procacciare cibo ai suoi piccoli, finché non gli sarà segato l’albero su cui si è costruito il nido.

Postilla

Non sono un economista e ho la massima stima per Giorgio Lunghini. Ma il suo interessante scritto(che in grandissima parte condivido) suscita in me un dubbio. Egli afferma che «la soluzione di questo problema – troppe merci, poco lavoro – va cercata altrove, al di fuori della dimensione capitalistica e mercantile della società. C’è oggi coincidenza tra una situazione di crisi gravissima e prospettive di nuovi spazî politici. Non si tratta di uscire dal capitalismo, ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella quale le merci non pagano. Questa terra esiste, lo dimostrano da un lato i tanti bisogni sociali insoddisfatti, dall’altro le tante attività che non sono mosse dall’obiettivo del profitto».

Concordo pienamente nel ritenere con Lunghini che la soluzione del problema del lavoro va cercata «al di fuori della dimensione capitalistica». Mi domando però (e sarei lieto di poter chiedere a Lunghini) se questo debba invece significare anche – come mi sembra che egli ritenga – cercare al di fuori della dimensione stessa dell’economia, oppure che di possa, e quindi si debba, cercare una diversa economia, superiore a quella del capitalismo così come questo è stato superiore alle altre forme dieconomia: un’economia che non polarizzi la sua attenzione sul valore discambio, ma sulil valore d’uso (rinvio una pagina in cui ho cercato diesprimere con maggiore ampiezza il mio pensiero in proposito. Mi sembra che inquesta direzione andassero il pensiero e la volontà di un comune maestro,Claudio Napoleoni (e.s.)

Una discussione sul"Reddito minimo garantito", e le sue implicazioni sul fronte del lavoro e delle politiche sociali.

Sbilanciamoci.info, 6 giugno 2013, con postilla

Nella riflessione teorica, in misura crescente il diritto alla sussistenza viene concepito come diritto costituzionale, a livello nazionale e dell'Unione Europea. Come osserva, ad esempio, Rodotà, il diritto all'esistenza appare con particolare nettezza nelle Costituzioni del secondo dopoguerra (...). Pur muovendo dalla garanzia di un reddito minimo da assicurare a chi non lo ha, l'ottica dovrebbe essere quella della cittadinanza nel senso di patrimonio di diritti inalienabili della persona in quanto tale. Diritti non solo a «sopravvivere», ma ad esistere (...). E' la stessa prospettiva, mi sembra, che ha mosso la Corte Costituzionale tedesca, allorché ha dichiarato parzialmente incostituzionale la modalità con cui la riforma dell'assistenza del 2000 aveva individuato le soglie massime di sostegno economico per i poveri (...). La costituzionalizzazione nazionale ed europea del diritto all'esistenza sembra non essere ancora riuscita a trasformare nei fatti il diritto all'esistenza in un diritto inalienabile e non a disposizione dei governanti di turno, neppure nella forma di garanzia innanzitutto per i poveri.

Non si tratta solo di questioni di bilancio, che vedono i poveri particolarmente deboli allorché si discute di che cosa e a chi tagliare. Si tratta anche della plurisecolare immagine del povero come tendenzialmente non meritevole, o con debole fibra morale. Nonostante sia chiaro che la disoccupazione crescente non è l'esito di scelte dei disoccupati e che l'inoccupazione sia in larga misura l'esito vuoi del carico di lavoro non pagato sopportato da molte donne, vuoi di fenomeni di scoraggiamento, si continua a pensare che i poveri debbano essere continuamente stimolati, attivati, per meritarsi un qualche sostegno, a prescindere dalla efficacia di tali «attivazioni».
Da questo punto di vista, è per molti versi paradossale la trasformazione, in diversi paesi, di misure di sostegno al reddito in misure welfare-to work , proprio mentre il lavoro sparisce. Allo stesso tempo, l'indebolimento, il mancato investimento, o la mercatizzazione di taluni beni pubblici - dalla scuola alla sanità - rischia di ridurre anche quel nocciolo di reddito autenticamente universale di cittadinanza che è costituito, appunto, dai beni comuni e dalla garanzia di accesso per tutti.
Per questo è opportuno continuare a mantenere aperto l'orizzonte discorsivo del reddito di cittadinanza, accettando i compromessi necessari, ma evitando confusioni.

Postilla
Forse per qualcuno non è «paradossale la trasformazione, in diversi paesi, di misure di sostegno al reddito in misure welfare-to work , proprio mentre il lavoro sparisce». Forse per qualcuno l'impiego delle capacità psicofisiche dell'uomo (del lavoro) è una risorsa essenziale se impiegataal fine non di produrre profitto ma di conoscere e governare il mondo. Forse per qualcuno non è l'economia (capitalistica) a dover stabilire la finalità del lavoro. In questa logica la questione del "reddito di cittadinanza si porrebbe in modo diverso. Magari, in modo radicale.

Continuano i tentativi di far ascoltare il linguaggio della ragione. Ma non c'è miglior sordo di chi non vuol sentire e gli italiani hanno eletto uomini sordi; grazie al Porcellum. ma anche alla vittoria a destra e a manca dell'ideologia craxi-berlusconiana.

La Repubblica, 7 giugno 2013

NEL tempo ingannevole della “pacificazione”, il conflitto giunge nel cuore del sistema e mette in discussione la stessa Costituzione. Una politica debole, da anni incapace di riflettere sulla propria crisi, compie una pericolosa opera di rimozione e imputa tutte le attuali difficoltà al testo costituzionale. Le forze presenti in Parlamento non ce la fanno a sciogliere i nodi tutti politici che hanno reso impossibile una decisione sull’elezione del Presidente della Repubblica? Colpa della Costituzione. “Je suis tombé par terre, c’est la faute à Voltaire”.

Imboccando questa strada, non si dedica la minima attenzione all’esperienza degli anni passati, alle manipolazioni istituzionali che, sbandierate come la soluzione d’ogni male, hanno aggravato i problemi che dicevano di voler risolvere, rendendo così la crisi sempre più aggrovigliata. Ho davanti a me le dichiarazioni di politici e commentatori, i saggi e i libri di politologi che, all’indomani della riforma elettorale del 1993, sostenevano che l’instaurato bipolarismo, con l’alternanza nel governo, avrebbe assicurato assoluta stabilità governativa, cancellato le pessime abitudini della Prima Repubblica con i suoi vertici di maggioranza e giochi di correnti, eliminato la corruzione. E tutto questo avveniva in un clima che svalutava la funzione rappresentativa delle Camere, attribuendo alle elezioni sostanzialmente la funzione di investire un governo e accentuando così la personalizzazione della politica e le inevitabili derive populiste.
Sappiamo come è andata a finire.

E gli autori e i fautori di quella riforma oggi si limitano a lamentare il bipolarismo “rissoso” o “conflittuale”, senza un filo non dirò di autocritica, parola impropria, ma neppure di analisi seria e responsabile di quel che è accaduto. Eppure quel rischio era stato segnalato proprio nel momento in cui si imboccava la via referendaria alla riforma, suggerendo altre soluzioni. Ma non si volle riflettere intorno all’ambiente politico e istituzionale in cui quella riforma veniva calata, sulla dissoluzione in corso del vecchio sistema dei partiti e sulla inevitabile conflittualità che sarebbe derivata da una riforma che, invece di accompagnare una transizione difficile, esasperava proprio la logica del conflitto.

Oggi sembra tornare il tempo degli apprendisti stregoni e di una ingegneria costituzionale che, di nuovo, appare ignara del contesto in cui la riforma dovrebbe funzionare. Che cosa diranno gli odierni sostenitori di variegate forme di presidenzialismo quando, in un domani non troppo lontano, il “leaderismo carismatico” renderà palesi le sue conseguenze accentratrici, oligarchiche, autoritarie? Diranno che si trattava di effetti inattesi?

Questo ci porta al modo in cui si è voluto strutturare il processo di riforma. Si è abbandonata la procedura prevista dall’articolo 138 per la revisione costituzionale, norma di garanzia che dovrebbe sempre essere tenuta ferma proprio per evitare che la Costituzione possa essere cambiata per esigenze congiunturali e strumentali. Compaiono nuovi soggetti – una supercommissione parlamentare e una incredibile e pletorica commissione di esperti, con componenti a pieno titolo e “relatori”. Il Parlamento viene ritenuto inidoneo per affrontare il tema della riforma e così, consapevoli o meno, si è imboccata una strada tortuosa che finisce con il configurare una sorta di potere “costituente”, del tutto estraneo alla logica della revisione costituzionale, concepita e regolata come parte del sistema “costituito”. Sono rivelatrici le parole adoperate nella risoluzione parlamentare: “una procedura straordinaria di revisione costituzionale”. L’abbandono della linea indicata dalla Costituzione è dunque dichiarato.

Si entra così in una dimensione di dichiarata “discontinuità”, che apre ulteriori questioni. Quando si incide profondamente sulla forma di governo, come si dichiara di voler fare, si finisce con l’incidere anche sulla forma di Stato, come hanno messo in evidenza molti studiosi del diritto costituzionale. E, di fronte alla modifica della forma di governo e di Stato, si può porre un altro interrogativo. Queste modifiche sono compatibili con l’articolo 139 della Costituzione, dove si stabilisce che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”? Originata dalla volontà di impedire una restaurazione monarchica, questa norma è stata poi letta per definire quali siano gli elementi costitutivi della forma repubblicana così come è stata disegnata dall’insieme del testo costituzionale. Ne conseguirebbe che la modifica o l’eliminazione di uno di questi elementi sarebbe preclusa alla stessa revisione costituzionale. Sono nodi problematici, certamente. Che, tuttavia, non possono essere ignorati nel momento in cui si vuole intervenire sulla Costituzione abbandonando il modello di democrazia rappresentativa intorno al quale è stata costruita.

Ha osservato giustamente Gustavo Zagrebelsky che l’introduzione del presidenzialismo nel nostro paese “si risolverebbe in una misura non democratica, ma oligarchica. L’investitura d’un uomo solo al potere non è precisamente l’idea di una democrazia partecipativa che sta scritta nella Costituzione”. Il riferimento al “nostro paese” risponde proprio a quella necessità di valutare ogni riforma costituzionale nel contesto in cui è destinata ad operare. Sì che ha poco senso l’obiezione che il semipresidenzialismo, ad esempio, è adottato in un paese sicuramente democratico come la Francia. Questa obiezione, anzi, obbliga a riflettere sul fatto che la compatibilità di quel sistema con la democrazia è strettamente legata a un dato istituzionale – l’assenza in Francia di gravi fattori distorsivi, come il conflitto d’interessi o il controllo di una parte rilevantissima del sistema dei media; e a un dato politico — il rifiuto di usare il partito di Le Pen come stampella di uno dei due schieramenti in campo, mentre in Italia pure la destra estrema è stata arruolata sotto le bandiere di una coalizione pur di vincere.

Più sostanziale, tuttavia, è la contraddizione con il modello della democrazia partecipativa. Proprio nel momento in cui la necessità di questo modello si manifesta prepotentemente per le richieste dei cittadini e il mutamento continuo dello scenario tecnologico, finisce con l’apparire una pulsione suicida l’allontanarsi da esso, con evidenti effetti di delegittimazione ulteriore delle istituzioni e di conflitti che tutto ciò comporterebbe. Una revisione condotta secondo la logica costituzionale, e non contro di essa, esige proprio la valorizzazione di tutti gli strumenti della democrazia partecipativa già presenti nella Costituzione, tirando un filo che va dai referendum alle petizioni, alle proposte di legge di iniziativa popolare. Le proposte già ci sono, per quelle sull’iniziativa legislativa popolare basta una modifica dei regolamenti parlamentari, e questo aprirebbe canali di comunicazione con i cittadini dai quali la stessa democrazia rappresentativa si gioverebbe grandemente. Altrettanto chiare sono le proposte sulla riduzione del numero dei parlamentari, sul superamento del bicameralismo paritario, su forme ragionevoli di rafforzamento della stabilità del governo attraverso strumenti come la sfiducia costruttiva. Si tratta di proposte largamente condivise, che potrebbero essere rapidamente approvate con benefici per l’efficienza del sistema senza curvature autoritarie. E che potrebbero essere affidate a singoli provvedimenti di riforma, senza ricorrere ad un unico “pacchetto” di riforme, più farraginoso per l’approvazione e che distorcerebbe il referendum popolare al quale la riforma dovrà essere sottoposta, che esige quesiti chiari e omogenei.

Vi è, dunque, un’altra linea di riforma istituzionale, sulla quale varrà la pena di insistere e già raccoglie un consenso vastissimo tra i cittadini, alla quale bisognerà offrire la possibilità di manifestarsi pienamente. Solo così potrà consolidarsi quella cultura costituzionale che oggi manca, ma che è assolutamente indispensabile, “capace di adeguare la Costituzione ma soprattutto di rispettarla”, come ha sottolineato opportunamente Ezio Mauro.

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