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Roberto Camagni
Discutiamo sul debito pubblico
19 Febbraio 2017
Critica
Un commento di Roberto Camagni e un intervento di Edoardo Salzano a proposito di un manifesto del "Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi". Il dibattito è aperto su una questione sulla quale esistono posizioni diverse, tra le quali il confronto è necessario.

Un commento di Roberto Camagni e un intervento di Edoardo Salzano a proposito di un manifesto del "Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi". Il dibattito è aperto su una questione sulla quale esistono posizioni diverse, tra le quali il confronto è necessario.

VERITÀ E GIUSTIZIA
SUL DEBITO PUBBLICO ITALIANO
di CADTM.

(manifesto di invito all'Assemblea nazionale del CADTM - Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi, Italia)

Il mondo in cui viviamo è sempre più ingiusto.

La forbice tra i pochi che possiedono tutto e la gran parte delle popolazioni che non hanno nulla, in questi ultimi trenta anni si è allargata a dismisura.

Nel capitalismo basato sulla finanza, l’economia contemporanea si è trasformata da attività di produzione di beni e servizi in economia fondata sul debito.

La liberalizzazione dei movimenti di capitale, la privatizzazione dei sistemi bancari e finanziari, i vincoli monetaristi che permeano l’azione dell’Unione Europea hanno progressivamente reso autonome le attività e gi interessi finanziari, che ora investono non più solo l’economia, ma l’intera società, la natura e la vita stessa delle persone.

Le scelte adottate dalle élite politico-economiche dell’Unione Europea e dei governi nazionali per rispondere alla crisi scoppiata dal 2008 in avanti, hanno trasformato una crisi - che a tutti gli effetti è sistemica - in crisi del debito pubblico.

Da allora, il debito pubblico è agitato su scala internazionale, nazionale e locale, come emergenza allo scopo di far accettare come inevitabili le politiche liberiste di alienazione del patrimonio pubblico, mercificazione dei beni comuni, privatizzazione dei servizi pubblici, sottrazione di diritti e di democrazia.

Oggi la trappola del debito pubblico mina direttamente la sovranità dei popoli, la giustizia sociale e l’eguaglianza fra le persone, così come perpetua lo sfruttamento della natura, con conseguente inarrestabile cambiamento climatico.

Già i paesi del Sud del mondo, a partire dagli anni '70, erano stati testimoni di questo circolo vizioso dell'indebitamento e delle politiche di aggiustamento strutturale imposte dalle istituzioni finanziarie internazionali con conseguenze devastanti in termini economici e sociali. Ci sembra dunque fondamentale, nel momento in cui la spirale è approdata al continente europeo, imparare dagli errori del passato.

Anche nel nostro Paese, il debito pubblico è da tempo utilizzato per ridurre i diritti sociali e del lavoro e per consegnare alle oligarchie finanziarie i beni comuni e la ricchezza sociale prodotta.

Un solo esempio basti a dimostrarlo: mentre per il sostegno alle popolazioni dell’Italia centrale duramente colpite in pochi mesi da due terremoti si stanziano 600 milioni dei 4,5 miliardi necessari, per risollevare 6 banche in fallimento si mettono immediatamente a disposizioni 20 miliardi di garanzie statali, da caricare sul debito pubblico del Paese. Mentre, per ogni evenienza, viene utilizzato lo spauracchio dell'aumento dello “spread” per rilanciare politiche di austerità e privatizzazioni.

Occorre invertire la rotta. Occorre comprendere, elaborare e spiegare il fenomeno debito per creare azioni che rivoluzionino l’attuale sistema delle diseguaglianze.

Occorre un’operazione di verità sul debito pubblico italiano, per conoscere come e per quali interessi è stato prodotto, quanta parte ne è illegittima, odiosa, illegale o insostenibile.

Occorre un’operazione di giustizia sul debito pubblico italiano: in un Paese in cui quasi la metà della popolazione fatica ad arrivare alla fine del mese e una famiglia su quattro non riesce ad affrontare le spese mediche, non si può più accettare che le banche e i profitti valgano più delle nostre vite e dei nostri diritti.

A questo scopo, Cadtm Italia (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi), affiliato al network internazionale dei Cadtm (Tunisi, Aprile 2016), rete inclusiva di persone, comitati, associazioni ed organizzazioni sociali, prosecuzione strutturata e mirata dell’esperienza del Forum Nuova Finanza Pubblica e Sociale e sintesi operativa dei bisogni emersi dall’Assemblea-Convegno sugli audit locali (Livorno, Gennaio 2016) e dal Convegno “Dal G8 di Genova alla Laudato si’: il Giubileo del debito?” del 19 luglio scorso

PRENDERSELA COL DEBITO?
ERRATO E POLITICAMENTE SCORRETTO
di Roberto Camagni

Prendersela col debito pubblico, come si fa nell’iniziativa “Verità e giustizia sul debito pubblico italiano”, suggerendo che sia possibile “uscire dalla trappola” che esso rappresenta per il paese e che occorra impegnarsi per “il ripudio del debito illegittimo”, mi pare operazione errata economicamente e politicamente scorretta.

Il mostruoso debito pubblico attuale - accumulato attraverso i deficit del bilancio dello stato presentati annualmente da quasi cinquant’anni e il relativo costo per interessi da pagare – rappresenta oggi una massa indistinta di titoli detenuta da chi ha prestato soldi al nostro paese, e cioè famiglie, banche e oggi anche la Banca Centrale Europea. Sottolineo l’aggettivo "indistinta", perché il debito è costituito da un impegno a restituire i fondi indipendentemente dalle ragioni che hanno spinto il paese a sforare ogni anno il suo bilancio pubblico. E non potrebbe che essere così: è impossibile determinare se il deficit di un anno è dovuto ai salari pubblici (magari in parte pagati per assunzioni di amici), welfare (magari generoso e di manica larga sulle pensioni come si faceva una volta, baby-pensionati ad esempio), opere pubbliche (magari inutili) o corruzione.

Dunque si deve ipotizzare che prima o poi il debito deva essere pagato; altrimenti, come è accaduto per la Grecia, i creditori chiederebbero tassi di interesse crescenti per detenere i nostri bot e il meccanismo diverrebbe catastrofico (e pagare i dipendenti pubblici diverrebbe impossibile). Vogliamo seguire la vecchia strada dell’Argentina in questo senso?

E’ bensì vero che in alcuni casi, per piccoli paesi poveri, il debito, detenuto da paesi avanzati o da grandi imprese, è stato condonato. Ma comunque ciò ha avuto un costo per i creditori, e si è trattato, ripeto, di paesi poveri. E non si tratta di 2.200 miliardi di debiti di un paese ‘ricco’ come l’Italia.

Le motivazioni politiche addotte per sostenere la tesi del ripudio mi sembrano confuse. Si imputa la insostenibilità al capitalismo finanziario odierno, quando il grosso del nostro debito originario è stato creato prima degli anni ’90, e negli ultimi 15 anni abbiamo solo verificato, con l’aumento degli spread, quanto fosse pericolosa la trappola che ci siamo costruiti noi.

Il costo per finanziare questo debito pubblico (spesa per interessi) non è mai stato così basso come oggi. Nel novembre scorso il tasso mediamente pagato è sceso allo 0,5%, e l’OCSE stima un risparmio complessivo per interessi nel triennio 2015-17 pari al 2,2% del PIL. Ciò è dovuto all’euro, alla discesa dell’inflazione e alle politiche di Draghi: quando ha stroncato la speculazione finanziaria nel settembre 2012 con un semplice annuncio (“pronti a fare tutto il necessario”); quando ha avviato una politica monetaria espansiva (il quantitative easing) ed è riuscito a far acquistare dalla BCE quote importanti del nostro debito, contro la posizione della Germania e dei paesi nordici. L’azione della BCE ha, almeno fin qui, evitato proprio quello che si afferma nel motivare l’iniziativa, cioè “di trasformare una crisi sistemica in una crisi del debito pubblico”.

Se gli obiettivi che si intravedono dietro questa iniziativa sono condivisibili – le politiche di austerità imposte dall’Unione Europea a trazione tedesca, le scelte di politica economica del paese – il bersaglio è sbagliato. E trasmettere il messaggio che il problema sia quello della trappola del debito, che “mina direttamente la sovranità dei popoli, la giustizia sociale e l’uguaglianza delle persone” (oltre che “lo sfruttamento della natura e il cambiamento climatico”) mi pare metodo politicamente scorretto, pericolosamente simile a quello dei populismi di destra e pentastellati, che aggiungono, implicita nella sovranità dei popoli, la sovranità monetaria. Prima di accorgersi dell’errore politico, qualche frangia della politica e della cultura di sinistra si è trastullata nel recente passato con l’idea dell’uscita dall’euro (per la Grecia, per vedere l’effetto che fa, ed eventualmente per l’Italia), come ho stigmatizzato nel mio articolo su eddyburg.it del 19 luglio 2015 “La grandezza di Tsipras e i vaniloqui di certa sinistra”. Non commettiamo lo stesso errore col debito pubblico.

Piuttosto riflettiamo su tre grandi temi sui quali oggi aprire un’azione politica vera ed efficace:
1) quali strategie di politica economica possiamo cercare di imporre all’EU, con i paesi del sud Europa, per allentare la morsa di una socialmente costosa ed economicamente inutile austerità;
2) come realizzare un programma di politica economica basato sul rilancio degli investimenti, pubblici e privati, che costituiscono l’unico modo per uscire nel medio termine dalla “trappola” del debito, anche appoggiando l’idea degli European Safe Bonds, oggi timidamente studiata dalla UE;
3) come rispondere attraverso decise politiche redistributive ai costi sociali della crisi, anche predisponendo uno strumento forte di tassazione patrimoniale una tantum, come proposto da tempo da alcuni economisti: l’unico strumento utilizzabile e concreto per ridurre a breve termine il peso del debito pubblico.

UNA DIVERSA VISIONE
DELLA QUESTIONE DEL DEBITO PUBBLICO
di Edoardo Salzano

La lettura del commento di Roberto Camagni al manifesto del "Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi" mi fa comprendere, e di questo lo ringrazio, quanto siano fuorvianti la sparate demagogiche del tipo: “il debito pubblico è ingiusto, cancelliamolo”, ma non mi aiuta a vedere il nocciolo di verità che c’è in esso. In particolare, essa contrasta con tutto ciò che avevo appreso nel decennio trascorso a proposito della crisi del 2007, delle sue cause e dei suoi autori. nonché della svolta avvenuta dopo il lungo lavorio svolto dalla Trilateral Commission (1943) e dalla Mont Pèlerin Society (1947).

Avevo appreso che la crisi di oggi è la crisi dell’età del capitalismo finanziario, nata con la liberalizzazione dei movimenti di capitali e l’ascesa della finanza. Un modello che - come hanno scritto Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini - ha rotto il compromesso tra capitalismo e democrazia e messo nell’angolo la politica. Avevo appreso come, si fossero create le condizioni per spingere il capitalismo «a rompere il compromesso storico con la democrazia determinando l’involuzione del sistema economico verso le forme più rozze rappresentate […] dalla capacità di sfiduciare i governi che perseguivano politiche economiche non gradite». mutazione fondamentale di natura essenzialmente finanziaria che dà origine alla crisi attuale»[1].

Del resto, l’abdicazione della politica dei governi a quella voluta dai grandi gruppi finanziari si era rivelata in Italia in modo emblematico con la vicenda della tentata sostituzione della Costituzione del 1948. Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, non ha mai smentito di aver sollecitato il governo Renzi a quella iniziativa (bocciata dagli elettori il 4 dicembre 2016) proprio per adempiere al diktat della JP Morgan Chase (meno diritti per il lavoro, meno spazio per la democrazia) [2]

Tornando alla questione del debito pubblico, esso diventa un problema politico e sociale a causa di una decisione del parlamento italiano; questo ha approvato, nel luglio 2016, il patto fiscale (Fiscal Compact) che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Questa decisione comporterà per l’Italia, ha scritto Luciano Gallino, «una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032.Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà»[3].

Dagli scritti di Luciano Gallino avevo appreso anche che, proprio a causa di quel capovolgimento del sistema dei poteri da lui denominato Finanzcapitalismo, il sistema bancario era divenuto qualcosa di molto diverso da quello che era ai tempi di Raffaele Mattioli e di Enrico Cuccia. Secondo l’analisi di Gallino in molti casi non si tratta di banche ma di «conglomerati finanziari formati da centinaia di società, gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l’esatto ammontare né il rischio di insolvenza». Ciò avviene, prosegue Gallino perché «esse hanno creato, con l’aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore. Questo nuovo soggetto sociale e politico (oltre che economico) è formato da varie entità che operano come banche senza esserlo: fondi monetari, speculativi, di investimento, immobiliari».

Quando parliamo di sistema bancario parliamo insomma di una realtà molto diversa da quella dallo sportello a cui l’operaio o il pensionato o la casalinga affidano i loro risparmi. Parliamo di un soggetto che è fallito, o corre il rischio di fallire, perché ha fatto operazioni speculative sbagliate, o addirittura criminose. È questo il soggetto cui dovremmo rimborsare i soldi che per sua colpa ha perso.

È riformabile una realtà siffatta? Io credo di no. Il vero problema di fronte al quale ci troviamo quando parliamo del debito pubblico non è allora quello di domandarsi come rimborsarlo o come alleggerirlo, ma è quello – certamente più complesso e difficile – di come rovesciare il sistema di potere che lo ha prodotto. Uscire, insomma, non solo da questa nuova incarnazione del capitalismo ma dallo stesso sistema di idee, di valori, di principi, di pratiche, di modi di vita che va sotto il nome di capitalismo.

È probabile che io sia particolarmente ricettivo nei confronti delle analisi più radicali dell’evoluzione del capitalismo emerse in questo secolo perché avevo avuto la fortuna, grazie ai miei maestri Franco Rodano e Claudio Napoleoni, di intravedere ciò che stava avvenendo. Si trattava degli anni in cui la nuova forma del proteiforme capitalismo aveva cominciato a manifestarsi in quella che Gailbraith battezzò The Affluent Society (1958). Lo testimonia il mio libro Urbanistica e società opulenta (1969). Devo dire che, a partire da quegli anni, sono convinto - a differenza di molti miei amici - che il sistema capitalistico non sia emendabile, né nella sua versione privatistica, che ha dominato nel mondo Nordatlantico, né in quella statalistica, sperimentata in quello sovietico.



[1] GiorgioRuffolo e Stefano Sylos Labini, “La deriva del capitalismo”, la Repubblica,22 settembre 2012
[2] VediSalvatore Settis, “La riforma ricalca quella di Berlusconi”, la Repubblica, 4 ottobre 2016
[3] LucianoGallino, “Sulla crisi pesano i debiti delle banche”, la Repubblica, 30 lugio 2012

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