Numerosi consigli comunali hanno già votato mozioni che chiedono la sospensione immediata del Decreto: Lecco, Bologna, Firenze, Mantova, Merano, Milano, Palermo, Torino, Senigallia, Ancona… Continueremo ad aggiornare l’elenco ricordando a tutti la frase di Hanna Harendt: “Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa”. (m.c.g.)
“I mercati ci chiedono le riforme per rilanciare lo sviluppo”. Quante volte abbiamo letto o sentito queste parole, ripetute ossessivamente nei giornali e nei programmi televisivi; si noti bene che non si chiedono “riforme”, ma “le riforme” per antonomasia, cioè quelle riforme che sono gradite all’establishment. Proviamo a tradurre queste parole magiche nel loro autentico significato, un esercizio non di parte, ma puramente ermeneutico.
La prima parola magica sono “i mercati”. Di quali “mercati” si tratta? Il mercato azionario, quello delle obbligazioni, dei futures, dei mutui sub-prime, delle materie prime, o cosa altro? Tutti riassunti nel termine “sistema dei mercati”, una parola neutra che, come ha scritto Luciano Gallino[1], ha sostituito il molto più esplicito, veridico, ma ormai impopolare, “capitalismo”. Cui deve essere aggiunta la qualifica di “finanziario”, ciò che lo rende radicalmente diverso da quello industriale e manifatturiero, i cui profitti non sono neanche lontanamente paragonabili a quanti ottenuti con strumenti speculativi.
La seconda parola magica sono “le riforme”, quelle che ci vengono chieste sia dai “mercati”, sia dall’ Unione Europea, a sua volta prona ai voleri dei “mercati” ben rappresentati al suo interno dall’immenso apparato burocratico e tecnocratico della Commissione e all’esterno dalle lobby delle multinazionali, potenti e aggressive. Le riforme, nell’accezione neoliberista, sono quelle che comprimono i salari e i diritti dei lavoratori. In questa linea, tutti gli ultimi nostri governi con un picco rappresentato dal Job Act di Renzi. Infine, la terza parola, è “lo sviluppo”, inteso come crescita del Pil, non del benessere, della qualità della vita e, si se può usare questa parola, della felicità dei cittadini. Un Pil che senza dubbio crescerà con il crollo del Ponte Morandi a Genova.
Tutte e tre le parole, che nella loro ripetizione hanno assunto lo status di verità assolute e quindi esenti da ogni ulteriore qualificazione, possono essere riassunte nel concetto di “neoliberismo”, un programma politico spacciato per il non intervento dello Stato negli affari economici; quando invece “l’introduzione del regime neoliberale ha comportato un ampio e permanente intervento statale, tra cui: la liberalizzazione dei mercati delle merci e dei capitali; la privatizzazione delle risorse e dei servizi sociali; la deregolamentazione del mercato e dei mercati finanziari in particolare; la riduzione dei diritti dei lavoratori (in primo luogo, il diritto alla contrattazione collettiva) e, più in generale, la repressione dell’attivismo sindacale; la riduzione delle imposte sui patrimoni e sul capitale, a scapito delle classi medie e dei lavoratori; lo smantellamento dei programmi sociali, e così via[2].
L’ideologia neoliberista cela in realtà un duro programma politico a sfavore del lavoro, e si traduce in Italia - date le peculiari caratteristiche di arretratezza della nostra imprenditoria e della soggiacente politica - nella quarta parola magica “gli investimenti”, quelli che dovrebbero rilanciare il Pil. Investimenti, non però nell’istruzione, nella ricerca, nella crescita di conoscenze e di capitale immateriale, bensì nel cemento, nelle grandi opere inutili, nelle infrastrutture distruttive dell’ambiente.
Vi è in tutto ciò una grave responsabilità del giornalismo nostrale nelle sue varie forme mediatiche.
Hanno ragione i giornalisti a lamentarsi degli improvvidi e sgangherati attacchi di rappresentanti del Movimento 5Stelle e, peggio ancora, di membri del governo. Ma quando si legge sulle pagine di La Repubblica “Noi non siamo un partito, non cerchiamo consenso, non riceviamo finanziamenti pubblici, ma stiamo in piedi grazie ai lettori… ecc.” viene da sorridere. La Repubblica non sarà un partito politico ma, insieme alle principali testate del paese, si fa parte politica quando supporta acriticamente gli interessi di un capitalismo che predilige mercati protetti e situazioni oligopolistiche (e con un particolare accanimento nella questione “grandi opere”, dove hanno voce quasi esclusivamente i pareri favorevoli). In questa linea l’esaltazione delle “madamine” che, organizzando la protesta pro Tav a Torino, diventano il simbolo di una borghesia ben pensante (ma poco informata) che vuole modernizzare il paese a colpi di infrastrutture.
Per non parlare delle edizioni locali. Chi è attivo nelle associazioni e nei comitati che lottano per un ambiente migliore e un territorio più ricco di “beni comuni”, vive ogni giorno questo “non giornalismo” fatto di di fake news: annunci spacciati come fatti compiuti, piste aeroportuali che dovrebbero essere inaugurate entro due anni dalla presentazione del progetto, balletti di stazioni o mini-stazioni sotterranee che vanno e vengono, il tutto digerito senza battere ciglio; amplificando ogni dichiarazione (pro grandi opere) di politici, amministratori e notabili ai più sconosciuti. Salvo, poi cambiare opinione, quando sembra che il vento tiri da qualche altra parte.
Diciamolo pure, in Italia, salvo rare eccezioni, non si fa giornalismo, quello vero, quello che va a scavare dietro i comunicati ufficiali e assume un ruolo di contropotere. Nel “non giornalismo” non contano i fatti, ma solo le opinioni. Non si dà voce al dissenso, ma solo a ciò che è gradito ai proprietari editori; sfiorando, spesso, il ridicolo per l’improntitudine di articoli che, riproducendo le veline che vengono dall’alto, non si curano neanche di correggere refusi ed errori madornali. Crollo di elettori e di lettori, un tema su cui politici e giornalisti dovrebbero riflettere.
[1] Luciano Gallino, “Il denaro, il debito e la doppia crisi”, 2015
[2] Citazione dall’articolo “Tutto quello che sapete sul neoliberismo è sbagliato” di William Mitchell e Thomas Fazi, pubblicato su MicroMega, Nov. 2017).
comune.info
n manuale nazista di come respingere, spossessare dei diritti, segregare e opprimere le vittime dello sfruttamento capitalistico, del capitalismo di ieri e di oggi. Qui una raccolta di articoli per comprendere i rischi che pone alle nostre libertà. (i.b.)
Dopo il via libera del Consiglio dei ministri (24 settembre) e del Senato (7 novembre), la Camera ha approvato il cosi detto "Decreto Sicurezza", una legge che è un attacco frontale ai diritti e al sistema di protezione dei migranti, dei senza tetto, dei movimenti sociali e di tutti coloro che non si arrendono al sistema di privilegi, sfruttamento e limitazioni delle libertà.
L'idea che sottrarre diritti e reprimere i gruppi più fragili della nostra società possa risolvere i problemi del nostro paese rivela quanto l'attuale governo non sia per niente interessato a prendersi cura degli abitanti e dei problemi che gravano sulla società, ma semplicemente di protrarre un sistema di privilegi e fomentare uno stato di paura che non farà che aumentare le discriminazioni e diminuire le nostre libertà.
Per comprendere la gravità dei provvedimenti contenuti nel decreto, sia in termini di misure per l’accoglienza che di sicurezza si legga l’articolo “Decreto Salvini: come trasformare più di 100mila persone in clandestine” di Thomas Maerten del 25 settembre 2018. In questo articolo si spiega come la vita di migliaia di "rifugiati" saranno rovinate, in quanto a loro sarà precluso l'ottenimento del permesso di soggiorno e quindi l'opportunità di raggiungere un'autonomia economica e abitativa. Impedendo a queste persone di intraprendere un percorso di "regolarizzazione" per sopravvivere non potranno che lavorare in nero e vivere clandestinamente, favoreggiando le reti di sfruttamento e abuso e facendo arricchire imprenditori che ne faranno uso, la mafia e altri business illegali.
Occorre peraltro rendersi conto di come questo decreto sia debitore di tanti provvedimenti già attuati dal Decreto Minniti-Orlando sulla Sicurezza Urbana e sull’immigrazione, stato convertito in legge dal Parlamento il 12 aprile 2017. Si legga quindi "Un’analisi del decreto Minniti/Orlando: non vogliamo repressione, ma casa, lavoro, scuola e sanità" scritto dalla redazione perUnaltracittà.
perUnaltracittà ha redatto un utilissimo numero speciale "Sicurezza e repressione" da dove sono tratti alcuni degli articoli sopra suggeriti. Qui il link. (i.b.)
Aed Abu Amro, il ragazzo divenuto icona della “Grande marcia del ritorno” – facilmente identificabile dopo che il memorabile scatto di Mustafa Hassouna ha riempito i social e i mezzi di informazione di massa – è stato colpito da un cecchino israeliano durante la manifestazione del lunedì, quella che si svolge lungo la spiaggia a nord di Gaza per rivendicare la fine dell’assedio via mare, oltre che dell’assedio tout court. Era abbastanza normale aspettarselo e Aed ovviamente se lo aspettava, ma se resistere non è un gioco di società è anche normale correre il rischio, e Aed lo ha corso.
Ora è ricoverato in ospedale, ferito da uno dei proiettili con cui Israele ha azzoppato una buona percentuale della gioventù palestinese. I medici dicono che non dovrebbe riportare danni permanenti il che significa che il proiettile non è esploso frantumandogli l’osso. Chi conosce un po’ i gazawi sa che non sono facilmente “addomesticabili”, né da Hamas, né dall’assediante e sa che le decine di migliaia di manifestanti che in questi mesi hanno seguitato a marciare lungo il confine, non si sono fatti fermare neanche dopo aver perso una o entrambe le gambe. Lo sa bene anche Israele che, infatti, nell’archivio delle sue vergogne conta anche l’assassinio di diversi manifestanti invalidi.
Siamo certi di ritrovare Aed, una volta uscito dall’ospedale, a manifestare per la rottura dell’assedio e l’applicazione della Risoluzione Onu 194 che Israele seguita a calpestare.
Le voci accreditate di questi giorni parlano di accordi tra Hamas e Israele patrocinati dall’Egitto. Accordi che dovrebbero gradualmente bloccare la grande marcia rendendola soltanto una manifestazione di facciata fino al suo concludersi con la fine dell’anno.
Hamas – si dice – punirà chi contravverrà ai suoi ordini di non lanciare sassi né aquiloni fiammanti. Hamas, forse, dovrà punire molti manifestanti perché una cosa che il mondo mediatico ignora e ha “voluto” ignorare già dal primo giorno della marcia è che si tratta di un’iniziativa a “propulsione popolare” e non di un’iniziativa promossa da Hamas, sebbene Hamas ci stia mettendo il cappello. Esattamente come voleva Israele e inoltre, cosa importante, cercando in tal modo di riprendere l’autorevolezza d’immagine che era andata via via scemando grazie a una politica da una parte troppo repressiva e dall’altra non più capace di fornire assistenza e servizi a due milioni di persone per la maggior parte povere e prive di lavoro.
La prova che sarà difficile bloccare i manifestanti la si è avuta sia ieri che venerdì, i due giorni dedicati alla marcia. L’una, quella del venerdì, iniziata il 30 marzo lungo l’assedio terrestre, e l’altra, quella del lunedì, iniziata successivamente, lungo l’assedio via mare. C’è stata meno affluenza, è vero, ma c’è stata e lo dimostrano i gas e le pallottole sparate dagli snipers che seppur non hanno ucciso (immediatamente) i manifestanti, ne hanno feriti molte decine.
A Beit Lahya, lungo la spiaggia a nord di Gaza, è ancora più criminale la reazione dei cecchini alla marcia dei palestinesi, perché mentre questi dimostrano sulla spiaggia, i tiratori scelti dello Stato ebraico fanno il tirassegno senza che vi sia neanche l’ipotetico minimo rischio dei cosiddetti scontri che servono ai media per giustificare i numerosi assassinii e ferimenti di manifestanti palestinesi.
I dieci feriti di ieri sulla spiaggia di Gaza sono stati ricoverati allo Shifa e all’Indonesian hospital e tra questi c’è Aed che i medici considerano (al pari degli altri per fortuna) non particolarmente grave.
Il Comitato Nazionale per la Rottura dell’Assedio, ha comunque dichiarato: “Non fermeremo le marce di ritorno e le marce navali finché i nostri obiettivi non saranno raggiunti”. Gli obiettivi come ormai dovrebbero sapere anche i distratti, sono la fine dell’assedio (e gli accordi ne prevedono un notevole alleggerimento ma non la fine) e il diritto al ritorno nelle loro terre come da Risoluzione 194 e questo non sembra che Israele sia disposto a concederlo restando, di fatto e di diritto, fuorilegge, cioè al di fuori della legalità internazionale.
Il Comitato ha precisato che le marce hanno l’obiettivo di garantire ai palestinesi i diritti umani fondamentali che Israele comprime, tra cui la libertà, l’autodeterminazione e il diritto di stabilire uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come sua capitale. Questa specifica aggiuntiva mostra che gli obiettivi sono chiaramente legittimi e addirittura che si avvicinano, per la parte che concerne “lo Stato indipendente” alle posizioni dell’avversario interno, cioè dell’Anp, ma ogni osservatore politico sa che per quanto possano essere legittimi e addirittura moderati, questi obiettivi non saranno raggiungibili finché Israele seguiterà a non pagare sanzioni per le sue azioni illegali e criminose.
La marcia, anzi “le” marce intanto continuano e nelle prossime settimane si capirà se Hamas avrà ottenuto i risultati che i manifestanti auspicano, o se sceglierà un compromesso che renderà inutile il sacrificio di oltre 200 morti e di circa 21.000 feriti tra cui Aed Abu Amro, l’icona della Grande Marcia.
Articolo pubblicato su l’antidiplomatico, ripreso da comune-info, qui raggiungibile, che vi ha aggiunto le immagini e un'introduzione.
thesubmarine.it
Secondo il ministro dell’Interno Matteo Salvini “l’allarme razzismo è un’invenzione della sinistra.” La realtà sembra avere un’opinione diversa.
È impossibile non identificare l’attentato di Macerata dello scorso 3 febbraio come campanello d’allarme. Quel giorno Marco Traini, armato di pistola e tricolore, aveva aperto il fuoco verso alcuni membri della comunità nigeriana locale, ferendo 6 persone. Malgrado il tentativo di risposta da parte di società civile e politica, è chiaro che si tratta di un evento spartiacque, che ha normalizzato la violenza verso gli stranieri in Italia — un fenomeno reso ulteriormente pericoloso dalla vicinanza dello stesso ministro dell’Interno con la lobby della vendita di armi da fuoco: il diffuso uso di armi ad aria compressa lascia intravedere scenari molto cupi nel caso di semplificazione dell’iter per il possesso (e l’uso) delle armi da fuoco.
Intimidazioni, atti di violenza o discriminazioni: che la crescita del fenomeno fosse allarmante è stato evidente durante tutta la campagna elettorale, che ha visto uno sdoganamento del linguaggio d’odio a tutti i livelli del dibattito pubblico. Soltanto nei primi tre mesi dell’anno, l’associazione Lunaria ha documentato in un dossier 169 casi di razzismo e discriminazione in tutta Italia. Ma è un fenomeno che si può far risalire ancora più indietro: i dati dell’OSCE documentano un vertiginoso aumento dei crimini d’odio dal 2012 al 2016.
Di fronte all’escalation delle ultime settimane, il pericolo principale è la normalizzazione, che va di pari passo con la negazione sistematica del movente razziale. Dallo “squilibrio” di Luca Traini al “tiro al piccione,” fino all’onnipresente “goliardia,” c’è sempre una scusa che permette di parlare di “casi isolati.” Spesso la normalizzazione si nasconde tra le pieghe del linguaggio dei media, che negli ultimi anni hanno significativamente contribuito ad alimentare il clima tossico di cui oggi vediamo gli effetti.
Contro il rischio di banalizzare quanto sta avvenendo, è necessario innanzitutto mantenere viva l’attenzione, impedire che le notizie delle aggressioni e delle intimidazioni scivolino in fondo all’agenda mediatica, tra le pagine della cronaca locale. Questa di seguito vuole essere quindi una lista costantemente aggiornata di tutte le violenze registrate dalla stampa a partire dalle elezioni del 4 marzo — scelta come data “simbolica” della formazione dell’attuale maggioranza di governo.
Ottobre 2018
18/10/2018, Morbegno (Sondrio): un senegalese di 28 anni viene insultato e picchiato da un gruppo di ragazzi mentre si reca al lavoro.
18/10/2018, su un pullman Flixbus diretto da Trento a Roma una donna di 40 anni ha preteso che un ragazzo senegalese si spostasse dal posto vicino a lei “perché nero.”
14/10/2018, Bari: un bambino di otto anni e mezzo viene aggredito da alcuni bambini poco più grandi di lui con una bomboletta di schiuma spray. “Sei nero, ti facciamo diventare bianco.”
13/10/2018, Varese: una donna rifiuta di farsi servire da un cassiere di colore al supermercato, insultandolo e lanciandogli addosso alcune lattine di birra.
6/10/2018, Venezia: Judith Romanello, ventenne veneziana originaria di Haiti, ha denunciato di essere stata rifiutata a un colloquio di lavoro per via del colore della sua pelle. “Non voglio persone di colore nel mio ristorante. Potrebbe fare schifo ai miei clienti, potrebbe fare schifo che tu tocchi i loro piatti.”
4/10/2018, Lucca: “Non puoi sederti, puzzi di morto!” Il conducente di un autobus di linea ha insultato un sedicenne figlio di genitori dello Sri Lanka, impedendogli di sedersi.
02/10/2018, Genova: quattro persone aggrediscono, rapinano e insultano con frasi razziste un 31enne originario della Costa d’Avorio.
2/10/2018, Benevento: sul pullman diretto a Napoli un uomo insulta e minaccia un passeggero di origini asiatiche, per poi prendersela con l’unica passeggera che ha avuto il coraggio di dire qualcosa.
Settembre
30/09/2018, Roma: una donna di origini nordafricane è stata insultata e picchiata da un uomo nei pressi di Piazza Bologna, perché stava occupando un parcheggio per il fratello.
26/09/2018, Ceprano (Frosinone): tre studenti universitari sono stati fermati e denunciati per aver compiuto almeno sette aggressioni a sfondo razziale in tutta Italia negli ultimi otto mesi. Nelle loro case sono stati trovati bastoni, mazze da baseball, sfollagente, coltelli e materiale propagandistico sulla superiorità razziale.
24/09/2018, Castelfranco Emilia (Modena): due uomini hanno ferito con colpo di pistola ad aria compressa un 27enne pakistano.
16/09/2018, Piazza Armerina (Enna): un gambiano di 21 anni, ospite di uno Sprar locale, viene pestato e derubato da tre ragazzi a poche ore dalla visita del papa nella città.
11/09/2018, Sassari: un ventiduenne originario della Nuova Guinea, ospite del circuito SPRAR, è stato aggredito e pestato da un gruppo di italiani giovanissimi.
03/09/2018, Raffadali (Agrigento): “Ritornatene al tuo paese.” Un sedicenne ospite di un centro di seconda accoglienza per minori non accompagnati è stato aggredito a calci e pugni. In seguito all’aggressione, è stato ricoverato al pronto soccorso dell’ospedale S. Giovanni di Dio di Agrigento.
1/09/2018, Bagheria (Palermo): un nigeriano di 30 anni è stato aggredito e pestato con un cric da un pregiudicato bagherese di 25 anni.
Per mesi precedenti, così come l'aggiornamento è consultabile alla pagina di thesubmarine.it.
nigrizia.it
«È inaccettabile che il negriero di ieri sopravviva nei governi che oggi tornano a incatenare la libertà degli africani, subordinandola agli stessi interessi e allo stesso potere oppressore». Padre Alex Zanotelli ha preso in prestito dall’arcivescovo di Tangeri Santiago Agrelo queste parole fortissime per denunciare le colpe di cui l’Occidente e l’Europa si stanno macchiando nell’affrontare la questione dell’immigrazione. Intervenuto oggi, giovedì 25 ottobre, al Nuovo Teatro Orione di Roma per la presentazione del Dossier Statistico Immigrazione 2018, il missionario comboniano ha affrontato da far suo un argomento caldissimo, su cui stanno prendendo il sopravvento strumentalizzazioni politiche che puntano a far raccogliere consensi a chi vuol far apparire lo straniero come il “nemico” e l’“invasore”.
Il rapporto, realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS in partenariato con il Centro Studi Confronti, con la collaborazione dell’UNAR (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) e con il sostegno economico del Fondo Otto per mille della Chiesa Valdese e dell’Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi, anche in questa sua 28ª edizione si prefigge proprio l’obiettivo di combattere con i numeri e le analisi la disinformazione e la becera propaganda che nel nostro paese si sta consumando sulla pelle dei migranti.
Bastano pochi dei dati contenuti nel dossier per confermare che l’Italia è rimasta intrappolata in una falsa narrazione di questo tema. Stando a un sondaggio del 2018 condotto dall’Istituto Cattaneo, gli italiani sono infatti il popolo con la percezione del fenomeno migratorio più lontana dalla realtà dei fatti. «L’Italia – si legge in proposito nel rapporto – non è né il Paese con il numero più alto di immigrati né quello che ospita più rifugiati e richiedenti asilo. Con circa 5 milioni di residenti stranieri, viene dopo la Germania, che ne conta 9,2 milioni, e il Regno Unito, con 6,1 milioni, mentre supera di poco la Francia (4,6 milioni) e la Spagna (4,4 milioni)».
La maggioranza degli italiani continua, inoltre, a credere che gli sbarchi sulle nostre coste continuino ad aumentare, e invece nel 2018 sono diminuiti dell’87,4% secondo i dati del ministero dell’interno, mentre a lievitare sono stati i morti nel Mediterraneo. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni tra gennaio e settembre 2018 sono stati 1.728, di cui 3 su 4 nella sola rotta tra Italia e Libia. Una strage quotidiana che ha tra le sue cause anche l’accordo per il contrasto dell’immigrazione illegale, stretto tra Roma e Tripoli nel febbraio del 2017 e tradottosi in un massiccio piano di respingimenti verso la Libia.
E, ancora, gli italiani pensano che gli immigrati nel nostro paese siano musulmani, e invece si tratta per la maggior parte (oltre il 50%) di cristiani. E sostengono che gli stranieri rubino loro il lavoro, mentre è certificato che oggi gli immigrati in Italia svolgono impieghi che non confliggono con le nostre richieste di occupazione, semplicemente perché si tratta di mansioni che non vogliamo né siamo costretti a svolgere in quanto precarie, pesanti, pericolose, spesso soggette al lavoro nero o a pratiche di caporalato. Per l’esattezza, come si evince dal dossier, «è straniero il 71% dei collaboratori domestici e familiari (comparto che impiega il 43,2% delle lavoratrici straniere), quasi la metà dei venditori ambulanti, più di un terzo dei facchini, il 18,5% dei lavoratori negli alberghi e ristoranti (per lo più addetti alle pulizie e camerieri), un sesto dei manovali edili e degli agricoltori».
Nel corso della presentazione del rapporto della condizione lavorativa degli immigrati residenti in Italia ha parlato soprattutto Aboubakar Somumahoro, dirigente dell’Unione sindacale di base. Tra le persone intervenute c’è stato anche il direttore di UNAR Luigi Manconi, che da parlamentare nella passata legislatura è stato tra chi si è battuto maggiormente per l’approvazione dello Ius Soli. Luca Anziani, vice-moderatore della Tavola Valdese, ha parlato dell’Italia come di «un paese con poca memoria» andando alla «radice culturale» del problema, «la stessa che in passato ha permesso a Mussolini di approvare prima le leggi razziali e poi quelle antisemite che sono state il preludio alle deportazioni di massa degli ebrei». Mentre Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche di IDOS, nel sottolineare l’importanza della presenza in platea degli studenti delle scuole, ha voluto dedicare simbolicamente questa giornata di confronto e dialogo a Domenico Lucano, il sindaco della “multirazziale” Riace, colpito da un provvedimento di divieto di dimora nel comune calabrese per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e affidamento fraudolento diretto del servizio di raccolta differenziata dei rifiuti. «L’auspicio – ha dichiarato Di Sciullo – è che un’esperienza felicissima di integrazione dei migranti riconosciuta in tutto il mondo non venga svilita da queste decisioni». Ripartire da questa speranza è un impegno che l’Italia dell’accoglienza e del rispetto degli “altri” deve portare avanti. Soprattutto in tempi di tensioni e chiusure come quelli attuali.
frontierenews.it
Negli ultimi due o tre anni, il tema delle esigenze nell’ambito dell’accoglienza ai migranti aveva finalmente iniziato a fare presa e a mostrare i primi risultati a macchia di leopardo, segno di una lenta eppure percettibile volontà di cercare soluzioni nuove che restituissero autonomia, prima di tutto economica ma non solo, agli ospiti delle strutture di accoglienza.
Attacco all’accoglienza
La politica migratoria italiana, specialmente da un anno e più a questa parte, mira al cuore e spezza le gambe a chi cerca di percorrere la già accidentata strada verso l’autonomia. L’inganno è sottile, ma l’obiettivo che si persegue è molto chiaro: nell’impossibilità di precludere totalmente l’accoglienza, in virtù degli obblighi legislativi e costituzionali e dei trattati europei e internazionali, “sono costretto ad accoglierti. Tuttavia, ti nego ogni possibilità. Ti tengo qui, per un tempo infinito, finché non ti sfinisco. Se prendi un’iniziativa, rendo tutto così complicato da farti mollare la presa, da scoraggiarti finché non smetterai di provarci.” Per i più caparbi e intraprendenti, c’è sempre la tagliola della risposta alla domanda di asilo: rischiano di non avere alcun permesso, se non appartengono alla famigerata lista di paesi di veri rifugiati. Dove non arrivano a fermare gli scarsi strumenti di integrazione economica e lavorativa, ci pensa, perciò, la burocrazia. È come se saltassero le maglie di quella sottile collana che dovrebbe legare insieme ogni elemento del percorso migratorio: documenti, accesso ai servizi di base, formazione scolastica e professionale, ricerca lavoro e dell’autonomia abitativa. Ogni maglia fatica a raccordarsi con la successiva; ogni processo è scollato, e quando viene anche un solo passaggio, la persona rischia di rimanervi impigliata per anni. In questo aspettare a nervi scoperti, paralizzante, si può immaginare quanto sia complesso trovare un proprio equilibrio e tenere alto il morale: c’è chi si deprime, chi si arrabbia; qualcuno perde la pazienza e la calma, assorbito dai pensieri che si accalcano nell’attesa; altri ancora, mollano la presa, e si alzano dal letto con sempre più fatica.
Finora è stato così. Adesso, ci penserà il nuovo decreto sull’immigrazione, al vaglio in questi giorni, a stringere ancor più violentemente la presa. Il nuovo piano immigrazione limiterà i servizi relativi all’inclusione e all’integrazione ai soli titolari di protezione internazionale. I tempi di attesa per i richiedenti asilo saranno, a quanto pare, più brevi, ma la loro permanenza all’interno delle strutture di accoglienza diventerà ancor più inutile, e immobile. Per loro, il decreto prevede anche il restringimento all’accesso ai servizi comunalie l’impossibilità di accedere nello SPRAR, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Tutto questo renderà il percorso dei migranti ancora più difficile ed esasperante, aumenterà la pressione sul vivere quotidiano, sulle piccole cose che peseranno e si faranno più complicate. Per molti non ci sarà altra via, una volta preclusa la formazione linguistica, l’orientamento lavorativo e ogni strumento necessario all’integrazione, che finire in strada, ai semafori e ai parcheggi dei supermercati, come già avviene.
Il tempo dell’accoglienza
Un piccolo passo indietro è, dunque, necessario per inquadrare cos’è quel tempo dell’accoglienza che si è voluto andare a colpire con la direttiva del 23 luglio e il nuovo decreto “Salvini”. Un tempo che, come abbiamo indicato, si è sempre faticato a considerare con la dovuta attenzione, sia dal punto di vista quantitativo ma, soprattutto, qualitativo. La situazione italiana prevede percorsi di istruzione e formazione che non di rado hanno inizio in fasi avanzate dell’accoglienza; non sempre riescono a svolgersi in maniera strutturata, ed il numero di coloro che vi hanno accesso non copre affatto tutta l’utenza. Non mancano ovviamente le buone pratiche e il lavoro onesto di tantissimi che operano nel settore, ma si tratta ancora di una situazione, specialmente nei CAS, dove si naviga -seppure con cuore e professionalità- a vista. La capacità di uscire indenni dal circuito dell’accoglienza ed essere autonomi rimane, di fatto, ancora in larga parte affidata alla particolare intraprendenza dei singoli ospiti, secondo le diverse situazioni di partenza e le differenti risorse interne di ciascuno. Tra lo sbarco e l’arrivo dei documenti possono trascorrere anche due anni: un pezzo di vita che si trasforma, per una parte dei migranti, in un’attesa esclusiva, nel senso di escludere ogni altro aspetto del vivere quotidiano. Diventa normalità l’assenza (o la forte riduzione) di quella parte di vita fatta di interessi personali e rapporti umani che è parte integrante del ben-essere di ciascuno; come se fosse pensabile vivere di soli bisogni senza perdere, aspettando che la burocrazia faccia il suo corso, qualcosa di sé. Si dissipano in questo tempo le energie, gli slanci, le aspirazioni che accompagnano le persone al loro arrivo: si abbatte quella capacità di reagire [1] così preziosa, che rappresenta il motore di una vita in perenne ricerca di una realtà in cui riconoscersi e ritrovarsi.
In questo contesto, è l’attenzione alle esigenze di cui parla lo psichiatra Fagioli, ossia a tutti gli aspetti legati a quel mondo personale ed altro fatto di affetti e interesse senza il quale la possibilità di raggiungere un ben-essere reale non sono pensabili, a determinare una visione diversa dell’accoglienza [2]. Sulla stessa traiettoria si colloca, tra le diverse proposte che potrebbero raccogliere la sfida di un’accoglienza che guarda alle esigenze, l’idea di un percorso di sensibilizzazione mirato ad una maggiore conoscenza della realtà sociale e culturale del nostro paese attraverso l’arte, da parte di migranti giovani e meno giovani. Un’iniziativa che risponde all’esigenza di un tempo diverso, quello per le cose apparentemente inutili o comunque non strettamente necessarie, eppure così vitali al fine di mantenere svegli, di alimentare l’interesse verso una realtà circostante non più percepita come immutabile. Le cose inutili dunque, come l’arte, il cui linguaggio universale riporta tutti, inesorabilmente, verso un’uguaglianza di nascita che non è mai abbastanza stare a ribadire. Il percorso di sensibilizzazione artistica mette sotto gli occhi dei partecipanti le cose belle, quelle che vengono fuori quando le persone stanno bene, contando sull’immediatezza delle impressioni che le opere d’arte suscitano per accorciare le distanze con una realtà a volte percepita troppo lontana. Così facendo, si restituisce una conoscenza del territorio e del suo tessuto umano e sociale oltre i luoghi del bisogno.
Le iniziative culturali sono pensate per essere uno spazio che mette momentaneamente tra parentesi le incombenze e i problemi del quotidiano, i pensieri ricorrenti in cui tante persone, durante il loro percorso nell’accoglienza, a volte si incastrano. Dicono che gli fa male la testa, altre volte il braccio, o la pancia, ma il motivo non si trova, e piano piano si fanno più assenti. Proporre l’arte può andare a rompere qualcosa, a smuovere le acque attraverso la proposizione di stimoli intelligenti e mirati. Non basta però, la semplice fruizione, bisogna sapere quali sollecitazioni offrire se si vuole far leva sulla sensibilità delle persone, quali contenuti e significati si vogliono evidenziare. Alla base, c’è il riconoscimento dell’intelligenza di ciascuno, sempre, anche quando il pensiero sembra viaggiare su due binari diversi, per esperienze di vita particolarmente lontane, o per l’assenza di un percorso scolastico – pensiamo ai migranti analfabeti – che ha reso la mente più concreta, meno abituata ad astrarre e ad esprimersi con lunghi discorsi. L’arte, tuttavia, prima ancora di rivolgersi al pensiero parlato sollecita, invece, la sensibilità, quel sentire che deriva dalla forza delle cose, dalle esperienze di vita che contraddistinguono le storie personali. “Un essere umano entra in rapporto con il mondo attraverso la pelle” dice la scrittrice marocchina Fatima Mernissi [3]. Questa intelligenza di pelle, immediata, è quella su cui fa leva l’arte, capace di dare stimoli intelligenti e provocare risposte altrettanto intelligenti. Saranno poi questi pensieri a tornare nella quotidianità di tutti i giorni, ad offrire una resistenza in più; a sostenere il diritto-speranza ad una vita dignitosa alla quale ciascuno, in cuor suo, vuole aspirare.
Qualcuno forse ritrova, mentre guarda un film, un pezzettino di sé; qualcun altro sta bene senza un perché: forse è il posto pieno di colore, forse la musica, forse la poltrona del cinema nel calmo buio della sala. Qualcuno pensa: “Questo è successo anche a me”. E forse si sente un po’ meno solo. Le storie di tutti, in fondo, hanno sempre qualcosa in comune. Gramsci lo chiamava il “valore aggiunto della socializzazione dell’opera artistica, del suo rivivere in altre persone” [4].
Note
[1] Profondamente legata, nella nascita umana, alla vitalità, secondo la definizione di M. Fagioli. Cfr. Massimo Fagioli, Left 2011, Roma: L’Asino D’Oro, 2014, pp. 231-236
[2] Cfr. Massimo Fagioli, Bambino Donna e Trasformazione dell’Uomo, Roma, L’Asino D’Oro, 2013, pp. 122-123
[3] Fatema Mernissi, La Terrazza Proibita, Firenze: Giunti, 1996, p.220
[4] Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli, Gramsci per la Scuola. Conoscere è Vivere, Roma: L’Asino D’Oro, 2018, p.54
Sara Forcella è arabista e mediatrice culturale. Laureata alla Facoltà di Studi Orientali dell’Università La Sapienza di Roma (oggi ISO), dopo varie esperienze di studio all’estero nel 2012 ha iniziato a lavorare come mediatrice culturale all’interno dei centri di accoglienza per richiedenti asilo, durante l’Emergenza Nord Africa. Si occupa di mediazione linguistica e culturale in ambito legale e medico, di alfabetizzazione in italiano L2, e di attività per l’integrazione e la “sensibilizzazione culturale” attraverso l’arte. Attualmente è dottoranda presso L’Istituto Italiano di Studi Orientali di Roma (ISO).
Un'analisi sconvolgente della galassia nera, fascista, xenofoba e razzista che si sta raggrumando attorno a Matteo Salvini, pronto a cavalcarla e a prendersi l'Italia, annientando oltre 70 anni di democrazia. Indispensabile lettura per comprendere le connessioni e ramificazioni di questo fenomeno e contrastarlo. (i.b.)
Una decina di giorni fa sono andata all presentazione di questo libro che non avevo ancora letto. E' stata una rivelazione non tanto per il fenomeno che racconta, poichè le cronache di tutti i giorni lo testimoniano, e in eddyburg cerchiamo di commentarne gli episodi e tappe più significative (vedi le cartelle Fascismi e Accoglienza Italia), ma perchè ne illustra le origini, le connessioni e la strategia.
Per esempio viene bene spiegata l'ascesa di un Salvini sovranista e del fascioleghismo, che segnano una mutazione non da poco per il partito dell'indipendenza della Padania: ce la ricordiamo la Lega di Bossi che diceva mai con i fascisti?
Non c'è migliore introduzione a questo libro che il suo prologo, che riportiamo di seguito. (i.b.)
IL SENSO DEL VIAGGIO
di Paolo Berizzi
tratto da NazItalia: Viaggio in un Paese che si è riscoperto fascista. Baldini&Castoldi, 2018
È dagli inizi degli anni Duemila che con le mie inchieste racconto la galassia della destra radicale italiana e le sue derive estremiste. La destra peggiore, regressiva, xenofoba, razzista e nazifascista,
che non ha nulla a che vedere con quella democratica, moderna e liberale. Ed è da anni che, documentando il progressivo ritorno del nuovo fascismo, cerco da cronista di mettere in guardia l’opinione pubblica, la politica, le istituzioni sui rischi che questo fenomeno può rappresentare per la nostra democrazia. Il silenzio assordante che per anni ho sentito intorno a me era frustrante: avevo la sensazione di essere una specie di marziano, un visionario, uno che vedeva fantasmi, cose inesistenti. Sì, proprio come ti dipingono loro. Avevo finito per sentirmi così: un paranoico ossessionato da un fenomeno che molti tacevano, anche a sinistra, sostenendo non esistesse. E intanto quei gruppi nazifascisti – che da sempre adottano il metodo di screditare e delegittimare chi non si volta dall’altra parte ma si ferma a denunciare – continuavano a descrivermi come un «infame», una specie di disadattato, un bugiardo, un venditore di bufale, uno che non ha niente di meglio da fare, uno che deve «trovarsi un lavoro vero». Quasi fosse una perdita di tempo occuparsi di partiti e associazioni politiche che oltre settant’anni dopo la fine del fascismo e del nazismo vorrebbero far tornare quei fantasmi. Forse hanno ragione loro. Forse è tempo perso. È una sensazione che ho provato spesso in questi anni, ogni volta che dopo avere portato a galla un fatto inquietante, che in altri Paesi avrebbe generato come minimo un dibattito pubblico, lo vedevo passare sotto silenzio. Qualche interrogazione parlamentare, dichiarazioni di pochi deputati, sempre gli stessi, la risposta d’ufficio del governo nel question time alla Camera: nulla di più. A volte ho pensato e penso che la nostra Repubblica nata dalla Costituzione non abbia più la coscienza vigile per riuscire a occuparsi seriamente di neofascismo, e trovi più semplice derubricare il tema a qualcosa di residuale, di «non attuale». Anche quando la realtà intorno a noi ci dice che non è così. Credo che di fronte a certe provocazioni, intollerabili per qualsiasi repubblica democratica, non basti indignarsi (quando accade).
Occorre agire, battersi, prendere l’iniziativa per arginare i pericoli. Disinnescarli prima che lievitino diventando difficili da gestire. «Il fascismo in Italia è morto per sempre», ha detto a febbraio 2018 il ministro dell’Interno Marco Minniti, scuola comunista e Dna antifascista. Lo stesso ha sostenuto Matteo Renzi: «Non c’è il fascismo e non esiste un rischio fascismo». Erano i giorni successivi alla tentata strage xenofoba di Macerata, in cui il nazileghista Luca Traini ha ferito sei immigrati africani a colpi di pistola. Non sono d’accordo. Non è così. Quello che è successo e che sta succedendo nel nostro Paese dimostra l’esatto opposto. C’è un nuovo fascismo che ha rialzato la testa. È un fascismo liquido, certo, disaggregato e sfuggente, e proprio per questo molto insidioso. È anche e soprattutto grazie alla sottovalutazione e alla sbadataggine, o alla complicità di qualcuno, che il fascismo di ritorno punta a permeare – in parte ci è già riuscito – gli strati più deboli della società. Rendendo fertile quel terreno, organizza una semina che non necessariamente deve avere tempi brevi.
L’aspirazione di questo fascismo 2.0 di poter giocare una partita da protagonista in politica è secondaria, viene dopo. È vero: nelle istituzioni è già entrato. CasaPound Italia è presente in 13 consigli comunali e, nonostante il risultato non esaltante alle ultime elezioni politiche – dove i voti sovranisti e di destra radicale sono stati per buona parte cannibalizzati dalla Lega – è un partito destinato a crescere. Ma ai nuovi camerati, prima ancora di ottenere un peso alle urne, interessa avere legittimazione da parte dell’opinione pubblica. Essere riconosciuti, accettati, fare presenza nelle periferie, nei quartieri, nelle scuole, nelle università, negli stadi, nei dibattiti e nei talk televisivi: adesso anche sui treni e a bordo degli autobus con le ronde. Questo agli sdoganatori volontari della galassia nera è chiarissimo: e dovrebbe esserlo anche agli sdoganatori involontari e inconsapevoli, che però finiscono per avere la stessa responsabilità degli altri. «Essere distratti o, peggio, sottovalutare, può essere molto pericoloso.
Ci vuole una cultura antifascista collettiva, è questo che ci manca.» Carlo Smuraglia, l’ex presidente dell’Anpi, è uno dei più attenti e lucidi osservatori del fenomeno del fascismo di ritorno. L’ultima volta che ho ascoltato le sue parole era agosto 2017: sotto un tendone di FestaReggio, a Reggio Emilia. Parlavamo di «nuove destre». Erano i giorni in cui Forza Nuova aveva lanciato la provocazione della nuova «marcia su Roma». «La cultura antifascista è venuta meno col tempo. Bisogna ricostruirla, ci vuole lavoro e impegno», è il ragionamento che fa oggi Smuraglia. «Bisogna partire dalle scuole. E poi, certo, occorre che le leggi vengano applicate. Perché si continua a permettere che movimenti neofascisti facciano attività politica e si presentino alle elezioni? Perché lasciamo correre che si inneggi al regime di Mussolini e Hitler? Che cosa diciamo ai nostri giovani di fronte a queste manifestazioni e a questa follia? Quale risposta gli diamo? Perché queste formazioni non vengono messe fuori legge, come è accaduto in passato? Tutto quello a cui stiamo assistendo in questi anni è sconcertante. E ci dice una cosa chiarissima: che c’è un rischio fascismo per la democrazia. È un fascismo diverso, che si manifesta con nuove forme: lo vediamo in diversi Stati europei e anche in Italia.
Il tema è culturale e sociale. Non è più tempo di indugi. È tempo di agire, prendendo atto di quello che sta accadendo.» A volte le istituzioni stanno a guardare. E invece dovrebbero fare. Anche con dei segnali, dei provvedimenti che non sono solo simbolici. Per esempio: un altro tema di dibattito in Italia, sul quale negli ultimi mesi ho cercato di accendere l’attenzione, è la revoca della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. Al duce fu conferita in decine di Comuni italiani tra il 1923 e il 1924 come conseguenza di un atto politico che di fatto era un’imposizione da parte del Partito nazionale fascista. Molte amministrazioni in questi anni l’hanno revocata. Un segno importante per affermare con forza l’identità antifascista della nostra democrazia in un periodo storico nel quale i neo populisti, che strizzano l’occhio ai «neri», puntano a smantellare la carta costituzionale. E i nuovi fascisti, con la forza e l’infingimento, puntano a essere socialmente accettati sfidando le leggi e la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta la ricostituzione del Partito fascista. Uno degli ultimi Comuni che ha tolto la cittadinanza onoraria al duce è stata Mantova, a febbraio 2018. Il consiglio comunale, a maggioranza Pd, ha votato la mozione che prevede la cancellazione dell’onorificenza concessa a Mussolini nel 1924: contrari tutto il centrodestra – Forza Italia, FdI, Lega – ma anche il M5S.
«Dittatore» e «liberticida»: per questo il duce non è più cittadino onorario mantovano. Per tenere la maggioranza unita sul voto è intervenuto anche il sindaco dem, Mattia Palazzi. «Siamo qui per decidere se la cittadinanza a Mussolini oggi rientri o meno nei valori che questo consiglio e questa città intendono celebrare», ha detto. In Italia ci sono città dove, invece, il dittatore liberticida Mussolini continua a essere cittadino onorario. Sono anche città governate dal centrosinistra, e cioè un’area politica che sul tema dell’antifascismo dovrebbe avere una sensibilità più spiccata. Uno di questi Comuni è Bergamo, la città dove sono nato e dove vivo. Il sindaco Giorgio Gori, nonostante richieste che gli sono arrivate da più parti, ha sempre ribadito: «La cittadinanza lasciamola come monito». A ottobre 2017 sul tema si era espresso anche Lele Fiano, collega di partito di Gori e soprattutto promotore della legge contro la propaganda nostalgica del Ventennio: «Trovo singolare che si mantenga ancora una cittadinanza onoraria per un assassino», ha detto senza mezze parole. Sensibilità diverse all’interno dello stesso partito? Evidentemente sì. Secondo qualcuno la prudenza del sindaco bergamasco potrebbe essere stata dettata, in questi anni, da tatticismi politici: in particolare dalla volontà di non perdere quei consensi che a Bergamo gli sono arrivati da ambienti che prima di lui votavano centrodestra (e il cui passaggio al Pd, per paradosso, ha portato all’erosione dei voti di sinistra). Ambienti dove la revoca della cittadinanza al duce sarebbe considerata un atto troppo radicale. Ma è anche dalla determinazione di certe scelte che passa il contrasto alle derive neofasciste, ai populismi nazionalisti e xenofobi, al fascioleghismo che ha preso corpo negli ultimi anni. È anche così, e con delibere ad hoc, adottate da decine di amministrazioni, che si toglie spazio alle ambizioni dell’ultradestra dell’ultradestra contraria all’integrazione e all’Europa. Due fattori spacciati come minaccia all’identità, all’economia e al futuro del nostro Paese. Non occorre particolare coraggio: basta che un amministratore ricordi cosa ha significato il fascismo per l’Italia e per la sua città, la sopraffazione, la violenza, la privazione della libertà. E magari che trovi anche il tempo per capire come si presenta e agisce l’estrema destra di oggi: come quei gruppi fomentano le paure sociali, come si camuffano agli occhi delle amministrazioni, che di fronte alla loro tracotanza e subdola penetrazione appaiono «vulnerabili» e permeabili.
Il mio viaggio nell’Italia che si è riscoperta fascista racconta anche questa permeabilità. È il fattore che ha determinato la caduta della pregiudiziale sulla manifestazione di quell’ideologia, la sua «normalizzazione» e persino l’accettazione di un tasso di violenza squadrista allarmante – sebbene in molti casi sia passato in sordina sui media nazionali. Una permeabilità che ha messo a nudo la superficiale distrazione di molti leader anche della sinistra, colpevoli di aver lasciato per troppo tempo le piazze e la complessità delle periferie alle ronde e di avere affrontato con «pacatezza» e tardivi appelli alla calma la follia anti-immigrazione: e questo ha portato la sinistra a perdere tonnellate di voti. Una permeabilità, infine, che ha favorito l’ascesa e il successo elettorale, lo scorso 4 marzo 2018, del politico che più di tutti usa sovranismo e xenofobia come strumenti di propaganda: Matteo Salvini. Con lui la Lega si è trasformata in un ricettacolo di idee un tempo inconciliabili: dalle istanze autonomiste e anche secessioniste, al nazionalismo identitario e antieuropeista, fino a un fascioleghismo tinto di scudocrociato al Sud. Grazie a questo cambio di pelle il nuovo Carroccio è riuscito a fare l’en plein alle ultime elezioni. Un’affermazione arrivata dopo anni di «vicinanza» a CasaPound e altre formazioni neofasciste. Il 4 marzo la Lega ha aspirato come un’idrovora i voti della galassia nera spezzandone, per ora, ogni illusione di entrare in Parlamento. Salvini quei voti li ha cercati a lungo, e se li è presi. Punto. Questa è la realtà che molti osservatori, commentando l’esito elettorale, hanno colto solo parzialmente. Sia a destra sia a sinistra si è preferito dare una lettura sbrigativa, semplificando e liquidando come un fallimento il mancato sfondamento dei partiti di estrema destra, e in particolare lo 0,9% di CasaPound Italia. Ma il dato, se è certo al di sotto delle attese, equivale a sei volte quello del 2013. Si è messo in relazione questo flop con «l’allarme neofascista», secondo molti ingiustificato, sollevato nei mesi che hanno preceduto il voto dai «giornali di sinistra» e dalla sinistra litigiosa, ostaggio di una profonda crisi di identità. Io credo sia vero il contrario: anzitutto la sensibilità della sinistra sul fenomeno del populismo nazionalista e sovranista è stata insufficiente, altro che eccessiva. E soprattutto è arrivata in clamoroso ritardo. Quel ritardo è stato abilmente cavalcato dal partito che è diventato il maggiore interprete delle paure della gente, del sentimento nazionalista nazionalista e antieuropeo, delle pulsioni identitarie, xenofobe, razziste, delle parole d’ordine e dei principi della destra radicale: questo partito è la nuova Lega nazionale. Paradossalmente, in questo processo, il vero argine al dilagare dei neofascisti che volevano far «volare schiaffoni in Parlamento» è stato proprio Salvini col suo equilibrismo. Ma Salvini è stato anche il Grande Traghettatore, il taxi sul quale è salita l’Italia nera che ha visto nella Lega l’unico soggetto politico in grado di incidere in Parlamento o addirittura al governo. Per questo il problema delle derive fasciste, dopo la recrudescenza della campagna elettorale, si riproporrà presto in tutta la sua forza; una forza di idee che cresce e attecchisce sempre di più, e di cui è giunto il momento di prendere coscienza andando a scavare sotto la superficie che – mimetizzandolo – sembra tenere sotto traccia questo fenomeno.
Sono tremila, quattromila, seimila honduregni. Forse di più: nessuno può più contarli. Sul cammino si sono aggiunti alcuni guatemaltechi e salvadoregni. La settimana scorsa, in risposta a un messaggio lanciato sui social network, hanno deciso di lasciare tutto per formare una carovana partita da San Pedro Sula e diretta verso gli Stati Uniti.
Insieme formano un esercito in assetto di guerra. Marciano verso una terra promessa, una terra di mitica abbondanza dove c’è lavoro e sicurezza per tutti. Cantano inni, sventolano bandiere, gridano slogan. Credono nella forza della massa. “Si può fare.”
Ma sono allo stesso tempo un esercito allo sbando, sfinito, sconfitto, ostacolato su tutti i fronti, in cui ciascuno fugge per salvare l’ultima cosa che ha: la vita. È composto da umiliati, espulsi, scacciati che non possono tornare al loro luogo d’origine. Più che migranti, sono profughi. Le interviste che hanno rilasciato ai vari mezzi d’informazione rivelano le loro tragedie: nonne che camminano con le loro nipoti, persone sulla sedia a rotelle, adolescenti fuggiti da casa.
Mentre avanzano sotto il sole e la pioggia, dormendo nei rifugi o nelle strade di Città del Guatemala o Tecún Umán, mangiando ciò che gli abitanti gli offrono, parlano con i giornalisti che scrivono del loro tragico viaggio. Di solito i migranti cercano di passare inosservati. Perché nessuno sappia dove stanno andando o perché se ne stanno andando. Questa carovana è l’opposto: la fuga è anche un manifesto, una protesta. È ora di gridarlo in modo che tutti lo sappiano: non si può vivere in America Centrale se si è poveri.
Le reazioni dei leader politici del nord e del sud mostrano, ancora una volta, che vivono in una realtà parallela. Donald Trump è stato il più veloce a twittare minacce e sciocchezze. Ha minacciato il presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernández, di tagliare gli aiuti se non avesse riportato indietro la carovana. Ha minacciato Guatemala ed El Salvador usando gli stessi termini se avessero lasciato passare i profughi. Ovviamente, questo non ha avuto alcun effetto: non c’è modo di fermare quel serpente di persone. I timidi posti di blocco delle autorità del Guatemala e del Salvador sono stati immediatamente sopraffatti dal numero e dalla determinazione degli honduregni.
Miopia e malafede
Dopo le stesse minacce al Messico, Trump ha ricordato che sfruttare la paura nei confronti dei migranti è ancora la sua arma migliore per le prossime elezioni di metà mandato del 6 novembre negli Stati Uniti. Ha affermato che è il Partito democratico a guidare la carovana e che tra i suoi partecipanti ci sono molti criminali. Il vicepresidente, Mike Pence, ha seguito la corrente e twittato che il suo paese non tollererà questo aperto attacco alla sua sovranità. Miopia e malafede a cui siamo già abituati.
Ovviamente, non hanno menzionato le cause che spingono i migranti a lasciare l’America Centrale: la fame, la disoccupazione, la siccità, la violenza delle bande, la corruzione appoggiata dallo stesso governo Trump sia in Guatemala sia in Honduras. Né hanno parlato dei motivi che spingono i migranti verso gli Stati Uniti: un’economia fiorente, drogata dai tagli fiscali di Trump, che ha disperatamente bisogno di mano d’opera. Per fare un esempio, chi, se non i migranti centroamericani, ricostruirà i danni lasciati dagli uragani Michael e Florence?
Arreaga è nato e cresciuto in Guatemala prima di andare, a 18 anni, negli Stati Uniti, dove ha potuto intraprendere la sua carriera diplomatica. Il post, per la sua scarsa qualità e la sua strana inquadratura, ricorda quei video in cui un ostaggio è costretto a leggere una dichiarazione scritta dei suoi rapitori.
Migrante, figlio di immigrati, l’ambasciatore ha ribadito che chi attraversa illegalmente la frontiera sarà arrestato e deportato, che il confine è più sorvegliato che mai, che i migranti non riusciranno nel loro tentativo, che mettono le loro famiglie a rischio se insistono, che farebbero bene a tornare alle loro case. C’è qualcosa nel suo tono e nella ripetizione delle parole che ricordano una pessima pellicola di fantascienza.
L’ambasciatore assicura, senza ironia, che gli Stati Uniti stanno investendo centinaia di milioni di dollari nella creazione di nuove opportunità nei paesi dell’America Centrale. A chi sono indirizzate le sue parole? Chi spera di convincere? Pensa davvero che una persona minacciata dalle bande, o che ha di nuovo perso il suo raccolto, o che non riesce a trovare lavoro, tornerà indietro quando vedrà il suo messaggio? I migranti della carovana sono molto oltre questi discorsi e argomentazioni. Questa è una fuga. Sono oltre la disperazione.
Gli honduregni della carovana non possono tornare indietro. Lì li aspettano pallottole, minacce, fame e malattie. Sanno anche che le possibilità di arrivare sono minime, che le porte sono chiuse, che possono incappare nell’esercito come promesso da Trump, o che gli possono strappare i bambini dalle braccia. Più che un’opportunità, si aspettano un miracolo.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano salvadoregno El Faro e tradotto da Stefania Mascetti per l'Internazionale, qui accessibile.
Le immagini sono tratte dal El faro.
effimera.org 23 ottobre 2018. La campagna mediatica sul debito è ideologica e politica, non di natura economica: l'Italia non si trova a rischio di insolvenza, la crescita del debito non è associata all’aumento della spesa pubblica, serve a favorire la rendita finanziaria e i più ricchi. Questi i veri beneficiari della finanziaria proposta dal governo. Con rif. (i.b.)
Fa scandalo la richiesta del governo italiano di portare il rapporto deficit/pil al 2,4% e così si alimenta una campagna mediatica – a destra come a sinistra – che ha in realtà il vero obiettivo di spianare la strada alla speculazione finanziaria. In base ai nudi dati economici, l’Italia non è affatto a rischio di insolvenza. All’elevato debito pubblico, infatti, fa da contraltare uno dei più bassi valori del debito delle famiglie e delle imprese. Se poi aggiungiamo il surplus commerciale (che è superiore allo stesso deficit pubblico del 2,4%), l’allarme lanciato è solo giustificabile sul piano politico e ideologico e non economico.
Dovrebbe invece fare scandalo che negli ultimi 25 anni sono state promosse politiche fiscali che hanno ridotto le imposte per le società di capitale e le aliquote sui redditi più alti, aumentato le aliquote sui redditi più bassi, ridotto fortemente la progressività, a vantaggio della rendita finanziarie e dei più ricchi. Tali misure hanno sottratto ingenti risorse al bilancio dello stato favorendo, insieme alla spese per interessi, l’aumento del debito pubblico.
Dovrebbe fare ancor più scandalo che a fronte di questa situazione, uno dei cavalli di battaglia di questo governo, sia la “flat tax”.
Due sono le principali accuse che la troika economica e le agenzie di rating (entrambe espressione degli interessi dell’oligarchia finanziaria internazionale) rivolgono alla proposta di legge di stabilità del governo italiano.
La prima ha a che fare con la scelta di portare al 2,4% il rapporto deficit/Pil, ben sopra al limite (1,6%) ufficiosamente pattuito dalle precedenti leggi di stabilità dei governi Renzi-Gentiloni (che, a fine 2017, è arrivato al 2,3% nel silenzio generale) ma ben al di sotto del limite ufficiale sancito dagli accordi del 1997 che è pari al 3%.
La seconda è che tale obiettivo, comunque, difficilmente potrà essere ottenuto perché le stime di crescita del Pil effettuate dal governo, a seguito della manovra economica (+0,5%), sono considerate sovrastimate.
In questa breve nota, ci limitiamo per il momento a discutere del primo punto.
La situazione debitoria europea
La fragilità economica di un paese è certamente legata anche al livello del suo indebitamento. Ma correttezza vuole che si faccia riferimento al debito complessivo di tutti gli agenti economici che operano nel sistema economico (non solo lo Stato, ma anche le famiglie, le imprese e le banche).
Se prendiamo in esame il debito complessivo in rapporto al Pil, abbiamo qualche sorpresa. Secondo una recente survey del McKinsey Global Institute, sulla base dei dati della Bank for International Settlements (Banca dei regolamenti internazionali) riferiti al 2017, il paese più indebitato al mondo risulta essere il Lussemburgo per un ammontare pari al 434% del Pil, seguito da Hong Kong (396%), terzo il Giappone (373%). Con riferimento alle nazioni europee, quelle più indebitate sono l’Irlanda e il Belgio (345%), seguite da Portogallo (322%), Francia (304%), Olanda e Grecia (entrambe al 294%), Norvegia, 287%, Gran Bretagna (281%), Svezia e Spagna (275%). L’Italia (265%) si colloca nelle retrovie, con un valore di poco superiore alla Danimarca, Finlandia, Svizzera, Austria e Germania.
Se disaggreghiamo tale dato, l’Italia ha il 151% di debito pubblico (seconda in Europa – dopo la Grecia, e terza al mondo, con il Giappone che detiene il primato di paese con lo Stato più indebitato: 214%). Ma si trova negli ultimi posti in classifica per debito delle famiglie (41%, contro il 127% della Svizzera, il 117% della Danimarca, il 107% dell’Olanda, il 102% della Norvegia, l’87% della Gran Bretagna). Meglio dell’Italia è solo la Polonia (36%). Con riferimento al debito delle imprese, anche in questo caso la situazione italiana è tra le più virtuose. Lussemburgo, Irlanda, Belgio, Norvegia, Svezia, Francia, Portogallo, Spagna presentano valori doppi rispetto all’Italia e solo Grecia e Germania si trovano in una situazione migliore (seppur di poco).
La solvibilità complessiva dell’Italia non può quindi essere messa in discussione, anche tenendo conto che la quota di debito pubblico detenuta da operatori economici italiani è oggi salita al 68,7%, grazie soprattutto all’incremento dal 5% al 16% effettuata dalla Banca d’Italia grazie al Quantitative Easing della Bce. Occorre notare che il 26% del debito pubblico italiano è, inoltre, detenuto da banche prevalentemente italiane e il 18% è invece detenuto da fondi finanziari e assicurativi, prevalentemente stranieri, quelli più interessati a avviare attività speculative. I piccoli risparmiatori ne detengono solo il 5%.
Per completezza d’analisi, alla situazione debitoria nazionale occorre aggiungere l’eventuale indebitamento estero. Come è noto, l’Italia è il secondo paese, dopo la Germania, a vantare il surplus della bilancia commerciale più elevato d’Europa. I dati relativi a fine 2017 (Fonte: Eurostat), ci dicono che l’avanzo commerciale italiano ha raggiunto la cifra di 47,5 miliardi (pari al 2,8% del Pil), derivante da un surplus di 8,3 miliardi con i paesi della UE e di 39,2 con quelli extra-UE [1].
Di fatto il surplus dei conti con l’estero sarebbe in grado di ripagare più che abbondantemente il deficit interno. La Germania ha maturato un surplus commerciale di 249 miliardi pari al 7,6% del Pil. Ricordiamo che all’interno del patto di stabilità europeo, oltre ai vincoli sul rapporto deficit/pil, occorre prendere in considerazione il limite massimo di avanzo commerciale di un paese membro, che non può superare il 6%. Di fatto, l’unico paese che del corso del 2017 ha compiuto un’infrazione al Patto di Stabilità è stata la Germania ed è prevedibile che tale limite del 6% verrà superato anche nel corso del 2018. E’ infatti da più di 5 anni che la Germania supera tale limite. Ma nessun commissario europeo sembra accorgersene.
Di converso, la Francia presenta un deficit commerciale di circa 80 miliardi e la Gran Bretagna addirittura di 176,2 miliardi.
Di fronte a questo quadro, l’accanimento contro il solo debito pubblico per contestare le scelte di politica economica non ha una ragione strettamente economica ma esclusivamente politica e ideologica. Si tratta di impedire che un paese membro possa adottare una politica espansiva basata sul deficit spending in grado, potenzialmente, di evitare lo smantellamento del welfare e la finanziarizzazione privata dei servizi sociali, a partire dalla sanità e dall’istruzione (visto che la previdenza è stata già di fatto finanziarizzata).
Ciò che è in gioco non è l’autonomia economica dell’Italia, come la retorica nazional-sovranista vorrebbe farci credere. Se anche ritornassero la lira o un’Europa di singoli stati sovrani sul piano monetario, la configurazione geopolitica internazionale basata sul confronto tra l’asse boreale Trump-Putin (che vedrebbero con favore la scomparsa dell’Europa) e l’asse australe Cina-India-Sud Africa-Brasile, renderebbero i singoli paesi europei ancor più deboli e in balia delle oligarchie economico-finanziarie.
A chi conviene il debito italiano?
Forse non tutti sanno che a partire dal 1992, con l’unica eccezione del 2009, il saldo primario del bilancio dello Stato (ovvero la differenza tra le entrate e le uscite complessive, al netto della spesa per interesse) è sempre stato abbondantemente positivo. In questi anni, dal 1992 al 2017, lo Stato ha prodotto un risparmio pari a 795 miliardi. Negli ultimi 25 anni, l’ammontare delle spese per interessi ha, invece, raggiunto una cifra pari a 2094 miliardi. Di conseguenza il debito pubblico italiano è cresciuto di 1.299 miliardi.
Appare quindi evidente che la principale causa dell’aumento del debito pubblico italiano dipende dalla spesa per interessi, la cui dinamica negli ultimi anni è stata sempre più condizionata dalla speculazione finanziaria.
Approfondiamo questo aspetto, utilizzando i dati del rapporto del Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi (CADTM) che verrà presentato alla stampa il prossimo 27 ottobre 2018, a Roma [2].
Tre sono state le fasi in cui l’Italia è stato oggetto di attacchi speculativi.
Il primo è il biennio 1992-93 con la crisi valutaria della lira, che ha portato, sul piano sociale, all’abolizione della scala mobile e alla draconiana manovra finanziaria del governo Amato. Nonostante questi interventi (aumento della pressione fiscali in senso non progressivo, smantellamento di parte del servizio pubblico che porterà alla riforma previdenziale del 1996 e alla privatizzazione dell’acqua, dell’energia, del trasporto e delle comunicazioni, riduzione del costo del lavoro e inizio della sua fase di precarizzazione), il rapporto debito pubblico è passato dal 101,6% del 1991 al 111,3% del 1993 e al 127,3% del 1994. Come ricordato è proprio nel 1992 che si realizzerà per la prima volta dagli anni Settanta un avanzo primario positivo che nell’arco del triennio ammonterà a 56,52 miliardi di euro. Di contro, la spesa per interessi ammontò a 303,27 miliardi (con un incremento del 62,7% rispetto al triennio precedente).
Il secondo attacco coincide con l’avvio della crisi dei subprime del 2007-8: il rapporto deficit/Pil passa dal 99,34% del 2007 al 112,2% del 2009, l’unico anno in cui si registra anche un disavanzo primario (al netto degli interessi), con il IV governo Berlusconi. La spesa per interessi risulta pari nel triennio a 229,2 miliardi di euro.
Occorre ricordare che l’entrata nell’euro aveva, invece, prodotto una diminuzione del rapporto debito/Pil dal 109,1% del 2000 al 105,9% del 2002, grazie soprattutto al calo dei tassi d’interesse.
Pochi anni dopo, arriva il terzo attacco, quello forse più pesante, con lo spread che nel 2011 arriva a quota 575. La crisi aveva portato alla caduta del governo Berlusconi e all’arrivo del governo Monti. L’attacco si fermò quando la Deutsche Bank, che aveva iniziato a febbraio del 2011 la vendita della quota di titoli di Stato in suo possesso per speculare sui derivati italiani, decise a novembre di quell’anno di ricominciare ad acquistarli di nuovo, dopo aver capitalizzato ingenti guadagni.
Nel 2011 e 2012, l’esborso dello Stato per la spese in interessi arriva a toccare i 160 miliardi.
Se sommiamo questi episodi, ricaviamo che la speculazione finanziaria è costata allo Stato italiano (e quindi a noi) la bellezza di 467,3 miliardi, ovvero il 20,6% dell’intero debito pubblico del 2017.
E’ una cifra che è andata a ingrassare la pancia delle multinazionali della finanza e delle banche e solo in minima parte i risparmiatori italiani, che detengono, come già abbiamo ricordato, solo il 5% del debito complessivo. A tale rendita occorre poi aggiungere le plusvalenze maturate sulla dinamica dei derivati sui titoli di stato, che, nel caso del 2011, hanno consentito guadagni di oltre il 500% in pochi mesi.
* * * * *
Analizziamo ora le entrate fiscali. Esse sono composte da tre grandi voci: le imposte dirette (pari nel 2016 al 35%), le imposte indirette (34%), i contributi sociali (31%).
Gli introiti delle imposte dirette derivano nel 2017 per il 58,1% dai redditi da lavoro (salari e pensioni), per il 21,7% dai redditi di impresa (partecipazioni e utili), per il 7,3% dai redditi da capitali (interessi e dividendi), per il 2,6% da redditi fondiari (affitto) e per il 7% da redditi patrimoniali [3]. Ciascuno di questi cespiti è soggetto a una tassazione separata. I redditi da lavori sono soggetti alla progressività delle aliquote. I redditi da imprese solo in parte. Ad esempio le società di capitali pagano un’Ires pari all’aliquota unica del 24%. Lo stesso vale per gli affitti (imposta unica del 21%), per gli interessi sui depositi bancari (26%) e sui titoli di stato (12,5%).
Ne consegue che chi gode di un reddito derivante non solo dal lavoro ma anche da altre attività (affitto, interessi, ecc,) vede ridursi la propria progressività in un contesto di elevati redditi cumulati, con un trattamento a lui/lei più favorevole.
Inoltre negli ultimi anni, le varie riforme fiscali hanno di gran lunga ridotto non solo la progressività delle aliquote sull’Irpef ma anche le aliquote uniche di alcuni redditi. E’ il caso dei redditi di impresa: fino al 1995 quelli realizzati da società di capitali erano tassati al 37%. Poi è cominciato un lento declino fino a raggiungere il 24% nel 2017 con il governo Renzi.
Quando fu introdotta l’Irpef come unica tassa sui redditi di lavoro e di persone nel 1974 (riforma Visentini), gli scaglioni di aliquote erano più di 20, con valori che partivano dal 10% (per i redditi più bassi) sino ad un massimo del 72% (per i redditi superiori ai 300.000 euro l’anno). A partire dalla prima riforma del 1983 sino all’ultima del 2007, tale ventaglio di aliquote è stato drasticamente ridotto sino alle 5 attuali: 23% per i redditi sino a 15 mila euro, 27% tra i 15 mila e i 28 mila, 38% tra i 28 mila e i 55 mila, 41% dai 55 mila ai 75 mila e 43% oltre i 75 mila. Non solo sono state diminuite le aliquote sui redditi più alti e aumentate quelle sui redditi più bassi ma anche la curva della progressività è diventata sempre più elastica, concentrandosi prevalentemente sui redditi medio-bassi, quelli dello scaglione di imponibili lordo (il netto è circa un terzo inferiore) tra i 28 mila e i 55 mila.
Ne è conseguito che:
“In virtù delle riforme fiscali operate dal 1983 al 2007, i super ricchi, quelli con redditi superiori a 600.000 euro, nel solo 2016 hanno goduto di un regalo fiscale pari a 1 miliardo di euro. Considerato che il loro numero non va oltre le 10.000 persone, ognuno di loro ha potuto accrescere il proprio patrimonio di 100.000 euro” [4].
Se si considera il mancato gettito dovuto alla ridotta progressività delle riforme fiscali e al mancato cumulo,
“otteniamo una perdita per lo Stato, nel [solo] 2116, di 8,3 miliardi di euro, pari al 4,5% del gettito Irpef” [5].
Applicando lo stesso calcolo agli ultimi 34 anni (dal 1974 ad oggi), il mancato gettito complessivo ammonta a 146 miliardi. Tale ammanco di entrate è stato colmato dall’emissione di titoli di Stato che, in virtù degli interessi composti, hanno prodotto un maggior debito pari a 295 miliardi, il 13% di tutto il debito accumulato. Un favore alle classi più ricche che è stato assai costoso per tutta la collettività!
Per una maggior completezza di analisi, dobbiamo anche aggiungere il fenomeno dell’evasione e dell’elusione fiscale, che, secondo le stime pubblicate nel maggio 2017, è stata per il 2014 di 110 miliardi di cui 11 evasi sotto forma di contributi sociali, 36 come IVA e 63 come imposte dirette.
Quali conclusioni?
La veloce e incompleta panoramica ci porta ad alcune preliminari conclusioni:
Note
[1] Occorre sottolineare che, in particolare, la posizione dell’Italia nei confronti della Germania è caratterizzata da esportazioni di beni intermedi e importazioni di beni strumentali ad alto valore aggiunto. Ciò si configura come un vincolo tecnologico che spiega il gap di produttività maturato nei confronti dei Paesi-core europei. Ringrazio Stefano Lucarelli per questa preziosa osservazione.
[2] Ringraziamo Attac e Marco Bersani per l’accesso ai dati.
[3] La somma non è pari al 100% perché mancano alcune voci minori del tutto marginali.
[4] Si veda qui
[5] Si veda qui
Riferimenti
internazionale.it
Michael Moore non ha fatto un bel film, ha fatto un film necessario, mosso dall’urgenza di dire una cosa inaggirabile prima che sia troppo tardi: la democrazia è un giocattolo molto delicato, e il suo funzionamento è solo nelle nostre mani. Ci vogliono secoli a costruirla (“Gli Usa sono una democrazia solo dal 1970”, quando i neri ottennero il diritto di voto), ma bastano pochi anni per distruggerla: negli Usa ne sono bastati quindici, l’arco di tempo racchiuso come in una cabala tra il 9/11 del 2001, data dell’attacco alle torri gemelle cui era dedicato il precedente Fahrenheit di Moore, e l’11/9 del 2016, data dell’elezione di Trump alla Casa Bianca. E quando la rovina comincia, diventano vane le forme che essa si era data per istituirsi e stabilizzarsi: elezioni, corti, costituzioni, diritti acquisiti possono rivelarsi più fragili dei tarli che le erodono e le svuotano da dentro. È già accaduto negli anni trenta, dice nel film uno storico che non teme il paragone fra il fascismo dal volto trucido di ieri e quello “democratico”, come lo chiama Alain Badiou, di oggi, che ha il volto pop dei Trump, dei Salvini, degli Orbán, dei Bolsonaro. E al quale hanno aperto la strada tarli ormai ben noti, che si chiamano disuguaglianza, smantellamento della struttura industriale e del welfare, de-alfabetizzazione di massa, confusione fra vero e falso mediaticamente indotta, attacchi allo stato di diritto, omologazione fra destra e sinistra. Siamo ancora in tempo a dire basta, di là e di qua dall’Atlantico? E come si fa, a dire basta?
Spietato con il Partito democratico americano, Fahrenheit 11/9 diventa tenerissimo quando inquadra le donne “guerriere” come Alexandria Ocasio-Cortez che sono la speranza del mid-term, gli insegnanti che hanno stupito il mondo con il loro sciopero imprevisto, i giovani in rivolta contro le armi. Si ride per non piangere sulle immagini di apertura del film, con Hillary Clinton, il suo staff e l’intero mainstream mediatico che alla vigilia delle ultime presidenziali brindavano tronfi a una vittoria sicura che non ci sarebbe mai stata; o su quelle della “sfilata della vergogna” di Trump e famiglia più stupefatti di noi per aver vinto la Casa Bianca come il premio di una riffa truccata. Si piange senza scampo alla fine, quando la camera stringe sul silenzio di Emma Gonzales alla marcia di Washington del 24 marzo scorso; o quando il racconto indugia sul caso di Flint, la città avvelenata dall’acqua piena di piombo, dove Obama finge di bere un sorso per sedare la popolazione invece di agire contro il governatore responsabile del disastro. Fra il 9/11 e l’11/9 c’è anche questo, infatti, la delusione per “il presidente più amato”, una ferita che brucia, nel regista, più di tutte le altre.
E che forse è quella che lo trattiene oggi, come lui dice, dallo sperare in un cambiamento del vento, nell’America di Trump come in Italia, dove “tutto è cominciato con Berlusconi, che Trump ha imitato, ma ora Salvini fa concorrenza a Trump”. Il suo film, invece, una speranza la apre. Vista da qui, da un’Europa che assiste ammutolita al proprio disfacimento, la società americana sembra più reattiva, più capace di lotte di resistenza civile in grado di prescindere dall’agonia dei partiti storici, più aperta al cambiamento generazionale non proclamato a suon di rottamazione ma praticato nei fatti, più fiduciosa nella rivoluzione femminile che qui si scontra contro il muro della misoginia, più vaccinata contro la xenofobia che qui dilaga e impera. Forse è solo un effetto ottico. O forse qui non abbiamo ancora trovato la cabala giusta per mettere due date a confronto, origine ed effetto l’una dell’altra, e noi a confronto con noi stessi, come in uno specchio.
attac italia, 8 ottobre 2018. Resoconto sull'audit (indagini pubblica e indipendente) delle situazioni finanziarie e debitorie degli enti locali, come strategia per opporsi alla dominante narrativa sulla priorità dei vincoli finanziari. Con riferimenti. (m.p.r.)
É stata una giornata importante quella che si è svolta sabato 6 ottobre a Napoli.
Si sono riuniti, nel secondo incontro nazionale, tutti i comitati e le reti che hanno avviato nei propri territori percorsi di indagine (audit) pubblica e indipendente sulla situazione finanziaria e debitoria dei propri enti locali, al preciso scopo di mettere in discussione la narrazione dominante, che pone i vincoli finanziari come priorità sulla garanzia dei diritti fondamentali e la difesa dei beni comuni delle comunità locali.
Da Torino a Napoli, passando per Genova, Parma, Livorno e Roma, sono alcune decine i comitati che hanno concretamente avviato il lavoro di audit e altrettante sono le realtà in procinto di farlo. Tutti accomunati da un filo rosso: rompere la narrazione della trappola del debito significa interrompere l'automatismo per cui se da una parte si continua a dire “C'è il debito, non ci sono i soldi”, dall'altra se ne consegue “Se i soldi non ci sono, prima gli italiani!”. Mettere in discussione la premessa diviene assolutamente necessario per smascherare le conclusioni e, non a caso, la giornata si è aperta con un applauso di solidarietà a Domenico Lucano, in connessione diretta con la manifestazione nazionale antirazzista che nel medesimo giorno si sarebbe tenuta a Riace.
L'analisi affrontata ha rimesso al centro le comunità locali, oggi direttamente sotto attacco delle politiche liberiste e di austerità, al preciso scopo di metterle con le spalle al muro per favorire la messa sul mercato del patrimonio pubblico, dei beni comuni e dei servizi pubblici. Due dati rendono concreto l'attacco: a) quasi tutte le misure, imposte con il patto di stabilità e con il pareggio di bilancio, sono state scaricate sugli enti locali, nonostante il concorso di questi ultimi al debito pubblico nazionale non superi l'1,8%; b) nonostante i Comuni, nel periodo 2010-2016, abbiano aumentato le imposte locali per 7,8 miliardi, le risorse complessive di cui disponevano nel 2016 erano di 5,6 miliardi inferiori a quelle detenute nel 2010.
Siamo di conseguenza di fronte ad un gigantesco processo di espropriazione delle comunità locali, giunto al punto di mettere seriamente in discussione la loro funzione pubblica e sociale. Tre gruppi di lavoro hanno scandito il confronto della giornata: sul dissesto degli enti locali(oltre 800 i Comuni in acuta crisi finanziaria negli ultimi 30 anni); sui derivati (ancor oggi, dieci anni dopo il divieto, sono 174 i Comuni con in pancia i titoli tossici) e sulla finanza locale(scomparsa, dopo la privatizzazione nel 2003 di Cassa Depositi e Prestiti).
E molto concrete sono state le proposte uscite dal confronto collettivo:
a) sul versante del dissesto, aprire una battaglia comune per modificare la legge vigente che scarica sui cittadini le sanzioni relative, proponendo l'istituzione, mutuata dalla normativa privatistica, della figura degli enti locali in “sovraindebitamento”, che ne eviti il dissesto e relative conseguenze;
b) sul versante derivati, l'avvio di una campagna comune per il loro annullamento, anche a fronte della Decisione del 04/12/2013 della Commissione Europea, che ne permette la contestazione e la relativa richiesta di risarcimento dei flussi negativi addebitati ai Comuni;
c) sul versante finanza locale, si è deciso di lavorare ad una proposta di legge d'iniziativa popolare per la socializzazione e la gestione decentrata e partecipativa di Cdp.
Obiettivi importanti che richiedono, accanto al lavoro dei comitati territoriali, il diretto coinvolgimento degli enti locali più attenti e interessati. Da questo punto di vista, non è stata casuale la scelta di Napoli per ospitare l'assemblea: Napoli è non solo la prima città che ha deliberato, in accordo con i movimenti, l'istituzione di una “Consulta pubblica di audit sulle risorse e sul debito della città”; è anche il Comune che, grazie alla presenza nella plenaria di sabato, del Sindaco Luigi De Magistris e dell'Assessore Carmine Piscopo, si è direttamente impegnato a convocare un'assemblea degli enti locali in dissesto entro fine novembre, al fine di costituire una “Rete dei Comuni” che apra una vertenza, parallela a quella praticata dai movimenti, nei confronti del governo e dei vincoli imposti dall'Ue e in difesa dei diritti delle comunità locali.
Perché liberare le città dal debito diviene l'unica possibilità di uscire dal campo di gioco predefinito, che prevede una finta battaglia tra chi si schiera con l'establishment finanziario e chi vi si oppone in nome di un sovranismo che non mette in alcun modo in discussione i medesimi vincoli, modificandone semplicemente le sedi di comando.
riferimenti
Sull'argomento vedi su eddyburg gli articoli di Edoardo Salzano e Roberto Camagni, Discutiamo del debito pubblico, di Roberto Camagni, Il debito pubblico, D'accordo, ma..., di Susanna Böhme Kuby, Si può non pagare quando è ingiusto, di Francesco Gesualdi, Il debito pubblico è come il colesterolo, e l'intervento - secondo noi conclusivo - di Marco Bersani Il tabù dell'annullamento del debito. Sulla truffa del debito pubblico, si veda inoltre, di Andrea Baranes Più debito per uscire dalla crisi.
il manifesto,
Mercati e Unione europea in allarme, opposizione all’attacco, richiamo del presidente della Repubblica alla Costituzione, perché l’annunciata manovra finanziaria del governo comporterebbe un deficit di circa 27 miliardi di euro.
Silenzio assoluto invece, sia nel governo che nell'opposizione, sul fatto che l'Italia spende in un anno una somma analoga a scopo militare. Quella del 2018 è di circa 25 miliardi di euro, cui si aggiungono altre voci di carattere militare portandola a oltre 27 miliardi. Sono oltre 70 milioni di euro al giorno, in aumento poiché l'Italia si è impegnata nella Nato a portarli a circa 100 milioni al giorno.
Perché nessuno mette in discussione il crescente esborso di denaro pubblico per armi, forze armate e interventi militari? Perché vorrebbe dire mettersi contro gli Stati uniti, l'«alleato privilegiato» (ossia dominante), che ci richiede un continuo aumento della spesa militare.
Quella statunitense per l'anno fiscale 2019 (iniziato il 1° ottobre 2018) supera i 700 miliardi di dollari, cui si aggiungono altre voci di carattere militare, compresi quasi 200 miliardi per i militari a riposo. La spesa militare complessiva degli Stati uniti sale così a oltre 1.000 miliardi di dollari annui, ossia a un quarto della spesa federale.
La spesa militare provocherà però nel budget federale, nell'anno fiscale 2019, un deficit di quasi 1.000 miliardi. Questo farà aumentare ulteriormente il debito del governo federale Usa, salito a circa 21.
Esso viene scaricato all'interno con tagli alle spese sociali e, all'estero, stampando dollari, usati quale principale moneta delle riserve valutarie mondiali e delle quotazioni delle materie prime.
C'è però chi guadagna dalla crescente spesa militare. Sono i colossi dell'industria bellica. Tra le dieci maggiori produttrici mondiali di armamenti, sei sono statunitensi: Lockheed Martin, Boeing, Raytheon Company, Northrop Grumman, General Dynamics, L3 Technologies. Seguono la britannica BAE Systems, la franco-olandese Airbus, l'italiana Leonardo (già Finmeccanica) salita al nono posto, e la francese Thales.
Non sono solo gigantesche aziende produttrici di armamenti. Esse formano il complesso militare-industriale, strettamente integrato con istituzioni e partiti, in un esteso e profondo intreccio di interessi. Ciò crea un vero e proprio establishment delle armi, i cui profitti e poteri aumentano nella misura in cui aumentano tensioni e guerre.
La Leonardo, che ricava l'85% del suo fatturato dalla vendita di armi, è integrata nel complesso militare-industriale statunitense: fornisce prodotti e servizi non solo alle Forze armate e alle aziende del Pentagono, ma anche alle agenzie d'intelligence, mentre in Italia gestisce l'impianto di Cameri dei caccia F-35 della Lockheed Martin.
In settembre la Leonardo è stata scelta dal Pentagono, con la Boeing prima contrattista, per fornire alla US Air Force l'elicottero da attacco AW139.
In agosto, Fincantieri (controllata dalla società finanziaria del Ministero dell'Economia e delle Finanze) ha consegnato alla US Navy, con la Lockheed Martin, altre due navi da combattimento litorale.
Tutto questo va tenuto presente quando ci si chiede perché, negli organi parlamentari e istituzionali italiani, c'è uno schiacciante consenso multipartisan a non tagliare ma ad aumentare la spesa militare.
Riferimenti
In eddyburg.it abbiamo più volte segnalato come l'Italia continui a sostenere ingenti spese militari nonostante l'articolo 11 della nostra Costituzione ripudia la guerra e ribadisce l'impegno per la pace. A questo proposito si consiglia la lettura dell'articolo di Adriana Cosseddu "Il caso serio delle bombe italiane". Per una panoramica si veda l'articolo sul Rapporto Milex 2018, che sottolinea come insieme alla crescita delle spese militari, dal 2008 ad oggi aumentate del 25,8%, continua la servitù nucleare dell'Italia. Qui un articolo sulle spese per i droni, finora usati solo per ricognizione, ma che ora stanno per essere armati con bombe e missili e senza che la scelta sia stata dibattuta in Parlamento. Le spese militari sono in ascesa anche in Europa, dove il 2018 si annuncia un anno record,
Insieme al ginecologo congolese Mukwege, la giovane è stata premiata per la lotta allo stupro come arma di guerra. Ex schiava dell’Isis dopo l’occupazione di Sinjar, è da anni il volto del suo popolo e del genocidio che ha subito.
Il premio Nobel per la Pace 2018 è stato assegnato questa mattina a Nadia Murad e Denis Mukwege, giovane yazida ex schiava dell’Isis in Iraq la prima e ginecologo congolese il secondo, per il loro impegno contro l’utilizzo dello stupro e della violenza sessuale come arma di guerra.
Nadia è da anni il volto del genocidio subito dal popolo yazidi in Iraq per mano dello Stato Islamico. Una volta liberatasi dalla schiavitù, è divenuta la voce delle donne, i bambini e gli uomini yazidi uccisi e seviziati dall’Isis negli anni dell’occupazione dell’ovest dell’Iraq. Ha parlato ai parlamenti occidentali, all’Onu e all’Europarlamento che le ha assegnato il premio Sakharov per la libertà di espressione nel 2016 insieme a Lamia Bashar, un’altra giovane yazidi scappata dalla prigionia. Dal settembre 2016 Murad è ambasciatrice dell’Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta.
La sua storia è la storia di migliaia di donne, adolescenti e bambini yazidi, fatti prigionieri nell’agosto 2014 dopo l’assedio brutale della loro terra, Sinjar. Dopo la fuga dei peshmerga del Kurdistan iracheno, lo Stato Islamico è entrato nei villaggi, ha ucciso almeno 3mila uomini e reso schiave 6mila donne, mentre migliaia di yazidi trovavano rifugio nel monte Sinjar.Completamente assediato dallo Stato Islamico, nella caldissima estate irachena, il monte si è trasformato in una trappola fino alla liberazione: senza cibo né acqua, gli yazidi fuggiti sono stati portati in salvo dall’intervento delle unità curde siriane delle Ypg e del Pkk.
Solo nel 2015 Sinjar è stata liberata dal giogo islamista. I sopravvissuti, tornati dai campi profughi del Kurdistan iracheno, hanno trovato solo macerie e innumerevoli fosse comuni. Ma il genocidio non si arresta: sarebbero anche migliaia le donne prigioniere dello Stato Islamico.
Nei suoi anni da ambasciatrice del suo popolo, Nadia Murad ha raccontato la schiavitù. Rapita il 3 agosto 2014, nel villaggio di Kocho a Sinjar, è stata venduta come schiava sessuale dagli uomini dell’Isis a Mosul, passando di mando in mano, sottoposta a continui stupri e abusi. Nel novembre 2014 è riuscita a fuggire grazie all’aiuto di una famiglia irachena.
Al mondo Nadia chiede da anni di intervenire, davvero. Se nel 2014 il dramma yazidi fu la giustificazione dell’allora amministrazione Obama per lanciare i primi raid aerei in Iraq contro lo Stato Islamico, non è seguita alcuna azione concreta per la loro tutela. Nessuna protezione internazionale. L’unico sostegno concreto è arrivato prima nei campi profughi in Kurdistan iracheno da parte di organizzazioni umanitarie, e poi dalle unità curde legate al Pkk che hanno attivamente partecipato alla liberazione di Sinjar e ispirato la formazione di unità di difesa yazidi nel territorio nord-ovest iracheno.
il manifesto,
Hacked By ./BE64L X PohonSagu
La formula di rito, «le sentenze si rispettano», vale anche in questo caso, che riguarda la vicenda del sindaco di Riace, benché non si tratti ancora di una sentenza. L’indipendenza della magistratura è un fondamento dello stato di diritto ed è una garanzia per tutti, specie di questi tempi, in cui la legalità soggiace troppo spesso ai rapporti di forza esistenti. Ma questo non significa che non si possano fare riflessioni critiche sulla magistratura, com’è diritto e obbligo di ogni cittadino consapevole. E allora l’arresto di Mimmo Lucano, un sindaco - come hanno scritto e testimoniato a migliaia, in passato e in questi giorni - che ha fatto rinascere e dare speranza alla gente di una terra segnata dall’abbandono e da una criminalità endemica, è una enormità.
Una enormità da inquadrare in un contesto storico.
Perché qualche considerazione d’insieme sull’opera della magistratura in Calabria occorrerebbe farla. È necessario che l’opinione pubblica nazionale si ponga qualche domanda sul fatto che in una terra dove l’amministrazione di un grande città come Reggio, viene sciolta per mafia, dove a San Luca d’Aspromonte da anni non si riesce ad eleggere un sindaco, venga arrestato il primo cittadino di un centro che fa della solidarietà umana un principio di sopravvivenza della popolazione. È una domanda a cui occorre aggiungere una considerazione più ampia. Perché se è vero che in Calabria operano magistrati come Nicola Gratteri e altri meno noti di lui, che rischiano la vita facendo il proprio mestiere, è anche vero che un’ampia zona di inerzia domina il resto della magistratura regionale.
Si mette sotto controllo il telefono di un sindaco - certo, disinvolto e arruffato nel rispetto delle regole amministrative - ma il cui disinteresse personale è noto anche alle pietre della strada, e che cosa si è fatto per smantellare le reti del caporalato che fanno schiavi i ragazzi nordafricani nelle campagne di Rosarno?
Che cosa ha fatto la magistratura calabrese per perseguire gli autori dei tanti incendi che in questi anni hanno distrutto migliaia di ettari di bosco, devastato campagne, ucciso persone e animali? Dov’erano e dove sono tanti magistrati calabresi, quando si costruisce abusivamente, si elevano case in zone franose, si deturpano le coste, si piantano pale eoliche tra gli uliveti, si fa a pezzi un paesaggio che un tempo era uno dei più selvaggi e suggestivi della Penisola? E dunque una parola di verità bisogna pur dirla.
Se il territorio di questa regione è oggi uno dei più sfigurati d’Italia, una responsabilità non piccola è addebitabile all’inerzia della sua magistratura, alla sua insensibilità civile, alla sua modesta cultura. È da qui, solo da questo capovolgimento assurdo dei valori, che è potuta venire l’enormità dell’arresto di Mimmo Lucano.
Effimera, 5 ottobre 2018. Critica ben argomentata alle principali manovre di politica economica e le misure adottate per finanziarle: dall'incostituzionalità della condizionalità del reddito di cittadinanza, alla riduzione delle tasse a favore dei più ricchi. (i.b.)
A una setttimana dalla riunione del Consiglio dei Ministri che ha definito i primi contenuti del Documento di Economa e Finanza (DEF) per il 2019 e dopo giorni di discussione sul come ripartire le risorse e dove trovare modo di finanziare le varie misure, solo oggi (5 ottobre 2018), a una settimana dal termine ultimo per la presentazione del Def (28 settembre), sembrano essere disponibili i numeri che dovrebbero rendere attuative e concrete le proposte di politica economica declamate. Sulla base delle dichiarazioni e dei documenti esistenti, la manovra 2019 dovrebbe valere (il condizionale è d’obbligo) 33,5 miliardi, di cui 27,2 reperiti tramite indebitamento (il rapporto deficit/PIL passa dall’1,6% al 2,4% nel 2019, per poi scendere al 2,1% nel 2020 e all’1,8% nel 2021, contrariamente a quanto in inizialmente deliberato). Al netto dei 12,5 miliardi per sterilizzare l’aumento dell’Iva al 24% (clausola capestro ereditata dal governo Monti, senza che nessuno, destra e sinistra, dicesse alcunché… ), il governo dovrebbe avere a disposizione circa 21 miliardi.
Al netto delle spese improrogabili (per la gestione corrente delle funzioni statali), e, notizia dell’ultima ora, al netto di circa 1 miliardo per l’assunzione di circa 1000 nuovi poliziotti (la repressione non sottostà a vincoli di bilancio!), ne rimangono circa 18-19. Tale somma dovrebbe distribuirsi (il condizionale è d’obbligo) nel seguente modo: 6,5 miliardi per il cosiddetto reddito di cittadinanza; 1 miliardo per la riforma dei centro per l’impiego; 1,5 miliardi per portare le pensioni minime a 780 euro mensili, per un totale di 9 miliardi; 7 miliardi per il superamento della riforma Fornero (che dovrebbe interessare tra le 400.000 e le 500.000 persone, a seconda di come la quota 100 viene calcolata); 2 miliardi per l’unica aliquota del 15% a circa un milione di partite Iva per poi estenderla alle imprese (che hanno già beneficiato di ingenti sgravi fiscali sulla decontribuzione, sugli investimenti e sui profitti); 1 miliardo (e non 1,5 come inizialmente dichiarato) per il rimborso dei truffati dalle banche.
Sul lato delle entrate, si propone la cosiddetta “pace fiscale”, ovvero la possibilità di saldare il debito con l’erario su redditi già dichiarati al netto delle sovrattasse e degli interessi fino a un limite massimo che dovrebbe aggirarsi sui 500.000 euro, tetto non ancora stabilito,
Esamineremo queste misure una alla volta, in modo il più possibile semplice (e speriamo chiaro) cercando di mettere in luce gli aspetti positivi (pochi) e quelli negativi (tanti).
Ma prima di ciò, credo sia necessario riconoscere che, per la prima volta dopo tanti anni, questo non è un DEF improntato all’austerità, fondato su tagli della domanda e sussidi esclusivamente alle imprese. La reazione della troika e dell’oligarchia finanziaria lo confermano. Misure come l’abbassamento dell’età pensionabile, o il portare le pensioni minime a 780 euro (se viene confermato) insieme a misure di contrasto più decisivo alla povertà (seppur parziali e fortemente condizionate), rappresentano provvedimenti che, piaccia o non piaccia, dovrebbero entrare in un’agenda di politica economica di sinistra. Purtroppo dobbiamo rilevare che tali provvedimenti sono caratterizzati da una incertezza, confusione, e mancanza di trasparenza che ne minano la potenziale efficacia (ammesso che esista). Il balletto sulle cifre degli effetti sulla crescita del Pil è imbarazzante. Il governo spara incrementi del 1,6% del Pil, conditio sine qua non per rendere sostenibile la manovra ma tale stima appare, come minimo, esagerata.
Certo, tali misure - come vedremo - sono parziali, nascondono alcuni trucchi e sono poi negativamente compensate da interventi sul piano fiscale del tutto reazionari e conservatori, a partire dalla proposta di flat-tax e della pace fiscale (invece che l’iniezione nel sistema fiscale di maggior progressività e l’introduzione di una tassa sui grandi patrimoni). Ma al momento attuale, il 15% di unica aliquota fiscale dovrebbe essere applicata solo alle partite Iva che hanno un giro d’affari non superiore ai 65.000 euro di imponibile annuo e la pace fiscale non ha nulla a che fare con un condono fiscale a vantaggio di chi ha dichiarato il falso o non ha dichiarato nulla ma solo con coloro che sono in ritardo nei pagamenti tributari. Si tratta di provvedimenti che strizzano l’occhio ai bacini elettorali dei due partiti di governo, sulla base di strategie che possiamo grossolanamente definire, “un colpo al cerchio, un colpo alla botte”.
Il superamento (parziale) della legge Fornero farà piacere a un numero assai limitato di pensionati che sono geograficamente localizzati prevalentemente nel Nord del paese, a maggior trazione leghista e lo stesso può valere per la flat-tax sull’Iva. Al contrario, il reddito e la pensione di cittadinanza verranno accolte con maggior favore dalla popolazione del Meridione, che nelle ultime elezioni ha votato a maggioranza per i 5Stelle.
Sta di fatto, che ancora una volta, il campo che – a torto – si definisce progressista si è fatto scippare temi che dovrebbero essergli del tutto congeniali, confermando poca lucidità e dipendenza dai poteri economici.
Viene confermato l’ammontare di 780 euro a persona (pari alla soglia di povertà assoluta) che cresce al crescere dei componenti del nucleo familiare sulla base dei tabellari Istat. La misura si declina come l’integrazione di reddito necessaria per raggiungere tale soglia. Se si dovesse applicare tale provvedimento a tutti coloro che hanno un reddito inferiore a tale livello (si tratta di circa 5 milioni di persone che vivono in 778.000 famiglie), come è stato più volte calcolato anche in sede Istat, il costo complessivo risulterebbe superiore a 10 miliardi di euro. Le risorse si rivelano quindi insufficienti e per risolvere questo problema si sono introdotti dei limiti di accesso. Il primo - e il più odioso - è la discriminante di nazionalità: solo i cittadini italiani potranno avere accesso.
I residenti stranieri (comunitari e extracomunitari), anche qualora dovessero avere i requisiti, saranno esclusi. Dovrebbe essere palese l’incostituzionalità di un simile provvedimento. Il secondo limite è più sottile: si sta pensando a una doppia soglia di povertà per accedervi. Si controllerà sia il reddito che il patrimonio del contribuente e in tale calcolo si prenderà in considerazione - tramite indicatore Isee - anche la proprietà della casa di abitazione. In questo caso, la platea degli aventi diritto diminuirà drasticamente e con essa anche il vincolo delle risorse. Inoltre, tale erogazione di reddito è fortemente condizionato da obblighi di comportamento e di consumo (vietato acquistare televisori al plasma…). I 2 miliardi destinati al potenziamento dei Centri per l’Impiego (se vengono confermati) hanno così lo scopo di incrementare misure di controllo sociale dei comportamenti dei “poveri”, indirizzarli sulla retta via, obbligarli a fornire gratuitamente 8 ore di lavoro socialmente utili nel comune di residenza: in altre parole, fare da cerbero ai “fannulloni”, previa la revoca del sussidio.
È qui presente un vecchio retaggio culturale, classista e aristocratico, secondo il quale i cd “poveri” non sono in grado di essere autonomi nelle scelte di vita e di consumo ma abbiano bisogno di una guida morale (stabilita da chi? Da Di Maio, o peggio, da Salvini?) Come già ricordato su queste pagine, il parametro di riferimento, per un’effettiva liberazione dal ricatto economico, ovvero un “vero” provvedimento di reddito di base, dovrebbe essere far riferimento alla soglia di povertà relativa (che attanaglia circa 11 milioni di persone) e non a quella assoluta. Con questa misura si razionalizza e si valorizza (in termini di business) la governance della povertà, senza eliminarla: si tratta di una delle architravi del sistema di workfare: minima e insufficiente protezione sociale di ultima istanza (peraltro parziale) in cambio di coazione al lavoro. In assenza di qualsiasi misura di introduzione di un salario minimo orario su base orario (i lavoratori di Amazon hanno strappato in questi giorni un salario minimo di 15$ ora, cifra minima da estendere a tutte le fattispecie lavorative in Italia – dove non esiste! -, Usa, Europa, Sud America, Africa e Asia), un reddito insufficiente a uscire dalla povertà relativa e condizionato dall’obbligo di prestazioni lavorative gratuite e/o sottopagate non è altro che l’anticamera per sviluppare un business della povertà così come è stato creato con i migranti. Una biopolitica dell’accumulazione sulla pelle di chi ha bisogno ed si trova nella condizione del massimo ricatto,
Ben altro approccio sarebbe necessario, a partire dalla comprensione che un reddito di base è strumento di cambiamento e progresso sociale solo se viene considerato come reddito primario e quindi erogato in modo incondizionato e a un livello come minimo pari alla soglia di povertà relativa, in forma individuale, e accompagnato dall’introduzione di un salario minimo legale.
È il provvedimento che pone maggiori problemi nel determinare il livello di costo. L’unica certezza è la quota 100 come limite minimo, ovvero la somma tra l’età pensionabile e gli anni di contributi. Al fine di incidere meno sulla casse dell’Inps, vi è la proposta di fissare come limite minimo di contribuzioni 38 anni. Il che significa che la minima età per andare in pensione è di 62 anni, rispetto agli attuali 67 anni. Ma chi ne può usufruire, riceve una decurtazione dell’assegno pensionistico pari al numero degli anni di riduzione. Cinque anni di mancati contributi, possono anche significare una riduzione della pensione del 15-20% rispetto a quella che si avrebbe andando in pensione a 67 anni.
Per una pensione a 67 anni stimata in 1.500 euro mensili, il pensionamento a 62 può significare un assegno di 1200 euro. Ne consegue che potranno beneficiarne di più solo i percettori di pensioni più ricche. Da qui il problema della quantificazione del costo del provvedimento. Si parla di circa 450.000 lavoratori/trici interessati, ma non c’è alcuna ragionevole certezza al riguardo. È invece più certo il fatto che, anche ipotizzando l’andata in pensione di un tal numero di lavoratori/trici, ciò non si traduce automaticamente in un pari aumento di opportunità di lavoro per i più giovani. Sulla base delle caratteristiche del nostro sistema produttivo, caratterizzato da un’elevata quota di piccole imprese, è noto che il turn-over lavorativo sia sempre inferiore al 100%. Ne consegue che saranno le imprese ad avvantaggiarsi di più: non venendo sostituito il pensionato/a, si risparmia sul numero degli addetti e, anche se venisse assunto un/a giovane, la tipologia contrattuale con il quale rimpiazzarlo (leggi precarietà) consentirebbe una riduzione del costo del lavoro.
Riguardo invece la pensione di cittadinanza, non si può che valutare positivamente questo provvedimento, anche alla luce della constatazione che l’Italia ha un livello medio della pensione tra le più basse d’Europa. Occorre tuttavia ricordare che un provvedimento simile era stato deciso dal governo Tsipras e che proprio tale provvedimento, di natura sociale, era stato il bersaglio della troika economica. Vedremo quel che succederà in Italia.
Una delle critiche più ricorrenti al DEF è la mancanza di una politica strutturale di investimento. Di fatto, gli unici provvedimenti concreti sembrano essere l’accelerazione delle pratiche e lo sblocco per l’inizio dei lavori di opere già precedentemente finanziate, tra le quali anche alcune grandi opere “contestate” (vedi TAP). Al riguardo occorre però domandarsi quali siano oggi gli investimenti di medio-lungo periodo che possono essere più produttivi e consentire una maggior crescita del PIL con l’obiettivo di incidere positivamente sulla riduzione del rapporto Debito/PIL. Nel contesto attuale della valorizzazione capitalistica, essi riguardano principalmente due direttrici: la manutenzione dell’ambiente e la manutenzione della vita umana. Sul primo fronte, nulla di nuovo, solo chiacchiere ma pochi fatti.
Sul secondo, i settori del welfare sono quelli che oggi sono più produttivi. Salute, apprendimento, conoscenza, tempo libero, attività culturali, rappresentano fonti di valorizzazione: nel pensiero economico mainstream, si parlerebbe di “capitale umano”. L’investimento in capitale umano è forse oggi quello più valorizzante, anche se immediatamente meno appariscente. E sono due le condizioni perché possa essere tale: ridurre la precarietà e garantire la continuità di reddito.
Se volessimo immaginare una politica economica di sinistra, dovremmo immaginare la trasformazione della precarietà attuale in flessibilità attiva, il che significa, oltre alla garanzia di un reddito minimo incondizionato, l’acceso ai beni comuni immateriali, alla mobilità, alla formazione, alla socializzazione, all’abitazione e alla salute: in altre parole, dovremmo immaginare un welfare del comune (Commonfare). È chiaro che questa prospettiva è distante anni luce dalla cultura lavorista e sviluppista che anima buona parte del fronte cosiddetto progressista e sindacale e che vuole giustificare questo DEF (crescita stimata all’1,6%). Ma è altrettanto distante dalle misure del DEF, che, pur contemplando misure di trasferimento che rappresentano un cambiamento rispetto alle politiche d’austerity, alla fine risultano inadeguate ed eccessivamente condizionate da un’etica lavorista, repressiva e di controllo.
Possiamo facilmente immaginare che la sola idea di non aver ottemperato al paletto del rapporto deficit/PIL dell’1,6% per il solo anno 2019 (ma chi lo ha deciso?) possa essere considerato una blasfemia da alcuni – i fautori del rigorismo del centro-sinistra – e con preoccupazione (ma anche come opportunità) dai mercati finanziari, per scatenare i loro appetiti speculativi. Vogliamo però ricordare che, a tutt’oggi, il limite invalicabile del rapporto deficit/PIL fittiziamente deciso dal Patto di Stabilità di Amsterdam è il 3% e che alcuni paesi (Francia in primis) lo hanno disatteso per alcuni periodi. È un rapporto di potere. Ed è grave che in questo potenziale conflitto, l’espressione politica della cd “sinistra” sia assente, se non per le sue frange populiste e sovraniste.
In vista delle prossime elezione europee, si muovono opportunisti di breve periodo e meschinità di vario genere. Alla speculazione finanziaria si aggiunge la speculazione politica. La prima è agita dall’oligarchia finanziaria (che è un “vero” potere), la seconda dall’ideologia sovranista-nazionalista, che non ha un “vero potere”, dal momento che, senza rendersi conto, svolge un ruolo ancillare all’attuale gerarchia del capitalismo finanziario. Detto in modo brusco: un ruolo da “utile idiota”.
In vista delle elezioni europee del prossimo anno, diventa urgente una domanda: a quando la discussione sulla costruzione di una forza politica europea che sia in grado di misurarsi con l’attuale sfida di una valorizzazione capitalistica che sull’austerity, sulla coazione al lavoro, sull’espropriazione del general intellect e dei beni comuni naturali, sulla condizione precaria generalizzata fa leva per estrarre plusvalore finanziario, aizzando, non a caso, vari populismi? Quando saremo in grado di imbastire una piattaforma propositiva che abbia, come primo obiettivo, l’autodeterminazione della persona, un welfare del comune, un reddito primario e quindi incondizionato, condizioni di lavoro e ambientali (le due cose vanno di pari passo) sostenibili, il rispetto delle differenze di genere e di razza, la libera circolazione degli esseri umani, cultura, formazione, informazione e accesso alla conoscenza scevra da ostacoli, obblighi e condizionamenti?
il manifesto,
Per chi ha conosciuto Domenico Lucano fin dal 1998, ha visto gli sforzi fatti da lui e dai giovani volontari dell’associazione “Città futura”, ha toccato con mano la sua grande umanità, la sua totale dedizione alla causa, la sua trasparenza e onestà. Non si può accettare che nella Locride dove impera la borghesia criminale una persona come il sindaco di Riace possa finire agli arresti domiciliari per aver promosso matrimoni tra italiani e stranieri o per aver affidato a una cooperativa sociale la raccolta differenziata con il mulo!
Per chi ha visto un paese abitato da pochi anziani, senza una scuola, un bar, un luogo dove riunirsi, un paese triste e moribondo, rinascere passo dopo passo anche grazie alla solidarietà di tante associazioni, singoli cittadini, gruppi di volontariato, non può accettare la fine di questo sogno divenuto realtà. Perché Riace è ormai un simbolo vivente di come si possa rovesciare l’approccio al fenomeno migratorio, di come sia possibile non solo la convivenza pacifica (in vent’anni non c’è stato un reato rilevante o un conflitto tra la popolazione locale e i rifugiati), ma la resurrezione di un paese moribondo grazie al lavoro, all’energia e la volontà dei giovani migranti.
Al di là del valore umano di Domenico Lucano, della sua opera instancabile, del suo carisma, Riace rappresenta un miracolo sociale: dalla iniziale sinergia tra una Ong (il Cric) , Banca Etica, la comunità anarchica di Longo Mai, al commercio equo, all’associazione per la pace, al turismo solidale praticato da tanti, italiani e stranieri, all’opera determinante di collante nazionale svolta da ReCoSol (la Rete dei Comuni Solidali), ad artisti e giornalisti, in tanti hanno dato un contributo convinto perché hanno visto che “un altro mondo è concretamente possibile”. L’ha visto un grande regista come Wim Wenders che nel ventennale della caduta del muro di Berlino ha dichiarato di fronte a dieci Nobel per la pace che “la civiltà e il futuro dell’umanità passano da luoghi come Riace, in Calabria”.
L’hanno imitato in tanti il modello Riace: da Sant’Alessio in Aspromonte a Acquaformosa, da Calanna a Gioiosa Jonica, ci sono decine di sindaci e amministrazioni locali, non solo in Calabria, che in questi anni hanno seguito l’esempio di Riace e hanno visto progressivamente rinascere i loro Comuni abbandonati.
Ed è questa la strada che bisogna seguire per la rinascita del nostro paese. Quasi tutto l’Appennino è ormai in via di desertificazione, di abbandono di terre e un grande patrimonio abitativo che va in malora, un abbandono che si traduce in frane, incendi, alluvioni, proprio nel tempo in cui c’è bisogno sempre più di terre coltivabili, non inquinate, per una produzione alimentare di qualità. Per questo abbiamo assoluto bisogno dei migranti, e dovremmo ringraziarli se ancora abbiamo una pastorizia, o produciamo il famoso parmigiano reggiano o il prosciutto di Parma. Ma, dobbiamo lottare e impegnarci per toglierli dalla condizione di semischiavitù in cui versano nella piana di Rosarno come a Foggia, per restituirgli quella dignità di essere umani che non ci faccia vergognare di essere italiani.
Per tutto questo l’attuale governo, senza se e senza ma (ma i 5S…) che punta a chiudere gli Sprar, a mandare a casa 40.000 giovani italiani che lavoravano a fianco dei migranti nei centri di seconda accoglienza, che mira a trasformare in clandestini e marginali la maggioranza di coloro che sono arrivati in Italia negli ultimi anni, deve essere combattuto senza paura. La reazione, forte e convinta, di una moltitudine all’arresto del sindaco di Riace ci dice che c’è ancora una parte del nostro paese che non si è arresa alla disumanità, che non è caduta nella globalizzazione dell’indifferenza, come l’ha definita il “compagno” Francesco.
the submarine
Attraversare il mar Mediterraneo non è mai stato così mortale: in questa giornata istituita dallo Stato, è fondamentale ricordare che questa situazione non è normale — e la colpa è del nostro paese.
Due anni dopo l’istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione — che cade il 3 ottobre, il giorno della strage di Lampedusa nel 2013 — il mar Mediterraneo non è mai stato così pericoloso.
I dati di UNHCR descrivono le condizioni dell’attraversamento del Mediterraneo il 30,6% più mortali della media, mentre un rapporto dell’ISPI pubblicato pochi giorni fa documenta un record del numero dei morti a settembre e negli ultimi quattro mesi — il 20% di chi è partito dalle coste della Libia o della Tunisia per raggiungere il nostro paese risulta morto o disperso.
È questa la realtà che si nasconde dietro lo sbandierato “calo degli sbarchi” — diminuiti circa dell’80% in un anno, senza che questo sia servito a neutralizzare la retorica dell’invasione — ed è una realtà molto parziale: non solo perché l’assenza delle navi delle Ong nel Mediterraneo centrale significa che non ci sono osservatori indipendenti e imparziali che possano documentare cosa succede in quel tratto di mare, ma anche perché la linea adottata dai governi europei per arginare il flusso migratorio — esternalizzare la frontiera in Africa — si traduce in altre violenze e in altre morti (nei lager libici o nel deserto) lontane dai nostri occhi e dalle nostre statistiche.
Cosa sia successo lo sappiamo: i governi centristi di Germania, Francia e Italia, che avevano cercato di mantenere politiche nell’ambito della decenza nella gestione del fenomeno migratorio dal 2014 al 2015 — anche se sempre in un’ottica emergenziale e insostenibile sul lungo periodo — hanno ceduto alle pressioni interne che li hanno portati a sdoganare politiche retrograde precedentemente relegate ai partiti di estrema destra. In un effetto valanga, il Partito socialista francese si è estinto, il Partito democratico italiano è in corso di estinzione, Merkel mantiene la leadership del CDU quasi per coincidenza.
L’Italia è passata dal senso di colpa — e dell’orrore — costruttivo che aveva portato all’istituzione della giornata del 3 ottobre, al paese che si è preso carico di ripulire il mar Mediterraneo dalle navi delle Ong, e, indirettamente, di aumentare la probabilità di morte in mare per le persone che ricordiamo oggi.
O che dovremmo ricordare: oggi a Lampedusa, dove si terrà una marcia di commemorazione, non sarà presente nessun rappresentante delle istituzioni. E non ci saranno nemmeno gli studenti che hanno partecipato al progetto “Porte d’Europa,” perché il Ministero dell’Istruzione ha tolto il proprio sostegno all’iniziativa.
“In questo momento non c’è nessuna operazione civile di salvataggio attiva nel Mediterraneo,” ci spiega al telefono Ruben Neugebauer dell’Ong tedesca Sea Watch. La nave di cui fa parte — Sea Watch 3 — è bloccata a Malta, e attualmente la Ong riesce a sorvegliare il mare solo con la propria missione aerea.
“Anche le navi delle flotte europee e la Guardia costiera italiana latitano: rimangono operative nelle acque solo le milizie libiche, che non possono essere considerate responsabili di azioni di salvataggio,” continua Neugebauer. “Sempre più navi mercantili rifiutano di aiutare barche in difficoltà. La missione aerea di Sea–Watch ha osservato più volte casi di navi mercantili che, dopo aver ricevuto da parte loro segnalazioni di barche in difficoltà o chiamate di soccorso, hanno preferito ignorarle e cambiare direzione. Temono che a seguito del loro intervento si ripropongano situazioni come quella della Diciotti, dove prima di avere i permessi per lo sbarco delle persone raccolte si è trascinato per giorni e giorni. In questo momento far sbarcare i naufraghi è diventata un’operazione complicata ed incerta, e i capitani delle navi mercantili non considerano più loro compito gestire la situazione.”
Paradossalmente, la stretta contro le navi umanitarie ha riportato la rotta migratoria più pericolosa del mondo allo status precedente all’istituzione di Mare nostrum, cioè allo status che ha reso possibile la strage di Lampedusa del 2013: in assenza delle Ong, i migranti cercano di raggiungere direttamente le nostre coste, affrontando un viaggio più lungo e pericoloso a bordo di imbarcazioni fatiscenti.
“Qualsiasi miglioramento non sarà all’orizzonte, a meno che i governi europei non decriminalizzino il salvataggio in mare, uno scenario in questo momento completamente slegato dalla realtà politica del continente” — che anzi, dalla Francia di Cédric Herrou all’Italia di Mimmo Lucano, sta andando verso una progressiva istituzionalizzazione del “reato di solidarietà” non solo in mezzo al mare, ma anche sulla terraferma. “Ciononostante, le persone non smetteranno mai di provare a intraprendere questo viaggio: la situazione in Libia sta peggiorando e le persone continueranno a scappare da violenza e combattimenti,” conclude Neugebauer.
È importante ripeterlo: la presenza di navi umanitarie per salvare i migranti nel Mediterraneo non è una situazione auspicabile — è l’extrema ratio per sopperire a una grave mancanza politica e arginare, perlomeno, lo sterminio in atto. La situazione auspicabile, che tutte le sinistre europee dovrebbero chiedere a gran voce, è la presenza di vie legali e sicure per i migranti africani, che non dovrebbero essere costretti a rischiare la vita — con o senza le Ong o le missioni militari — per raggiungere l’Europa. Rivendicare “accoglienza” è una battaglia di retroguardia: bisogna rivendicare libertà di movimento e diritti per tutti, a prescindere dal colore della pelle e dal paese di provenienza.
(Erica Farina ha contribuito alla stesura di questo articolo)