«L’uomo neoliberale». il manifesto, 8 novembre 2016 (c.m.c.)
È opinione condivisa che la crisi del 2007 abbia riaperto finalmente una discussione vera sulle contraddizioni dell’ordine neoliberista. La stagione dei movimenti altermondialisti (da Seattle a Porto Alegre) aveva chiamato in causa le responsabilità della globalizzazione. Nel biennio 2010-2011 un insieme variegato di movimenti (Occupy Wall Street, Indignados…) è tornato a riempire le piazze contro il capitalismo finanziario per denunciare l’ipocrisia della vulgata neoliberista sulla crisi.
Nel suo L’uomo neoliberale. Capitale globale e crisi della democrazia (ombre corte, pp. 141, euro 13) Ruggero D’Alessandro propone una sorta di compendio di politica economica alternativa al discorso dominante su una crisi «che è divenuta permanente, tanto da imporsi come un nuovo sistema di governo. Una crisi che sta producendo conseguenze anche sul piano delle forme democratiche e delle conquiste sociali del Novecento». Il problema democratico rappresenta il nodo più interessante del volume che ne ripercorre la storia recente dalle raccomandazioni della commissione Trilateral del 1977 che prevedevano: la verticalizzazione delle decisioni e il rafforzamento degli esecutivi. Siamo all’alba dell’ondata teorica neoliberista che invaderà il mondo occidentale siglando la fine dei «Trenta gloriosi».
Dopo la caduta del Muro di Berlino si è radicalizzato anche quel declino dei poteri statali che ha spiazzato la «sinistra storica» comportando un sostanziale arretramento sul piano dei diritti sociali e della partecipazione alla vita democratica. In questo contesto di regressione del welfare e dei diritti del lavoro (flessibilità/precarietà, maggiore facilità di licenziamento) si colloca anche il progressivo svuotamento dei luoghi democratici a vantaggio degli organismi sovrannazionali non rappresentativi e, più in generale, dei poteri economici-finanziari.
La crisi degli anni Duemila – spiega l’autore sulla scorta delle teorie di Luciano Gallino e Wolfgang Streeck – è stata utilizzata da coloro che ne sono stati direttamente o indirettamente responsabili per completare l’affermazione dell’ordine neoliberista imputando all’ormai defunto sistema keynesiano le responsabilità del peggioramento delle condizioni materiali. Come sostiene Christian Marazzi, l’«isteria del deficit» e le politiche di austerity hanno fatto del debito – che in tedesco significa anche «colpa» – il «dispositivo antropologico di autodisciplinamento dell’uomo liberale».
Tradotto in termini più prosaici, le politiche anticrisi non solamente non hanno provocato nei governi e nei loro think tanks una critica delle teorie della Scuola di Chicago, ma al contrario hanno rafforzato il framework in materia di (de)regolamentazione del mercato e di maggiore controllo dei corpi. Su questo punto l’autore fa riferimento alle ricerche di Richard Sennet sulla «corrosione dei caratteri» provocata dalla precarietà e alle tesi di Karl Polanyi sulla fine del lavoro salariato come fattore d’identità sociale. Da ultimo, si interroga sull’incapacità delle socialdemocrazie europee di fronteggiare questo sostanziale mutamento della scala sociale dei valori.
Si tratta di un fenomeno di smarrimento iniziato negli anni di Schröder e Blair che ha investito in pieno gli eredi del Pci. Il Pd di Renzi – spiega D’Alessandro – non è un marziano, ma il risultato di un processo di mutazione politica omogeneo alle altre forze europee (si legga in questa chiave in Jobs act, ma anche il disegno di rafforzamento del potere esecutivo). Rimane aperta invece la questione dell’alternativa. Innanzitutto, D’Alessandro valuta positivamente la ripresa di un dibattito su diseguaglianze e povertà: dal Capitale di Piketty alla Laudato Sì di papa Francesco.
La questione della ridefinizione dell’appartenenza sociale, al centro dell’ultimo Gallino, è ancora il nervo scoperto e non risulta sufficiente, a giudizio di chi scrive, ripetere insieme a Iris Young come un mantra che «la classe resta il paradigma centrale dell’insieme di relazioni strutturali della società odierna».
Come del resto riconosce anche l’autore, c’è ancora molto da fare per ridare ai soggetti subalterni una prospettiva politica attorno a cui unirsi, per rilanciare una proposta antiliberista che sia realmente partecipata e quindi concretamente alternativa.
La Repubblica, 7 novembre 2016, con postilla
LA SETTIMA Leopolda renziana è il capolinea della sinistra italiana. Quel poco che era rimasto della vecchia “ditta” riformista attraversa la sua ultima stazione, dalla quale non uscirà più, o potrà uscire solo a pezzi. Colpisce l’asprezza dei toni con i quali Renzi ha regolato i suoi conti con la “minoranza” del partito, e ha lasciato che il suo popolo leopoldino gli urlasse “fuori, fuori”. Un brutto spettacolo, inutilmente rancoroso e fortemente autoreferenziale. Soprattutto per una kermesse che ha la giusta ambizione di parlare al Paese, non a se stessa. Ma c’è del metodo, in questa scelta renziana. Per almeno due buona ragioni.
postilla
È veramente incredibile che persone intelligenti, che seguono gli eventi del teatrino della politica da anni, si illudano che da quella fabbrica possa nascere una "nuova sinistra". Incredibile che comprendano solo adesso che la politica di Matteo Renzi è stata fin dal suo inizio la politica preconizzata dalla Mont Pélerin Society e, più recentemente, dalla JP Morgan : politica della quale Berlusconi è stato il primo strumento e Renzi il secondo: più giovane, più efficace e meno volgare nei modi e nell'aspetto, ma comunque al servizio della medesima Azienda - quindi sempre disposto a collaborare col suo collega per i fini comuni.
SIR online, 5 novembre, il manifesto online, 7 novembre 2016
SIR Servizio informazione religiosa online, 5 novembre 2016
PAPA FRANCESCO: AI MOVIMENTIPOPOLARI,
«DEMOCRAZIA ATROFIZZATA,
FATE POLITICA MA NON LASCIATEVI
INCASELLARE E CORROMPERE»
"Non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola”: è l’appello che il Papa ha rivolto oggi alle “organizzazioni degli esclusi e tante organizzazioni di altri settori della società” perchè rivitalizzino e rifondino “le democrazie che stanno attraversando una vera crisi”. Il rapporto tra popolo e democrazia, ha osservato, “dovrebbe essere naturale e fluido”, ma “corre il pericolo di offuscarsi fino a diventare irriconoscibile”. “Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia – ha sottolineato – si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle”. I movimenti popolari, che “non sono partiti politici” esprimono una “forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita pubblica”.
Il Papa ha però messo in guardia contro “due rischi che ruotano attorno al rapporto tra i movimenti popolari e politica: il rischio di lasciarsi incasellare e il rischio di lasciarsi corrompere”. “Finché vi mantenete nella casella delle ‘politiche sociali’ – ha osservato -, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei i poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema”. Invece quando si osano “mettere in discussione le ‘macrorelazioni’, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste”.
Così “la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino”. “Non cadete nella tentazione della casella che vi riduce ad attori secondari o, peggio, a meri amministratori della miseria esistente – ha avverito -. In questi tempi di paralisi, disorientamento e proposte distruttive, la partecipazione da protagonisti dei popoli che cercano il bene comune può vincere, con l’aiuto di Dio, i falsi profeti che sfruttano la paura e la disperazione, che vendono formule magiche di odio e crudeltà o di un benessere egoistico e una sicurezza illusoria”.
Una Terra senza male, una casa da cui nessuno possa cacciarti, un lavoro giusto e dignitoso. Tierra, techo y trabajo, terra, casa, lavoro sono le 3T del Papa, da garantire a tutte e tutti.
L’incontro mondiale dei movimenti popolari appena concluso a Roma con Papa Francesco è molto più che un grande segno. Giustizia ecologica, ambientale e sociale per la prima volta connesse ed interdipendenti tra loro. Si parte da chi sta in basso per ricostruire una pratica dell’emancipazione sociale che non solo condanni il modello neoliberista ma interroghi nel profondo la nostra idea di giustizia, partendo da un’etica fondata sul Diritto della vita alla vita.
Questo Papa mette tutti con le spalle al muro, facendoci fare i conti con la realtà di un’umanità e di una Terra vivente ferita dalle ingiustizie e dall’aggressione costante di un sistema economico insostenibile. Ma Francesco, partendo dalla forza degli esclusi e dalle lotte dei movimenti popolari, ci chiede anche di superare astrazioni, tatticismi e paure ricordandoci che siamo tutti direttamente o indirettamente complici di quel modello che vorremmo cambiare.
È questo il tema da sviluppare se vogliamo essere all’altezza della sfida e di una proposta che impone un radicale cambiamento a tutti noi. La forza degli esclusi chiamati a raccolta sta proprio nella forza dell’esodo. L’esodo da un modello che produce scarti, considera la Terra materia inerme e che per sua natura non consente alternative. Un esodo di cui sono unicamente capaci proprio gli esclusi, dai quali il Papa parte per definire la speranza.
Quegli esclusi che si sono organizzati come movimenti popolari negli ultimi 25 anni per rispondere alla crisi di valori e di civiltà che svilisce la dignità di miliardi di esseri umani e che per la prima volta mina le stesse basi di riproducibilità della vita. Nuove soggettività nate a partire dai sud del mondo come forme di resistenza e risposta a megaprogetti estrattivi, privatizzazioni, land grabbing, guerre, distruzione delle foreste, brevetti sulla vita, urbanizzazione selvaggia. Movimenti che parlano lo stesso linguaggio delle soggettività nate da diversi anni anche nei nord del mondo come risposta alla crisi, sulle stesse emergenze e per la stessa necessità di sopravvivenza, per difendere l’acqua, il cibo, la terra, i diritti sociali, rigenerare spazi per garantire il diritto alla casa, difendere economie locali e paesaggi.
Movimenti popolari che rappresentano oggi una ricchezza di saperi e di pratiche enorme, per nulla marginali, che hanno come caratteristica l’informalità non per scelta ma come unica strategia disponibile per sopravvivere davanti all’impossibilità di entrare all’interno del settore “formale”.
Come viene ricordato nell’incontro, è questa l’unica risposta possibile davanti all’esclusione di un modello che produce forme di razzismo istituzionale al cui servizio la legge viene piegata. Un’idea distorta della legalità fondata su una perenne emergenza che genera ingiustizie sociali ed ambientali, uccide con le guerre, avvelena la nostra casa comune, nega diritti sociali e produce quella disumanizzazione che scarica le colpe sui più deboli.
Il Papa ci ricorda che solo attraverso la forza e l’immaginazione dei movimenti popolari sarà possibile l’esodo per costruire “una patria senza schiavi né esclusi”. Francesco ci chiede di stare con il cuore, la mente ed il corpo da questa parte e di impegnarci concretamente per costruire una patria grande, rinunciando al “dominus” in cambio del “frater”.
Tutto questo ha bisogno di una nuova consapevolezza ed una rinnovata coerenza nelle nostre azioni quotidiane. Quella consapevolezza di cui hanno parlato Pepe Mujica e don Ciotti quando ci ricordano che la politica è muta ed incapace in questa fase storica persino di pensare al cambiamento perché ha smesso di essere servizio al bene comune e non è in più in grado di affermare i diritti: “Bisogna avere il coraggio di avere più coraggio”.
Allora sta a noi, movimenti popolari, riorganizzare lo spazio politico per la difesa del bene comune, portando avanti il manifesto delle 3T di cui parla Francesco. L’impegno e la responsabilità che si fanno lotta come unica strategia per sopravvivere, combattere l’esclusione e modificare gli assetti di potere. Concretamente, qui da noi significa rimettere al centro la questione sociale e l’impegno per eliminare le disuguaglianze e la povertà che colpiscono un terzo degli italiani, lavorare per introdurre anche nel nostro paese un Reddito di Dignità per rispondere alle necessità basiche di 5 milioni di italiani in povertà assoluta, combattere le politiche di austerità che hanno demolito le politiche sociali, avere il coraggio di denunciare ed impedire le violazioni dei diritti umani dei migranti, lottare giornalmente contro le mafie ed il gioco d’azzardo dando voce a chi sul territorio fa antimafia sociale ed educazione popolare, camminare insieme agli studenti che si battono per il diritto allo studio mentre la dispersione scolastica è tra le più alte d’Europa, lavorare per dare dignità e forza ai tanti progetti di mutualismo sociale che danno risposte concrete a quanti sono in difficoltà con la casa ed il lavoro, sostenere e dare priorità a tutte le forme di economia informale che rispondono alle esigenze basiche di chi non ce la fa.
Francesco e i movimenti popolari dei sud del mondo ci chiedono apertamente di fare la nostra parte per difendere la dignità e la vita, abbandonando equilibrismi, rendite e paure.
* rete Miseria Ladra, Libera/Gruppo Abele.
». il manifesto, 6 novembre 2016 (c.m.c.)
Era un Matteo Renzi che nella sua second life vuole essere Carlo Conti, e l’accoppiata Boschi-Nardella che gioca a chi le spara più grosse con risultati spassosi, gli unici momenti effervescenti della seconda giornata della Leopolda si vivono in piazza San Marco. Qui, a chilometri dalla vecchia stazione, il migliaio di movimentisti che hanno raccolto l’appello “Firenze dice No” cerca di avviare comunque un corteo, vietato dalla Questura che per l’occasione ha fatto le cose in grande: 800 agenti presidiano la kermesse renziana, altre centinaia in assetto antisommossa bloccano ogni pertugio che da San Marco porti anche lontanamente in direzione della Leopolda.
La missione impossibile di andare perlomeno in direzione del Duomo si risolve in cinque, dieci minuti di tensione. Da una parte i manifestanti, a volto scoperto per il 99%, che gettano arance, mandarini, ortaggi e qualche sasso verso le forze dell’ordine, con fumogeni e petardi a fare da contorno. Dall’altra parte si risponde con due, tre robustissime cariche a suon di sfollagente, e un bel po’ di lacrimogeni che fanno tanto atmosfera. Risultato: tre agenti contusi, altrettanto ammaccati una ventina di giovani manganellati, un singolo fermato. «Scontri drammatici», titolano i telegiornali a reti unificate. «Prove generali della nuova democrazia dopo la riforma costituzionale?», annota Nicola Fratoianni di Sinistra italiana.
Ecco la manifestazione vista con gli occhi del sindaco Nardella: «Manifestare il dissenso è un diritto, sfasciare una città è ignobile e inaccettabile«. Lo «sfascio della città» non esiste: il corteo si incammina poi verso piazza Santissima Annunziata – unico luogo permesso dalla Questura per manifestare – e da lì si dirige verso l’Arno passando per piazza d’Azeglio, Sant’Ambrogio e Borgo la Croce. Vie dello shopping, illuminate e con tutti i negozi aperti. E intatti. La manifestazione si chiude di fatto in piazza Beccaria, quando comincia a piovere troppo forte e il caotico traffico del sabato, a stento bloccato per qualche minuto dai vigili, esonda come l’Arno del 4 novembre 1966.
Di fronte al giochino pomeridiano della Leopolda – le “Bufale del No” – condotto dal duo Boschi-Richetti e con i quattro prof del Sì (Ceccanti Minelli Vassallo Clementi) a far la parte del notaio Peregrini, non c’è da stupirsi che fra il pubblico sia tutto una smanettare di smartphone, per vedere in streaming cosa sta succedendo fuori. Nondimeno l’ineffabile ministra Boschi offre autentici pezzi di bravura: «Meglio cinque minuti in più per leggere il nuovo articolo 70 della Costituzione, e cinque anni in meno per approvare una legge». I bastonati dal jobs act, dalla legge Fornero e dalle altre leggine approvate anche dal Pd a tambur battente, dal fiscal compact al pareggio di bilancio in Costituzione, si sentiranno presi per i fondelli. Ma tant’è.
Ancora Maria Elena Boschi superstar, in risposta alla molto presunta “bufala” secondo cui la riforma sarebbe stata scritta sotto la spinta delle banche d’affari: «Il referendum è decisivo. La riforma la scriviamo noi, cittadini e cittadine, non gli speculatori e i banchieri». Evidentemente, per Boschi, l’ormai celebre report di Jp Morgan sulle costituzioni troppo “socialiste” dei paesi del Mediterraneo è solo un fake, messo in giro da chi non ama il governo. Gran finale sulla legge elettorale: «Dopo che non si faceva da dieci anni, noi ci siamo riusciti».
L’allieva Boschi non riesce comunque a superare il maestro Renzi, che doveva parlare solo la domenica ma si è subito accorto che la kermesse stentava. Di qui la decisione di salire sul palco già nella serata di venerdì, per accontentare una platea di umore ben diverso rispetto agli anni dell’assalto al cielo di Palazzo Chigi. Il bis in apertura della sessione “costituzionale”, con l’immancabile attacco alla minoranza Pd: «Sono tanti quelli che l’hanno votata, e poi hanno cambiato idea…». Come lui con la tramvia (nemmeno mezzo metro in cinque anni da sindaco…), quando accusa la sindaca romana Raggi «di bloccare le metropolitane, le tramvie, di bloccare il paese».
Prigioniero della sua immagine allo specchio, l’inquilino di Palazzo Chigi batte e ribatte sullo stesso tasto: «Per ripartire bisogna cambiare la Costituzione». E via con gli interventi di “imprenditori, professionisti, studenti” che magnificano l’opera riformatrice del governo e innalzano il mantra: «Cambiamento, cambiamento, cambiamento». Del resto, se fino ad oggi ha funzionato, perché non continuare?
il manifesto, La Repubblica, il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2016
Il manifesto
IL PAPA:
«TERRORISTA È IL CAPITALISMO»
di Geraldina Colotti
«Vaticano. Il discorso di Bergoglio ai movimenti popolari»
È nata «l’internazionale francescana»? Sulle note della prima tarantella, scritta da un Gesuita nel 1600 e nei colori dei 5 continenti, si è concluso in Vaticano il III Incontro mondiale dei movimenti popolari voluto da papa Bergoglio. Da loro, il pontefice ha ricevuto la sintesi e le proposte di 4 giorni di convegno: sulle 3T (Tierra, Techo y Trabajo, Terra, Casa e Lavoro), e sui temi della partecipazione popolare e dei migranti.
Bergoglio ha pronunciato un discorso forte, spingendosi su terreni un tempo propri alla sinistra: «E’ il sistema capitalista ad essere terrorista, non le religioni», ha detto, e ha parlato della necessità di «riforme strutturali». Le stragi di migranti – ha aggiunto – indicano la bancarotta umana di tutto il sistema. E però, mentre si spendono fiumi di denaro per risollevare le banche, o per costruire muri, ai migranti vengono destinate briciole. Da qui l’appoggio alla proposta di un salario e di una cittadinanza universale, di una riforma agraria integrale e di una casa per tutti. E un No mondiale agli sfratti.
La Repubblica
È a suo agio Francesco quando incontra in Vaticano i movimenti di base giunti ieri da tutto il mondo per una tre giorni insieme: dai disoccupati ai senzatetto, dalle associazioni ambientaliste ai piccoli produttori terrieri, dai sindacati ai preti impegnati in prima linea con le persone tenute ai margini, da coloro che combattono la criminalità organizzata, come don Luigi Ciotti di Libera, a coloro che hanno speso la loro vita pensando ai poveri, come l’ex presidente dell’Uruguay José Mujica.
Davanti a cinquemila persone riunite nell’Aula Paolo VI, il Papa non usa giri di parole e chiede esplicitamente di proseguire nell’impegno per un mondo che rimetta al centro «l’essere umano, l’uomo, la donna », al posto di quello che è oggi «il primato del denaro». Denaro divinizzato che tutti vogliono controllare a livello globale ed al quale è legato anche il «terrorismo di base». «Nessun popolo e nessuna religione è terrorista», dice il Papa mentre chiede anche di impegnarsi in una «Politica con la maiuscola».
Le battaglie dei movimenti di base sono le medesime di Francesco. Da sempre impegnato in difesa degli ultimi, contro ogni tipo di sfruttamento. E a favore di progetti di vita che sappiano «respingere il consumismo e recuperare la solidarietà». Il leitmotiv è uno: «Terra, casa e lavoro per tutti». Anche perché è «la frusta della paura» a portare gli uomini a chiudersi e difendersi dagli altri. Francesco, insieme, indica la via della misericordia come «migliore antidoto contro la paura. È molto meglio degli antidepressivi e degli ansiolitici. Molto più efficace dei muri, delle inferriate, degli allarmi e delle armi. Ed è gratis: è un dono di Dio». Per questo i muri non servono, danno solo «una falsa sicurezza».
Fin da quando era arcivescovo di Buenos Aires Bergoglio promuoveva una maggiore presenza del popolo nelle decisioni democratiche. Così ancora davanti ai “suoi” movimenti ricorda come «le democrazie stiano attraversando una vera crisi», che viviamo insomma «tempi di paralisi, disorientamento e proposte distruttive». Ma i movimenti popolari possono essere decisivi solo se non si lasciano «incasellare» e se rifuggono dalla tentazione della corruzione che «non è un vizio esclusivo della politica», ma c’è dappertutto, anche nella stessa Chiesa.
La corruzione si combatte con i fatti: «Il valore dell’esempio ha più forza di mille parole, di mille volantini, di mille “mi piace”, di mille retweets, di mille video su Youtube», dice il Papa a quella platea piena anche di tanti giovani nei quali Francesco dichiara di nutrire grande speranza.
Il Fatto Quotidiano
«Bergoglio incontrando i rappresentanti dei movimenti popolari è tornato a denunciare la situazione del Mediterraneo che è diventato "un cimitero": "E' una vergogna", ha detto ripetendo quello che aveva già affermato a Lampedusa. Il pontefice ha anche invitato chi è "attaccato al lusso a non fare politica" e ha ricordato che "il futuro dell'umanità è sopratutto nelle mani dei popoli"»
“Quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto?”. Papa Francesco durante l’incontro con i movimenti popolari è tornato a parlare della crisi dei migranti e della necessità di intervenire per risolvere l’emergenza.
Come ricorda l’agenzia Ansa, si tratta del terzo incontro del pontefice con i movimenti di base, dai disoccupati ai cartoneros, dalle associazioni ambientaliste ai piccoli produttori terrieri, dai sindacati ai preti impegnati in prima linea con le persone “scartate”, da coloro che combattono la criminalità organizzata, come don Luigi Ciotti di Libera, a coloro che hanno speso la loro vita pensando ai poveri, come l’ex presidente dell’Uruguay José Mujica. E in questa circostanza il Papa ha anche invitato le persone che amano il lusso a stare lontane dalla politica: “Chi ama il denaro, i banchetti esuberanti, le case sontuose, gli abiti raffinati, consiglierei di capire che cosa sta succedendo nel suo cuore e di pregare Dio di liberarlo da questi lacci”. E ha concluso che il futuro dell’umanità è sopratutto nelle mani dei popoli e “non è solo in quelle dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite”. I movimenti popolari secondo Bergoglio possono essere decisivi solo se non si lasciano “incasellare” e se rifuggono dalla tentazione della corruzione che “non è un vizio esclusivo della politica”, ma c’è dappertutto, anche nella stessa Chiesa. La corruzione si combatte con i fatti: “Il valore dell’esempio ha più forza di mille parole, di mille volantini, di mille ‘mi piace’, di mille video su youtube”, ha concluso.
Sole 24Ore, 3 novembre 2016
La risposta la troviamo nel modello del “capitalismo inclusivo”. Un modello che vuole respingere le tentazioni ora “socialiste” ora “assolutiste” evocate dal populismo facile. Un modello messo a punto al Center for American Progress a partire dal 2012 sotto la leadership di John Podesta, con il brillante contributo creativo di Larry Summers, professore di economia a Harvard, autore, ex segretario al Tesoro, generalmente “larger then life”, come si dice da queste parti. Summers fu fra i primi, già durante il post crisi 2007-2009 a identificare il pericolo di una “stagnazione secolare”, capì prima di altri che le economie potevano ripartire, ma non avrebbero riproposto quei tassi di crescita del 4-5% che avevano caratterizzato i cicli economici degli ultimi 30 anni. E avendo identificato prima di altri il problema ha giocato d’anticipo identificando con altri economisti una soluzione che, necessariamente, passa non solo per lo Stato, ma anche e soprattutto per le aziende private che, solo negli ultimi dieci giorni, hanno annunciato operazioni di fusioni (preambolo del downsizing) per quasi 200 miliardi di dollari.
È ovvio dunque che per cambiare non bastano i governi, occorre partire per prima cosa dal coinvolgimento delle grandi aziende. Sono loro ad avere sul piano globale un forte impatto sull’occupazione e sui parametri di governance. Possono farlo applicando i tre principi del capitalismo inclusivo: 1) basta con gli obiettivi finanziari a breve e brevissimo termine, basta in sostanza di essere schiavi dei risultati trimestrali e dei gestori di portafoglio o di fondi pensione che “vendono” se non si raggiunge un certo parametro di rendimento. Occorre pensare al lungo termine, investire nel lungo termine anche nella gestione dell’occupazione; 2) aprire all’integrazione dei cosiddetti fattori ESG (environmental,social,governance) parte dell’ombrello della corporate social responsibility. Il modello per l’”inclusive capitalism” fa un passo in avanti, le scelte non diventano periferiche, parte della missione del “buon cittadino”, ma centrali alle politiche dell’istituzione che le persegue, centrali insomma in ogni aspetto delle decisioni di business che riguardano un’azienda. 3) La forza lavoro. Su questo Larry Summers non ha dubbi, non basta pensare all’addestramento, non basta concedere premi di produzione «occorre aumentare i salari, aumentarli in modo concreto e tangibile». Se l’aumento dei salari porta a una diminuzione dei profitti diventa allo stesso tempo motore dei consumi e dello sviluppo economico. Anche questa è lungimiranza: sacrifico oggi un 20% del profitto per vedermelo rientrare moltiplicato in un periodo anche breve, uno o due anni, grazie all’impatto macro sull’economia. Soprattutto se la scelta è fatta in modo unitario dalla comunità degli affari.
La cosa incoraggiante per chi si dovesse svegliare confuso la mattina del giorno dopo le elezioni americane è che in materia di “Capitalismo Inclusivo” siamo già passati dalla fase teorica alla fase pratica. Lynn Forester de Rothschild, donna d’affari di successo in America, vicina a Hillary Clinton, consigliere dell’Economist, di cui è azionista con il marito Evelyn de Rothschild, ha organizzato una “coalizione per il capitalismo inclusivo”, ha già allargato l’abbraccio a grandi aziende e istituzioni ed ha organizzato incontri operativi per passare dalla teoria alla pratica.
Ho partecipato al secondo seminario annuale organizzato dalla Rothschild qui a New York alcune settimane fa. Parterre “off the record” di altissimo livello, con interventi di alcuni dei principali capi di multinazionali americane e globali. Dialogo aperto e provocatorio, i leader, non solo aziendali, hanno davvero confrontato esperienze e problemi in libertà, certi che il “brain storming” restasse chiuso dietro le porte del Cipriani Wall Street, dove si è tenuto l’evento. Posso anche riferire che molti hanno preso degli impegni specifici per muoversi nella direzione di questa nuova frontiera che potrebbe essere quella capitalismo inclusivo.
Muoversi in questa direzione nuova, e farlo anche al di fuori dell’America è essenziale perché il problema del forte malessere della classe media è molto reale ed è complicato dal fatto che non si tratta soltanto di una forma di pessimismo psicologico.
Dobbiamo anche prendere atto che il percorso che ci ha portato a questa mancata risposta del capitalismo alle nuove sfide dell’economia non è quello tortuoso dei commerci, come sostiene Donald Trump, che vuole chiudere le frontiere, ma è la sfida dall’innovazione tecnologica, che non si può fermare con una semplice barriera tariffaria.
Ma Trump ha usato la dinamica della paura, come del resto ha fatto il concorrente a sinistra di Hillary Clinton Bernie Sanders, per denunciare questa accumulazione di potere e ricchezza. La miscela che ne consegue è esplosiva: da una parte quelli che “hanno” dall’altra quelli che “non hanno”.
Alcuni offrono altre soluzioni. L’economista Thomas Piketty, ad esempio,in base ai suoi studi lungo un periodo di 250 anni, ci dice che la concentrazione della ricchezza non si corregge da sola e propone una aggressiva redistribuzione del reddito attraverso fortissime tasse progressive.
Eccoci dunque alle alternative: a) ritorno allo statalismo con aliquote fiscali altissime, al 70-80% come succedeva negli anni Settanta, b) continuare lungo questa strada, della concentrazione dei poteri economici senza ritorni per la popolazione nel suo insieme c) abbracciare la strada del capitalismo inclusivo. Un paio di anticipazioni? Generiche, senza violare il segreto delle riunioni? I fondi pensioni hanno aperto al ritorno di lungo termine rassicurando i capi azienda. I capi azienda hanno capito che devono investire nel lungo termine in regioni come lìAfrica o il Sud America per incoraggiare le popolazioni a restare a casa. Hanno sottoscritto impegni per l’ambiente, meno carbone, meno miniere. E i minatori degli Appalchi votano compatti Donald Trump. L’equazione non è mai perfetta. L’importate è cominciare con il ridurre le incognite.
«. La Repubblica, ed. Firenze 4 novembre 2016 (c.m.c.)
Quattro novembre 1966 — 4 novembre 2016. In mezzo 50 anni in cui, per affrontare il pericolo alluvioni a Firenze, non è stato fatto praticamente niente. Se non qualche intervento locale, come l’innalzamento delle spallette sui Lungarni e lo scavo del letto dell’Arno in modo che adesso ci possono passare 3.800 metri cubi di acqua al secondo contro i 3.300 del ’66 e i 4.000 che sono il limite massimo, come spiega Mauro Grassi, direttore di Italia sicura, la struttura di missione del governo per il rischio idrogeologico.
Oltre che la costruzione della diga di Bilancino che lamina le acque della Sieve, che allora si aggiunse all’Arno moltiplicando l’inondazione. Niente interventi strutturali, però, se non verso San Miniato, Empoli e Pisa e nell’alto Casentino. Ma niente di strutturale che protegga Firenze. «Se agli interventi locali aggiungiamo l’affinamento delle previsioni meteo e la nascita della protezione civile il rischio a Firenze è diminuito, dal ’66, del 30 per cento», dice Erasmo D’Angelis, coordinatore di Italia sicura.
Il restante 70 per cento del rischio è ancora lì, in agguato. Anzi, il restante 30 per cento è virtuale. Perché, come depreca Grassi, «dall’alluvione a oggi si è costruito moltissimo, troppo, soprattutto fino al 1970 quando c’era una possibilità di costruzione quasi illimitata». Più immobili, più attività. E di maggior valore rispetto al ’66. «Tanto che si ipotizza, in caso di alluvione adesso, un danno di 7 miliardi solo a Firenze. Una cifra pazzesca che induce Italia sicura a ragionare nell’ottica del “whatever it takes”, ossia tutto quello che ci vuole. Tradotto, significa che a partire dalle città metropolitane, Firenze, Genova e Milano, si stanzieranno tutti i finanziamenti necessari a evitare il rischio».
Per ora però il pericolo c’è. «L’aumento delle attività e del loro valore fa sì che il rischio, invece di diminuire, sia aumentato », dice preoccupato il coordinatore del Comitato Firenze 2016, Giorgio Federici. Che aggiunge: «Per fortuna ora ci si sta muovendo». Ma per avere la possibilità di gestirlo questo rischio dovremo attendere il 2021, prevede D’Angelis. Che spiega: «Stiamo correndo contro il tempo per fare adesso tutto quello che era stato progettato nel 1968 e poi non realizzato ».
Per gestire il rischio a Firenze sono previste quattro casse di espansione nei dintorni di Figline e l’innalzamento di 9 metri della diga di Levane, di cui cinque riempibili d’acqua, più altre casse di espansione nella Valdisieve. Per tutto questo sono stati stanziati 200 milioni spendibili via via che i progetti partono: 130 del governo e 70 della Regione. «La prima cassa di espansione a Figline sarà finita in questi giorni — annuncia D’Angelis — I cantieri per le altre tre e per Levane sono in partenza. Dopodiché inizierà la progettazione per la Valdisieve». L’Autorità indica le necessità e fa la modellistica, la Regione progetta e gestisce i cantieri, governo e Regione finanziano.
Uno sforzo tardivo ma che D’Angelis giura sarà fatto interamente. Salvo, però, l’imponderabile. Lo dice lo stesso coordinatore di Italia sicura che, pur mostrandosi ottimista «perché ora esistono i piani della protezione civile e quelli per mettere in sicurezza l’arte», avverte dei «possibili scherzi del cambio climatico». Marcello Brugioni, responsabile dell’area rischio idraulico dell’Autorità di bacino va oltre: «Non esiste la sicurezza assoluta.
Meglio non illudere e deresponsabilizzare. Possiamo solo dire se il rischio può o non può essere gestito». D’Angelis sottolinea che nel ’66 fu «una quasi irripetibile tempesta perfetta che riuscì a mettere insieme una serie di coincidenze disastrose». Grassi ricorda che «furono dieci giorni di piogge, più i tre ultimi di precipitazioni come si verifica ogni duecento anni». Potremmo pensare di esserne ragionevolmente fuori per molto tempo a venire e forse per sempre.
Invece mai rilassarsi, raccomanda Brugioni: «Gli interventi programmati nell’aretino e nella Valdisieve sono quelli giusti e prioritari. Ma siccome, come nel terremoto, non si può mai parlare di sicurezza totale, è necessario informare i cittadini dei rischi e di cosa si deve fare per fronteggiarli. Come l’Opera di Santa Croce che ha comunque fatto il piano di immediata messa in sicurezza del Crocifisso di Cimabue in caso di pericolo». Anche per i cittadini esistono, secondo Brugioni, «ottimi piani della protezione civile ». Bisogna però diffonderli, farli conoscere e abituare le persone a metterli in pratica.
». il manifesto, 5 novembre 2016 (c.m.c.)
Il Sultano Erdogan è all’offensiva. Dopo l’arresto del direttore di Cumhuriyet, l’unico giornale indipendente rimasto che ha denunciato la connivenza del governo turco con lo Stato islamico; e dopo avere incarcerato i due sindaci di Dyarbakir simbolo dell’autonomia kurda, nella notte di ieri ha arrestato dodici deputati dell’Hdp, il Partito democratico del popolo, insieme ai due leader Selahattin Demirtas e Figen Yüksekdag.
L’Hdp è la principale forza turco-kurda dell’opposizione di sinistra, il terzo partito con 59 parlamentari e che nell’estate del 2014 ha scompaginato con la sua affermazione i piani presidenzialisti del Sultano.
Che, non contento di avere aperto tre fronti in Siria, praticando la zona cuscinetto contro i kurdi siriani dell’Ypg bombardati a più riprese al posto dei jihadisti; sta ora per intervenire in Iraq – in accordo con i kurdi del leader Barzani a Erbil, che il loro Stato in Iraq se lo stanno facendo nel disprezzo dei kurdi siriani e di quelli turchi – minando la fragile unità della coalizione anti-Isis a guida Usa ormai alla periferia di Mosul, da dove il governo di Baghdad dichiara che se Ankara entrerà in Iraq sarà guerra.
Ma non ha ancora finito di reprimere il fallito e assai incerto golpe di luglio, con l’epurazione di decine e decine di migliaia di insegnanti, giornalisti, militari, che Erdogan ora – anche di fronte al solo timido tweet della Mogherini – minaccia apertamente l’Unione europea.
Se non arrivano i visti europei per i cittadini turchi come da accordi, Ankara ci rispedisce tre milioni di profughi che ora ospita per noi in qualità di «posto sicuro».
Il Sultano non lo ferma più nessuno. Resta impunita la repressione che esercita, non a caso contro l’Hdp che propone una soluzione politica del conflitto con i kurdi.
Erdogan non è a cavallo né dell’Occidente né dell’Oriente, vocazione storica della Turchia. Riattiva la tradizione egemonica ottomana ma appartiene alla «democrazia» della Nato: fa guerre dentro e fuori, imprigiona, ricatta sui profughi merce di scambio con l’Ue. È lo specchio fedele delle nostre malefatte.
La Stampa online, 4 novembre 2016
Il leader del partito filo-curdo Hdp, Selahattin Demirtas, è stato arrestato questa mattina insieme con alcuni parlamentari curdi. La polizia turca ha operato una retata durante la notte. Oltre a Demirtas sono finiti in manette anche Figen Yukseldag, co-segretaria dell’Hdp, il Partito curdo, e altri nove deputati della formazione eletta in Parlamento e che rappresenta il terzo partito nel Paese. Gli 11 arresti sono stati già convalidati dal giudice del tribunale di Diyarbakir.
Extremely worried for arrest of @hdpdemirtas & other @HDPgenelmerkezi MPs. In contact w/ authorities Called EU ambassadors meeting in Ankara— Federica Mogherini (@FedericaMog) 4 novembre 2016
PUNTO DI SVOLTA
L’accusa per loro è di fondazione e associazione a organizzazione terrorista e separatista. Demirtas al momento dell’arresto si trovava a Diyarbakir, la città più importante per i curdi in Turchia. Il suo arresto segna un vero e punto di non ritorno nella possibile composizione della frattura fra minoranza curda e Stato turco e soprattutto lancia ormai il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan alla guida assoluta del Paese.
L’ULTIMO TWEET
Demirtas ha raccontato in diretta su Twitter le fasi dell’arresto
Diyarbakırda evimde zorla gözaltına alınma kararı ile emniyet yetkilileri kapımdalar. Selahattin Demirtaş (@hdpdemirtas) 3 novembre 2016
L’ATTENTATO
Era stato proprio il partito curdo nel giugno 2015 a rappresentare un exploit inaspettato alle elezioni politiche. Un risultato che aveva impedito a Erdogan di raggiungere la maggioranza assoluta e che aveva impensierito non poco il capo dello Stato. I primi contraccolpi in Turchia non si fanno attendere. A Diyarbakir la gente è scesa in piazza da già questa notte e nella mattina nella città a maggioranza curda è esplosa un’autobomba alla quale è seguita una sparatoria. Tra le vittime ci sono civili e poliziotti.
Il gruppo di monitoraggio Turkey Blocks denuncia intanto che l’accesso ai principali social media è stato bloccato nella notte. Facebook, Twitter e Youtube sono rimasti inaccessibili per alcune ore, si legge sul sito del gruppo. Restrizioni sono state imposte anche ai servizi di messaggistica di WhatsApp e Instagram, per la prima volta a livello nazionale negli ultimi anni.
Preoccupato per arresto stanotte di @hdpdemirtas e altri deputati Hdp in Turchia. Italia chiede rispetto diritti opposizione parlamentare. Paolo Gentiloni (@PaoloGentiloni) 4 novembre 2016
Un'analisi delle forze e i poterri in gioco in M.O.Gli errori di ieri, che hanno prodotto le guerre di oggi, sono ripetuti dai padroni del mondo, preparando così le guerre di domani. È il capitalismo, baby. I
l Sole 24Ore, 3 novembre 2016
Chi riempirà il vuoto lasciato dal Califfato? La parola spartizione, sia pure declinata in maniera assai diversa e contrastante tra sunniti, sciiti filo-iraniani, curdi e turchi, aleggia nella polvere della battaglia di Mosul. Le forze dell'esercito iracheno si stanno impossessando di quartieri orientali ma sono ancora fluidi i confini tra le aree di influenza delle milizie sciite, di quelle curde e dell'esercito di Ankara. Tutti comunque vogliono piantare la loro bandiera, qui come in Siria, definendo se possibile frontiere reali, e anche un po' immaginarie in aree con centinaia di migliaia di profughi, che invece della pace potrebbero essere i presupposti per nuove guerre.
Un giorno lo Stato Islamico potrebbe dissolversi ma non le ragioni presenti e le cause profonde che hanno reso possibile la sua nascita. Il video di maggiore successo dell'Isis in tutto il Medio Oriente fu quello in cui un bulldozer abbatteva un cartello ai confini tra Siria e Iraq con la scritta “Fine di Sykes-Picot”, l'intesa anglo-francese firmata il 16 maggio 1916 per spartire l'impero ottomano. Fu quella una dura lezione della storia nata dall'imperialismo occidentale.
La tentazione, e forse la necessità, di disegnare cento anni dopo nuove frontiere è ancora fortissima e non è difficile capirne i motivi: almeno quattro stati della regione – Siria, Iraq, Yemen e Libia – sono in fase di disgregazione con eventi così devastanti ed epocali che sembrano costituire un vendetta postuma contro quell'accordo tra un diplomatico britannico, orientalista di lungo corso, e un francese.
L'articolo di Robin Wright, ex corrispondente da Beirut, scatenò allora accesi dibattiti negli Stati Uniti mentre in Medio Oriente esplodevano le congetture su un nuovo piano dell'Occidente, di Israele e di altri soggetti malintenzionati per dividere gli stati arabi in entità più piccole e più deboli. A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca diceva qualcuno. E qualche tempo fa la parola spartizione è stata pronunciata anche dal segretario di Stato americano John Kerry: «Se non si riuscirà a tenere unita la Siria, bisognerà ricorrere a un Piano B», ha affermato in un'audizione al Senato.
Ma intanto nel settembre 2015 in Siria è scesa in campo direttamente la Russia che ha cambiato di nuovo le carte sulla mappa mediorientale. Dopo lo scontro con la Turchia, quello stesso Putin che ieri ha dichiarato una tregua umanitaria ad Aleppo, si è messo d'accordo con Erdogan per lasciargli via libera nella repressione di curdi siriani del Rojava, alleati degli Usa contro l'Isis, e approva probabilmente anche la penetrazione militare di Ankara in Iraq e intorno a Mosul: in cambio i russi potrebbero riportare la vittoria di Aleppo a spese dei ribelli e consolidare la loro presenza strategica sulla costa siriana. L'ex ambasciatore americano James Dobbins è stato esplicito: «Bisogna lavorare con Mosca a una soluzione per la Siria sul modello della Germania nel 1945». Ma riprodurre lo schema rigido della Guerra Fredda in Medio Oriente appare oggi assai complicato: la balcanizzazione sembra l'ipotesi più probabile perché del resto è già in atto.
La storia dell'Iraq e della Siria appartiene a un intreccio complesso tra strategie coloniali britanniche e francesi, contesti geopolitici legati al petrolio e ai movimenti nazionalisti che hanno contribuito a disegnare la mappa del Medio Oriente conosciuto fino a oggi. Già allora comparvero sulla scena movimenti fondamentalisti islamici e rivolte di massa di cui l'ultima con effetti dirompenti si è avuta nel 2011.Ci fu un tempo in cui l'idea del Califfato diventò una soluzione politica anche per l'Occidente. Ricordarlo oggi di fronte alle atrocità dell'Isis può apparire una bestemmia. Ma fu esattamente quanto fece il ministro delle Colonie Winston Churchill: con l'espediente politico dei califfati e degli sceicchi mise a capo degli Stati sotto mandato britannico i monarchi arabi del clan hashemita degli Hussein, sovrani della Mecca. Fu così che nacquero l'Iraq, la Siria e la Giordania.
Emiri e sceicchi allora erano al servizio del piano coloniale per far nascere nuovi stati che adesso si stanno sgretolando. La guerriglia e il terrorismo praticato dallo Stato Islamico di Abu Bakr al Baghdadi sono stati funzionali a un progetto completamente diverso: abbattere le frontiere tracciate un secolo fa e riunire i sunniti sotto la bandiera nera di un nuovo Califfato. È evidente che niente può giustificare i massacri dell'Isis ma bisogna riconoscere il problema: i sunniti sono una maggioranza in una Siria dominata per quarant'anni dal clan degli alauiti di Assad, mentre in Iraq, rispetto agli sciiti, rappresentano una minoranza che con Saddam Hussein è stata fino a un decennio fa al potere nelle forze armate e nell'amministrazione. Sia la Siria che l'Iraq oggi sono degli ex Stati, presenti in maniera virtuale sulla mappa geografica e nessuno né in Occidente né in Medio Oriente ha un piano politico alternativo al mantra dell'unità nazionale ripetuto in maniera stucchevole dalla diplomazia internazionale con la variante del federalismo, che da queste parti è sinonimo di spartizione, non di condivisione.
Una sorta di “fiction” geopolitica per non mutare le frontiere ma la sostanza delle cose.Siamo quindi a un bivio: o si ricostituisce questa unità nazionale, evocata a ogni pleonastica conferenza mediorientale, oppure si deve affrontare la balcanizzazione della regione. Ma niente può sostituire l'unica ricetta possibile per sistemare il grande Medio Oriente: diluire lentamente la ferocia settaria negli interessi economici comuni e fare in modo che la gente torni a vivere insieme, ricostruendo con pazienza un modello di tolleranza che è l'unica via, almeno tra qualche decennio, per garantire una pace duratura.
La ragione che già di per sé sola dovrebbe indurre gli elettori a votare No nel prossimo referendum costituzionale, è che il Parlamento eletto per la XVII legislatura è stato dichiarato radicalmente illegittimo dalla Consulta, avendo l’abnorme premio di maggioranza previsto dal Porcellum determinato un’«eccessiva sovra- rappresentazione della lista di maggioranza relativa», in violazione della rappresentanza elettorale, della parità del voto dei cittadini e della stessa sovranità popolare (così la Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014).
Infatti, per limitarci agli esempi più rilevanti, grazie al Porcellum, il Pd anziché 165 seggi ottenne 292 seggi, mentre il PdL anziché 148 seggi ne ottenne 97, la lista Monti anziché 57 ne ottenne 37 e il M5S anziché 166 ne ottenne 108. In forza degli ovvii fondamentali principi delle democrazie parlamentari, avrebbe quindi dovuto disporsi l’immediato scioglimento delle Camere da parte del Presidente della Repubblica e la convocazione dei comizi elettorali per un nuovo Parlamento.
Tuttavia la Corte costituzionale - alla luce dell’altrettanto ovvio principio secondo il quale le leggi elettorali sono «”costituzionalmente necessarie”, in quanto “indispensabili” per assicurare il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali» - opportunamente avvertì che lo scioglimento delle Camere non avrebbe potuto avvenire se non dopo l’approvazione di nuove leggi elettorali, rispettose della rappresentanza elettorale e della parità del voto.
Pertanto, le leggi che fossero state successivamente approvate nella XVII legislatura - ancorché viziata - , avrebbero dovuto essere considerate legittime grazie al «principio fondamentale della continuità dello Stato» e dei suoi organi costituzionali (così, ancora, la Corte): un principio che però - si badi bene - non si pone, né si può porre, come “alternativo” al principio democratico: irrispettoso del voto popolare come fonte di legittimazione dell’operato delle Camere. Il che è tanto vero che nelle ultimissime battute della sentenza n. 1 del 2014, la Corte, nel richiamare gli articoli 61 e 77 della Costituzione, fa chiaramente comprendere che il principio della continuità avrebbe potuto valere tutt’al più per pochi mesi.
Ciò nondimeno, appena quattro mesi dopo la pubblicazione della sentenza della Consulta e due mesi dopo la costituzione del suo governo, il premier Renzi dava irresponsabilmente inizio ad un percorso di riforma costituzionale, che le opposizioni immediatamente e ripetutamente criticarono, in via preliminare, sia al Senato (e poi anche alla Camera), perché il disegno di legge Boschi si poneva in plateale contrasto con la sentenza della Corte costituzionale. Notevole e assai importante, in tal senso, è il documento contenente la questione pregiudiziale posta dai senatori Crimi, Endrizzi, Magili, Morra e altri (M5S), presentato il 4 luglio 2014, ovviamente respinto dalla maggioranza.
È bensì vero che, in quei primi mesi del 2014, lo scioglimento anticipato delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund tedesco e quindi in quel momento era sconsigliabile. Tuttavia altro è continuare, nell’ordinaria funzione legislativa e di controllo, con un Parlamento delegittimato, ma per un periodo limitato del tempo, altro è l’azzardo istituzionale di dare inizio ad una mega riforma costituzionale con un Parlamento viziato dall’«eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa», con parlamentari “nominati” insicuri di essere rieletti e perciò esposti alla mercé del migliore offerente (le migrazioni da un gruppo all’altro sono state ben oltre 300!).
Non sto qui a ricordare le palesi violazioni procedurali che hanno costellato il procedimento di riforma costituzionale (irrituali sostituzioni di componenti della Commissione Affari costituzionali del Senato, privazione delle opposizione del diritto di avere un relatore di minoranza, applicazione del metodo del “super canguro” per porre fuori gioco gli emendamenti delle opposizioni, e così via) che hanno abbassato il disegno di legge Boschi a livello di una qualsiasi legge ordinaria, né sto a lamentare ancora una volta le plateali violazioni costituzionali poste in essere dalla riforma Boschi da me ripetutamente evidenziate in questo giornale.
È infatti sufficiente ricordare che questa riforma - pasticciata e incostituzionale perché viola l’elettività diretta del Senato, il principio di eguaglianza e di razionalità nella composizione del Senato, la rilevanza costituzionale delle autonomie regionali e così via - è stata criticata da ben dieci ex presidenti e da dieci ex presidenti della Corte costituzionale. Il che non era mai accaduto finora.
Piuttosto è doveroso sottolineare che, nonostante la sua gravità, la violazione della sentenza della Corte e l’illegittimità della XVII legislatura sembrano esser state “rimosse” dalla memoria dei sostenitori del Sì (penso all’intervista di Giorgio Napolitano del 10 settembre su questo giornale) o, quanto meno, “dimenticate” dai sostenitori del No (alludo a Massimo D’Alema, che ritiene che la XVII legislatura andrebbe sciolta alla sua scadenza del 2018!).
La gravità dell’accaduto è invece tale da configurare - qualora l’esito del referendum fosse positivo - un “fatto eversivo” della vigente Costituzione, che pertanto inciderebbe, con la forza del “potere costituente”, sui rapporti Stato-Regioni (e quindi sulla forma di Stato), sulla forma di governo nonché sulla stessa Parte prima della nostra Costituzione.
Cioè sulle forme di esercizio della sovranità popolare, sul principio di eguaglianza, sulla libertà di voto e sugli stessi diritti sociali. Il che avverrebbe grazie ad un Parlamento privo di contro- poteri, con un Senato ridotto ai minimi termini e incapace di funzionare e con i diritti delle opposizioni rimesse ai regolamenti parlamentari alla mercé della maggioranza.
Il Fatto Quotidiano online, 3 novembre 2016 (p.d.)
Gli uffici di Amnesty International a Mosca sono stati sigillati la notte scorsa dalle autorità. Questa mattina, i dipendenti di Amnesty hanno trovato serratura e sistema d’allarme disinnescati, l’elettricità tagliata e l’ingresso dell’ufficio sigillato. Motivo? Ufficialmente, per le autorità, la ong non ha pagato l’affitto della sede. Sulla porta è stato apposto un foglio della “Città di Mosca” in cui si comunica che i locali “sono di proprietà di una città della Federazione russa“, intimando il divieto di accesso se non accompagnati da un funzionario del Comune. Gli impiegati hanno chiamato il numero di telefono indicato sul foglio ma senza ricevere risposta.
I locali sono stati concessi in affitto ad Amnesty dal dipartimento delle proprietà pubbliche, ovvero il Comune, con un contratto di 20 anni. Serghiei Nikitin, responsabile del ramo russo dell’associazione per la difesa dei diritti umani, ha fatto sapere che Amnesty International paga regolarmente l’affitto. Aggiungendo inoltre di “non avere idea” del perché la sede sia stata chiusa e augurandosi che quanto avvenuto non sia da ricollegare all’attività dell’organizzazione per la difesa dei diritti umani.
“Non sappiamo cosa abbia portato le autorità russe a impedire al nostro staff di entrare negli uffici: una brutta sorpresa di cui non avevamo ricevuto alcun avvertimento”, ha commentato in una nota pubblicata sul sito dell’organizzazione John Dalhuisen, direttore di Amnesty per l’Europa e per l’Asia centrale. “Considerato il clima in cui attualmente lavora la società civile in Russia – ha aggiunto Dalhuisen – ci sono diverse spiegazioni plausibili, ma è troppo presto per trarre qualsiasi conclusione. Stiamo cercando di risolvere la situazione il più velocemente possibile”.
Al momento sono 147 le organizzazioni non governative russe considerate come ‘agente straniero’, secondo la legge varata nel 2012. Amnesty è stata una delle prime organizzazioni proposte come “indesiderabili“, in attuazione alla legge contro le strutture accusate di minacciare la “sicurezza dello stato”. Ma, ad oggi, non compare nell’elenco di cui invece fanno parte altre sette organizzazioni.
Corriere del Veneto, 2 novembre 2016
Ha voglia Papa Francesco, l’ultima volta ieri, a ribadire: «Non si può chiudere il cuore ai rifugiati». Il fatto è che ormai sono così tanti, e sempre concentrati negli stessi Comuni (in Veneto 246 su 576 per 14.639 richiedenti asilo), da indurre anche molti parroci, oltre alla maggioranza dei sindaci, a dire: «No». Da qui lo sfogo del prefetto di Vicenza, Eugenio Soldà, che dovendo trovare posto a 2700 disperati, è sbottato: «Sono da solo, mi hanno abbandonato tutti, mi hanno sbattuto la porta in faccia pure i parroci. Mi hanno voltato le spalle». Non è una novità, purtroppo. A ottobre il prefetto di Padova, Patrizia Impresa, aveva ammesso: «La Chiesa ci ha sostenuti, ma quando si è trattato di trovare dei posti...».
E prima il collega di Venezia, Domenico Cuttaia, aveva lanciato un appello proprio alle parrocchie, non tutte propense a seguire l’esortazione del pontefice ad aprire le porte ai migranti. «Mi rivolgo alle parrocchie, per un’accoglienza minima di tre o quattro profughi ciascuna — aveva esortato Cuttaia — stanno arrivando anche molti minori e donne. Non possiamo lasciarli per strada». «Forse i curati non hanno tutti questi spazi a disposizione — nota Enrico Caterino, prefetto di Rovigo costretto a requisire un hotel a Ficarolo per gestire i continui arrivi — ma a me la Curia una mano l’ha data. Ha alloggiato per un mese 26 migranti in un suo edificio in pieno centro, dove tiene i corsi per i seminaristi. Non sono in grado di dire se la Chiesa possa fare di più, ma spetterebbe in prima battuta ai sindaci sostenerci nella gestione dell’emergenza. Il loro esempio potrebbe persuadere i parroci, invece in Polesine solo 9 Comuni su 41 collaborano».
Di diverso tenore la riflessione del patriarca Francesco Moraglia: «A Venezia c’è disponibilità da parte dei sacerdoti, cerchiamo di ottemperare alle regole imposte dal ministero dell’Interno ma non è semplice, soprattutto vista la crescita esponenziale degli arrivi. Il territorio a un certo punto non riesce più ad accogliere, non credo che non voglia più accogliere. C’è anche chi non vuole, ma questo prescinde dal numero di profughi. Chi si impegna in tal senso deve fare i conti con risorse e forze limitate».
L'immagine che abbiamo scelto come icona è tratta dal sito valigia blu, a cui raccomandiamo di fare una visita
La Repubblica online, 2 novembre 2016 (p.d.)
Una barca piena zeppa di uccelli cavalca le onde puntando verso l'Italia, l'unico orizzonte dove i viaggiatori sperano di sbarcare per spiccare di nuovo il volo. È questo il disegno dipinto sui muri del primo ristorante africano di Venezia che aprirà il 4 novembre in Calle Lunga San Barnaba.
La metafora del volo non è casuale. Lo staff che ha creduto nel progetto è composto in gran parte da migranti africani, arrivati qui nei modi più disparati l'ultimo anno con la speranza di poter chiudere la porta con il passato e ricominciare. I soci fondatori, Hamed Mohamad Karim, Hadi Noori, Mandana Goki Nadimi e Samah Hassan El Feky, anche loro migranti provenienti dall'Afghanistan, dall'Iran e dall'Egitto, lo hanno provato sulla loro pelle anni prima, quando alcuni di loro sono giunti nei camion frigoriferi ancora minori.
Ed è proprio qualche anno fa nel centro minori di Venezia, a Forte Rossariol, che a uno di loro, l'Hazara Hamed Mohamad Karim, è venuta l'intuizione che il cibo può unire e aiutare a superare i pregiudizi. "Ho iniziato a organizzare delle feste nel centro minori, chiedendo a tutti i ragazzi di preparare un piatto tipico del loro Paese - spiega - e ho visto che funzionava sia per i ragazzi che erano nei centri, sia per chi veniva a trovarci". Hamed, regista che non è più potuto tornare in Afghanistan perché minacciato dai talebani, fa un primo esperimento fondando nel 2002 l'Orient Experience nel sestiere di Cannaregio.
Il ristorante propone i piatti che i migranti hanno imparato a cucinare nel viaggio della speranza fino a Venezia e ha un grande successo. Oggi la sfida è ancora più grande perché a lavorare all'Africa Experience saranno richiedenti asilo che rappresentano le migliaia di persone che fuggono disperate dal continente nero. "Io sono etiope - racconta Alganesh Tadese Gebrehiwot, 30 anni, fuggita dall'Etiopia, chef del locale - Ho imparato a cucinare con mia mamma. In Etiopia c'è ancora molta divisione di ruoli, le donne cucinano e stanno in casa. Così io sono cresciuta aiutando lei e ho imparato alcuni dei piatti che preparerò, come un certo tipo di pane, Ejra o il Mesir wot, una zuppa di lenticchie. Non avrei mai pensato di diventare cuoca, ma sono finalmente molto felice. Io vengo dal Sudan, lavoravo come donna delle pulizie, ma non avrei mai potuto realizzare i mie sogni".
Anche Muhammed Sow della Guinea ed Efe Agbontaen della Nigeria sono scappati da terre di guerre e violenza sui barconi che vediamo ogni giorno, quei barconi così pieni di persone che finiscono per diventare un'unica massa. In quella massa ci sono invece esseri umani singoli, individui con le storie che si potranno conoscere qui, parlando davanti a un buon piatto proveniente da un Paese di cui alla fine si sa molto poco.
I piatti sono stati scelti tramite un concorso che ha coinvolto studenti e professori dell'Istituto alberghiero Barbarigo di Venezia, chiamati a giudicare quali erano i piatti all'altezza di un vero menu. I primi classificati in cucina saranno loro, accompagnati in sala da alcuni soci fondatori, come Hadi Noori, tra i primi ragazzini arrivati dall'Afghanistan in quei camion frigo che per alcuni sono stati mortali: "Avevo 15 anni - racconta Noori, oggi 25 anni - e lavoravo in fabbrica a Kabul. Volevo studiare e non potevo. Alla fine non avevo altra scelta, dovevo partire".
A 15 anni parte dall'Afghanistan per raggiunge l'Iran per poi proseguire a piedi verso la Turchia: "Durante questi viaggi sei solo - spiega - ma poi incontri altre persone che magari non rivedi più. Dalla Turchia sono andato in Grecia con un gommone, poi mi sono fermato là e ho cercato di lavorare ma c'era tanto sfruttamento. Un giorno mi sono infilato con altri ragazzi in un camion pieno di arance, la temperatura oscillava tra gli zero e i due gradi, ma siamo riusciti. Lo stesso capita ai mie colleghi che sono qui oggi, quando s'imbarcano e non sanno se arriveranno mai. Ci spinge solo la voglia di ripartire, di volare ancora".
Non c’è nulla lasciato al caso nell’Africa Experience. Il locale è attraversato da legni intarsiati e intrecciati tra loro che formano la grande chioma di un albero africano, i colori sono accesi come quelli della natura e i disegni alle pareti, firmati dall’artista francese Blandine Hélary, raccontano le migrazioni umane.
Che significato ha questo ristorante per voi?«Vogliamo dimostrare che facciamo del nostro meglio per far capire a chi ha pregiudizi che siamo uguali a voi — spiega Hamed Mohamad Karim, 33 anni, portavoce dello staff formato da 4 donne e 4 uomini e ideatore del format con i soci del primo locale, l’Orient Experience — Lo facciamo per i nostri figli, per le future generazioni e per dare la possibilità di toccare con mano l’Africa. I piatti sono quelli che i ragazzi hanno imparato da soli, lontani da tutti, spinti soltanto dal desiderio di vivere».
L’idea è semplice, ma nessuno ci aveva mai pensato. Si può esportare?
«Magari, è quello che vogliamo. Prendiamo contatti con i centri di accoglienza e offriamo sia un tirocinio in modo che le persone possano imparare l’italiano e socializzare, sia un posto di lavoro se si dimostra che si è capaci, come i tre cuochi che inizieranno a lavorare venerdì. In questo modo si mette in moto una catena positiva».
Come avete scelto i piatti?
«Quando abbiamo coinvolto anche l’Istituto alberghiero si sono incontrati due mondi ed è stato bello perché quando poi si è vicini e si parla si capisce che siamo uguali. Siamo i primi imprenditori considerati stranieri ma che si sentono ormai italiani».
La vostra attività significa molto anche a Venezia, dove su 44 Comuni quasi la metà rifiuta di accogliere i migranti.
«In piccolo l’Africa Experience vuole mettere in luce quello che non si legge quasi mai, ovvero che il dialogo è possibile. Siamo quell’Italia che vorremmo che tutti conoscessero, quell’Italia di chi vuole stare qui nel segno della pace e dell’amicizia, quell’Italia che ci ha dato tanto e che vogliamo arricchire, portando economia e integrazione». ( v. m.)
on è umano chiudere le porte ai rifugiati », ma insieme ci vuole prudenza per integrare bene». La Repubblica , 2 novembre 2016, con postilla
on è umano chiudere le porte ai rifugiati », ma «insieme ci vuole prudenza per integrare bene». Sul volo Malmö-Roma, di ritorno dalla commemorazione per i 500 anni della Riforma luterana, Francesco ricorda «che il cuore deve essere sempre aperto all’accoglienza» anche se «per accogliere bene, occorre integrare ». Ciò significa che ci vuole anche prudenza «perché un’imprudenza nei calcoli si paga politicamente».
Santo Padre, sempre più persone provenienti dalla Siria e dall’Iraq cercano rifugio in Europa. C’è chi risponde con la paura. Che cosa ne pensa?
«Si deve distinguere tra migrante e rifugiato. Il migrante deve essere trattato con certe regole: emigrare è un diritto, ma deve essere regolato. Il rifugiato viene da una situazione di guerra e di angoscia, fame; lo status del rifugiato ha bisogno di più cura, più lavoro. Che cosa penso dei Paesi che chiudono le frontiere? Credo che in teoria non si possa chiudere il cuore a un rifugiato. C’è anche la prudenza dei governanti, che devono essere molto aperti a riceverli, ma anche a fare il calcolo di come poterli sistemare, perché non solo un rifugiato lo si deve ricevere, ma lo si deve integrare.
Se un Paese ha una capacità di integrazione, faccia quanto può. Se un altro ne ha di più, faccia di più, sempre con il cuore aperto. Non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore e alla lunga questo si paga politicamente, come si paga anche l’ imprudenza nei calcoli e ricevere più di quelli che si possono integrare. Qual è il rischio se un migrante o un rifugiato non viene integrato? Si ghettizza! Entra in un ghetto, e una cultura che non si sviluppa in un rapporto con un’altra cultura entra in conflitto e questo è pericoloso.
Credo che il più cattivo consigliere per i Paesi che tendono a chiudere le frontiere sia la paura. E che il più buon consigliere sia la prudenza. Ho parlato con un funzionario del governo svedese e mi diceva di qualche difficoltà perché vengono in tanti e non si fa a tempo a sistemarli e a trovare scuola, casa, lavoro. La prudenza deve fare questo calcolo. Se la Svezia ha diminuito la sua capacità di accoglienza, non è per egoismo ».
È realistico pensare a donne- prete nella Chiesa cattolica?
«L’ultima parola è chiara e l’ha data Giovanni Paolo II e questa rimane. Ma le donne possono fare tante cose meglio degli uomini e anche nel campo dogmatico. La Chiesa è donna. È “la” Chiesa, non “il” Chiesa. La Chiesa sposa Gesù Cristo. Non esiste la Chiesa senza questa dimensione femminile».
Per sempre mai donne prete?
«Se rilegge bene la dichiarazione di san Giovanni Paolo II va in questa linea».
Perché ha ricevuto il presidente del Venezuela?
«Ha chiesto un appuntamento perché veniva dal Medio Oriente e faceva scalo tecnico a Roma. Quando un presidente chiede lo si riceve. Il dialogo è l’unica strada per tutti i conflitti. La gente impegnata nel dialogo in Venezuela è gente importante, c’è il presidente Zapatero... Entrambe le parti hanno chiesto che la Santa Sede fosse presente. La Santa Sede ha designato il nunzio in Argentina per il negoziato».
Stiamo tornando dalla Svezia dove la secolarizzazione è molto forte. La secolarizzazione tocca l’Europa in generale. È una fatalità? Chi sono i responsabili?
«Una fatalità? Non ci credo. Quando la fede diventa tiepida è perché si indebolisce la Chiesa. Possiamo dire che c’è qualche debolezza nell’evangelizzazione, in tempi secolarizzati. Ma c’è anche un processo culturale, quando l’uomo riceve il mondo da Dio per farlo cultura. A un certo punto l’uomo si sente tanto padrone di quella cultura e si arriva al peccato contro Dio creatore: l’uomo autosufficiente. Ci sono queste due cose, l’autosufficienza dell’uomo di cultura che va oltre i limiti e si sente Dio e anche una debolezza nell’evangelizzazione che diventa tiepida. Il cardinale De Lubac disse che quando nella Chiesa entra questa mondanità è il peggio che possa accadere, peggio ancora di quello che è accaduto nell’epoca dei Papi corrotti. La mondanità è pericolosa».
Qualche giorno fa ha incontrato Krupp che si occupa di schiavitù e della tratta di esseri umani. Perché?
«Da vescovo di Buenos Aires ho lanciato iniziative contro la schiavitù nel lavoro. Ho lavorato con due congregazioni di suore che si occupano di prostitute, donne schiave della prostituzione (non mi piace dire prostitute, schiave della prostituzione). Lavoravamo insieme e qui in Italia ci sono tanti gruppi di volontariato che lavorano contro ogni forma di schiavitù. Mesi fa ho visitato una di queste organizzazioni. Si lavora bene, non pensavo succedesse. È una cosa bella che ha l’Italia, il volontariato, ed è merito dei parroci: l’oratorio e il volontariato sono nati dallo zelo apostolico dei parroci »
postilla
"Integrazione" è una parola che, come tante, può essere declinata in molti modi. Può significare dire all'Altro: devi diventare come Noi, abbracciare le stesse credenze, costumi, principi, lingua; è la declinazione, pessima, della "razza padrona", xenofoba e neonazista. Può significare spingere l'Altro a cedere alla sua tentazione più immediata, cioè rimanere stretto ai "Suoi", chiudersi nel cerchio delle credenze, costumi, principi, lingue della Sua storia: in una parola, chiudersi (o lasciarsi rinchiudere) in un ghetto; è la soluzione, cattiva, di chi ha paura dell'altro. Può significare lavorare perché le diversità sussistano ma si aprano al dialogo, al confronto, allo scambio, al mutuo arricchimento: diventino esse stesse un valore aggiunto.
Naturalmente la condizione preliminare per condividere, nei fatti, quest'ultima declinazione della parola "integrazione" è praticare, fin da subito, le tre "virtù civili" dell'accoglienza, della solidarietà, del reciproco rispetto.
. Articoli di Simonetta Fiori, Chiara Saraceno, Luciana Castellina da La Repubblica e il manifesto 2 novembre 2016 (c.m.c.)
La Repubblica
TINA ANSELMI
di Simonetta Fiori
«Dalla Resistenza alla militanza nella Democrazia cristiana, nelle cui file fu deputata dal ‘68 al ‘92. Con l’ex presidente della commissione P2 scompare un simbolo della Repubblica, che respinse i tentativi di insabbiare la verità sui poteri deviati nello Stato.»
La chiamavano la Tina Vagante, alludendo alla sua integrità esplosiva rispetto al gioco del potere. Da anni era chiusa nel silenzio dei giusti, il Parkinson e poi un ictus ne avevano consumato le energie intellettive. Ma in fondo parla per lei la sua morte, capitata per curioso destino in un duplice anniversario che ne puntella la biografia politica: il settantesimo del voto femminile e il quarantesimo d’un ministero assegnato per la prima volta a una donna. Quella ministra era lei, Tina Anselmi, una vita da primato vissuta con l’umiltà dei semplici.
A scorrere i quasi novant’anni di vita – era nata a Castelfranco Veneto il 25 marzo del 1927 – ci si imbatte solo in una sequenza di primati, come rileva anche il bel ritratto apparso in un volume del Mulino, Donne della Repubblica.
Tutte le cose migliori della storia repubblicana portano la firma dell’Anselmi. Ma la Tina, come la chiamano dalle sue parti, era antropologicamente immune da qualsiasi vanità. Sorridente, faccia larga, la femminilità trattenuta, concretezza contadina, il rigore morale di chi sceglie di stare dalla parte dei più deboli. Per istinto naturale prima ancora che per coscienza politica. Divenne staffetta partigiana a 16 anni dopo aver assistito all’impiccagione del fratello d’una sua amica ad opera dei nazifascisti. Dopo pochi giorni, con il nome in codice di Gabriella, si lancia in sella a una bicicletta per portare notizie ai resistenti. Ma il carattere della Tina si rivela il giorno della Liberazione, quando nel buio della piazza punta la pistola sulle spalle di un uomo scambiato per un repubblichino: era suo padre, uscito per cercarla nelle ore del coprifuoco. Ne avrebbero riso per il resto della vita.
Tina la tosta. Tina che non si spaventa davanti a niente, specie se si tratta di difendere le altre donne. È iscritta a Lettere – alla Cattolica di Milano – quando comincia la militanza sindacale al fianco delle filandiere e più tardi delle maestre elementari. Poca teoria e molta pratica: per cominciare le bastò guardare le dita lessate delle operaie. Agli amici socialisti del padre preferisce i suoi compagni partigiani cattolici, e le sue stelle polari se le andrà a cercare dentro la Democrazia Cristiana, tra De Gasperi e Dossetti, Moro e Zaccagnini.
Agli anni della guerra risale anche il suo grande amore, l’unico, morto precocemente a causa di una malattia. Ma la Tina preferiva non parlarne, sempre riservata sulla sua solitudine sentimentale. «No, non ho scelto io, ma è la vita che ha scelto per me», rispondeva alla biografa Anna Vinci. «Ha scelto la politica». Nel 1946 non può ancora votare, ma si dà da fare tra le contadine venete perché capiscano l’importanza delle urne. Negli anni Cinquanta la ritroviamo accanto alla socialista Lina Merlin contro le case di tolleranza: la difesa delle prostitute le avrebbe attirato molte critiche. Ma è solo l’inizio, agli attacchi e anche alle bombe si dovrà abituare col tempo.
In fondo è il destino di chi cambia la storia, o di chi ci prova e in parte ci riesce. Da ministra del Lavoro vara la legge di “parità di trattamento tra uomini e donne”: una vera rivoluzione per quei tempi, anche se è rimasta incompiuta. Nel 1978, da titolare del dicastero della Sanità, partecipa all’istituzione del Servizio sanitario nazionale, una conquista che oggi viene studiata dagli storici per spiegare il primato italiano di longevità. Sempre in quell’anno dà prova del suo senso delle istituzioni al di là di qualsiasi fede religiosa: pur avendo votato in Parlamento contro l’interruzione di gravidanza, in veste di ministra firma la legge sull’aborto, resistendo alle fortissime pressioni vaticane.
Non può piacere a tutti, Tina Anselmi. Troppo integra, e anche troppo attiva. Nel 1980 sfugge a una bomba - forse di mano neofascista - che fortunatamente non esplode. Solo a una donna del suo temperamento può essere assegnata nel 1981 la guida della commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2. Prima di accettare, si consulta con il suo amico Leopoldo Elia. Un lavoro straordinario – 198 persone ascoltate, centinaia di migliaia di carte – per far luce sul sistema occulto che condiziona la vita nazionale.
Il dossier conclusivo è una meticolosa controstoria d’Italia che denuncia gli intrecci fangosi tra politica, apparati militari, servizi segreti, finanza, perfino il Vaticano. «Non è che l’inizio», ammonisce l’Anselmi, che invita ad approfondire il marcio rivelato dalla loggia massonica. Esortazione lasciata clamorosamente cadere. Contro la Tina piovvero le accuse di ossessiva visionarietà, ma a farle più male furono quelle della sua stessa parte politica. «Io credo che sia ammalata dopo questa storia», confessa la sorella Maria Teresa a Eliana Di Caro ed Elena Doni, autrici del saggio del Mulino.
Il lavoro sulla P2 non le sarà perdonato. È sotto il governo Berlusconi che, nel 2004, viene promosso su iniziativa della Prestigiacomo un dizionario delle donne italiane. La voce “Tina Anselmi” è un’infilata di cattiverie, «improbabile guerriera», «furbizia contadina», anticipatrice della «futura demonologia politica, distruttiva e futile». Un attacco quanto mai ingiusto e sconsiderato.
Quando esce dalla scena politica, dopo essere stata proposta senza successo per il Quirinale, ritorna nella sua Castelfranco. Può contare su una famiglia affettuosa, tra molti nipoti e due sorelle che l’hanno seguita fino agli ultimi giorni, regalandole il meritato dono di morire in casa. Le amiche come la Vinci - curatrice dei suoi diari segreti sulla P2 - la ricordano ironica, mai scioccamente nostalgica («non è vero che eravamo meglio noi»), insofferente alle contorsioni della politica («ma chi l’ha detto che una persona semplice non sia un buon politico?»), allergica ai narcisismi e all’autoreferenzialità. Diceva sempre noi, la Tina, mai io. E anche ora, composta con una semplice veste blu, appare ieratica ed essenziale, come di chi s’accomiata sapendo di aver fatto la sua parte.
La Repubblica
L’INTEGRITÀ SCOMODA
DI TINA ANSELMI
di Chiara Saraceno
«L’emarginazione dalla politica è poi diventata un lungo oblio. Per molti, troppi anni, ci si è dimenticati di lei“ La Commissione sulla P2 le costò l’isolamento e l’ostracismo da parte del suo partito per l’inflessibilità con cui la condusse»
Ora che Tina Anselmi è morta tutti si ricordano di lei e ne esaltano la figura politica ed umana, il ruolo importante che ha avuto nella costruzione della democrazia italiana fin dalla sua origine, con la Resistenza, e successivamente con il lavoro nel sindacato e poi, da politica e ministra, con il sostegno attivo alla parità tra le donne e gli uomini, al diritto alla salute tramite l’istituzione del servizio sanitario nazionale. E, ancora, come presidente della Commissione di indagine sulla P2, che le costò l’isolamento e poi l’ostracismo da parte del suo partito per l’inflessibile integrità con cui la condusse e la tenacia con cui continuò a chiedere che se ne traessero le conseguenze sul piano giudiziario e politico. Quell’ostracismo che prima la fece emarginare dalla politica e poi è diventato un lungo oblio.
Per molti, troppi anni ci si è dimenticati di lei, ben prima che la malattia la costringesse a chiudere i suoi ponti con il mondo. È vero che ad ogni elezione presidenziale, a partire dal 1992, qualche gruppo della società civile ha fatto il suo nome come possibile candidata. Ma è sempre rimasta una cosa puramente simbolica, senza alcuna eco, e tanto meno sostegno, non solo nei partiti, a partire dal suo e dai suoi colleghi di un tempo tuttora ben insediati nei gangli del potere, ma anche nei giornali e nei media e in parte anche nel movimento delle donne.
Non veniva neppure nominata quando si evocava ritualmente quel gruppo di persone che si amava definire “riserva della nazione” — tutti rigorosamente del sesso “giusto”, anche se non tutti avevano e hanno un curriculum umano e politico dello suo spessore. Non l’hanno fatta neppure senatrice a vita, cosa che io, che non sono mai stata democristiana, trovo personalmente non solo una ingiustizia, ma uno scandalo nei confronti di una persona alla quale la democrazia italiana è molto debitrice e che avrebbe più che meritato di occupare un ruolo designato per chi ha “illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”.
Non l’avrà illustrato in campo scientifico, artistico o letterario, ma sociale sicuramente sì. Non ci hanno pensato né Ciampi né Napolitano, i due presidenti che avrebbero potuto farlo e dai quali ci si sarebbe aspettati la sensibilità necessaria per deciderlo. Rimane il sospetto che non lo abbiano fatto perché era non solo una donna, caratteristica che nel nostro Paese continua ad essere una debolezza quando si tratta di trovare figure rappresentative, ma perché la sua storia politica, proprio per le sue caratteristiche di autonomia e integrità, la rendeva scomoda. Meglio lasciarla nell’oblio.
La sua rimozione dalla narrazione pubblica è talmente riuscita che, quando Elsa Fornero venne designata ministra del Lavoro nel governo Monti, molti, anche nei media, parlarono di prima donna a capo di quel dicastero, dimenticando che c’era stata, molti anni prima, appunto Anselmi, in un periodo altrettanto difficile e quando non era affatto scontato per una donna trattare da pari a pari con i colleghi di governo, con i rappresentanti sindacali e delle imprese.
La riparazione, parziale, a questo lungo oblio è avvenuta solo pochi mesi fa, quando le è stato dedicato un francobollo. Chissà che cosa avrebbe detto, quando era ancora lucida e piena di ironia, di questa monumentalizzazione ex post e quando ormai era fuori gioco, lei che ancora pochi anni fa aveva ammonito: «Lo ripeto sempre, a cominciare dalle mie nipotine, che nessuna vittoria è irreversibile. Dopo aver vinto possiamo anche perdere.
Negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta noi donne impegnate in politica e nei movimenti femminili e femministi, noi parlamentari con responsabilità nei partiti e nel governo eravamo ancora pioniere. Questa parola fa pensare che in seguito saremmo diventate più numerose e avremmo contato di più. Purtroppo, certe speranze sembrano non aver dato i frutti che avevano in serbo».
Aggiungo che per lei «contare di più» non significava solo “esserci”, ma lavorare per migliorare la qualità sia della vita delle persone sia della democrazia.
il manifesto
UN'AMICA E UN COMPAGNA
di Luciana Castellina
Un’epoca in cui l’organizzazione giovanile democristiana era fortemente influenzata dalla sua corrente di sinistra e fra noi giovani comunisti e loro ci si annusava sospettosi ma anche interessati. Ho ancora fra le foto che conservo in un pannello sulla mia scrivania quella di una cena – a Trento – in occasione del loro congresso cui io avevo assistito come «ospite» per conto della nostra federazione.
Siamo ambedue giovanissime, Tina solo due anni più di me, abbastanza per aver partecipato in prima persona alla Resistenza nel suo trevigiano, con il nome di battaglia Gabriella. Entrò nelle sue file – mi raccontò – dopo aver assistito all’ assassinio di 31 partigiani. Diventammo quasi amiche, io credo che ci siamo sentite in qualche modo «compagne», se a questa parola si dà il significato dovuto e che tutt’ora io le do: non la comune appartenenza ad una organizzazione, ma a un comune sentire. Perché così è stato con Tina.
Un giorno la invitai a pranzo a casa e la presentai a mia figlia che aveva pochissimi anni. Quando le dissi che era democristiana Lucrezia mi guardò inorridita: dei democristiani lei aveva sempre sentito dire il peggio e non capiva come fosse possibile che una di loro mettesse piede a casa nostra e conversasse con me come una persona normale. Io e Tina, dello sguardo scandalizzato e perplesso di mia figlia ridemmo di cuore, Lucrezia rimase invece a lungo diffidente.
Poi lei diventò deputata, mentre io rimasi a lungo militante delle organizzazioni povere della sinistra: la Fgci, l’Udi, poi il manifesto. La cosa aveva riflessi ferroviari: la incontravo spesso, nel mio girovagare, alla stazione di Padova e lei mi diceva: «Vien, vien, che tiro zo un leto». E così venivo ospitata nel suo vagon-lit , evitando lo scomodissimo sedile dello scompartimento cui il mio biglietto mi destinava.
Non voglio dire qui che tutti i dc erano come Tina. Purtroppo no. Lei è stata una persona davvero speciale, ma che aveva comunque un tratto analogo a quello di un settore di quel maledetto partito che tanto abbiamo – e giustamente – combattuto. Una sua ala popolare e in qualche modo anticapitalista. No, non ho certo nostalgia della Dc, né del compromesso storico, che purtroppo fu un’intesa con ben altra Dc. (Ma forse anche voi lettori vi ricorderete che Luigi Pintor per molti anni metteva sempre un postscriptum ai suoi editoriali, per dire, sconsolato: «Moriremo democristiani». All’ultimo, ricordo, aveva aggiunto: «Magari»).
Anche se i miei ricordi personali di Tina sono precedenti al suo ingresso nei governi Andreotti, vorrei aggiungere che sono stata molto contenta quando è diventata ministro. Come capo del dicastero della sanità, Tina contribuì infatti non poco a dare esito positivo alla lunga lotta per l’istituzione in Italia del Servizio sanitario nazionale. Se posso aggiungere una considerazione che si riferisce ad una questione politica calda, il referendum costituzionale (cosa che di solito non si fa nel contesto di una commemorazione funebre) vorrei aggiungere che quella vittoria popolare, fu possibile, come altre in quegli anni – statuto dei lavoratori, divorzio, aborto, ecc. – perché c’erano spazi per l’espressione dei conflitti e canali affinché trovassero riflesso nelle istituzioni.
La forza dell’opposizione sociale, accompagnata alla presenza di una forte minoranza in parlamento a quella strettamente legata ai movimenti di lotta, consentì quella dialettica democratica che sfociò in compromessi anche molto avanzati (e che non a caso oggi siamo qui a difendere coi denti). Alla democrazia – e dunque alla società – non serve un esecutivo reso efficiente dall’assenza di intralci – ma un conflitto tanto forte da imporre un dialogo. Certo il dialogo con Tina è stato altra cosa che quello con Andreotti. Ma lei era una «compagna».
Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2016 (p.d.)
La mafia è una società di servizi alla quale le aziende del nord fanno fatica a rinunciare, specie in tempo di crisi. Le aziende sporche entrano in contatto con realtà imprenditoriali apparentemente pulite per far quadrare il fatturato, con emissioni di fatture false e fondi neri, eventuale recupero crediti e, per abbattere i costi, specializzandosi in attività altrimenti particolarmente onerose, come lo smaltimento dei rifiuti pericolosi (ricavi per 19,6 miliardi di euro). È un abbraccio cercato e voluto, che si conclude quasi sempre nel consegnare l’azienda nelle mani delle associazioni criminali.
A Reggio Emilia, dove si tiene uno dei più grossi processi di mafia del Nord, addirittura gli imprenditori indebitati con le cosche negano l’evidenza di alcune intercettazioni telefoniche, dalle quali emergono esplicite minacce di morte subìte. “Toni amichevoli”, precisa l’imputato , un po’ come Silvio Berlusconi dopo l’attentato mafioso alla sede Fininvest del 28 novembre 1986. Ipotizza sia stato il suo “stalliere”, Vittorio Mangano, ma con l’amico Dell’Utri sottolinea: “una cosa fatta con molto rispetto, quasi con affetto”. Si trattava di una bomba.
Se il traffico degli affari “leciti” tracciabili della sola 'ndrangheta è sopra i 53 miliardi di euro l'anno, significa che sotto ce ne sono almeno il doppio in nero. Un volume che tira su il Pil nazionale di 3,5 punti percentuale. Un'azienda capace di trattare armi, droga, frutta, verdura, fiori, movimento terra, sfruttamento della manodopera clandestina e ogni altro business appetibile per la 'ndrangheta Spa.
Da vocabolario il termine “infiltrazione”, rimanda a un “passaggio lento e continuo, consentito dalla permeabilità o dalla scarsa capacità di tenuta” delle condutture, in caso di liquidi. In questo caso la scarsa capacità di tenuta è della società che ha permesso e accettato di fare affari con la criminalità organizzata. Lo ha detto il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, intervistato da Lilli Gruber: “Nell'arco di 5 anni si potrebbero abbattere le mafie del 70%, ma non ci sono i numeri in Parlamento per risolvere il problema, perché il potere non vuole essere controllato”.
Ecco perché parlare di “infiltrazioni” è un’ipocrisia. Dovremmo chiamarle scelte, opportunità, presenze radicate, per restituire all’opinione pubblica, e alla politica, una rappresentazione della realtà più fedele possibile. Mentre le mafie negli anni sono cresciute, il Paese continua a fronteggiarle con gli stessi metodi dei tempi di coppole e lupare. Abbiamo bisogno di strumenti normativi adeguati, di polizie specializzate, che possano mettere sotto la lente le amministrazioni pubbliche e private e anche di una magistratura più esperta. Un lessico onesto renderebbe il dibattito più costruttivo. Per dirla con Thomas Reid, “non esiste più grande impedimento per l’avanzare della conoscenza che l’ambiguità delle parole”.
Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2016 (p.d.)
1. Il governo Renzi si regge su un’ampia maggioranza alla Camera e su una più risicata al Senato: quindi, per far approvare i suoi provvedimenti, non ha bisogno dei voti delle opposizioni. Che devono controllare ciò che fa il governo, votando ciò che ritengono giusto e contrastando ciò che ritengono sbagliato.
2. Il governo Renzi è impegnato in una perenne polemica con la Commissione europea, a cui chiede alcune cose irragionevoli (il permesso di violare gli impegni da esso stesso assunti per la riduzione del debito e il contenimento del deficit) e alcune sacrosante (l’esclusione delle spese per la ricostruzione post-terremoto e per l’accoglienza dei migranti dal patto di Stabilità). Se non mendicasse le prime, avrebbe più potere contrattuale sulle seconde, che comunque l’Ue non pare intenzionata a negargli. E, sulle richieste ragionevoli, sarebbe più credibile se evitasse di reclamare 3,4 miliardi di nuova flessibilità per il terremoto per poi dirottarne i 3/4 sui bonus più o meno elettorali.
3. La legge di Stabilità appena presentata, sul post-terremoto è largamente insufficiente e talora: la ricostruzione di Amatrice e degli altri comuni devastati dal sisma di agosto è prevista entro il 2047, cioè fra 31 anni. E il piano Casa Italia per la prevenzione è poco più di un sacco vuoto. Siccome i comuni ad alto rischio sismico sono il 38%, con 6,2 milioni di edifici, occorrono decine di miliardi. Che non si possono trovare tutti subito, ma che bisogna iniziare a rastrellare. Non facendo altre cambiali da accollare alle future generazioni, sforando ancora il debito e il deficit, ma con un’imposta patrimoniale e una seria lotta all’evasione e agli sprechi. (La legge di Stabilità regala 97 milioni alla Ryder Cup di golf: e cambiano la Costituzione per risparmiarne 40?).
4. Inaugurando la Nuvola all’Eur, la sindaca Raggi ha denunciato 18 anni di sprechi e rinvii e s’è beccata i fischi dei magnamagna in platea. Standing ovation invece per i colpevoli degli sprechi e dei rinvii. In un Paese così occorre più opposizione, non meno.
5. Il mondo delle costruzioni non dà garanzie né di trasparenza né di efficienza. Nelle carte dell’ultima retata per le tangenti sulle grandi opere, l’aspetto meno allarmante è la corruzione: “colla”al posto del cemento armato e costi gonfiati ad arte (da 18 a 61 milioni per l’inutile Terzo Valico) dalla Salini Impregilo, festeggiata un mese fa da Renzi, che dovrebbe regalarci (si fa per dire) il Ponte sullo Stretto. Nella civilissima Lombardia, basta un Tir per polverizzare un viadotto; e un manager inquisito rivela che tutti gli appalti continua a spartirseli la solita cricca di coop rosse e bianche e costruttori noti alle cronache giudiziarie dai tempi di Tangentopoli. Un ras della ’ndrangheta dice di essersi pappato il 70% dei lavori di Expo col trucco dei subappalti. E i manager e costruttori sentiti dai pm che indagano su Expo assicurano che lo staff di Beppe Sala aveva un “unico interesse: concludere i lavori entro aprile 2015” a costo di “arretrare la soglia della legittimità amministrativa” con una “deregulation dettata dall’emergenza”. La Mantovani vinse una gara con un ribasso assurdo del 42%, ma anziché verificarne la congruità “Sala ripeteva che ‘l’unica cosa che non manca sono i soldi’”.
Tutto ciò non risale al solito vago “passato”da dimenticare. Accade oggi, età dell’oro del renzismo arrembante che si accinge a stanziare – com’è giusto – miliardi per la ricostruzione post-terremoto, affidando – com’è inevitabile – centinaia di appalti. Chi ci garantisce gare non truccate, niente appalti a trattativa diretta, niente subappalti a imprese mafiose,niente costi lievitati, niente risparmi sui materiali per accollare le mazzette ai contribuenti, nessuna impresa già condannata?
Renzi ripete il magico abracadabra: “Controllerà tutto Cantone” (cui il governo lesina 83 milioni per far funzionare l’Anac). Per fortuna non ha aggiunto “ricostruzione modello Expo”, come aveva incautamente fatto ad agosto. Ma, con tutto il rispetto per Cantone, anche Expo e le altre grandi opere degli ultimi scandali erano sotto controllo dell’Anac. Quindi Renzi la smetta di usarlo come il Dash che “lava più bianco” o il confetto Falqui che “basta la parola”. Cantone non basta se non cambiano le regole per la ricostruzione: gara obbligatoria per ogni appalto e incarico, niente subappalti, fuori le imprese condannate, agenti provocatori per offrire tangenti ai pubblici amministratori e testarne l’integrità. Le opposizioni devono battersi per questo, tenere gli occhi ancor più aperti e denunciare l’eventuale ritorno dei soliti andazzi e dei soliti noti. Se le norme antisismiche vengono violate da più di 30 anni, non è perché c’era troppa opposizione. Ma perché ce n’era troppo poca.
». Comune Info, 31 ottobre 2016 (i.b.)
Nella misura in cui l’estrattivismo e i processi politici consolidati in questo modello cominciano a mostrare crepe, per la brusca caduta dei prezzi delle commodities, ci troviamo in condizioni migliori per capire le loro caratteristiche profonde e i limiti delle analisi precedenti. Una di esse, e qui dobbiamo fare autocritica in prima persona, consiste nell’aver guardato in primo luogo al lato ambientale e predatore della natura del modello di conversione dei beni comuni in merci.
Ora possiamo fare un passo avanti, cosa che hanno già fatto gli zapatisti più di un decennio fa, quando hanno definito il modello come «quarta guerra mondiale». L’altro errore importante è stato considerare l’estrattivismo come modello economico, seguendo il concetto di «accumulazione per espropriazione» di David Harvey. Pertanto, all’errore di aver incentrato le critiche – in modo quasi esclusivo – sull’aspetto ambientale, si è aggiunto l’economicismo sofferto da molti di noi che si sono formati con Marx.
Il capitalismo non è un’economia, ma un tipo di società (o formazione sociale), anche se evidentemente esiste un’economia capitalista. Con l’estrattivismo succede qualcosa di simile. Se l’economia capitalista è accumulazione per mezzo di estrazione del plusvalore (riproduzione estesa del capitale), la società capitalista ha prodotto la separazione della sfera economica dalla politica. L’economia estrattiva, di conquista, furto e saccheggio, è appena un aspetto di una «società estrattiva», o «formazione sociale estrattiva», che è la caratteristica del capitalismo nella sua fase di dominio del capitale finanziario.
Al di là dei termini, va sottolineato che viviamo in una società la cui cultura dominante è di appropriazione e furto. Perché insistere sull’esistenza di una cultura estrattivista diversa da quella egemonica, in altri periodi del capitalismo? Perché ci aiuta a capire com’è il mondo nel quale viviamo e le caratteristiche del modello contro il quale ci ribelliamo.
Per capire meglio in cosa consiste quella cultura, sarebbe necessario compararla con la cultura egemonica di periodi precedenti, per esempio durante il predominio dell’industria e dello Stato sviluppista. In quel periodo, i lavoratori manuali dell’industria provavano orgoglio per il loro lavoro e per essere produttori di ricchezza sociale (sebbene di una parte sostanziale di quella ricchezza se ne appropriasse il padrone) . Quell’orgoglio prendeva la forma di coscienza di classe quando si individuavano i propri interessi mediante la resistenza agli sfruttatori.
Non era lo sciocco orgoglio di chi si crede superiore, ma il risultato del posto che gli operai avevano nella società; posto che non avevano ereditato, ma costruito con una lunga e paziente lotta. Tra la metà del XIX secolo e i primi decenni del XX, gli operai – e alle volte le operaie – si sono formati alla luce di una candela dopo estenuanti giornate di 12 ore di lavoro, hanno creato propri spazi di incontro e di svago (centri culturali, teatri, biblioteche, cooperative, sindacato), hanno istituito forme di vita basate sull’aiuto reciproco, hanno creato meraviglie come la Comune di Parigi e la Rivoluzione d’Ottobre, oltre a più di una decina di insurrezioni urbane. Avevano ragioni per nutrire autostima.
Nella vita quotidiana, la cultura operaia ruotava attorno al lavoro, all’austerità per convinzione, al risparmio come norma di vita e alla solidarietà per religione. La tuta da lavoro e il berretto erano segni d’identità con cui giravano per i loro quartieri, perché non volevano vestirsi come i padroni; tutto nelle loro vite, dall’abitazione fino alle loro maniere, li differenziava dagli sfruttatori. Questa cultura aveva tratti oppressivi, come ben sanno le donne e i figli e le figlie degli operai dell’industria. Ma era una cultura propria, basata su una crescita personale autonoma, non nell’imitazione di quelli che stanno in alto.
Questo lungo giro vuole portare a un punto nodale: la cultura operaia poteva connettersi con l’emancipazione. La cultura estrattivista va nel senso opposto. Anche se portava elementi oppressivi, quella cultura conteneva aspetti preziosi, potenzialmente anticapitalisti.
La cultura estrattivista è il risultato del mutamento generato dal neoliberalismo, a cavallo del capitale finanziario. Il lavoro non ha il minimo valore positivo, posto che adesso occupano il saccheggio e le altre facce della medaglia, il consumismo e l’ostentazione. Dove c’era l’orgoglio del fare, oggi la cultura ruota attorno all’esibizione di marche e di mode. Mentre gli operai di un tempo condannavano il furto, per ragioni strettamente etiche, oggi si festeggia l’appropriazione, anche quando la vittima è un vicino, un amico e perfino un familiare.
Certamente, non tutta la società esibisce questo modo di vivere. Ma si tratta di forme che hanno guadagnato terreno in società dove i giovani non hanno un impiego dignitoso né un posto nella società, né la possibilità di formarsi lavorando, né di conseguire una minima ascesa sociale dopo anni di sacrifici. E non hanno nemmeno memoria di quel passato, che è la cosa più deleteria, poiché attenta alla dignità.
L’estrattivismo ha dissolto i soggetti, perché nella cosiddetta “produzione” semplicemente non ci sono. Perfino nella sfera della riproduzione, il sistema si sforza di mercificare tutto, dalle nascite al cibo, scagliandosi contro il ruolo centrale delle donne in questi spazi. Da qui l’importanza delle microresistenze: il tianguis [mercato tradizionale del Messico e del Centro América], il quartiere, i territori popolari, gli spazi collettivi di diverso tipo. Sono le microresistenze che alimentano le grandi ribellioni.
Se è vero che la cultura egemonica sotto l’estrattivismo ostacola i processi emancipatori, l’organizzazione e le resistenze, ci troviamo di fronte all’imperiosa necessità di lavorare nella direzione opposta a quella cultura. Le fondamenta del mondo nuovo sono qui, nella vita quotidiana. Ecco perché l’impegno nei lavori collettivi, in tutte le resistenze. Quei lavori modellano una cultura nuova, che riscatta il meglio della cultura operaia e prova (non sempre) a limitare le oppressioni.
La nuova corsa all’oro. Società estrattiviste e rapina
Il testo è inedito, le 106 pagine includono anche 5 schede di “estrattivismo” italiano le hanno curate i nostri compagni di sempre, il gruppo di Camminar Domandando, in collaborazione con Re:Common, che nella prefazione scrive: “Quest’ultima opera di Raul Zibechi ha un pregio particolare per il pubblico italiano: introdurre un concetto ampio di estrattivismo, proprio nella sua accezione originaria, che dall’America Latina si è allargata a tutto il sud globale.
Ossia quel processo che coinvolge grandi interessi privati, nazionali ed esteri, lo Stato e la finanza nelle sue varie articolazioni, per accaparrare le risorse presenti sui territori contro gli interessi delle comunità locali e dell’ambiente da cui queste dipendono e trovano ancora in gran parte del pianeta il loro sostentamento e modalità di organizzazione della società. […] Con questa prospettiva latino americana possiamo allora rileggere anche ciò che avviene sui nostri territori in Italia, e definire pure la Tav in Val Susa, o le nuove ed inutili autostrade nel Nord e nel Nord-est quali esempi di estrattivismo che impoverisce la gran parte delle persone che vivono su quei territori, trasformandola e subordinandola alla logica dei mercati globali che premia ben pochi – ed i soliti noti.
Investimenti su larga scala, sia quelli minerari, che petroliferi o dell’agro-business, che trasformano interamente i territori nella loro geografia, generando nuove forme di dominazione e nuova apartheid, come Raul Zibechi definisce la dicotomia tra zona dell’essere e quella del non-essere, «cioè di coloro a cui viene sostanzialmente negata la condizione umana».
L’originalità dell’analisi di Zibechi è proprio il mettere l’accento sul fenomeno sistemicodella violenza dei conflitti che l”estrattivismo genera sui territori e la conseguente criminalizzazione del dissenso, la militarizzazione dei territori e la repressione spesso brutale delle voci contrarie quali elementi imprescindibili del modello estrattivista, e non solo eccessi sporadici o danni collaterali. Una repressione fondante della zona del non-essere, che però oggi colpisce anche molti attivisti che operano contro le grandi opere e che vivono nei paesi del Nord globale, quali l’Italia – in quella che è ancora zona dell’essere, per dirla alla Zibechi – i quali cominciano a viverla sulla propria pelle sempre più spesso.
Nota di Comune.info
Il nuovo libro di Rauùl Zibechi, La nuova corsa all’oro. Società estrattiviste e rapina, non sarà in vendita nelle librerie e potrà essere acquistato solo ordinandolo via mail ad Aldo Zanchetta aldozanchetta@gmail.com. Il prezzo è di 7 euro, comprese le spese di spedizione.
Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano dalla parte delle società in movimento, è redattore del settimanale Brecha. I suoi articoli vengono pubblicati con puntualità in molti paesi del mondo, a cominciare dal Messico, dove Zibechi scrive regolarmente per la Jornada. In Italia ha collaborato per oltre dieci anni con Carta e ha pubblicato diversi libri: Il paradosso zapatista. La guerriglia antimilitarista nel Chiapas, Eleuthera; Genealogia della rivolta. Argentina. La società in movimento, Luca Sossella Editore; Disperdere il potere. Le comunità aymara oltre lo Stato boliviano, Carta. Territori in resistenza. Periferia urbana in America latina, Nova Delphi. L’edizione italiana del suo penultimo libro, “Alba di mondi altri” è stata stampata in Italia nel luglio 2015 dalle edizioni Museodei. Molti altri articoli inviati da Zibechi a Comune-info: http://comune-info.net/autori/raul-zibechi/
U
il manifesto, 1° novembre 2016
«Grazie, presidente Obama. L’Italia proseguirà con grande determinazione l’impegno per la sicurezza nucleare»: così scriveva il premier Renzi in uno storico messaggio twitter. Sei mesi dopo, alle Nazioni Unite, Renzi ha votato Sì alle armi nucleari. Accodandosi agli Usa, il governo italiano si è schierato contro la Risoluzione, approvata a grande maggioranza nel primo comitato dell’Assemblea generale, che chiede la convocazione nel 2017 di una conferenza delle Nazioni Unite al fine di «negoziare uno strumento legalmente vincolante per proibire le armi nucleari, che porti verso la loro totale eliminazione». Il governo italiano si è così rimangiato quanto promesso alla Conferenza di Vienna, due anni fa, ai movimenti antinucleari «esigenti», assicurandoli sulla sua volontà di operare per il disarmo nucleare svolgendo un «ruolo di mediazione con pazienza e diplomazia».
Cade così nel vuoto l’appello «Esigiamo il disarmo nucleare totale», in cui si chiede al governo «la prosecuzione coerente dell’impegno e della lotta per la messa al bando delle armi nucleari», in un percorso «umanitario e giuridico verso il disarmo nucleare», nel quale l’Italia potrebbe svolgere «un ruolo più che attivo, possibilmente trainante». Cadono di conseguenza nel vuoto anche le mozioni parlamentari dello stesso tenore. Gli appelli generici al disarmo nucleare sono facilmente strumentalizzabili: basti pensare che il presidente Usa, artefice di un riarmo nucleare da 1000 miliardi di dollari, è stato insignito del Premio Nobel per la Pace per «la sua visione di un mondo libero dalle armi nucleari». Il modo concreto attraverso cui in Italia possiamo contribuire all’obiettivo del disarmo nucleare, enunciato nella Risoluzione delle Nazioni Unite, è quello di liberare il nostro paese dalle armi nucleari statunitensi. A tal fine occorre non appellarsi al governo, ma esigere che esso rispetti il Trattato di non-proliferazione (Tnp), firmato e ratificato dall’Italia, che all’Art. 2 stabilisce: «Ciascuno degli Stati militarmente non nucleari, che sia Parte del Trattato, si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi, né il controllo su tali armi e congegni esplosivi, direttamente o indirettamente».
Si deve esigere che l’Italia cessi di violare il Tnp e chieda agli Stati uniti di rimuovere subito tutte le loro armi nucleari dal nostro territorio e di non installarvi le nuove bombe B61-12, punta di lancia della escalation nucleare Usa/Nato contro la Russia, né altre armi nucleari. Si deve esigere che piloti italiani non vengano più addestrati all’uso di armi nucleari sotto comando Usa. È questo l’obiettivo della campagna lanciata dal Comitato No Guerra No Nato e altri soggetti (per documentarsi digitare su Google «Change Nato»). La campagna ha ottenuto un primo importante risultato: il 26 ottobre, al Consiglio Regionale della Toscana, è stata approvata a maggiornza una mozione del gruppo Sì Toscana a Sinistra che «impegna la Giunta a richiedere al Governo di rispettare il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari e far sì che gli Stati uniti rimuovano immediatamente qualsiasi arma nucleare dal territorio italiano e rinuncino a installarvi le nuove bombe B61-12 e altre armi nucleari». Attraverso queste e altre iniziative si può creare un vasto fronte che, con una forte mobilitazione, imponga al governo il rispetto del Trattato di non-proliferazione. Sei mesi fa chiedevamo dalle pagine del manifesto se ci fosse qualcuno in Parlamento disposto a esigere, in base al Tnp, l’immediata rimozione dall’Italia delle armi nucleari statunitensi. Siamo ancora in attesa di risposta.
ORE 7 E 40, LA SCOSSA
È il sisma più potente dal 1980 in Irpinia. Non ci sono morti ma venti feriti. Dopo quello del 24 agosto tocca ancora le aree tra Lazio e Marche.
La magnitudo scatenata dal terremoto di ieri (6.5) è la più forte dal terremoto dell’Irpinia che nel 1980 provocò 2.570 morti e quasi 9 mila feriti. I bilanci questa volta non sono stati altrettanto disastrosi dopo che la terra ha ripreso a tremare alle 7,40 di ieri mattina. L’epicentro è stato a Norcia (Umbria) e dintorni, mentre le onde sismiche si sono propagate per almeno due minuti. Tanto è bastato a rendere ancora più critica la situazione del centro Italia,già in ginocchio dopo il sisma del 24 agosto che ha raso al suolo Amatrice (magnitudo 6.0) e quello di mercoledì scorso con epicentro al confine umbro-marchigiano, tra i comuni di Visso, Ussita e Castelsantangelo sul Nera (magnitudo 5.4).
Proprio perché si tratta di aree già colpite da precedenti terremoti non ci sono state vittime, mentre 20 sono i feriti, uno in condizioni gravi. I centri storici dei paesi che erano già stati in gran parte sgomberati e dichiarati “zona rossa”, hanno però subito un’altra pesante devastazione: soprattutto a Norcia, dove sono crollate anche due chiese. Quella di San Francesco e la Basilica di San Benedetto che, lesionata già con le scosse di agosto, è finita nel dimenticatoio, senza essere messa in sicurezza, fino a ieri. Il risultato della noncuranza è la perdita del patrimonio artistico di Norcia e pure di "parte del suo passato", per dirla con le parole dello storico d’arte Romano Cordella.
Ancora: ieri è stata rasa al suolo la parte alta della frazione di Castelluccio di Norcia, mentre nella già città fantasma di Amatrice è crollata la torre civica.
Se pure non ci sono vittime, i numeri più preoccupanti riguardano gli sfollati. Sono circa 100 mila, anche se non si tratta di una cifra ufficiale: la Protezione civile e il Governo non hanno ancora dati precisi. Tantomeno una soluzione immediata: “Ribadiamo l’esigenza di aderire allo spostamento che è la soluzione migliore, che non significa non tornare” dice il capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio. E gli fa eco il commissario straordinario per la ricostruzione, Vasco Errani: “Non ha senso dormire in macchina. Nessuno vuole deportare le persone. Vogliamo che abbiano la possibilità di vivere una notte tranquilla. Poi insieme a loro e con loro troveremo le soluzioni”. E così mentre si stanno mettendo in piedi le strutture collettive, per ora si consiglia solo di dormire fuori casa.
Conseguenze del terremoto (nel pomeriggio ci sono state altre scosse, una di magnitudo 4.0 poco dopo le 7 di sera) ci sono state anche a Roma. Lesioni nei palazzi, strade bloccate, servizi metro sospesi, oltre un tratto di Tangenziale interrotta. È stata questa la situazione nella Capitale, dove ci sono stati danni alla basilica di San Paolo fuori le mura con crepe e cornicioni caduti, e quella di Sant’Ivo alla Sapienza, chiusa per le verifiche statiche della cupola del Borromini. Lesionata anche la basilica di San Lorenzo fuori le mura, mentre le visite al Quirinale sono state sospese.
Intanto il governo rassicura: “Noi ricostruiremo tutto – ha detto Matteo Renzi – le case, gli esercizi commerciali” e pure “le chiese”. E mentre ci si domanda come si possa ricostruire la ormai sbriciolata Basilica di San Benedetto da Norcia che risale al 1200, si attendono risposte rapide. Le città colpite dal terremoto ad agosto per ora sono ancora un cumulo di macerie e il timore è di una ricostruzione troppo lenta. Come è stato per l’Irpinia. A quasi 36 anni di distanza dal sisma e 50 miliardi di lire impiegati, ancora non è completata la ricostruzione del patrimonio edilizio: in alcuni comuni diverse persone vivono ancora nei container o nei prefabbricati.
MACERIE E SFOLLATI,
A Fermo, dove mi trovo, la notte scorsa era trascorsa scandita da scosse di lieve intensità, sufficienti a togliere il sonno. Il sole del primo mattino sembrava aver messo fine a questo stillicidio, quando, alle 7,41 la casa ha iniziato a ballare con violenza inaudita e sembrava non finire più. Il campanile della Chiesa di San Michele Arcangelo che sovrasta la casa, dondolava così forte da lasciar credere che, da lì a qualche istante, sarebbe venuto giù. L’ennesima giornata di convivenza con il terremoto iniziava così. Giusto il tempo di riempire con il necessario una grande borsa e sono scappata. In auto ho fatto un giro della città che mostrava le sue ferite. La sede del Corriere Adriatico, Palazzo dei Priori in Piazza del Popolo dove lo sguardo è caduto sull’orologio, fermo ancora all’ora legale: ore 8,40, l’ora del terremoto. Moltissimi palazzi del centro storico sono lesionati, altri come la Chiesa di San Michele è stata dichiarata pericolante dalla protezione civile del Comune, così come il Duomo che sovrasta la città. Si chiede il sindaco Paolo Calcinaro: resisteranno ad altre eventuali scosse di questa intensità?
Una telefonata dal giornale mi invia alla volta di Tolentino, vivace cittadina alle spalle di Macerata dove ci sono feriti ma non gravi. Incontriamo persone che piangono, altre che raggiungono le auto con in mano borsoni e buste di plastica. Per arrivare alla piazza passiamo fra i calcinacci con lo sguardo rivolto in alto, sono tantissime le case con cornicioni e tetti pericolanti. Si è appena conclusa la Santa Messa all’aperto, qui, come nelle altre località della provincia. Accanto ad un’auto con le portiere aperte, seduta sulla carrozzina c’è una signora anziana. “Sono Laura Governatori” ci dice anticipando la nostra domanda, la nuora aggiunge: “Ha 90 anni” e subito lei precisa: “Meno 3 mesi e con queste botte speriamo di arrivarci”. Ma nei suoi occhi c’è una inspiegabile luce di gioia “Non stavo sola ieri mattina c’era mio figlio con la moglie e mio nipote sono venuti a stare da me da quando c’è stata la prima scossa”, poi sospira “almeno me li godo”. Ecco svelata la gioia che allenta la paura di Laura che da quando è morto il marito vive da sola in una casa popolare. In frazione San Giuseppe e una famiglia indiana si è salvata grazie al padre che ha trattenuto in casa i due bimbi che si stavano precipitando fuori proprio mentre il tetto stava venendo giù davanti al portone.
Il sindaco di Tolentino, Giuseppe Pezzanesi (centro-destra) consiglia ai 21mila concittadini di lasciare le proprie case. Per dove non si sa. I centri che qui verranno allestiti non saranno certamente in grado di accogliere tutti così come le strutture alberghiere lungo la costa, già ampiamente occupate dagli sfollati dei borghi dell’epicentro. Ed è questo il dramma nel dramma. La terra non smette di tremare, e ogni volta trema sempre più forte. Le case che hanno resistito finora potrebbero cedere ma come si fa ad evacuare un territorio così ampio che dalla dorsale appenninica arriva alla costa e comprende tre province delle Marche: Ascoli Piceno, Macerata e Fermo? Oltre centomila le persone coinvolte, dichiara il Presidente della Regione Ceriscioli. Crolli in quaranta comuni del maceratese. A Visso, Muccia, Sarnano dove risultano gravemente lesionate la chiesa di San Cassiano e l’abbazia di Iobbico. Matelica dove il centro storico è stato evacuato come quello di Ripe San Ginesio.
Penna San Giovanni dove è crollata la Chiesa dei Piloti che aveva resistito intatta a tutte le scosse che si sono succedute dal 24 agosto. Camerino. Fra San Severino e Serrapetrona sono state messe in salvo quattro famiglie di uno stabile, che si è sbriciolato. Gualdo. Monte San Martino e molti altri borghi. Sul monte Porche vicino a Santangelo sul Nera è stata rilevata una profonda spaccatura che lascia scendere a valle enormi massi seguiti da una nube nere di polvere. Chi ha perso la casa è disperato. Chi ce l'ha lesionata ma agibile è dilaniato da una paura paralizzante.
Scosse che sembrano infinite tanto da aver lesionato anche l’ermo colle che ispirò, l'Infinito Giacomo Leopardi.
CHIESE STORICHE
Da Norcia ad Amatrice, ma anche Rieti e Roma. Le scosse hanno ferito gravemente il patrimonio artistico non solo nelle zone terremotate, ma anche nella Capitale. Uno dei danni più gravi l’ha subito la Basilica di San Benedetto da Norcia: meta turistica in quei luoghi troppo lontani dalle sedi del governo, è crollato prima il campanile, poi si è sbriciolata la copertura. Quel gioiello, (la prima costruzione risale al 1200, ma ha subito diversi ampliamenti negli anni) aveva resistito al sisma del 24 agosto che ha distrutto Amatrice.
Tomaso Montanari (storico d'arte e professore universitario) perchè a distanza di due mesi, non è stato alcun intervento alla Basilica di S. Benedetto come ad altri monumenti?
Noncuranza o mancanza di fondi?
E nel 2010, fu proprio Franceschini, allora capogruppo Pd alla Camera, che ne chiese le dimissioni per i crolli a Pompei. Ma torniamo ad oggi.
Anche nella basilica di San Paolo sempre a Roma si sono formate crepe e sono caduti cornicioni.
Ma è possibile mettere in sicurezza monumenti così antichi?
». La Repubblica, 31 ottobre 2016 (c.m.c.)
Cinque secoli sono passati da quel giorno in cui un monaco agostiniano affisse sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg il suo “manifesto” che chiedeva una riforma della vita e della dottrina allora dominante nella chiesa cattolica. Iniziava in quel giorno una “protesta” che aveva come fine il ritorno al vangelo: Martin Lutero — un uomo “morsicato” da Dio e assetato di una salvezza misericordiosa — scoperto che l’amore di Dio non deve mai essere meritato, diventò la voce possente, tesa a ridare il primato alla Scrittura, alla grazia-amore gratuito di Dio e a Cristo, Signore della sua chiesa.
Il bisogno di una riforma della vita della chiesa romana era da decenni avvertito con dolore e manifestato anche da alti rappresentanti della curia romana — quali i cardinali Chieregati, Pole e Contarini — oltre che da molti umanisti come Erasmo e altri testimoni presenti nelle diverse aree europee, tuttavia avevano sempre prevalso una sordità e una mancanza di volontà nel mutare atteggiamenti e costumi, soprattutto nella vita dei prelati e del clero.
E così, a poco a poco, accadde l’irreparabile: lo scisma della cristianità occidentale tra cattolici e protestanti, il dramma più lacerante nella storia della cristianità occidentale perché ben presto la chiesa cattolica si vide privata di molte membra nel Nord Europa. Lutero non prevedeva né voleva quella frattura, ma la sordità di Roma e soprattutto gli interessi della politica dei regnanti portarono in modo accelerato all’elaborazione di due vie cristiane diverse, non nella confessione battesimale trinitaria di Cristo Signore, ma nella forma della chiesa.
Sono passati cinque secoli e non possiamo tacere la tragedia, fatta non solo di scomuniche reciproche, ma anche di guerre, di roghi e di torture che manifestarono come quelle chiese, pur di difendere la propria verità, facessero ricorso a mezzi in contraddizione radicale con quel vangelo che ciascuna di esse professava di voler difendere e conservare puro. Cinque secoli di cammino percorso gli uni senza gli altri, con sviluppi teologici e anche violenze concrete gli uni contro gli altri, con concorrenza missionaria e permanente ostilità, sicché il cristianesimo in Occidente appare da allora irrimediabilmente lacerato.
Solo all’inizio del secolo scorso, a motivo degli ostacoli incontrati nella missione delle chiese nei Paesi coloniali, dovuti alla divisione, si è cominciato a percepirne lo scandalo. Da allora si è intrapreso un lungo cammino, accelerato per i cattolici dal concilio Vaticano II. E oggi, a che punto siamo nei rapporti tra i cattolici e i “protestanti”, cioè i cristiani nati dalla riforma e distinti in chiese e comunità ecclesiali? Va riconosciuto che papa Francesco, proprio nei confronti dei protestanti, ha segnato un atteggiamento nuovo anche rispetto alle proprie posizioni del passato, un atteggiamento peraltro non condiviso da una parte dei cattolici stessi.
Non a caso la sua partecipazione alla “commemorazione” della riforma ha posto e pone dei problemi. Se infatti la celebrazione era prevista da anni nel mondo protestante ed è stata preparata anche da un documento redatto da una commissione teologica bilaterale cattolico- luterana che invita a passare “Dal conflitto alla comunione”, ci si è tuttavia interrogati fino allo scorso anno sulla possibilità e l’opportunità che anche la chiesa cattolica partecipasse a tale evento. È infatti pensiero consolidato nel mondo cattolico che i protestanti hanno abbandonato la chiesa cattolica per altre vie e che, di conseguenza, non hanno conservato la tradizione della chiesa universale. Si può festeggiare insieme un evento che è stato inimicizia tra fratelli, rottura, divisione, contraddizione alla volontà dell’unico Signore?
Ma papa Francesco, con la sua capacità di porre gesti profetici, ha manifestato la volontà di prendere parte oggi alla memoria celebrata a Lund in Svezia dove cinquant’anni fa iniziarono i dialoghi di riconciliazione tra chiesa luterana e chiesa cattolica. Alla sua audacia ha risposto l’altrettanto sofferta e coraggiosa decisione della Federazione luterana mondiale di accogliere l’inattesa richiesta e invitare formalmente il papa. E così l’apparentemente impossibile, con papa Francesco è diventato possibile: cattolici e protestanti possono stare insieme davanti al Signore, confessare la fede nella sua qualità di Risorto vivente e salvatore del mondo, ringraziarlo perché ha dato oggi ai suoi discepoli di comprendere insieme che il vangelo ha il primato nella vita di ogni cristiano e che la chiesa abbisogna sempre di essere riformata per essere il corpo di Cristo nella storia.
Le divisioni per ora permangono e paiono lontane dalla ricomposizione, anche perché nel frattempo cattolici e protestanti hanno elaborato aspettative e forme diverse dell’unità ricercata. Se molti protestanti pensano alla comunione tra le chiese come diversità che si accettano reciprocamente, la chiesa cattolica e la chiesa ortodossa conservano dell’unità il concetto tradizionale: unità non solo nel battesimo, ma anche nella fede e nella celebrazione eucaristica, unità sinfonica plurale sì, ma compaginata dai vescovi successori degli apostoli e presieduta nella carità dal vescovo di Roma, successore di Pietro.
Oggi siamo tutti convinti che l’elemento decisivo resta il battesimo, la vita di fede conforme al vangelo: e questo lo possiamo affermare insieme. Le diffidenze reciproche ancora esistono e sono sovente alimentate ed espresse soprattutto dove e quando si accende un conflitto di etiche. Per molti aspetti, infatti, il fossato tra cattolici e protestanti si è fatto più profondo in questi anni, proprio sui temi della morale sessuale. Ma nell’approfondimento della fede ci sono stati passi significativi di profonda convergenza su alcune verità, come la giustificazione attraverso la fede, cioè il riconoscimento che Dio rende giusto il peccatore gratuitamente, per l’abbondanza del suo amore che non va mai meritato.
Questo, unitamente alla forza dirompente dell’“ecumenismo del sangue”, cioè la testimonianza offerta dai martiri di ogni chiesa, ha reso possibile ciò che fino a pochi decenni fa pareva utopia: il volto di Dio testimoniato insieme dai cristiani risplende di luce evangelica, meno deformato dalle antiche rivalità tra confessioni contrapposte.
In ogni caso papa Francesco pratica testardamente la cultura dell’incontro, del dialogo, della vicinanza concreta all’altro e li rinnova ogni giorno in questo mondo sempre più segnato da scontri, distanze, innalzamenti di muri, esclusione del diverso.
«». Conoscono gli italiani. La Repubblica 29 ottobre 2016 (c.m.c.)
La strategia della Commissione europea sulla legge di bilancio, che proprio in queste ore si appresta ad arrivare in Parlamento, appare, di primo acchito, sospesa fra l’ottuso e lo spietato. Le critiche mosse da Bruxelles, a cui ha risposto giovedì il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, riguardano un aumento del deficit pubblico pari allo 0,1 per cento del prodotto interno lordo — più o meno quello che il nostro Paese produce ogni nove ore. Secondo i critici, innescare uno scontro politico con l’Italia per appena 1,6 miliardi vuol dire soffiare inutilmente sul fuoco dell’euroscetticismo. Farlo a ridosso di due terremoti, per i quali il governo è pronto a intervenire finanziariamente, trasformerebbe l’Ue in un mostro senza cuore, pronto a sacrificare gli sfollati su una pira di fogli Excel.
Questa interpretazione, molto diffusa in alcuni circoli politici e intellettuali italiani, è però incompleta: Bruxelles non è contraria a tenere fuori dal computo del deficit le spese legate al terremoto. Vuole solo evitare che queste siano gonfiate a dismisura. Lo 0,1% è soltanto l’ultima di una serie di deviazioni dal percorso di consolidamento fiscale compiute in questi anni. La loro somma — una legge di bilancio dopo l’altra — rischia di rendere l’economia italiana sempre più vulnerabile ai capricci dei mercati non appena sarà scomparso lo scudo della Banca centrale europea che tiene a riparo il nostro debito pubblico.
Il modo migliore per riconoscere questo problema è ripartire dalle prime previsioni economiche prodotte dal governo di Matteo Renzi e contenute nel Documento di economia e finanza del 2014, confrontandole con quelle dell’attuale manovra. Due anni e mezzo fa, l’esecutivo ipotizzava che il rapporto fra debito e Pil nel 2017 sarebbe stato del 125,1%, in discesa di sette punti percentuali e mezzo rispetto al 2013. Il documento inviato pochi giorni fa a Bruxelles stima invece per l’anno prossimo un debito al 132,6% del Pil, a fronte di un dato consolidato per il 2013 di 3,6 punti percentuali inferiore. Se si mettono insieme questi numeri, si nota come durante il governo Renzi il piano di riduzione del debito sia uscito fuori strada per oltre 11 punti percentuali di Pil. Si tratta di una cifra pari a più di cento volte lo sforamento che Bruxelles ci contesta quest’anno, per un totale di circa 180 miliardi di euro.
Non tutto questo scartamento è, ovviamente, imputabile alle scelte del governo. Negli ultimi tre anni, la crescita mondiale è stata ben al di sotto delle aspettative. L’inflazione, che aiuta a rendere i debiti pubblici e privati più sostenibili erodendoli, è rimasta ferma a lungo a livelli intorno allo zero, a causa della discesa del prezzo del greggio e di una ripresa stentata. Allo stesso tempo, però, la spesa per interessi sul debito pubblico si è ridotta notevolmente, grazie al quantitative easing della Bce. Insomma, i fattori esterni aiutano a spiegare solo una piccola parte della deviazione dal percorso di probità fiscale che Renzi diceve di voler intraprendere.
Il détour dal risanamento dipende, invece, soprattutto da scelte che sono state fatte dall’esecutivo. La principale riguarda il cosiddetto “avanzo primario”, ovvero la differenza fra le entrate e le uscite, escludendo la spesa per interessi. All’inizio del suo mandato, Matteo Renzi aveva previsto che il suo governo avrebbe accumulato avanzi primari in quattro anni per un totale di quasi 15 punti percentuali di Pil. Oggi ci si avvia ad una cifra di appena 6 punti percentuali. La differenza è pari a oltre 140 dei circa 180 miliardi di mancato risparmio che abbiamo notato. Se a questi dati sommiamo un percorso di privatizzazioni più deludente rispetto a quanto si era previsto a inizio 2014, lo smarrimento della via del consolidamento fiscale viene spiegato quasi nella sua interezza. La posizione dura della Commissione appare così più comprensibile che crudele.
Il governo ribatterà che la migliore strategia per ridurre il debito è rilanciare la crescita. Se in teoria questo è vero, non è affatto chiaro che le manovre relativamente espansive di questi anni abbiano prodotto un’accelerazione degna di questo nome. La legge di bilancio di quest’anno punta giustamente a rilanciare gli investimenti, ma disperde troppe risorse in misure di dubbia utilità a partire dall’estensione della platea di pensionati che riceveranno la quattordicesima. Lo scatto in avanti, insomma, è ancora rimandato.
Né è chiaro che, in assenza dei vincoli dell’Eurozona, l’Italia si sarebbe potuta permettere una politica di bilancio molto più espansiva. Le regole sul deficit e sul debito sono frutto di un compromesso politico, il prezzo da pagare per poter godere di tassi d’interesse bassi e di una valuta stabile. Inoltre, più allegra appare la spesa pubblica italiana, più difficile diventa per il presidente della Bce, Mario Draghi, difendere la politica monetaria ultra-espansiva che concede così tanto spazio di manovra all’Italia.
Infine, è proprio dalla Bce che potrebbe arrivare la peggiore notizia per il nostro governo. L’inflazione europea sta rialzando la testa, grazie alla stabilizzazione del costo del greggio: se questa tendenza aiuterà a ridurre il debito pubblico, l’accelerazione dei prezzi spingerà in su gli interessi dei titoli di Stato, come sta già accadendo in questi giorni, poiché gli investitori vorranno essere compensati. Il quantitative easing, che proseguirà finché i prezzi non accelereranno a ritmi compatibili con l’obbiettivo della Bce, potrebbe avere vita più breve di quanto auspichiamo.
Lo scontro su uno 0,1% è surreale ma porta echi di verità lontane. Dimenticarsi del problema del debito pubblico non basta per farlo scomparire.