Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2016 (p.d.)
Che il clima non sia dei più tranquilli, lo certifica il ministro dell’Interno Angelino Alfano: come per le prossime amministrative, pure ad ottobre - dice in un’intervista al quotidiano veronese L'Arena, sarebbe il caso di votare “anche il lunedì”. Obiettivo: aumentare l’affluenza, nonostante per il referendum costituzionale non sia previsto il quorum.
Il problema è il plebiscito, e all’appello di Zagrebelsky si unisce anche Settis: “Sarebbe opportuno che il capo dello Stato, nel pieno delle sue funzioni previste dalla Costituzione, ricordasse a Renzi che il referendum non è un plebiscito sul governo”. Tutto questo perché “invece di guardare al merito della questione, viene fatto intendere che se vince il no cade il governo e chissà che cosa succede ”. La Carta, prosegue il professore, “non prevede che all’esito di un referendum un presidente del Consiglio si debba dimettere”. Secondo Settis “se vincerà il no, e io so che è possibile, non si fermeranno”. Invece se vince il sì “sarà il trampolino di lancio per l’erosione di altri diritti”, come si è già tentato di fare in passato. “Le riforme di cui stiamo parlando oggi sono nella linea di Jp Morgan o del popolo?”, chiede Zagrebelsky a Settis, immaginando già la risposta. Così lo storico dell’arte ricorda il documento della banca americana del 28 maggio 2013 nel quale gli esperti dell’istituto d’affari criticavano i Paesi dell’Europa meridionale con parlamenti forti, governi deboli e molte tutele per i lavoratori. Tutti elementi che, secondo Jp Morgan, dovevano essere cambiati. A quel documento seguirono, due settimane dopo, le riforme proposte dall’ex premier Enrico Letta: “C’è una strana sintonia che va rilevata”, annota Settis.
E dire che l'incontro doveva avere un basso profilo. “In questo Salone del libro c’è un obbligo di correttezza - aveva premesso Zagrebelsky davanti a cinquecento persone arrivate ieri mattina -. Siamo in campagna elettorale e questo è un tema altamente politico. Dobbiamo fare un discorso di politica alta e dobbiamo fare attenzione a non
incappare nella scomunica”. L’intento si è infranto poco dopo, quando il giurista ripensa all’ultimo epiteto coniato da Renzi, quello sugli “archeologi travestiti da costituzionalisti” pronunciato la scorsa settimana alla direzione Pd per definire quelli che prima erano i “professoroni” e i “rosiconi”: “L’archeologia, checché ne dicano alcuni nostri governati, non è la ricerca di mucchi di pietre sotto la sabbia o di ossa. È la ricerca dell’arché, l’esplorazione delle fondamenta della nostra società”. Per questo lui è fiero del nuovo nomignolo: “Io mi onoro di essere della congregazione degli archeologi della Costituzione”.