Schema della lezione
1. Un lessico di guerra - assedio, tradimento, cattura, saccheggio, distruzione - si addice allo spazio pubblico, bersaglio e bottino di grandi campagne di conquista da parte di potenti alleanze (partnerships), alla quali si è opposta una scarsa e poco armata resistenza.
L’impiego di termini bellici, e lo spostamento del punto di vista che deriva dal mettere a fuoco lo spazio pubblico come obiettivo di guerra, suggerisce l’urgenza di una ricognizione dei danni e delle vittime e della realistica valutazione delle possibilità di porvi rimedio (riconquista, ricostruzione).
Induce a riflettere sul fatto che la riconquista dello spazio pubblico, e in genere dei beni comuni, è un’operazione difficile e che può essere intrapresa solo se si verificano alcune precondizioni, cioè se tale spazio esiste ancora, se la comunità alla quale è stato sottratto è consapevole di essere stata saccheggiata e intende ingaggiare una lotta per reimpadronirsene, se tale comunità dispone delle forze e delle armi necessarie all’impresa.
In molti casi la risposta a questi tre quesiti è negativa. Innanzitutto, lo spazio pubblico ha subito trasformazioni fisiche e giuridiche difficilmente reversibili. Se era inedificato è stato riempito di manufatti, ed in ogni caso vi si sono indirizzati investimenti che ne hanno mutato il valore di mercato. Ma ancor più negative, a mio parere, sono le prospettive di riconquista, se si esamina l’atteggiamento delle comunità che, attraverso i loro rappresentanti eletti, non solo non si sono opposte, ma hanno incoraggiato e apprezzato la cessione dello spazio pubblico.
2. Chi vince la battaglia dell’informazione vince la guerra, sostengono gli analisti militari, ed in effetti le ben orchestrate campagne per convincerci che “privato è bello” sono una prova dell’efficacia dell’infowar.
Il marketing immobiliare ed i piani strategici comunali condividono linguaggio e obiettivi, col risultato che chi vuole impadronirsi dello spazio pubblico non deve nemmeno lottare per prenderselo. Diffondendo l’immagine dello spazio pubblico come sinonimo di degrado, spreco, insicurezza, l’aggressore conquista “gli animi e i cuori” di coloro che si appresta a depredare inducendoli a rallegrarsi per l’opportunità di liberarsi di un onere improduttivo.
Esercizi per le vacanze
Se smascherare il tradimento è la prima ineludibile operazione per la riconquista dello spazio pubblico, piuttosto che letture di testi accademici, suggerirei agli studenti di esaminare i programmi dell’amministrazione della loro città, evidenziando la perdita di spazi pubblici che ne è derivata e confrontando le reazioni della stampa e dei cittadini.
L’ingiustizia sociale, di cui la localizzazione e condizione abitativa è solo una manifestazione, è sempre esistita. In passato, però, si raccontava che compito delle istituzioni era di lavorare per mitigarla, adesso accentuare le differenze e racchiuderle spazialmente, recintarle, è un obiettivo dichiaratamente perseguito e teorizzato.
Parlare di città sconnessa dovrebbe essere considerato un ossimoro. Per definizione, la città è un sistema il cui buon funzionamento dipende dalla reciproca relazione tra le sue componenti fisiche e sociali. In realtà, sempre più i progetti e gli interventi di trasformazione del territorio, a tutte le scale, sono esplicitamente finalizzati alla frammentazione e sconnessione. Nelle dichiarazioni d’intenti prevale l’acritico riferimento a metafore che, descrivendo la struttura dello spazio urbano e territoriale attraverso l’immagine dei nodi e della rete, trascurano i meccanismi di formazione dei nodi - ad esempio l’inclusione o l’espulsione di attività e abitanti - e ignorano quel che avviene al di fuori degli stessi. Nello stesso tempo, si mettono a punto e si attuano misure che inducono e/o accelerano lo spostamento dei vari gruppi di popolazione nelle zone ritenute più appropriate alle rispettive caratteristiche. Il riequilibrio territoriale è una voce desueta del vocabolario urbanistico, sostituita dalla esaltazione delle differenza che si traducono in diisparità. Più che chiederci dove si vive bene, quindi, dovremmo cominciare il ragionamento sulla vivibilità chiedendoci chi vive bene e perché.
1.Dove si vive bene o chi vive bene?
era una gran bella cittadina… la gente che vi abitava era di questa idea… non ci voleva molto per amarla, bastava non perder tempo a meditare sulle catapecchie dei negri e dei messicani ammucchiati nelle squallide distese di là delle vecchie carraie interurbane(Raymond Chandler, La signora nel lago,1943)
era una zona in rovina che dieci anni prima era stata in condizioni piuttosto buone perché si trovava a confini della comunità bianca, prima che la comunità bianca si trasferisse più a ovest e la manutenzione del posto venisse abbandonata, a favore di altre vie dove stanno i veri soldi e il vero potere, nei quartieri dei visi pallidi col portafoglio grasso (Joe R. Landsdale, Mucho Mojo, 1994)
era uno di quei quartieri pretenziosi spuntati in città dopo la seconda guerra mondiale, con case accessibili ai militari in congedo. Adesso probabilmente ci sarebbe voluta la paga di un generale per comprarne una. A questo avevano pensato gli anni Ottanta. L’esercito di occupazione degli yuppies aveva ormai assunto il controllo dell’area. Ogni prato esibiva un piccolo cartello metallico piantato nell’erba. Erano di tre o quattro diverse società specializzate in impianti di sicurezza, ma dicevano tutti la stessa cosa RISPOSTA ARMATA. Era l’epitaffio della città (Michael Connelly, La bionda di cemento, 1994)
Mezzo secolo separa i succitati noir americani che continuano ad essere fonti di informazioni probabilmente più attendibili di quelle fornite dalla miriade di esercizi di rating fra le città, commissionati da amministratori ansiosi di pubblicizzare la propria posizione nella graduatoria dei luoghi dove si vive bene per attirare investitori e abitanti pregiati, e che fanno abituale riferimento alla vivibilità e/o alla qualità di vita.
I due termini non sono sinonimi - la qualità di vita viene misurata in base ad una serie di indicatori prestabiliti, mentre per la vivibilità prevale il giudizio soggettivo circa il livello di soddisfazione individuale rispetto alle caratteristiche dell’ambiente - ma in entrambi i casi è scomparso il criterio che buone condizioni di vita urbana siano legate alla disponibilità di un livello minimo di spazi, di servizi, di risorse per tutti i cittadini. Al contrario, luoghi senza servizi, attrezzature e spazi pubblici vengono considerati buoni, proprio in quanto la loro mancanza è un segnale della assenza degli individui o gruppi sgraditi ai quali vengono associati.
Se il significato attribuito alla vivibilità dipende dagli obiettivi e dal sistema di valori di chi effettua la valutazione, il determinismo spaziale che comunque permea il discorso sulla città vivibile e che, non solo fa corrispondere a determinate condizioni fisiche determinati comportamenti sociali, ma stabilisce l’equazione pubblico = deviante, ha effetti devastanti per le nostre città.
Da una lato, alimenta il consenso attorno alla sistematica distruzione delle case e degli spazi pubblici, dall’altro contribuisce all’affermazione del principio secondo il quale, dal momento che non tutti i luoghi hanno la stessa qualità e amenità, e quindi lo stesso valore/costo, è giusto che l’insediamento di un individuo o di un gruppo di popolazione in una determinata parte di territorio e di città dipenda dalla sua capacità a pagare.
A differenza dei "vecchi standards", quindi, la vivibilità non è un diritto, ma una merce con un prezzo che non tutti si possono permettere.
Di fonte a questo prevalente e pervasivo orientamento, al quale ben si adattano le dichiarazioni del signor Swart, ministro della giustizia del Sud Africa che, nel 1953, spiegava in a country we have civilised people, we have semicivilised people and we have uncivilised people. The Government gives each section facilities according to the circumstances of each (dove circumstances significa financial conditions), è necessario ricondurre il tema della vivibilità accanto a quello della spazializzazione- territorializzazione dell’iniquità sociale perseguita, attuata e sancita dalle istituzioni pubbliche.
2. Luoghi di qualità per abitanti di qualità
ci hanno detto di sognare come il quartiere sarebbe potuto essere bello... non ci hanno detto che il sogno significava che noi non ne saremmo più stati parte (dichiarazione di un abitante cacciato nel corso del programma di rigenerazione urbana HOPE VI, The Baltimore Sun, 2004)
senza gli immigrati, Castelvolturno potrebbe diventare la Malibu d’Italia (dichiarazione del sindaco, Corriere della Sera, settembre 2008)
In qualsiasi città esistono, e sono facilmente individuabili, zone con migliori o peggiori condizioni ambientali rispetto a quelle contermini, che sono riservate, di diritto o di fatto, a ben determinati gruppi di abitanti, e il cui pregio relativo è in gran parte il risultato di iniziative delle pubbliche istituzioni.
La gamma dei possibili interventi è ampia, ma sia che si riduca la fornitura di servizi pubblici per accelerare il declino e lo svuotamento dell’area prima di procedere alla sua revitalizzazione (1), o che si attuino progetti per migliorarne la vivibilità - progetti che spesso consistono in una banale barcellonizzazione degli spazi pubblici e accelerano l’allontanamento forzato degli abitanti e la loro sostituzione con altri più desiderabili - l’obiettivo più o meno esplicito è di far corrispondere la qualità degli abitanti, cioè il loro reddito e/o potere, alla qualità dei luoghi.
Collocare i piani e le iniziative per la vivibilità all’interno del ciclico succedersi di fasi di investimento-disinvestimento-reinvestimento (Smith, 1996) aiuta a capire la complementarità e l’interdipendenza degli interventi il cui intento dichiarato è di accrescere la qualità urbana e di quelli punitivi nei confronti degli abitanti dei cosiddetti ghetti, cioè di quartieri o zone con le seguenti caratteristiche:
confini riconoscibili e riconosciuti,
strade che segnano il limite tra il quartiere e il resto della città o, nel caso di insediamenti periferici, un isolamento fisico segnalato dalla presenza di barriere difficilmente valicabili - autostrada, linea ferroviaria, fabbriche, zone "speciali" - e aggravato dalla carenza di trasporti pubblici;.
condizioni ambientali mediamente peggiori rispetto al territorio circostante,
minore dotazione di servizi, mancanza di manutenzione degli immobili, abbandono e degrado degli spazi pubblici, presenza di attività inquinanti;
omogeneità della popolazione al suo interno e eterogeneità rispetto al contesto,
la popolazione può essere composta da gruppi diversi e talvolta in conflitto fra loro - autoctoni e immigrati, immigrati di diversa provenienza - ma condivide una condizione di debolezza, per reddito, occupazione, età, a causa delle quali è considerata una comunità "a parte"; la concentrazione del disagio è un fenomeno cumulativo ed è spesso aggravata dai criteri di assegnazione degli alloggi pubblici;
limitate possibilità di effettiva "partecipazione",
gli immigrati non possono votare, gli autoctoni non sono proprietari o le loro proprietà valgono così poco che la vendita non consentirebbe il trasferimento ad altra zona;
localizzazione appetibile per l’investimento- reinvestimento immobiliare,
il valore potenziale del terreno e le aspettative di sviluppo immobiliare sono condizione indispensabile per assurgere alla cronaca, prima come quartiere problema, zona a rischio, ghetto e poi come laboratorio, quartiere risorsa, area da rivalorizzare e "restituire alla città"; la rimozione degli abitanti, almeno parziale e selettiva, è uno degli ingredienti della valorizzazione (bonifica!) del quartiere, perché la terra su cui sorgono i ghetti vale molto, e potrà valere molto di più se "liberata" dagli attuali abitanti. (2)
3. Enclosure e recinzione, parole chiave dell’urbanistica
il primo, che recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile (Jean Jacques Rousseau, Discorso sulle origini ed i fondamenti dell’ineguaglianza, 1754)
Nel testo da cui è tratta l’abusata citazione, Rousseau individua nell’atto di chi si impadronisce, delimitandola, di una porzione di terra, l’origine della proprietà privata e della organizzazione sociale che su questa si basa. Ma oltre che strumento e indicatore dell’appropriazione individuale, la recinzione è anche una pratica abitualmente utilizzata dalle pubbliche istituzioni per sottrarre alla collettività beni comuni e quindi cederli a singoli privati.
La questione è particolarmente rilevante nel momento attuale, perché gli interventi per aumentare la vivibilità urbana vengono attuati contestualmente - quando non ne sono un prerequisito - alla privatizzazione o riprivatizzazione di tutto quello che è/era pubblico e a cui può essere attribuito un prezzo. Questo elemento costitutivo della trasformazione della società, e quindi delle città (Blomley, 2004), renderebbe necessaria una adeguata riflessione sulle sue conseguenze nella attività professionale degli urbanisti e nella codificazione della natura stessa della disciplina.
Presentate come uno strumento indispensabile per far aumentare la produttività dei beni di volta in volta tolti alla collettività (Hardin, 1968), le enclosures ritornano regolarmente nel corso dell’accumulazione capitalista, con particolare intensità e diffusione nei momenti di più radicale riorganizzazione della struttura economica e sociale.
Nella seconda metà del settecento, la recinzione delle terre comuni, e la loro privatizzazione, fu uno degli elementi che contribuirono all’affermazione della rivoluzione industriale e, quindi, alla nascita dell’urbanistica moderna. La necessità di mitigare gli effetti dannosi della industrializzazione e urbanizzazione sulla salute e sulle condizioni di vita, infatti, portò all’affermazione del principio che è compito delle pubbliche istituzioni regolare l’uso del suolo e che in ogni città deve esistere una adeguata dotazione di spazi comuni utilizzabili da tutti i cittadini.
Anche oggi, la recinzione e la privatizzazione degli spazi pubblici concorrono alla realizzazione della cosiddetta rivoluzione postindustriale, ma esattamente opposto è il ruolo assunto dall’urbanistica (dagli urbanisti) postmoderna che partecipa attivamente alla spartizione di questo enorme bottino e alla sua giustificazione teorica: propaganda la città per parti, individua le aree pubbliche da destinare alla valorizzazione o al degrado, progetta gli interventi necessari ad aumentarne la redditività prima di cederle ai privati.
Improvement, termine con il quale, nel secolo scorso, si definivano e reclamavano gli interventi necessari a migliorare le condizioni dell’ambiente urbano, è diventato mero sinonimo di incremento della appetibilità di un’area per gli investitori immobiliari e cercare the highest and best use, il più alto e miglior uso di ogni bene, incluso il suolo, non è più solo un’aspettativa del mercato, ma una sorta di imperativo morale per le amministrazioni.
In questa logica, la gentrification perde qualsiasi connotazione di fenomeno socialmente distruttivo, non essendo altro che un’evoluzione naturale e benefica verso un uso più redditizio del suolo, mentre tutto quello che può ostacolarla (lacci e laccioli) viene bollato come dannoso per lo sviluppo e la competizione tra le città.
Le enclosures, sono un elemento decisivo di questa trasformazione del paradigma disciplinare, sia come concetto guida attorno al quale costruire piani e progetti di valorizzazione, che nelle speciifiche forme nelle quali si possono concretare: zone economiche speciali, distretti e entrerprise zones; siti per eventi speciali, manifestazioni sportive, grandi esposizioni commerciali; zone industriali inquinate, da bonificare e poi restituire ai privati,; zone riservate alla residenza di gruppi di popolazione omogenei per preferenze e stili di vita ai quali si concede la facoltà di governarsi privatamente; isolati urbani e complessi residenziali di proprietà pubblica da demolire e privatizzare.
Si tratta solo di pochi esempi, molti altri ne esistono, tutti caratterizzati dalla complementarietà fra le richieste degli investitori privati e le iniziative delle pubbliche istituzioni che ad esse si adeguano - effettuando importanti interventi infrastrutturali e sopprimendo o rilassando regole e leggi normali - per garantire una sorta di extraterritorialità normativa e fiscale che si traduce, sulle mappe, in una configurazione a macchie.
Enclosure e recinzione non sono sinonimi; si possono recintare porzioni di territorio senza che ne venga ceduta la proprietà ai privati, ad esempio per delimitare le zone da lasciare all’abbandono e al degrado, dove le condizioni di vita variano seguono una gerarchia qualitativa che va dalla povertà meritevole fino al vero e proprio modello concentrazionario. Ma, qualunque sia loro condizione dal punto di vista giuridico, tutte queste linee chiuse danno origine a una configurazione del territorio come sfondo indefinito, sul quale figure ben delimitate vengono messe in risalto o relegate in secondo piano.
Che racchiudano opulenza o disperazione, la separatezza di questi recinti dal contesto fisico e sociale, sempre più accentuata e segnalata dalla presenza di barriere fisiche, è diversa da quella che si poteva realizzare con la zonizzazione ed altre pratiche di suddivisione territoriale - circoscrizioni elettorali, distretti scolastici e sanitari - che pure venivano utilizzate con finalità discriminatorie, ma che non negavano la continuità fra le zone confinanti.
La recinzione ha un significato molto diverso. A differenza della linea di confine, che presuppone l’esistenza di due soggetti che tracciano una divisione fra i rispettivi territori, sulla base di un compromesso o d un accordo che può essere modificato nel corso del tempo, e che lo controllano dai rispettivi lati, la recinzione è un atto unilaterale. Spesso imposto con la violenza e la prevaricazione, a qualunque scala territoriale- dalle homelands del Sud Africa alle barriere costruite dallo stato di Israele attorno ai villaggi palestinesi, dai muri attorno ai quartieri a rischio perché etnicamente connotati alle gated communities con le cancellate che bloccano l’accesso e il transito lungo le strade privatizzate, la recinzione è frutto di decisioni finalizzate alla separazione e alla discriminazione.
Di fronte all’affermazione di atteggiamenti e comportamenti che teorizzano la città disconnessa e ne progettano la frammentazione, manca una adeguata consapevolezza delle conseguenze che l’enclosure dei commons (l’uso di termini arcaici è adatto in attesa di compilare un vocabolario per definire il furto e all’appropriazione dei beni comuni), avrà sulla/e città.
Rendere coscienti i cittadini - che "non tollerano che si mettano le mani nel loro portafoglio", ma accettano passivamente di essere rapinati dei beni comuni - dell’impoverimento collettivo e delle conseguenze a lungo termine provocate da questo fenomeno, associato alla distribuzione degli uomini in spazi chiusi disegnati secondo il criterio che ciascuno deve stare nella porzione di territorio che si merita, può essere il punto d’inizio per una mobilitazione per la inappropriabilità e incommerciabilità dei commons e, quindi, per una vivibilità diffusa.
Note
(1) E’ grazie al benign neglect, il disinteresse benigno! spiegava il sindaco di New York, alla fine degli anni ’70, che nel Bronx, la chiusura di alcune scuole e stazioni della metropolitana e di alcune scuole, la eliminazione degli idranti antincendio e altri tagli nella ordinaria manutenzione, hanno accelerato l’auspicato drenaggio degli abitanti.
In Italia, dichiarazioni così esplicite non vengono rilasciate dai pubblici amministratori, o almeno non ancora, né sono disponibili inchieste sistematiche sul legame tra i meccanismi di concentrazione di cittadini immigrati o comunque sfavoriti, le proteste degli indigeni ed i piani di rigenerazione urbana. E’, però, interessante notare che alcuni studiosi attribuiscono un ruolo sostanzialmente positivo ai conflitti etnici in quanto potenti "fattori di cambiamento" . Il caso emblematico di "crisi urbana" che ha accelerato le trasformazioni sarebbe Torino, nei cui due quartieri, San Salvario e Porta Palazzo, a lungo dipinti come ghetti, "5 anni dopo lo scoppio dei conflitti risultano aperti due tra i più importanti cantieri della città" (Allasino, Bobbio, Neri, 2000).
(2) Lo slogan renewal=removal coniato negli anni ’60 per denunciare gli effetti degli interventi di rinnovo edilizio sugli abitanti è ancora attuale, come dimostra tra gli altri il programma Hope VI, "grazie" al quale, tra il 1993 ed il 2003, sono stati demoliti negli Stati Uniti decine di migliaia di alloggi di proprietà pubblica. Molti degli edifici e dei complessi distrutti erano più che "decenti", ma il valore del suolo sul quale erano collocati era potenzialmente così alto, che non si poteva continuare a sprecarlo per tenervi "parcheggiati dei poveri". Il programma federale, quindi, ha "liberato" le aree necessarie ai privati per la costruzione di liveable communities secondo i dettami del cosiddetto new urbanism (Somma, 2007).
Riferimenti bibliografici:
Enrico Allasino, Luigi Bobbio, Stefano Neri, 2000, Crisi urbane: che cosa succede dopo?, Ires
Nicholas Blomley, 2004, Unsettling the city. Urban land and the politics of property, Routledge
Garrett Hardin, 1968, The tragedy of the commons, "Science", n. 162, p. 1243-48
Neil Smith, 1996, The frontier city, Routledge
Paola Somma, 2007, The destruction of American historic housing projects, Open House International, vol. 32,
n. 1
Bologna per molti anni è stata un esempio di buona amministrazione, capace di produrre modelli urbanistici di eco internazionale (come il PRU del centro storico), tanto da diventare la città simbolo della qualità della vita.
Questa tradizione, amministrativa e sociale, ad un certo punto si è interrotta . Da allora la città stessa ha subito un declino che si misura di anno in anno, di giorno in giorno, nella sempre più dominante “fatica urbana” che chi vive la città subisce.
Il processo è frutto di una serie complessa di mutamenti sociali, economici, politici ed anche urbanistici. Per questi ultimi il momento spartiacque si può individuare nella approvazione del PRG del 1989. Costruito con una sostanziale coerenza di strategie nel passaggio tra l’adozione e l’approvazione il PRG subisce una frettolosa e sostanziale modifica nei suoi aspetti tecnici che gonfia spropositatamente il dimensionamento e ne inficia di fatto l’attuazione. Le grandi aree strategiche di ampliamento faticano ad attivarsi, mentre il mercato si concentra su altre occasioni e di più modesta dimensione e marginali rispetto alla progettualità del piano. La mancanza di fondi blocca la realizzazione delle infrastrutture e larga parte delle aree destinate a standard è minacciata dalla prospettiva della scadenza dei vincoli preordinati all’esproprio.
In linea con la tendenza nazionale, la risposta che le amministrazioni successive forniscono purtroppo aggrava anziché risolvere il problema: si abbandona l’idea del piano – della pianificazione – e si procede per programmi “di riqualificazione”, quasi sempre in variante. La trasformazione della città si polverizza in una serie di piccoli interventi di per sé non impattanti quanto quelli di altre grandi città come Milano e Roma, ma nel loro complesso rilevanti rispetto al contesto urbano bolognese e alla sua tradizione di buon governo.
Gli interventi promossi seguono la logica della “valorizzazione”, come la conversione delle aree a standard non attuate in edificabili, mentre l’obiettivo della riqualificazione si perde in astratte valutazioni. Nonostante le dichiarazioni d’intenti, le contropartite pubbliche ottenute sono scarse ma soprattutto “casuali” ed incoerenti rispetto alle reali esigenze delle parti di città in cui si inseriscono gli interventi. La saturazione dei preziosi spazi liberi nel territorio urbanizzato di fatto non contribuisce al miglioramento della costruzione della città pubblica, favorisce invece il lievitare della rendita.
Il bilancio di questa esperienza documenta il fallimento dell’urbanistica “caso per caso”. Solo una visione completa della città permette infatti di comprenderne le reali necessità: le carenze strutturali, le problematiche emergenti, le opportunità di miglioramento. Quindi solo all’interno di un disegno unitario possono essere formulari obiettivi coerenti e rispondenti alle necessità, e strumenti adeguati per attuarli tenendo conto di tutti i possibili effetti, anche inattesi.
Il ritorno al piano ed alla pianificazione è quindi una condizione necessaria, ma non sufficiente per il buon governo della città. Affinché le strategie del piano possano efficacemente dispiegarsi è necessario che il piano sia attuato e gestito correttamente. La sempre maggiore complessità e velocità di cambiamento delle dinamiche socio-spaziali delle nostra società, impongono inoltre oggi un coinvolgimento diretto dei cittadini per la condivisione degli interventi e dei loro esiti attesi.
E’ questa la sfida che si apre oggi nella nostra città con la formazione del nuovo piano urbanistico comunale. Cogliendo le opportunità del nuovo sistema di pianificazione dettato dalla legge regionale urbanistica 20/2000, l’amministrazione ha delineato nel Piano Strutturale Comunale (approvato nel mese di luglio) le strategie di trasformazione urbana, integrandovi in un insieme coerente quelle di riqualificazione. E’ ora impegnata nella elaborazione del Piano Operativo in cui definirà la prima fase di attuazione del piano.
Mi è stato chiesto di riflettere con voi sul difficile rapporto tra i bambini e la città contemporanea; sulle ragioni che la rendono invivibile per loro, come del resto per molte altre categorie sociali ‘deboli’, e su cosa fare per rendere il contesto urbano un luogo del ben-essere per tutti e della con-vivenza.
In effetti, i bambini rappresentano una sintesi sia delle debolezze sociali che toccano in vari modi altre categorie di cittadini sia delle intolleranze che i gruppi dominanti manifestano nei confronti del ‘diverso’ .
Come ampiamente dimostrato dagli studi Piagetiani in avanti, la condizione infantile è caratterizzata da limiti (seppur temporanei) di tipo percettivo, motorio e cognitivo dovuti alla gradualità dello sviluppo di certe facoltà psico-fisiche. Ciò li rende tanto vulnerabili ad una città organizzata intorno al sistema del trasporto automobilistico privato di massa quanto altri soggetti portatori di vari handicap; non controllano per niente, o male, mezzi comunicativi quali il linguaggio, la lettura e la scrittura, come molti soggetti che giungono nel paese/città di immigrazione parlando solo la propria lingua o dialetto e come le persone semi-analfabete di ritorno; sono guardati come ‘diversi’ e considerati ‘indesiderati’ o ‘fuori posto’ in molti spazi pubblici, allo stesso modo dei mendicanti e degli homeless (negli USA ci sono ristoranti che esibiscono il cartello “ingresso vietato ai cani e ai bambini”, mentre i mendicanti sono tenuti alla larga mettendo i lucchetti ai bidoni della spazzatura per evitare ai clienti la ‘disgustosa’ scena del frugale pasto a base di avanzi recuperati); e perfino laddove lo spazio pubblico sembrerebbe orientato ad accoglierli, le recinzioni entro le quali è loro consentito muoversi e giocare fanno più pensare a strategie di contenimento, come quelle riservate ai cani (trovo singolare che nei giardini e parchi urbani ci siano comunque più recinti per bambini che per cani: non dovrebbe essere il contrario?). In effetti, non ha torto la madre di una bambina che ho intervistato, quando afferma indignata che: “sono più considerati i cani dei bambini”. Della recinzione come atto violento, finalizzato al contenimento dei poveri ci parla anche nel suo intervento l’urbanista Paola Somma e tornerò tra breve sul tema.
Nelle nostre città adultocentriche, tutto quello che disturba ciò che è stato definito il “normale ordine del consumo” e che viene percepito come un rischio genera intolleranza e panico. Sui mezzi pubblici, l’arrembaggio di un gruppo di ragazzini un po’ chiassosi è visto con profonda irritazione o timore dai passeggeri adulti, e soprattutto anziani, e in strade pedonali dello shopping quali la storica via Garibaldi a Torino, se i vigili urbani colgono in flagrante due ragazzini a giocare a pallone, gli sequestrano il ‘corpo del reato’, essendo vietato dal regolamento urbano giocare a palla per strada, mentre giocare a spruzzarsi addosso l’acqua della fontana di Piazza Statuto è costato ad un altro bambino che ho intervistato un calcio nel sedere da parte di un passante. Stesso discorso proibizionista vale per i ragazzini che usano gli skate-boards, in una teoricamente felice combinazione di gioco e mezzo di trasporto, e che vengono invece sanzionati dagli agenti del traffico..
Molte delle giustificazioni degli adulti e delle istituzioni alle misure di contenimento sopra esemplificate (così come molte altre, quali l’accompagnamento sistematico, preferibilmente in auto, dei bambini a scuola e alle attività extra-scolastiche sempre sotto il controllo di adulti, oppure la predilezione per la TV e il Videogame ‘baby-sitter’ entro le protettive mura domestiche) suonano poco convincenti se non addirittura false. Tipico esempio di ciò che il sociologo norvegese Johan Galtung, autorevole studioso di conflitti e di non violenza, chiama ‘violenza culturale’. Così come il proibire l’uso della strada ai bambini o il centellinare risorse pubbliche alla riqualificazione dei quartieri degradati rappresentano esempi calzanti di violenza ‘strutturale’
Ritengo che i primi due insiemi di parole-chiave proposti da Ilaria Boniburini come traccia concettuale da seguire per analizzare la invivibilità urbana collimino perfettamente con quanto sto provando ad argomentare attraverso le teorie galtunghiane .
La triade ‘povertà, disagio, degrado’, riassume adeguatamente l’esito della ‘violenza strutturale’ , intesa come quella violenza che non necessariamente è causata dall’azione ‘diretta’ di una persona ma che è invece “insita nella struttura e manifestatesi sotto forma di potere diseguale e, di conseguenza, di disuguali opportunità di vita” (Galtung, 1969, p. 114). E’ quella che fa dire ad una madre nera di un quartiere-ghetto di Chicago: “qui non ci sono bambini. Hanno visto troppo per essere bambini” (Forni, 2002, p.96).
La seconda triade di parole-chiave cui si riferisce Ilaria Boniburini - linguaggio, discorso, potere – introduce alla perfezione il concetto di violenza ‘culturale’, intesa come “quegli aspetti della cultura…che servono a giustificare e legittimare la violenza diretta e la violenza strutturale” (Galtung, 1990, p.291).
La città contemporanea viene insomma associata ad arte al senso di insicurezza e paura provocato dalla microcriminalità presentata come dilagante e spietata, anche quando i dati ufficiali indicano trend decrescenti dei delitti più gravi. Le conseguenti politiche di contenimento, recinzione e repressione vengono giustificate come necessarie ed efficaci, quando invece hanno ben poca forza deterrente e non fanno altro che riempire all’inverosimile le carceri di disgraziati senza speranza di riscatto sociale, una volta scontata la pena.
La ‘cultura della paura’ ha dunque la capacità di dirottare l’attenzione e la preoccupazione dell’opinione pubblica lontano dalle vere cause dell’ insicurezza e della invivibilità urbana, evitando conflitti sociali intollerabili per l’ordine economico dominante e perdita di consenso da parte dei gruppi politici espressi da tali forze economiche.
La società flessibile o ‘liquida’, per usare l’ormai famosa espressione coniata da Zigmunt Bauman, prodotta dalla violenza strutturale di un liberismo senza freni e senso etico, ha infatti tolto a molti la certezza di poter contare sia su un lavoro sicuro e giustamente remunerato sia su una con-vivenza urbana degna di questo nome. Ciò che da sempre ha segnato la superiorità della città rispetto ad altre forme di occupazione territoriale è stato la sua varietà, di persone, attività, luoghi. È il concetto di città ‘open minded’ , che rimanda alla dimensione pubblica dello spazio urbano, al sistema delle piazze e delle vie che tali piazze connettevano, in una trama che includeva tutti e che faceva vivere di profonda umanità e bellezza anche i luoghi più lontani dal centro storico.
La città fordista e poi il suo declino, lo sprawl urbano e la crisi attuale, sono le tappe che hanno segnato il declino di quel modello. Ed è così che oggi i centri urbani , piccoli e grandi, sempre più divisi tra zone affluenti e zone emarginate, svenduti alla speculazione immobiliare in cambio del piatto di lenticchie degli oneri di urbanizzazione e sempre più ossessionati da esagerate paure, stanno svendendo il basilare principio della democrazia: la con-vivenza .
Anche la necessità di cambiare radicalmente modello di sviluppo, o addirittura di adottare i principii della ‘decrescita serena’ proposti da Serge Latouche (2008) per evitare la catastrofe ambientale, viene continuamente affermata senza però che Città, Regioni e Stato prendano misure veramente adeguate all’urgenza del caso.
In compenso, si continua ciclicamente a denunciare la invivibilità delle nostre città prodotta da vecchi e nuovi capri espiatori, facili da additare e demonizzare : prostitute, zingari, homeless, tossicodipendenti e spacciatori, baby-gangs, pedofili, immigrati, etc. E tanto più basso il livello culturale, sociale ed economico di una società che produce crescenti disuguaglianze, nuove povertà e ingiustizie, tanto maggiore sarà l’efficacia della violenza culturale. Quella violenza che viene esercitata quando, ad esempio, si giustifica la schedatura delle impronte digitali dei soli bambini zingari (guarda caso) per, si dice, tutelarli rispetto a violenze ed abusi.
C’è un libro recentemente pubblicato, La città fragile (Rosso e Taricco, 2008), i cui interpreti rientrano tutti senza scampo nella categoria che i sociologi hanno denominato del capro espiatorio, o ‘nemico appropriato’. Nel leggerlo ho pensato a Georges Pelecanos, il famoso giallista, che in una recente intervista ci ammoniva a “non guardare mai dall’alto in basso un uomo, a meno che tu non lo stia aiutando a rialzarsi”.
Ed è esattamente questo che gli autori hanno fatto con prostitute, zingari, senza fissa dimora di una città italiana come tante, Torino: li hanno aiutati a rialzarsi per farceli incontrare, guardare negli occhi (magari anche in quelli strappati dalle orbite e messi sott’alcool dell’albanese Munira), riconoscere come non-altri rispetto a noi, ossia come persone. Sono loro i più appropriati ad incarnare i nostri ‘nemici’ perché sono indifendibili e ingiustificabili. Minacciano i nostri valori, la nostra sicurezza quotidiana prodotta dai comportamenti devianti, predatori, immorali che ci infliggono quasi mai direttamente, più spesso per sentito dire dal vicino di casa, dal collega di lavoro o dall’amico, dalla televisione. E sono comportamenti ingiustificabili, in quanto, si pensa, dettati sostanzialmente dal rifiuto di integrarsi e ‘rimboccarsi le maniche’ in una società come la nostra dove il mito del self-made man integerrimo continua ad avere la sua presa e si alimenta delle ceneri del Welfare State. A poco servono i richiami dei sociologi alla ben più costosa (per la collettività) criminalità detta dei ‘colletti bianchi’(vedi il caso Parmalat o le morti sul lavoro) o di rari illuminati amministratori pubblici sul rischio di strumentalizzazione politica di queste paure per mantenere o conquistare consensi elettorali facili. Di fronte alla forza mediatica e alla strumentalizzazione politica del disagio generalizzato, prodotto da un futuro economico, sociale ambientale sempre più incerto, è difficile far passare argomenti convincenti sugli interventi complessi su scala urbana necessari per contrastare più efficacemente la micro-criminalità.
Le micro-storie narrate in prima persona dai loro protagonisti ci aiutano anche ad entrare in quei vuoti urbani che generalmente temiamo di avvicinare e che troviamo ben descritti attraverso l’efficace metafora della lettura della mano, della quale le donne zingare sono grandi esperte:
“Noi li chiamiamo zingari, e con lo stesso disprezzo loro ci chiamano gaje. Secondo loro, sulla mano c’è tutto, strade e sentieri. Ogni mano è una mappa e racconta una storia. Immaginate che la linea della vita sia una tangenziale su cui corrono i TIR. Di fronte, cè una via che comincia e finisce nel nulla: via della Fortuna. Siamo al confine tra una piccola e una grande città. La periferia della prima - il quartiere Promontorio – si trova sul rilievo tra il pollice e la tangenziale . Nel palmo, un pianoro con capannoni industriali, posteggi, ipermercati, stadio e supercarcere. Sul polso volano gabbiani. Sotto, c’è una grande discarica. Fra la tangenziale e la via della Fortuna, proprio dove corre il confine, c’è uno spiazo d’asfalto ed erba stentata, ove si vedono uomini, fili da stendere, auto scrostate, sedie da campeggio, stufe a legna, poltrone sfondate e roulotte disposte a ferro di cavallo. I rom sono lì: a tre km dal supercarcere , dove hanno certamente un cugino, a due dallo stadio, dove prendono l’acqua e a meno di uno dalla grande discarica, che per loro è una specie di hard discount” (Ibid., p.12).
Il modo semplice e diretto adottato per entrare a contatto con questo mondo altro-da-noi, è il ‘viaggio’ in tram, dall’atollo lucente del centro urbano, gentrificato e videosorvegliato al capolinea perso nel nulla. Ma il capolinea di questo testo, scarno e denso insieme, è tutt’altro che un punto di arrivo: apre scenari, ci aiuta a sperimentare uno sguardo diverso su un mondo che ci spaventa anche perché dentro di noi sappiamo quanto sottile e rapida da oltrepassare sia la ‘linea d’ombra’ oltre la quale il nostro ‘esserci nel mondo’ potrebbe subire quella “crisi della presenza” di cui parlava Ernesto De Martino e che riprenderò tra breve. A ricordarcelo è l’uomo senza casa e senza nome, soprannominato Sandokan, che ci congeda dall’ultimo racconto (non a caso intitolato Senza) . Lo trovarono morto assiderato su una panchina dove si era fermato una notte per riposarsi dicendo a sé stesso :”Due minuti, non uno di più. Invece si assopì”.
Ma forse la città fragile può nascondere anche qualità preziose e insostituibili, come ci suggerisce Patrick Chamoiseau : “Texaco era ciò che la città conservava dell’umanità della campagna. E l’umanità è quel che c’è di più prezioso per una città. E di più fragile” (Chamoiseau, 1994, p.287). Per provare allora a descrivere la città vivibile che abbiamo perduto e che dovremmo ricreare, e con ciò affrontare il terzo e ultimo insieme di parole-chiave: benessere, vivibilità, urbanité , mi verranno in aiuto altri frammenti di testi. Li ho scelti tra autori che, pur avendo affrontato il tema da differenti punti di vista disciplinari e generi di scrittura –antropologico, letterario, urbanistico, architettonico, psicanalitico - esprimono a mio parere visioni stupendamente accattivanti del benessere prodotto dal con-vivere lo spazio , e in particolare da tre aspetti che ritengo essenziali : l’appaesamento, la sacralità e la bellezza.
Ciò che fa sentire al riparo dalla crisi del ‘non esserci nel mondo’ è parte di quello che è stato chiamato da Leroi-Gourhan ‘appaesamento’ (1977):
“La pratica dell’appaesamento, vale a dire il processo di modellamento dello spazio della vita, è per la specie umana un processo fondamentale, radicale proprio nel senso di costitutivo di radici” (Signorelli, 1983).
Lo individuiamo grazie agli abitanti del Rione Terra nel centro storico di Pozzuoli, evacuati (o deportati?) a Monterusciello :
“Le porte del Rione Terra erano sempre aperte e ci stavano un sacco di entrate! Il Rione Terra era fatto come…un monte” Signorelli, 1989, p.18)
“Mia nonna aveva la casa proprio vicino al Tempio di Se rapide, ci stava un fabbricato con la finestrella e lei mi spiegava che anticamente c’era il mercato degli schiavi….che poi là vedevi pure gente che passeggiava e si riunivano pure i vecchierelli, che si facevano la chiacchierata (Antonio C,, 27 anni, pescatore)” (ibid., 1983, p.19)
Ne troviamo tracce significative anche nella storia del contadino calabrese che Ernesto De Martino convince a salire sulla sua auto per farsi indicare come raggiungere un luogo non segnato sulla mappa : “la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché ora, da finestrino da cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo sino al bivio giusto e ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro in fretta , secondo l’accordo: e sempre stava con la testa fuori dal finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il suo campanile. Finché quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una patria perduta. Giunti al punto dell’incontro, si precipitò fuori dall’auto senza neppure attendere che fosse completamente ferma , scomparendo selvaggiamente senza salutarci, ormai fuori dalla tragica avventura che lo aveva strappato dallo spazio esistenziale del campanile di Marcellinara” (De Martino, 2002, 480-481).
Lo ritroviamo nello slum di Fort-de-France chiamato Texaco, descritto nell’omonimo romanzo, in cui si narra di un urbanista incaricato di progettarne la distruzione, ma poi convinto a conservarlo dai suoi abitanti, e in particolare dalla carismatica ‘fondatrice’ Marie-Sophie:
“Lei mi insegnò a rileggere i due spazi della nostra città creola: il centro storico, che vive delle esigenze nuove del consumo, e la cortina di occupazione popolare, ricca della profondità della nostra storia. Fra quei luoghi, il palpito umano che circola. Al centro si distrugge il ricordo, per ispirarsi alla città d’Occidente e rinnovare. Nella corona si sopravvive di memorie. Al centro ci si perde nel moderno del mondo; qui si portano alla luce vecchissime radici, non profonde e rigide ma diffuse, profuse, sparse nei tempi con quella leggerezza conferita dalla parola. Questi poli, collegati alla volontà delle forze sociali, strutturarono coi loro conflitti i volti della città” (Chamoiseau, 1994, p.174).
Per il richiamo alla sacralità della città, vi invito alla lettura integrale delle bellissime pagine che vi dedica Enzo Scandurra e mi limito qui a riprenderne un breve passo:
“In un certo senso la città è già di per sé un luogo sacro, in quanto oikos, casa, dimora. Questo ‘sacro’ non è quello che viene conferito alla città dall’essere luogo delegato e privilegiato di una religione…. Il sacro di cui parlo è - per dirla con Lévy-Strauss – ciò che attiene all’ordine del mondo, ciò che garantisce questo ordine. Sacro è ciò che ci difende dal rischio del caos, dall’angoscia del nulla… e custodisce, o perpetua, un ordine antico e inviolabile” (Scandurra, 2007, p. 130)
Infine, la bellezza, alla quale lo psicanalista James è una politica che si sottrae ‘alle battaglie di un realizzarsi finalistico’ e recupera ‘i criteri dell’estetica – unità, linea, ritmo, tensione, eleganza- che possono …offrirci un nuovo insieme di qualità’. Come fanno quelle creature degli abissi marini nascoste alla vista, mai percepite eppure dotate di colori scintillanti e di una bellezza senza scopo, cioè della vera bellezza. Che non ha un fine, non ha intenzionalitàHillman ha dedicato un volume (2002) e della quale dialoga con l’architetto Truppi in un altro libro dedicato all’anima dei luoghi.
La politica della bellezza “” (Truppi, 2004, p.139).
E a proposito della voracità di massa che ha fatto man bassa degli spazi pubblici, Franco Cassano ha auspicato che : ”quando avremo restituito a tutti le strade, le spiagge e i giardini, quando saremo guariti dalla ricerca ossessiva della separazione e della distinzione…allora la bellezza tornerà a visitarci” (Cassano, 1996)
Se è vero, come sostiene Truppi, che il malessere che l’individuo sta vivendo dipende molto dall’esterno, ebbene la ‘politica della bellezza’, con la sua enfasi sulla qualità e cura dei luoghi suggerisce una risposta positiva e convincente al male di vivere. E l’attenzione per l’esterno è anche garanzia della sostenibilità (ambientale e perciò anche urbana), ossia della trasmissione alle generazioni future dei saperi e delle pratiche necessarie al con-vivere.
L’ultima parola ad un bambino di Torino, abitante dell’estrema periferia nord-est, chiamata non a caso Barriera di Milano e molto vicina al campo nomadi descritto ne La città fragile. Quando gli abbiamo chiesto cosa pensa della zona dove vive, la sua risposta è stata tanto breve quanto incisiva, un piccolo capolavoro di saggezza, come spesso solo i bambini sanno fare. Ha detto:
“Mi piacerebbe che ci fossero più cose e che l’ambiente fosse bello”.
Bibliografia
Cassano F.,1996, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari;
Chamoiseau P, 1994, Texaco, Einaudi, Torino;
De Martino E., La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino;
Forni E., 2002, La città di Batman. Bambini, conflitti, sicurezza urbana, Bollati Boringhieri, Torino;
Galtung J., 1969, “Violence, Peace and Peace Research”, in “Journal of Peace Research”, 6 (3);
Galtung J., 1990,”Cultural Violence”, in “Journal of Peace Research”, 27 (3);
Hillman J., 2002, Politica della bellezza, Moretti & Vitale, Bergamo;
Hillman J. e Truppi C., 2004, L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi, Rizzoli, Milano;
Latouche S., 2007, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino;
Leroi-Gourhan, A. , 1977, Il gesto e la parola, Einaudi, Torino;
Rosso B. e Taricco F., 2008, La città fragile, Bollati Boringhieri, Torino;
Piccolomini M., 1993, “Lo sviluppo sostenibile: una sfida per le città”, in “ReS”, ,n.7;
Scandurra E., 2007, Un paese ci vuole, Città Aperta, Troina;
Signorelli A., 1989, “Spazio concreto e spazio astratto. Divario culturale e squilibrio di potere tra pianificatori ed abitanti dei quartieri di edilizia popolare”, in “La ricerca folklorica”, n.20.
Abbiamo dedicato l’ultima giornata di questa meravigliosa edizione della Scuola di eddyburg all’esperienza del piano regolatore di Napoli e dei Ragazzi del piano[1]. Ci hanno raccontato una vicenda bellissima, da cui abbiamo imparato molto sulle virtualità del nostro mestiere. E hanno concluso esprimendo tutta la loro amarezza per il fatto che Napoli è accerchiata: è accerchiato il territorio comunale, correttamente ed efficacemente pianificato, dal vasto hinterland nel quale la pianificazione non funzione o non viene praticata; ed è accerchiata la città nell’opinione pubblica, perché la buona amministrazione dell’urbanistica napoletana è ignorata dall’opinione pubblica, e dalla stessa cultura, che preferiscono dare di Napoli l’immagine di una città soffocata dalle immondizie, dalla camorra, dal cattivo governi municipale.
Vorrei dire agli amici napoletani: non vi meravigliate, ci sentiamo tutti accerchiati in questo paese (e nell’Europa, e nel mondo). È una condizione comune, della quale dobbiamo cercar di comprendere le ragioni per poter efficacemente resistere. Anche questo le quattro giornate della Scuola ci hanno insegnato. E su questo vorrei adesso riflettere.
Le quattro giornate
Abbiamo organizzato questa edizione della Scuola per comprendere una cosa: per comprendere perché, “nonostante i programmi e i piani concepiti a partire dagli anni ’90 […] abbiano fatto sovente ricorso a parole come “riqualificazione” e “qualità urbana”, gli effetti prodotti non sono corrispondenti agli obiettivi dichiarati. Per capire le ragioni che hanno determinato questo scarto – abbiamo scritto nel programma della Scuola - occorre, come nelle passate edizioni, capire i presupposti e leggere criticamente i fenomeni in atto, recuperare concetti e strumenti troppo frettolosamente abbandonati, sperimentare percorsi di riflessione e di iniziativa controcorrente”.
Una riflessione sulle “parole della città”, una comprensione della loro ambiguità e del loro uso da parte dell’ideologia dominante, delle loro potenzialità ai fini della rinascita di un pensiero critico e della loro utilizzazione come strumento di resistenza e di costruzione di pratiche virtuose ha aperto i nostri lavori[2]. Ad esse si sono fruttuosamente ricollegati gli interventi della prima giornata, nella quale gli urbanisti Giovanni Caudo, Paola Somma e Giancarlo Paba, particolarmente attenti alla società, la sociologa Elisabetta Forni e l’antropologo Ferdinando Fava ci hanno aiutato a comprendere molte cose [3]. Soprattutto, ci hanno aiutato a uscire dal nostro guscio, a comprendere in che modo si pongano i rapporti tra la nostra opera di esperti e le concrete trasformazioni della società, come i nostri strumenti vengano compresi dai cittadini e dagli abitanti – e soprattutto, quale sia la concreta condizione della città: anzi, della civitas, della società che nella città vive e senza la quale essa non sarebbe “città”.
Grazie al loro aiuto abbiamo compreso meglio in che modo le nostre piccole storie si pongano nell’ambito di quel grande conflitto al quale mi sono riferito nell’aprire queste giornate. Il conflitto tra due concezioni e due strategie: quella della città come merce, tipica del neoliberalismo e caratterizzata dal vedere la città come una macchina fatta per arricchire gli appartenenti agli strati alti della società globale, e la città come bene comune, come costruzione collettiva finalizzata alle esigenze, ai bisogni, alla crescita delle persone che vi vivono, vi lavorano, vi abitano.
Il primo giorno ha lasciato molti dei partecipanti alla Scuola in una situazione di sgomento: che fare allora, come difenderci e difendere le verità di cui ci sentiamo portatori? Su questo punto tornerò in seguito, per tentar di restituire alcune cose che ci siamo detti nei colloqui che si sono intrecciati attorno alle riunioni generali e dei gruppi. Vorrei dire subito che è emersa praticamente da tutti gli altri esempi illustrati la situazione, l’accerchiamento, il dominio di concezioni e pratiche deleterie per la città così come la intendiamo e la vogliamo. Le “buone pratiche” hanno gettato germi di speranza e hanno testimoniato che “un’altra urbanistica è possibile”, ma a condizione che si sappia uscire dal guscio della nostra specificità e si riesca a far convergere l’urbs (la città fisica alla quale è soprattutto rivolto il nostro mestiere) con la civitas e la polis, la società e la politica. Ma anche su questo tornerò più avanti.
La seconda giornata è stata aperta da una lezione di Mauro Baioni, direttore della Scuola, che ci ha illustrato il contesto nel quale gli strumenti degli anni Novanta sono nati e le loro caratteristiche. Le urbaniste bolognesi, tutte operatrici nelle strutture urbanistiche pubbliche dell’area emiliana e animatrici della Compagnia dei Celestini (quindi attivamente impegnate sia nel mestiere che nella società), ci hanno illustrato in quale modo le concrete esperienze dei “programmi complessi” nella loro città abbiano generalmente tradito le speranze e le intenzioni, determinando un peggioramento delle condizioni che ci si proponeva di migliorare[4]. Un raggio di speranza è venuto dall’illustrazione del recentissimo piano strutturale comunale, che sembra suscettibile di aprire una nuova positiva stagione: a condizione però che si eserciti un’attentissima vigilanza sul modo in cui si risolveranno alcune ambiguità o genericità del dettato del piano (ad esempio, quali concreti contenuti avrà la “edilizia sociale” e chi ne saranno i beneficiari? Qual è il contenuto reale della “vivibilità” e “qualità urbana” che si propongono come obiettivi?).
L’esperienza internazionale, illustrata in apertura della terza giornata, si è sviluppata a partire da alcuni approfondimenti delle “Parole della città”, ed ha esplorato le politiche e i problemi della rigenerazione e della riqualificazione nel quadro europeo[5]. L’analisi ha messo particolarmente in luce come non sia sufficiente perseguire qualità e vivibilità (obiettivi che peraltro devono venire attentamente qualificati per non divenire ombrelli che coprono intenzioni anche antitetiche) a livello locale, ma come sia indispensabile praticare politiche a scala di area vasta. Alcune buone pratiche in Europa e negli USA hanno gettato qualche barlume di speranza sulle potenzialità dell’urbanistica, là dove urbs, civitas e polis si incontrano e collaborano per un obiettivo condiviso. La brillante illustrazione del progetto Urban di Cosenza ha rivelato come un’esperienza volta a superare le condizioni di disagio e mirata a specifici obiettivi di rinascita sociale della città abbia condotto a risultati positivi nell’assetto e nella vita della città ma come, una volta mutato il quadro politico, la situazione sia regreditai[6].
L’illustrazione dell’area Spina Tre a Torino ha aperto uno squarcio interessante e particolarmente istruttivo[7]. Non si è trattato questa volta di un “programma complesso”, ma di un intero piano regolatore, che è stato sottoposto a critica. La questione – è emerso – non sta tanto né solo nello strumento adoperato: anche quando si adopera in modo tecnicamente corretto uno strumento di per sé capace di governare l’insieme della città l’esperienza è deludente quando mancano due requisiti: la definizione di obiettivi sociali adeguati e condivisi, tra i quali l’uguaglianza dei diritti degli abitanti abbia un peso preminente, e quando vi sia un corretto inquadramento dei problemi e delle soluzioni alla scala che ciascuno di essi richiede. Il piano urbanistico comunale è anch’esso uno strumento:come per qualsiasi altro strumento i risultati dipendono dagli obiettivi e dai contenuti.
Di Napoli si è già detto. È utile aggiungere che è rimasta inevasa una domanda, che è emersa con maggior evidenza che in altre esperienze. Perché la svolta? Nel capoluogo campano essa è non è avvenuta nel passaggio non da una maggioranza all’altra, ma da una trasformazione dello stesso personale politico. Probabilmente l’involuzione ha coinciso con il mutamento dell’interesse di chi guidava la città (nella fattispecie Antonio Bassolino): quando ha privilegiato l’intesa con gli interessi economici dominanti rispetto al benessere dei cittadini. Ma Napoli ha testimoniato anche che l’efficacia della pianificazione (ancor oggi, otto anni dopo il passaggio dal Bassolino 1 al Bassolino 2) il PRG è ancora autorevole, efficace, e prosegue il suo cammino regolatore e attivatore di interventi virtuosi. Ciò dipende con ogni probabilità dal fatto, raccontato nel libro I ragazzi del piano, che esiste un ufficio del piano costruito e consolidato dopo due decenni di esperienze di lavoro comune, in stagioni difficilissime, ha hanno costruito e consolidato il rapporto tra urbs, civitas e politi negli anni in cui le tre realtà hanno saputo trovare la loro sintesi.
Che fare
Ho accennato alla sensazione di sgomento quando, al termine della prima giornata, ci si è resi conto della pervasività della ideologia del neoliberalismo e della conseguente strategia della “città come merce”. Sembra indubbio (tutte le testimonianze successive lo hanno confermato) che l’”accerchiamento” è forte. Le esperienze positive da un lato sono minacciate nella loro stessa possibilità di proseguire, o sono già cancellate, dall’altro lato, quando anche sopravvivano, sono ignorate, nascoste, negate. E indubbiamente l’ideologia dominante è quella promossa, instillata, inculcata dai poteri forti della globalizzazione. Poteri forti dei quali è diventata parte integrante l’appropriazione della rendita urbana, strettamente intrecciata alla rendita finanziaria e con essa diventata dominatrice dell’economia. Di una economia, d’altra parte, sulla quale la politica si è appiattita.
Per questa economia (e per questa politica) la città è diventata una macchina esclusivamente finalizzata ad accrescere le rendite e a moltiplicare i consumi di merci utili all’espansione produttiva (indipendentemente dalla loro reale utilità per l’uomo e per la società), a produrre forza lavoro a basso costo (l’immigrazione, i ghetti, gli slums sono funzionali allo “sviluppo”). Nella civitas si tende a spegnere ogni forma di dissenso suscettibile di minacciare quell’equilibrio sociale: quindi a trasformare la partecipazione politica in propaganda, ad alimentare il mito dell’insicurezza recuperando fantasmi medioevali, ad aumentare le segregazioni, i “recinti”[8], le gated cities, le disuguaglianze.
Cresce l’ingiustizia, crescono le privatizzazioni (le stesse aree a standard devono servire a far soldi, non a soddisfare le esigenze comuni degli abitanti), crescono le distruzioni dei beni comuni. Ma ecco allora, all’interno stesso delle condizioni provocate dal dominio dell’ideologia neoliberale e della “città come merce”, i germi della possibile speranza. Per dirlo con una sintesi, se l’urbs non incontra la polis perché la politica ha scelto altre strade, essa può resistere e rinascere alleandosi alla civitas, alla società. Se questa è oggi dominata dall’egemonia del neoliberalismo (la libertà vince sull’eguaglianza, il mercato è il regolatore assoluto, il pubblico è servo del privato, la comunità è negata dall’individuo) in essa però crescono i momenti di sofferenza, di critica, di ribellione. Ve ne sono ormai numerose testimonianze, in Italia e nel mondo.
In Italia vorrei sottolineare le numerosissime iniziative dei comitati in vario modo sorti per difendere singoli aspetti o porzioni della gestione del territorio. Episodi numerosissimi, mai censiti, sempre caratterizzati da un localismo che minaccia di spegnerli. Episodi, però, che cominciano ad evolvere verso la costituzione di “reti” che possono orientarli verso una strategia e dei contenuti più ampi. Mi riferisco alla Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio. Mi riferisco alla costituenda e analoga rete lombarda, alle reti che tentano di costituirsi nel Veneto, ai numerosi comitati che contestano le politiche urbanistiche di Roma e di Torino. Mi riferisco alle sollecitazioni, che nascono dal mondo sindacale, di saldare la difesa del territorio con la difesa del lavoro (l’altra grande vittima della strategie neoliberale). E mi riferisco a un episodio nel Mezzogiorno che porta una testimonianza di grande significato: la lotta per l’utilizzazione pubblica del grande complesso ex militare di Macrico, a Caserta[9].
L’intreccio tra “buone pratiche” e “buone lotte” può essere un modo utile per uscire dal guscio e riportare l’urbanistica nella civitas – in attesa del giorno in cui anche la polis riprenderà il suo ruolo di espressione della società e guida dell’economia, e non di ancella di quest’ultima. Da questa possibilità, da questa speranza nascono anche le risposte al “che fare”, che è venuta con forza dalle quattro giornate della scuola: cosa fare come urbanisti.
Gli urbanisti sono in primo luogo cittadini; allora è in primo luogo come cittadini che dobbiamo interrogarci.
Il primo obiettivo che dobbiamo proporci è di recuperare i senso critico: la capacità di vedere e comprendere le cose al di là della loro apparenza. La distinzione gramsciana tra senso comune e buon senso[10] è utile per comprendere il lavoro da fare. Ciò comporta la necessità di contrastare, come suggerisce Raffaele Radicioni, la tesi secondo la quale il reale è razionale, ciò che esiste è l’unica realtà possibile. Ciò comporta di non credere che la storia sia già scritta, e convincerci che la storia siamo noi che la scriveremo, se orienteremo la nostra azione nella direzione giusta e se riusciremo a lavorare in quella direzione con altri.
Dobbiamo ricordare che ogni nostro gesto (ogni parola come ogni azione) ha una direzione: se non la scegliamo noi, allora adoperiamo quella che il senso comune ci impone. Altro è se non diciamo “i sindaci non hanno risorse finanziarie e quindi sono costretti a vendere il territorio per sopravvivere”, o se noi diciamo “i sindaci sono stati costretti a non avere più risorse finanziarie e quindi…”.
Il secondo obiettivo è quello di comprendere. Lo so, per comprendere bisogna studiare, leggere, impiegare del tempo. Ma è la condizione necessaria; se non siamo in grado di farlo, allora è meglio rassegnarsi, smettere di protestare. La Scuola tenta di aiutarvi nel comprendere e studiare: non solo nelle sue giornate, ma anche regalandovi libri e inserendo in rete i testi delle lezioni e altri documenti utili a comprendere. Ed eddyburg è pronto ad aiutarvi con le sue risorse, con la piccola rete di esperti che attorno al sito gravita. Domandate, e cercheremo di rispondervi. Le cose sono complesse. I manuali di urbanistica, se sono utili per la professione, non bastano per comprendere la società, l’economia, le loro trasformazioni. Eppure, è di lì che l’urbanistica è sempre partita. A maggior ragione ciò è necessario oggi, in tempi di così immane trasformazione.
E in quanto urbanisti?
A maggior ragione in quanto urbanisti, dobbiamo innanzitutto comprendere. Questo significa studiare. Non aggiungo nulla di ciò che ho detto or ora, se non che l’aiuto che si sforza di dare eddyburg è particolarmente rivolto a chi, dentro o a ridosso alla pubblica amministrazione, ha il dovere e la possibilità di lavorare in modo efficace per una città migliore, e quindi ha i dovere di comprendere più e meglio degli altri ciò che determina le condizioni della civitas nell’urbs.
E ancora maggiori sono le possibilità dell’urbanista di far comprendere.
Possiamo dare un sostegno al movimento in più direzioni. La prima è quella di illustrare ciò che accadrà nella città prima che esso avvenga. Radicioni lo ha detto: i cittadini hanno iniziato la protesta a Spina 3 quando anno visto gli effetti molti anni dopo che le cause (il PRG) erano state proposte, accettate, consolidate. Perché nessuno lo ha raccontato prima? Colpa dei cittadini, ma anche degli urbanisti che forse hanno fatto poco per spiegare. La seconda è di adoperarsi per far sì che il movimento (i cittadini, i comitati, le piccole associazioni) escano dal localismo, dal settorialismo, dalla logica Nimby che è spesso il necessario punto di partenza. Del resto – l’ho appena detto – gli urbanisti lavorano a ridosso delle amministrazioni pubbliche, dei municipi, che sono (che devono tornare a essere) il primo punto di riferimento dei cittadini. È da lì che occorre ricominciare a fare politica. È lì che la civitas può cominciare a incontrare la polis, a modificarla.
Possiamo lavorare per modificare le istituzioni. I sindaci, gli amministratori, non sono tutti corrotti: moltissimi non lo sono. Se subiscono l’egemonia dell’ideologia prevalente è perché, spesso, non sanno, non comprendono: restano avvolti nella tecnicità di cui noi stessi troppo spesso ci ammantiamo. Dobbiamo far comprendere a loro (come del resto ai cittadini) quali sono le conseguenze sociali, economiche, territoriali delle scelte che si compiono: i prezzi delle soluzioni sbagliate, i vantaggi delle soluzioni possibili. Dobbiamo imparare ad argomentare le nostre tesi, le nostre proposte, le nostre denunce.
E dobbiamo (questo è un punto che Cristina Gibelli mi chiedeva particolarmente di segnalare) far bene il nostro mestiere, impiegare bene la nostra cassetta degli attrezzi. Ad esempio, il calcolo del fabbisogno. Questo è uno strumento fondamentale della nostra cassetta degli attrezzi: non si decide quante nuove aree si devono urbanizzare se non si è fatto un ragionamento e un calcolo sulle reali necessità di nuovi spazi per la residenza, le industrie, la distribuzione. Chi adopera oggi questo fondamentale attrezzo? Non è forse vero che oggi, nel migliore dei casi, si decide sulla base delle ragioni della mera attività edilizia? E nel peggiore sulla base degli interessi fondiari che si vogliono premiare? Primo dovere di un urbanista è spiegare al decisore che così è indecente, è contrario alla deontologia professionale, e che per questa faccenda l’amministratore si rivolga ad altri (a proposito, che fanno gli ordini, le associazioni sindacali, per tutelare il dovere deontologico degli urbanisti?).
Certo, spesso sarà difficile convincere il decisore, resistere alla sua insistenza (e magari, in un mondo nel quale il lavoro diventa sempre più precario, al ricatto). Spesso bisognerà cedere, attaccare il carro dove vuole il padrone. Ma sarà più utile, per l’interesse generale e per quello della città e dei cittadini, farlo dopo aver tentato di resistere, e avewr instillato magari un germe nella coscienza di quel decisore, se davvero non è corrotto intellettualmente o materialmente.
Gli spazi pubblici
C’è poi un campo d’azione nel quale la professionalità dell’urbanista può dispiegarsi con una pienezza di rapporto con la coscienza civile: il campo degli spazi pubblici. Questi sino decisivi per una città che voglia davvero costruire una società non atomizzata. Al Social forum europeo di Malmö, nel seminario che eddyburg, Cgil e Zone hanno contribuito a organizzare, un ragazzo greco ha detto: “ma come facciamo a riunirci, a discutere, a convincere gli altri abitanti che così non va, che quelle scelte sono sbagliate, che queste esigenze non vengono soddisfatte, se non abbiamo spazi pubblici dove riunirci?”. Testimonianza di un carenza che avvilisce la stragrande maggioranza dei nostri insediamenti. Qui c’è davvero molto da fare. Siamo pieni di parcheggi, siamo pieni di rotatorie e svincoli, ma mancano le piazze.
Ci lamentiamo per i “recinti” che separano l’una dall’altra parte le città dei ricchi, quelle dei benestanti, quelle delle varie categorie dei poveri. Vogliamo la mixitè. Perché allora non adoperiamo gli spazi pubblici (e magari l’individuazione di quelli che gli stessi abitanti scelgono come luoghi nei quali stare insieme) come i nodi di una ricomposizione sociale della città? Perché non avviamo, insieme ai gruppi di cittadini e alle associazioni più sensibili, una campagna di rilevamento e mappatura degli spazi pubblici da difendere, o di quelli da recuperare e restituire alla società? Molte strade si aprono a chi vuole orientare la propria professionalità nella direzione giusta.
Avviandomi alla conclusione, vorrei darvi qualche anticipazione sui nostri programmi. La prossima edizione della Scuola (la quinta, un traguardo significativo) sarà con ogni probabilità in Sardegna, ad Alghero. Sarà dedicata proprio agli spazi pubblici. Pur apportando qualche modifica, volta soprattutto a stimolare il lavoro degli studenti, la organizzeremo secondo lo schema attuale.
Una prima sessione sarà dedicata a tracciare, in un contesto pluridisciplinare, il quadro generale della situazione: parleremo dell’uomo pubblico e l’uomo privato, dell’intimo e del sociale, del pubblico e del privato; parleremo del diritto alla città (ci piacerebbe avere qualcuno come Stefano Rodotà a parlarne); cercheremo di parlare di condizioni e anche di principi: perché è ai principi che si parte. In una seconda sessione vorremmo lavorare sulla storia: in particolare, la storia di quella fase nella quale, grazie al fruttuoso incontro di urbs, civitas e polis, si affrontarono in Italia due grandi questioni della “città pubblica”: gli standard urbanistici e il diritto alla casa. Ragioneremo sugli anni 60 senza nostalgia, proiettando la nostra riflessione sull’oggi. Le altre due sessioni le dedicheremo, rispettivamente, alla presentazione di casi significativi e interessanti, dal punto di vista sia delle “buone pratiche” che delle “buone lotte”, e alla individuazione di quelli che chiamerei “i nuovi standard urbanistici”: che cosa bisogna fare per guardare avanti, al di là dei confini tracciati dall’impostazione degli anni 60, al di là non solo dell’impostazione meramente quantitativa, ma anche da una visione troppo appiattita sul locale e sul cittadino, troppo limitata a ciò che allora era essenziale e oggi è solo una parte delle “nuove essenzialità”: il tempo libero, le spiagge e i boschi, i luoghi della cultura.
Prima delle giornate della scuola (che si svolgerà in una dell prime settimane di settembre) vi proporremo altre cose da fare insieme. Faremo alcune cose interessanti in preparazione della scuola, con l’aiuto di alcuni di voi. Organizzeremo degli altri appuntamenti. Da queste giornate è emerso il comune interesse di approfondire la riflessione, in modo più specifico, su realtà che qui erano rappresentate solo come illustrazione di un ragionamento generale. Per Napoli, per Torino, per Bologna è sembrato a molti interessante approfondire la conoscenza dia della città che del suo piano: incontri di un paio di giorni, nei quali si possa conoscere meglio i documenti di piano, incontrare la città e i suoi abitanti (come ci invitava a fare Giovanni Caudo), e discutere sugli uni e sugli altri insieme. Poiché le risorse che possiamo dedicare alla scuola sono impegnate fino all’estremo da questa, organizzeremo queste giornate se qualcun altro se ne farà completamente carico. Roberto Giannì si è impegnato a farlo per Napoli, Raffaele Radicioni verificherà la possibilità di farlo a Torino, e sono sicuro che le nostre Celestine saranno in grado di farlo magnificamente a Bologna.
Ringraziamenti
Ringrazio ancora tutte e tutti. I docenti cha hanno messo gratuitamente a nostra disposizione il loro tempo, cosa abbastanza eccezionale in questi tempi. Gli studenti che hanno partecipato ancor più che in passato, e hanno davvero aiutato gli stessi docenti a ricalibrare giorno per giorno il taglio delle loro presentazioni. Il sindaco Daniele Ferrazza e l’ottimo assessore (ed enologo, come abbiamo potuto sperimentare) Franco Dalla Rosa, l’impareggiabile Suor Eliana, la cui intelligenza, la cui cultura (oltre che la pazienza e la disponibilità) sono state una piacevolissima sorpresa (a proposito, vi ricordo la serie di dibattiti che ha programmato sulla politica oggi, ho già sentito di qualcuno di voi che vi parteciperà). Infine, i cirenei dell’organizzazione di queste giornate: il direttore Mauro Baioni e Ilaria Boniburini, che hanno dedicato almeno un paio di intensi mesi delle loro vite al lavoro che c’è dietro la scuola, e alle new entries dello staff della scuola, Giorgia Boca e Patrizia Del Rosso. Una punta di rincrescimento per alcuni studenti degli anni scorsi che avrebbero voluto partecipare ma non hanno potuto. Speriamo di rivederli ad Alghero, con molti di voi.
© eddyburg.it. Chiunque può riprodurre l’articolo, alla condizione di citare l’autore e indicare la fonte, eddyburg.it
[1] Hanno illustrato la vicenda del PRG di Napoli Roberto Giannì, Gabriella Corona e Vezio De Lucia.
[2] I testi delle “Parole della città (vedi in eddyburg) sono stati redatti e illustrati da Ilaria Boniburini.
[3] Le scalette e, al più presto, i testi dei oro interventi sono in eddyburg, in una cartella dedicata alle lezioni.
[4] L’analisi della situazione urbanistica bolognese è stata svolta da Barbara Nerozzi, Chiara Girotti, Graziella Guaragno ed Elettra Malossi.
[5] La lezione è stata tenuta da Maria Cristina Gibelli.
[6] L’illustrazione del programma urban di Cosenza è stata redatta e presentata da Giorgia Boca.
[7] Essa è stata tenuta da Raffaele Radicioni.
[8] Questo termine, argomentato da Paola Somma, ha incontrato una particolare fortuna nel dibattito e negli interventi degli studenti.
[9] Vedi su eddyburg
[10] Vedi su eddyburg parole
• Spina 3 e le Zone Urbane di Trasformazione del PRG di Torino 1995: dove sono e cosa sono le ZUT.
• I programmi di Trasformazione Urbana di Torino: localizzazioni e dati quantitativi. Previsioni al 1997.
• Il rapporto fra il PRG ed i Programmi complessi: bilancio sintetico al 2008, con l’ausilio della pubblicazione di Silvia Saccomani sull’argomento.
• I principali elementi quantitativi di Spina 3: in particolare gli spazi pubblici; conteggi e considerazioni con l’ausilio di quanto predisposto da Flavia Bianchi in occasione del Convegno di Torino nel maggio 2007 dedicato a Spina 3.
• Le principali proprietà fondiarie operanti nel complesso di Spina 3.
• Alcune immagini fotografiche, scattate nel luglio 2005 e nel maggio 2007 in alcuni settori di Spina 3.
• Il controllo democratico del progetto di Spina 3.
• Le premesse del progetto di Spina 3 nel PRG del 1995: le aree per servizi e le scelte fondanti del PRG.
Una delle ragioni della progressiva perdita di rilevanza sociale dell’urbanistica é da ricercare nell’allontanamento di questa dai temi che riguardano il modo in cui le persone abitano, dai problemi reali che queste affrontano quotidianamente nello svolgere le diverse attività che le impegnano.
La cultura urbanistica e quella architettonica, in questo concordi, si sono lacerate negli anni. La prima attorno alla questione della rendita, divisa tra chi voleva contrastarla e tra chi voleva favorirla. La seconda, la cultura architettonica, sembra essersi appiattita sulla dittatura del mercato imperante e sulle domande di spettacolarizzazione imposte dai processi finanziari impliciti nel mercato immobiliare. Un ripiegamento verso l’immagine, talvolta con tinte ecologiche, che non ha incontrato, se non raramente, le reali condizioni di vita delle persone, degli abitanti. In entrambe queste posizioni sono mancate le persone e le relazioni che queste intrecciano con lo spazio. Da qui é necessario ripartire.
Comprendere i bisogni, le aspirazioni e costruire risposte a partire dalle forme dell’abitare (dalle difficoltà di farlo) sono attività che hanno costituito la base del lavoro degli architetti-urbanisti nel XIX e XX secolo. Al centro della proposta operativa dei maestri era la complessità delle forme di associazione umana, l’interpretazione delle vicissitudini imposte agli individui dal cattivo sviluppo della città e del territorio.
Tornare a dispiegare delle letture per comprendere i bisogni, le aspirazioni, … non é facile. Leggere i “fenomeni”, “ciò che accade”, “quello che le persone fanno” è una pratica difficile e controversa. Difficoltà date, ad esempio, dall’”evanescenza del collettivo” che ha perso (si tratti di spazio o no) i caratteri che da sempre lo hanno segnato. Difficoltà che procede con la progressiva individualizzazione della società, della sua articolazione in isole che, però, non costruiscono arcipelaghi.
Eppure, questo ritorno a “le cose” ci appare inevitabile per uscire da una prassi tecnica, dove gli strumenti, le procedure prevalgono sul “cosa fare”, sul contenuto. Oggi pare che ogni cosa, purché dentro una qualche procedura, sia giusta e vada realizzata.
Tornare a “le cose” vuol dire assumere la prospettiva di interrogarsi sul cosa fare. In qualche modo, certamente in modo diverso dal passato, é anche tornare a fare “militanza”.
Mettersi dinanzi a questa prospettiva, tanto più se poi la si offre ai partecipanti della scuola, ci impone di chiarire le difficoltà, i rischi e le implicazioni. Ammesso che poi le ragioni di partenza risultino chiare e condivise.
I differenti profili degli intervenuti ci consentono di affrontare la necessità di tali chiarimenti e di delineare l’insieme delle questioni che il “vivere insieme” nella città contemporanea propone.
La sequenza degli interventi inizia con i contributi di Somma, Forni e Fava che guardano “le cose” da tre differenti punti di vista. Rispettivamente, quello dei “nuovi arrivati”, dei bambini e da un luogo, il quartiere Zen di Palermo. Ai tre interlocutori chiediamo che il loro racconto incontri anche i due temi esposti qui di seguito:
- “la contrazione” del senso proprio della Città come luogo d’incontro. La riduzione, la progressiva scomparsa, di ciò che sta tra noi e che ci fa stare insieme. Quel mondo di cose che la Harendt considerava essenziale per vivere insieme. Cosa oggi può costituire questo “in between” posto che lo spazio di prossimità si é sciolto in connessioni e legami a-spaziali? Qui confluisce un tema ancora più ampio, quello delle relazioni tra spazio e individui. Come si ridefinisce lo spazio di prossimità?
- la seconda questione, in realtà come per la prima si tratta di grumi di questioni, attiene al Diritto alla città. E’ questione controversa, ma ci interessa guardarla il più possibile in modo frontale, per esigenze di chiarezza e per tentare di contrastare un binomio – dentro/fuori - che si sta diffondendo in modo subdolo (forse neanche tanto subdolo). Per noi stare bene (sicuri) l’altro deve restare fuori. Negare il diritto all’estraneo, ma poi anche all’indesiderato, poi anche a chi non ha le risorse economiche necessarie, poi…. . Così si sta formando una sorta di città di sotto che cresce in dimensione e che sembra essere il destino dei “deboli”.
La sequenza prosegue con l’intervento di Paba il cui racconto, oltre ad incontrare i temi di cui sopra, ci piacerebbe che affrontasse il rapporto tra la conoscenza, quella acquisita guardando “le cose” e quella più esperta ma distaccata, meno partecipata. Le difficoltà di interpretare ciò che accade, per i motivi in parte prima elencati, ci pare che incontrano qui, nel crocevia di come si costruisce la conoscenza, gli aspetti più propriamente disciplinari. Aspetti che hanno implicazioni dirette sulla formulazione delle politiche di intervento e di costruzione delle scelte.
Vorrei iniziare il mio contributo leggendo alcuni narrazioni tratte dai testi indicati in bibliografia. Credo che possa essere un modo efficace per entrare emotivamente , prima ancora che razionalmente e ‘fisicamente’ nello spazio urbano del disagio, dell’emarginazione, della povertà, del degrado, della negazione (dell’altro) della lontananza, dell’assenza (esattamente le parole-chiave che ci ha proposto Ilaria Boniburini).
Ma vorrei che queste letture ci stimolassero poi a riflettere razionalmente sul “discorso” dello spazio. E proverò a farlo con l’aiuto dell’Antropologia e della Sociologia.
Se vogliamo mettere in positivo il tema della invivibilità, credo sia importante domandarsi come si produce culturalmente e socialmente lo spazio; e chi lo costruisce? E come lo si può comprendere? E quali effetti produce il mettere lo spazio (e non l’architettura) al centro del progetto urbano?
Vorrei riflettere con voi su come l’urbanità sia legata al processo di spazializzazione sociale. La produzione dello spazio riguarda infatti la riproduzione e l’interazione sociale e culturale.
E ancora:se è vero che culture differenti usano lo spazio (e lo costruiscono) in modo differente, come affrontare e mettere in positivo il conflitto che ne deriva?
Infine: come portare l’uomo e la sua cultura dello spazio al centro del discorso sulla sostenibilità urbana
Sono due gli argomenti intorno ai quali penso di articolare il mio contributo, anche tenendo conto di coloro che mi avranno preceduto.
Il primo riguarda una concezione della pianificazione “sensibile alle differenze”: alle differenze di età (bambini), di provenienza geografica (migranti), alle altre mille differenze, e anche a quelle di luogo ( e di opportunità che ne derivano).
Il secondo argomento riguarda il ruolo che possono avere, nelle situazioni di disagio sociale, le “politiche pubbliche dal basso”, le pratiche auto-organizzate di azione sociale, per una maggiore vivibilità della città. Partirò da alcune piccole storie del quartiere della Piagge di Firenze per definire più in generale i caratteri che le “politiche pubbliche dal basso” possono avere.
Si tratta di un argomento rilevante sul quale la discussione è aperta: l’ultimo libro di Stefano Moroni e di Grazia Brunetta (Libertà e istituzioni nella città volontaria), fornisce una interpretazione liberista del significato che possono avere le forme spontanee di auto-organizzazione capaci di produrre utilità collettive; io cercherò di fornirne una visione diversa.
Nella cartella letture consigliate possono essere scaricati due contributi, che hanno qualche relazione con questi argomenti (e contengono indicazioni bibliografiche forse utili); essi riproducono, con qualche taglio e qualche variazione, i seguenti due articoli:
G. Paba, “Corpi, case, luoghi contesi: osservazioni e letture”, in Contesti. Città, territori, progetti, n. 1, 2007, pp. 39-48 [si tratta dei primi semplici appunti di una ricerca in corso, pubblicati nella rivista del Dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio dell’Università di Firenze]
G. Paba, “Interazioni e pratiche sociali auto-organizzate nella trasformazione della città”, in A. Balducci, V. Fedeli, a cura di, I territori della città in trasformazione, Angeli, Milano, 2007, pp. 104-122.
Il desiderio di “ritornare alle cose”, che sostiene anche l’impresa di conoscenza etnologica, si dispiega da una parte nel riconoscimento dell’impossibilità di accedere al reale al di fuori di circuiti di mediazione e dall’altra nel discernere, nella domanda “Cosa fare?” “un dovere” (in realtà la domanda è “Cosa devo fare?”). Si tratta di un dover fare che è ad un tempo epistemologico, etico e politico. In questa prospettiva, il mio racconto della vivibilità del quartiere Zen [Zona espansione nord] di Palermo, centrato sui modi dell’abitare (nel senso di “produzioni” di configurazioni concrete che performano il nostro rapporto alle persone, ai beni e al tempo) sarà prima di tutto il racconto delle rappresentazioni “esterne” della sua qualità della vita, di quelle rappresentazioni che hanno la pretesa di restituire immediatamente “le cose”, le condizioni della periferia degradata e la invivibilità delle sue traiettorie individuali, trasformandola con i suoi residenti in un oggetto di sapere. L’ascolto “da dentro e dal basso” dei residenti e di quanti il territorio convoca (operatori esterni) porta alla luce un rapporto allo spazio e delle relazioni sociali che rimangono occultati dai discorsi dominanti, “dall’esterno e dall’alto”. Il concetto di qualità della vita, in realtà soggettivo ed esperienziale, rivela la sua natura “posizionale”, mediatrice di rapporti tra classe, generi e generazioni. L’apparato dei suoi indicatori oggettivi che vuole operazionalizzare il tradeoff tra interventi finalizzati, pubblici o privati, e la maggiore vivibilità del quartiere, appare essere una costruzione necessaria alla cultura delle politiche (policies) e della politica che fa funzionare volontari, architetti, pianificatori urbani, ricercatori sociali, amministratori pubblici, giornalisti e molte delle loro organizzazioni. Nelle maglie strutturali economico-politiche della città di cui il quartiere è secrezione, l’iniziativa individuale che si manifesta nelle “poetiche dell’abitare”, aggirando e integrando le cosiddette “ostilità spaziali”, ci invita a pensare ad una epistemologia diversa per comprendere la città. E illustra forse l’invenzione di un rapporto allo spazio urbano ancora tutto da apprendere. Il problema della vivibilità allo Zen è diventato in gran parte la sua stessa problematizzazione.
Riferimenti biografici
Ferdinando Fava (2008), Lo Zen di Palermo. Antropologia dell'esclusione, prefazione di Marc Augé, Franco Angeli Editore, Milano.
In eddyburg vedi la cartella periferie. In particolare segnaliamo due interviste, a Vittorio Gregotti, progettista del quartiere, e a Vezio De Lucia.
Riferimenti biografici
Ferdinando Fava, antropologo, insegna Antropologia Culturale, Patrimonio industriale e trasformazioni urbane presso l’Università degli studi di Padova. È ricercatore affiliato al Centre d’Anthropologie des Mondes Contemporains, dell’EHESS di Parigi. Ha studiato Sociologia Urbana all’University of California at Berkeley.
In calce sono scaricabili due contributi attorno ai due temi seguenti che saranno trattati da Giancarlo Paba nella sua comunicazione:
- una concezione della pianificazione “sensibile alle differenze”: alle differenze di età (bambini), di provenienza geografica (migranti), alle altre mille differenze, e anche a quelle di luogo ( e di opportunità che ne derivano);
- il ruolo che possono avere, nelle situazioni di disagio sociale, le “politiche pubbliche dal basso”, le pratiche auto-organizzate di azione sociale, per una maggiore vivibilità della città.
Riproducono, con qualche taglio e qualche variazione, i seguenti due articoli:
G. Paba (2007), “Corpi, case, luoghi contesi: osservazioni e letture”, in Contesti. Città, territori, progetti, n. 1, pp. 39-48 [si tratta dei primi semplici appunti di una ricerca in corso, pubblicati nella rivista del Dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio dell’Università di Firenze]
G. Paba (2007) “Interazioni e pratiche sociali auto-organizzate nella trasformazione della città”, in A. Balducci, V. Fedeli, a cura di, I territori della città in trasformazione, Angeli, Milano, pp. 104-122.
Comune di Bologna, Piano strutturale comunale, Note di sintesi per la storia della pianificazione a Bologna, scaricabile dal sito del piano strutturale.
Documento in cui si ricostruiscono in modo estremamente sintetico:
- la successione di piani urbanistici che hanno regolato lo sviluppo della città dal 1889 agli anni ’80;
- alcuni contenuti del PRG approvato nel 1989 e un primo bilancio della sua attuazione;
- i principali interventi di trasformazione urbana degli anni ‘90.
Comune di Bologna, Piano strutturale comunale, Il bilancio del PRG vigente, allegato scaricabile in calce.
Documento facente parte del quadro conoscitivo del piano strutturale nel quale è ricostruito il bilancio dell’attuazione delle principali trasformazioni urbanistiche previste dal PRG del 1989.
Provincia di Bologna, Riqualificazione urbana e territorio, atti del convegno, 30 gennaio 2003, Bologna, scaricabile dal sito del PTCP.
Si segnalano in particolare i contributi di Rudi Fallaci nonché il capitolo conclusivo “La riqualificazione nell’area bolognese: bilanci e considerazioni” in cui viene effettuata una disamina analitica degli interventi di trasformazione urbana promossi dopo il 1995.
Nelle pagine Inforumrer del sito istituzionale della Regione Emilia Romagna sono contenuti i principali riferimenti di legge e alcune informazioni ulteriori sui programmi di riqualificazione in Emilia Romagna.
Paola Somma (2004), "Casa, integrazione e segregazione", in Coin F. (a cura di), Gli immigrati, il lavoro, la casa: tra segregazione e mobilitazione, Angeli, Milano, pp. 121-136.
Testo scaricabile in calce
Nicholas Blomley (2004), Unsettling the city. Urban land and the politics of property, Routledge
Garrett Hardin (1968), The tragedy of the commons, “Science”, n. 162, p. 1243-48
Neil Smith (1996), The revanchist city, Routledge
Vedi anche la scaletta della lezione
G. Soda, Politiche urbane a Cosenza in Politiche e piani in medie città del sud Italia, "Urbanistica", n. 119 (2002), qui in allegato.
D. Cersosimo, C. Donzelli, Mezzo Giorno.Realtà, trasformazioni e tendenze del cambiamento meridionale, Donzelli Editore (2000). In particolare, Introduzione e cap. 9- L’identità come risorsa
In particolare sul Programma Urban I:
il sito ufficiale dell’Unione Europea Urban Community Initiative con informazioni di carattere generale sul programma e sulle singole esperienze
P.C. Palermo (a cura di), Il programma Urban e l’innovazione delle politiche urbane, Franco Angeli/DIAP, 2002 (vol. I, II e III)
PRESENTAZIONE
I segnali di crisi percepiti in questi ultimi anni hanno reso più evidenti i difetti della seconda stagione di crescita tumultuosa iniziata negli ormai lontani anni ’80. Alla dispersione insediativa, alla crisi dell’azione pubblica, all’aggressione del paesaggio abbiamo dedicato le passate edizioni della scuola. Quest’anno vorremmo soffermarci sulla vivibilità delle città. Nonostante i programmi e i piani concepiti a partire dagli anni ’90 (spesso in alternativa alla pianificazione ordinaria) abbiano fatto sovente ricorso a parole come “riqualificazione” e “qualità urbana”, gli effetti prodotti non sono corrispondenti agli obiettivi dichiarati. Per capire le ragioni che hanno determinato questo scarto occorre, come nelle passate edizioni della scuola, capire i presupposti e leggere criticamente i fenomeni in atto, recuperare concetti e strumenti troppo frettolosamente abbandonati, sperimentare percorsi di riflessione e di iniziativa ‘controcorrente’. L’ipotesi che vogliamo sottoporre ad un’analisi critica durante le giornate della scuola è centrata sul tema ‘riqualificazione/rigenerazione urbana. Vorremmo spiegare perché, per assicurare la vivibilità, non sono utili ‘interventi spot’, affidati troppo incautamente ai promotori di iniziative immobiliari, ma occorrano più che mai politiche e piani.
Per affrontare il tema della vivibilità, ci affidiamo nella prima giornata all’intelligenza e alla sensibilità di alcune persone che – nei rispettivi campi professionali – hanno saputo descrivere con acutezza la città invivibile e che solleciteranno docenti e partecipanti a riflettere sulle ragioni che hanno determinato la perdità di vivibilità e sugli strumenti per per promuovere il suo recupero.
Nelle giornate centrali vogliamo spiegare perché e sotto quali aspetti ‘i conti non tornano’, facendo riferimento ad alcune grandi città italiane nelle quali la stagione dei programmi complessi ha dato impulso a numerose iniziative di trasformazione, di cui oggi possiamo valutare gli esiti e le criticità, puntuali e in relazione alla città nel suo complesso.
La giornata conclusiva è dedicata ad un luogo e ad una vicenda eccezionali: Napoli, la città che ha conosciuto negli ultimi anni sia l’avvio di una stagione di pianificazione di ampio respiro, sia il più desolante abbandono del governo del territorio. La giornata sarà incentrata su un’intervista a Vezio De Lucia, il primo ‘assessore’ alla vivibilità di una grande città italiana.
INTRODUZIONE
mercoledì 24
Edoardo Salzano: Il direttore di eddyburg.it introduce gli argomenti del corso e la loro proiezione futura.
Ilaria Boniburini: Parole chiave (riqualificazione e rigenerazione, vivibilità e disagio, benessere e povertà, competizione e concorrenza).
LA CITTÀ INVIVIBILE
mercoledì 24
Se comprendiamo la città, se non perdiamo la sensibilità, se non diventiamo assuefatti – gran parte del lavoro è fatto. Per questa ragione la scuola prende le mosse da un gruppo di interventi che raccontano la città dal punto di vista delle persone e della società. L’attenzione si soffermerà su alcune questioni chiave: la domanda insoddisfatta di occasioni di prossimità, i problemi tuttora irrisolti (la casa, i servizi, l’accessibilità e la mobilità, il lavoro), una concezione più larga dell’abitare che non sia ristretta alla sola domanda/offerta di abitazioni. Intervengono: Giancarlo Paba, Elisabetta Forni, Paola Somma, Ferdinando Fava
Modera la discussione: Giovanni Caudo
CONTRIBUTI DEI PARTECIPANTI: traiettorie fotografiche o filmate di percosi casa-scuola, casaservizi, casa-lavoro ecc. nella città così com’è, percorsa da cittadini improduttivi… (donna, anziano, uomo con carrozzina, pendolare ecc.).
Verso sera: visita ad Asolo, con spritz
RIQUALIFICAZIONE URBANA: UN’OCCASIONE PER CHI?
PERCHE’ I CONTI NON TORNANO
giovedì 25
Siamo tutti consapevoli che il ‘motore della crescita’ urbana è da ricercare nell’intreccio di interessi economici e politici. L’ambizione esplicita della stagione di programmi di riqualificazione era quella di utilizzare la ‘forza propulsiva’ di questo motore per rendere migliori le città, rinunciando ove necessario alle coerenze complessive e alla predeterminazione di regole e obiettivi stringenti. E’ andata come si riteneva? Come sono stati ripartiti i benefici e i costi di queste trasformazioni? Potrebbe andare in modo differente?
BOLOGNA E L’EMILIA ROMAGNA: piani generali e programmi di riqualificazione. Un bilancio critico.
Intervengono: Elettra Malossi, Graziella Guaragno, Giulia Angelelli, Chiara Girotti
Modera la discussione: Mauro Baioni.
Verso sera: visita ad Asolo, con spritz
ORIENTARE LA RIGENERAZIONE URBANA VERSO IL RECUPERO DELLA VIVIBILITA’:
PIANI, POLITICHE, INTERVENTI
venerdì 26
Raffaele Radicioni: TORINO, grandi eventi, contratti di quartiere, piano strategico. Un bilancio critico.
Maria Cristina Gibelli: Rigenerazione urbana o riqualificazione. Esempi di politiche urbane finalizzatea obiettivi di vivibilità da contrapporre alla ‘delega in bianco’ dell’iniziativa ai privati
Modera la discussione: Ilaria Boniburini.
CONTRIBUTO DEI PARTECIPANTI:
Giorgia Boca: Embrioni di rigenerazione in una piccola città del Sud: Cosenza.
Giornata un po’ più breve per collocare una piccola gita tardo-pomeridiana nel territorio; proposta anche gita del sabato pomeriggio, facoltativa, lungo le strade dell’architettura e del buon vino, per coloro che vorranno fermarsi un po’ di più.
VERSO UN RECUPERO DELLA VIVIBILITA’:
DIBATTITO FINALE
sabato 27
Dedichiamo l’ultima giornata ad un luogo e a una vicenda eccezionali: Napoli. La città che ha conosciuto negli ultimi anni sia l’avvio di una stagione di pianificazione di ampio respiro, sia il più desolante abbandono del governo del territorio.
Gabriella Corona intervista Vezio De Lucia, il primo ‘assessore’ alla vivibilità di una grande città italiana. Questi alcuni dei possibili temi dell’intervista.
(1) Perché fondare la vivibilità di Napoli su una variante di salvaguardia e su un piano regolatore (due grandi temi che ricuciono: mobilità e parchi).
(2) L’ufficio di piano di Napoli: una scommessa durata vent’anni.
(3) La vivibilità e le battaglie di eddyburg.it sul consumo di suolo, la deregulation, i programmi complessi: quale legame.
(4): la casa: il grimaldello per una nuova stagione di interventi straordinari oppure un’occasione per rendere le città più vivibili?
Seguirà il rinfresco conclusivo.
MODALITA’ DI SVOLGIMENTO
Come nelle edizioni passate ogni giornata sarà aperta dalle comunicazioni dei docenti invitati alla scuola. Dopo le presentazioni gli studenti discuteranno tra loro e prepareranno le questioni da porre alla discussione. Nel pomeriggio la discussione proseguirà sulla base delle domande proposte dagli studenti.
A metà settimana è prevista una gita organizzata per conoscere i luoghi e un incontro con gli amministratori del territorio che ci ospita.
Sede della scuola è il piccolo centro di Asolo (TV), posto su un colle aguzzo tra Bassano del Grappa e Valdobbiadene. Le lezioni si terranno presso l’Istituto delle suore Dorotee di Asolo, dove si potrà soggiornare usufruendo di condizioni agevolate per gli iscritti alla scuola.
La scuola si terrà, come di consueto dal 24 al 27 settembre.
Le iscrizioni e l’organizzazione degli aspetti logistici sono affidati all’associazione ZONE onlus.
MODALITA' E CONDIZIONI DI ADESIONE
Per partecipare alla Scuola di Eddyburg occorre scegliere una delle seguenti modalità di adesione:
A) PARTECIPANTE – La quota di iscrizione è di 500 € che comprende: la frequenza a tutte le lezioni e il materiale didattico; il pernottamento di 4 notti, da martedì 23 a venerdì 27; trattamento di pensione completa per i giorni 24, 25 e 26 settembre, che include una breve escursione e cena in agriturismo; il pranzo conclusivo del 27. Sarà rilasciata una ricevuta di pagamento valida ai fini fiscali.
B) PARTECIPANTE NON SOGGIORNANTE – La quota di iscrizione è di 400 € che comprende: la frequenza a tutte le lezioni e il materiale didattico; i pranzi dei giorni 24, 25, 26 e 27 settembre. Sarà rilasciata una ricevuta di pagamento valida ai fini fiscali.
C) PARTECIPANTE Junior– Questa modalità di adesione è riservata agli studenti e agli urbanisti under 35 che provvedono personalmente alle proprie spese, ed è subordinata ad un contributo di 320 € all’associazione Zone onlus. Sarà rilasciata una semplice ricevuta non valida ai fini fiscali. La quota comprende quanto descritto per gli studenti residenti di cui al punto A).
E’ ammesso un numero massimo di 40 studenti, dei quali non più di 20 junior. Saranno ammessi i primi quaranta partecipanti che si sono iscritti.
Per accertarsi della disponibilità dei posti contattare Ilaria Boniburini (Zone onlus) tramite email:
ilariaboniburini@zoneassociation.org; oppure al numero di telefono: 347.3196786.
1. Dal momento che la vivibilità non è un diritto, ma una merce con un prezzo che non tutti si possono permettere, credo sia utile partire dalla spazializzazione- territorializzazione dell’iniquità sociale perseguita, attuata e sancita dalle istituzioni pubbliche:
- non tutti i luoghi hanno la stessa qualità e amenità,
- l’insediamento di un individuo o un gruppo in una determinata parte di territorio e di città è in larga misura determinato dalla sua capacità a pagare,
- la localizzazione di attività di pregio o degradanti, la dotazione di infrastrutture e la erogazione di servizi secondo criteri e standard diversificati in funzione dei gruppi di popolazione ai quali sono destinati, lo spostamento di abitanti da una parte all’altra del territorio codificano e rafforzano ineguaglianza e discriminazione,
- gli interventi per migliorare la vivibilità, che spesso consistono in una banale barcellonizzazione degli spazi pubblici, accelerano l’allontanamento forzato degli abitanti più deboli e la loro sostituzione con altri più desiderabili.
L’ingiustizia sociale, di cui la localizzazione e condizione abitativa è solo una manifestazione, è sempre esistita. In passato, però, si raccontava che compito delle istituzioni era di lavorare per mitigarla, adesso accentuare le differenze e racchiuderle spazialmente, recintarle, è un obiettivo esplicitamente perseguito.
Le dichiarazioni del signor Swart, ministro della giustizia del Sud Africa che, nel 1953, spiegava
“ in a country we have civilised people, we have semicivilised people and we have uncivilised people. The Government gives each section facilities according to the circumstances of each (circumstances significa financial conditions)”
ben descrivono le politiche pubbliche nei confronti di coloro che impropriamente chiamiamo nuovi arrivati, e che più semplicemente sono i nuovi senza diritti.
2. Ricondurre la vivibilità all’interno di un ragionamento sul ciclo investimento-disinvestimento-reinvestimento. (vedi il fondamentale contributo di Neil Smith) aiuta a capire la complementarità e interdipendenza degli interventi il cui intento dichiarato è di accrescere la qualità urbana e di quelli punitivi nei confronti degli abitanti dei cosiddetti ghetti, cioè, quartieri o zone con le seguenti caratteristiche:
- confini riconoscibili e riconosciuti,
strade che segnano il limite tra il quartiere e il resto della città o, nel caso di insediamenti periferici, un isolamento fisico segnalato dalla presenza di barriere difficilmente valicabili - autostrada, linea ferroviaria, fabbriche, zone “speciali” - o dalla carenza di trasporti pubblici.
- condizioni di vita mediamente peggiori rispetto al territorio circostante,
minore dotazione di servizi, carenza di manutenzione degli immobili da parte dei proprietari privati e pubblici, degrado degli spazi pubblici.
- omogeneità della popolazione al suo interno e eterogeneità rispetto al contesto,
la popolazione può essere composta da gruppi diversi e talvolta in conflitto fra loro, autoctoni e immigrati, immigrati di diversa provenienza, ma presenta generalmente comuni condizioni di debolezza, per reddito, occupazione, età, a causa delle quali è considerata una comunità “a parte”;
l’insediamento di individui e famiglie immigrate è indotto, facilitato ed incentivato;
la concentrazione del disagio è spesso aggravata dai criteri di assegnazione degli alloggi pubblici
- limitate possibilità di effettiva “partecipazione”,
gli immigrati non possono votare, gli autoctoni non sono proprietari o le loro proprietà valgono così poco da non consentire il trasferimento ad altra zona,
- localizzazione appetibile per l’investimento- reinvestimento immobiliare,
il valore potenziale del terreno e le aspettative di sviluppo immobiliare sono condizione indispensabile per assurgere alla cronaca, prima come quartiere problema, zona a rischio, ghetto e poi come laboratorio, quartiere risorsa, area rivalorizzata e restituita alla città;
la rimozione degli abitanti, almeno parziale e selettiva, è uno degli ingredienti della valorizzazione (bonifica!) del quartiere, perché la terra su cui sorgono i ghetti vale molto, e potrà valere molto di più se “liberata” dagli attuali abitanti.
Il vecchio slogan renewal=removal è ancora attuale.
they told us to dream about what the neighbourhood could be… they did not tell us that the dream meant we shouldn’t be included (dichiarazione di un abitante cacciato nel corso del programma HOPE VI, per la rigenerazione dei quartieri degradati, The Baltimore Sun, 2004).
3. Gli interventi area based, come sono quelli per aumentare la vivibilità urbana, vengono attuati contestualmente – quando non ne sono un prerequisito - alla privatizzazione o riprivatizzazione di tutto quello che è - era pubblico.
La privatizzazione degli spazi pubblici, ed in genere dei beni comuni, viene presentata come una misura indispensabile per accrescere la loro produttività.
Cercare il più alto e miglior uso di ogni bene (highest and best use) non è più solo un’aspettativa del mercato, ma una sorta di imperativo morale per le amministrazioni.
In questa logica, la gentrification non è altro che un’evoluzione naturale e benefica verso un uso più redditizio del suolo e tutto quello che può ostacolarla (lacci e laccioli) è sospetto. Gentrification è sinonimo di sviluppo, si dice, e compito degli urbanisti è di facilitarne la realizzazione.
Nella seconda metà del settecento la recinzione delle terre comuni, e la loro privatizzazione, fu uno degli elementi all’origine della rivoluzione industriale, e quindi alla nascita dell’urbanistica moderna. Per mitigare gli effetti dannosi della industrializzazione e urbanizzazione sulla salute e sulle condizioni di vita si affermò il principio della responsabilità delle pubbliche istituzioni di regolare l’uso del suolo e la necessità che ogni città avesse un patrimonio di spazi pubblici.
Anche ora la recinzione e privatizzazione degli spazi pubblici è uno degli elementi che concorre all’affermazione della cosiddetta rivoluzione postindustriale, ma esattamente opposto è il ruolo assunto dall’urbanistica (dagli urbanisti) postmoderna che partecipa attivamente alla spartizione di questo enorme bottino: teorizza la città per parti, individua le aree da recintare (distretti speciali e entrerprise zones nelle quali sono sospese regole e leggi, siti per eventi speciali e abitanti speciali), valorizza il suolo per cacciare gli uomini, disegna e costruisce spazi difendibili e città sicure.
Nel complesso manca una adeguata consapevolezza delle conseguenze che l’enclosure dei commons (l’uso di termini arcaici è adatto in attesa di compilare un vocabolario per definire il furto e all’appropriazione dei beni comuni) avrà sulla/e città. La privatizzazione e/o ri-privatizzazione di tutto quello a cui può essere attribuito un prezzo è un elemento costitutivo della trasformazione della società e quindi delle città.
Una mobilitazione per la inappropriabilità e incommerciabilità dei commons è necessaria e possibile.
Riferimenti bibliografici
Nicholas Blomley, 2004, Unsettling the city. Urban land and the politics of property, Routledge
Garrett Hardin, 1968, The tragedy of the commons, “Science”, n. 162, p. 1243-48
Neil Smith, 1996, The revanchist city, Routledge
Riferimenti biografici
Paola Somma, già professore associato di urbanistica, Università IUAV Venezia, 1980-2000 e visiting professor presso l’AUB American University di Beirut, 1998-1999. Fra le sue pubblicazioni: Spazio e razzismo, Angeli; 1991, Beirut: guerre di quartiere e globalizzazione, L’Harmattan Italia, 2000; (a cura di); At war with the city, Urban International Press, 2004.
PRIMA GIORNATA - mercoledì 24
INTRODUZIONE
9.00 - 9.20 Edoardo Salzano. Introduzione alla argomenti del corso e loro proiezione futura
9.20 - 9.45 Ilaria Boniburini. Le parole chiave: presentazione e distribuzione del ‘glossario’.
LA CITTA’ INVIVIBILE
9.45 - 10.00 Giovanni Caudo. Introduzione alla prima sessione.
10.00 - 10.40 Paola Somma. Vivibilità, ghetti, recinzioni
10.40 - 11.20 Elisabetta Forni […]
11.20 - 11.40 Pausa caffè
11.40 - 12.20 Ferdinando Fava […]
12.20 - 13.00 Giancarlo Paba […]
13.00 - 13.30 Inizio discussione
13.30 - 15.00 Pausa pranzo
15.00 - 17.00 Discussione
17.00 – 17.30 Traiettorie (da confermare)
18.00 – 19.30 Visita ad Asolo con Spritz
20.00 Cena presso il Centro Spirituale Dorotea
SECONDA GIORNATA - giovedì 25
RIQUALIFICAZIONE URBANA: UN’OCCASIONE PER CHI?
PERCHE’ I CONTI NON TORNANO
9.00 - 10.00 Mauro Baioni. Introduzione alla giornata (con eventuali richieste di chiarimenti sul caso studio da parte degli studenti)
10.00 - 11.00 Elettra Malossi, Graziella Guaragno, Giulia Angelelli, Chiara Girotti, Barbara Nerozzi Bologna – piani generali e riqualificazione urbana.
Prima parte: il piano generale del 1985 ultimo ultimo prodotto della tradizione di buon governo bolognese e al contempo “causa” della diffusione dei programmi complessi.
11.00 -11.30 Pausa caffè
11.30 -13.30 Bologna – piani generali e riqualificazione urbana.
Seconda parte: attuazione e modifica del piano regolatore. La stagione dei programmi complessi. Il nuovo piano strutturale.
13.30 - 15.00 Pausa pranzo
15.00 - 17.00 Discussione
18.00 – 19.30 Visita ad Asolo con Spritz
20,00 Cena presso il Centro Spirituale Dorotea
TERZA GIORNATA - venerdì 26
ORIENTARE LA RIGENERAZIONE URBANA VERSO IL RECUPERO DELLA VIVIBILITA’:
PIANI, POLITICHE, INTERVENTI
9.00-9.20 Ilaria Boniburini. Introduzione alla giornata. Cenni al contesto politico-economico in cui avvengono le trasformazioni urbane delle città europee. Criteri e punti di vista adottati per la lettura dei casi studio con riferimento ad alcune parole del glossario (disagio, vivibilità, competizione, …)
9.20- 10.20 Maria Cristina Gibelli: Rigenerazione urbana o riqualificazione. Esempi di politiche urbane europee finalizzate a obiettivi di vivibilità da contrapporre alla ‘delega in bianco’ dell’iniziativa ai privati. Questioni di governance e partecipazione.
10.20-10.40 Pausa Caffè
10.40-11.40 Raffaele Radicioni: La “Spina 3” di Torino con eventuali richieste di chiarimenti sul caso studio da parte degli studenti
11.40-12.40 Giorgia Boca. Il programma Urban a Cosenza con eventuali richieste di chiarimenti sul caso studio da parte degli studenti
12.40-13.30 Discussione
13.30- 15.00 Pausa Pranzo
15.00 – 16.30Discussione
17.00 – 23.00 Partenza per Gita a Bassano del Grappa e Cena nei dintorni
QUARTA GIORNATA - sabato 27
VERSO UN RECUPERO DELLA VIVIBILITA’
IL PRG DI NAPOLI
9.20 -9.40 Gabriella Corona. Il contesto sociale, politico, economico e territoriale di Napoli. Le premesse del piano, dal piano delle periferia alla ricostruzione dopo il terremoto.
9.40- 10.10 Roberto Giannì. Gli atti e i documenti del piano. Dal Documento di indirizzo, ai tasselli del mosaico, al piano adottato, all’approvazione. Presentazione di tavole ed elaborati.
10.10-11.00 Gabriella Corona intervista Vezio de Lucia: gli obiettivi del piano, gli attori e il loro ruolo, il rapporto pubblico/privato (soprattutto nella fase della ricostruzione), i beneficiari.
11.00-11.10Pausa caffè
11.10-11.50 Gabriella Corona, Roberto Giannì, Vezio de Lucia. Lettura critica del piano ex post: Che cos’è rimasto? Che insegnamenti trarne in via generale?
11.50-12.30 Discussione
12.30- 13.00 Edoardo Salzano. Conclusioni della Scuola 2008 e avvio della Scuola 2009
13.30 Pranzo all’osteria La Trave a Pagnano e commiato
Bibliografia iniziale di riferimento
Raffaele Radicioni
Documentazione sulla realizzazione di “Spina 3” negli Atti del Convegno: “ Spina 3” È la moderna Torino? scaricabile dal sito: http://www.cittabella.net/files/Atti%2019.03.08.pdf
“A Torino e non solo” numero 23 di Nuvole, Luglio 2008. Giornale online: www.nuvole.it. Qui in allegato gli articoli Il governo del territorio: il caso di Torino: di Raffaele Radicioni; Torino polimorfa. Modello di sviluppo e élite civica di governo di Silvano Belligni; Da soli o in compagnia? Alcune sfide per le nuove politiche abitative (e per le scienze sociali) di Manuela Olagnero.
Francesco Indovina (a cura di) (1992). La città occasionale. Firenze, Napoli, Torino, Venezia. Milano: Franco Angeli.
Vedere in particolare i capitoli: Torino: un sogno immobiliare contro il declino. Di Paolo Chicco e Silvia Saccomani; Pianificazione e progetti a Torino di Maria Garelli.
Adriana Castagnoli (1998). Da Detroit a Lione. Trasformazione economica e governo locale a Torino (1970 – 1990). Milano: Franco Angeli.
Arnaldo Bagnasco (1986). Torino. Un profilo sociologico. Torino: Giulio Einaudi editore
Egidio Dansero (1993). Dentro ai vuoti. Dismissione industriale e trasformazioni urbane a Torino. Torino: Edizioni Libreria Cortina.
Arnaldo Bagnasco (a cura di) (1990). La città dopo Ford. Il caso Torino. Bollati Boringhieri.
Bruno Maida (a cura di) (2004). Alla ricerca della simmetria. Il Pci a Torino. 1945 – 1991. Torino: Rosemberg & Sellier.
Vedere in particolare il Capitolo di Claudio Rabaglino Dalla teoria alla pratica. Ambiente, trasporti e urbanistica nell’azione amministrativa delle giunte rosse.
Mazza Luigi e Carlo Olmo (a cura di) (1991). Architettura e Urbanistica a Torino 1945 –1990. Torino: Allemandi.
E inoltre:
Città di Torino - IRES: "La configurazione sociale nei diversi ambiti spaziali della città di Torino e i processi di mobilità residenziale", reperibile nel sito "www.ires.piemonte.it", alla voce "Quaderni di ricerca", Quaderno di ricerca n. 115.
IRES "La mobilità in Piemonte nei primi anni del 2000", reperibile sempre nel sito "www.ires.piemonte.it" alla voce "Quaderni di ricerca", Quaderno di ricerca n. 110.
Città di Torino"Osservatorio condizione abitativa. 3° Rapporto Anno 2006", reperibile nel sito "www.comune.torino.it", nella rubrica "informazioni disponibili".
Alla città di Napoli è dedicata una cartella di Eddyburg. Al suo interno segnaliamo in particolare i seguenti articoli relativi al piano regolatore:
Red., Approvato definitivamente il PRG di Napoli (29.03.2004)
Gabriella Corona, Politiche sostenibili per la città: Napoli come caso di successo (14.03.2005)
Roberto Giannì, Contenuti essenziali del PRG (18.09.2004)
Antonio di Gennaro, PRG di Napoli: Strategia vincente (04.02.2006)
Per chi volesse approfondire, due libri fondamentali:
Vezio De Lucia (1998), Napoli. Cronache urbanistiche 1994-1997, Baldini e Castoldi: Milano.
Gabriella Corona (2007), I ragazzi del piano, Donzelli mediterranea: Roma.
Su Eddyburg sono disponibili la recensione del libro di Gabriella Corona scritta da Francesco Erbanie la prefazione di Piero Bevilacqua.
Gli atti e i documenti di piano, cui farà riferimento Roberto Giannì, sono consultabili e scaricabili dal sito istituzionale del comune di Napoli.
Particolarmente utile è la lettura del Documento di indirizzi, approvato dal Consiglio Comunale il 19 ottobre 1994, con il quale sono state stabilite le linee fondamentali della nuova stagione di pianificazione cittadina della prima Giunta Comunale guidata da Antonio Bassolino.
Qui trovate una piccola galleria di immagini sulla Scuola estiva di pianificazione di eddyburg, 2005. Con alcune delle divertenti caricature di Elena Tognoni
Per andare alla Galleria di immagini cliccare qui sopra
Bibliografia iniziale di riferimento
Elisabetta Forni
Michele Piccolomini (1993). Lo sviluppo sostenibile: una sfida per le città. in ReS ,n.7
Serge Latouche (2007). Breve trattato sulla decrescita serena. Torino: Bollati Boringhieri.
Inoltre alcuni testi di letteratura:
Patrick Chamoiseau (1994). Texaco. Torino: Einaudi.
James Hillman (2004). L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi. Milano: Rizzoli
Beppe Rosso e Filippo Taricco (2008). La città fragile. Torino: Bollati Boringhieri
Enzo Scandurra (2007). Un paese ci vuole. Troina (EN): Città Aperta. In particolare la parte seconda: Rimembranza
Il tema della qualità urbana insieme alla qualità sociale costituisce un pezzo rilevante della strategia della rete delle Camera del lavoro ma non è ancora diventato pratica sindacale diffusa.
Nel sindacato, da tempo, siamo abituati ad analizzare le trasformazioni del lavoro ovvero il passaggio al “nuovo modo di produzione” che definiamo postfordista.
Ne esaminiamo le conseguenze dal punto di vista della precarizzazione del lavoro, dell'indebolimento dei diritti e delle tutele, della compressione del costo del lavoro.
In generale siamo però meno abituati ad esaminare l'altra conseguenza di questo “nuovo modo di produzione” ovvero lo sviluppo disordinato generato dalla fabbrica postfordista che esternalizza i costi aziendali sulla collettività ovvero sul territorio nell’accezione “ di sistema vivente ad alta complessità esito di molti cicli di territorializzazione” secondo la bella definizione di Alberto Magnaghi.
Tutti noi sappiamo che nella vecchia fabbrica fordista tutto si faceva in casa. La grande fabbrica segnava anche simbolicamente il territorio: Torino era la Fiat, Olivetti era Ivrea, Marzotto si identificava con Valdagno, la Lanerossi era Schio, tanto per rimanere in casa.
Il postfordismo è il rovesciamento di questa impostazione.
Conviene esportare fuori dalla fabbrica una serie di funzioni, si risparmia. È una corsa alla riduzione delle dimensioni produttive, la fabbrica snella tende a procurarsi all'esterno ciò che prima produceva all'interno.
Nasce così l'impresa a rete, il lavoro si disperde nel territorio. Prima le reti erano corte, distrettuali, oggi le reti diventano sempre più lunghe, tendono a stendersi ed articolarsi su scala planetaria, connettendo segmenti di produzione, saperi tecnologici e reti commerciali, dislocate magari in continenti diversi.
Il cambiamento è reso possibile dalla rivoluzione delle nuove tecnologie dell’ I.C.T. che velocizzano le comunicazioni e dalla ricerca del capitale di luoghi di produzione a minor costo del lavoro.
Così la fabbrica postfordista esternalizza, nasce l’impresa rete, il lavoro si disperde nel territorio e nascono come i funghi i capannoni in mezzo alla campagna e nei nuovi P.I.P. della Tremonti concepiti come siti a minor costo.
La fabbrica just in time elimina il magazzino perchè esso viaggia sulle nostre strade congestionate che a loro volta attirano attività commerciali, il tutto genera una mobilità multidirezionale delle merci e delle persone, quasi sempre su mezzi privati che congestiona il traffico e soffoca la nostra esistenza.
Una mutazione gigantesca, formata dalla somma di trasformazioni diffuse e capillari, ha investito negli ultimi decenni il Veneto e l’intera pianura padana. Un diluvio di cemento che ha deturpato uno dei paesaggi più belli d'Europa.
Con mirabile capacità di sintesi scrive il vicentino Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera: “Un blocco di cemento di 1070 metri cubi: è questa la dote portata alla provincia di Vicenza da ogni abitante in più dagli anni 90. Crescita demografica: più 52 mila abitanti pari al 3%. Crescita edilizia: 56 milioni di metri cubi, pari ad un capannone largo 10 metri, alto 10 e lungo 560 km. Ne valeva la pena? Valeva la pena di insultare ciò che resta delle campagne care a Meneghello con giganteschi scheletri di calcestruzzo tirati su spesso solo per fare un investimento incentivato dalle varie leggi Tremonti e oggi tappezzati di cartelli "affittasi capannoni"?"
Ne valeva la pena di tutto questo cemento? Ne valeva la pena di capannoni, nel migliore dei casi, pensati per produzioni povere realizzate con tecnologie semplici, non più in grado di reggere la competizione internazionale?
Eppure, non ci sfugge come declino industriale e boom del mattone siano processi strettamente correlati.
Di fronte ai problemi posti dalla ineludibile riconversione industriale molti hanno scoperto il business degli investimenti immobiliari: Tronchetti Provera e Benetton sono i nomi più noti.
Ma il boom del cemento, soprattutto a Nordest, ha “slabbrato” e paralizzato il tradizionale assetto policentrico del Veneto, determinando il collasso della viabilità. La tangenziale di Mestre è ormai diventata la metafora di questo nuovo modo di produzione.
Si affermano nuovi modi di costruire. Le strade-mercato, una successione lineare di fabbriche ed edifici mostra che ha invaso ormai l’intera pianura padana. Più in generale, quello che un tempo era campagna è diventato un paesaggio reticolare della piccola impresa disseminato di case laboratorio. Nuovi monumenti suburbani crescono come funghi, sono i centri commerciali che sostituiscono le vecchie piazze cittadine.
Un modello di urbanizzazione costoso in termini di distruzione di suolo agricolo, di aumento di spese di energia e di tempo nonché insostenibile da un punto di vista ambientale e scarsamente competitivo rispetto ad altri modelli territoriali.
Una dispersione insediativa per la quale gli americani coniarono il termine “ sprawl town” letteralmente: città sdraiata sguaiatamente.
In sostanza, un ambiente urbano a marmellata sempre più privo di forma e memoria dei luoghi e vissuto come alienante soprattutto dalle nuove generazioni.
Caro Alberto, nella “ sprawl town” dove sta la porta della città?
Confindustria invoca nuove infrastrutture in modo settoriale, ovvero non sistemico. Se c'è un problema di traffico la soluzione è semplice: facciamo una nuova strada, meglio se autostrada. Non occorre essere urbanisti per sapere che "l'errore più grave è quello di pensare di risolvere un problema così grave come quello del traffico isolandolo dal più generale contesto della pianificazione urbanistica territoriale”.
Appunto, la pianificazione urbanistica è mancata soprattutto nel Nord del paese e i risultati sono sotto i nostri occhi.
Il tema della difesa del territorio come bene comune nell’accezione patrimonio fisico, sociale e culturale costruito nel lungo periodo, se messo in correlazione con le dinamiche del postfordismo, può essere terreno per costruire una moderna critica all’attuale fase dello sviluppo capitalistico. Lo sfruttamento dell’uomo sulla natura è un aspetto del più generale sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della conseguente ricerca di una diversa ragione dello sviluppo. Un discorso ecologico cioè non può essere disgiunto da un discorso sociale e viceversa. Per questo l’innovazione delle procedure urbanistiche va considerata, valutata e giudicata all’interno di un programma sociale centrato su nuove regole di convivenza.
Quindi se la coscienza di luogo è minacciata dalle devastazioni ambientali prodotte dal capitale, mi chiedo se su questo terreno non sia possibile costruire una nuova coscienza di classe. Se cioè non sia possibile un incontro tra il movimento sindacale e i tanti comitati, associazioni, gruppi, spesso nati spontaneamente attorno a un evento, una minaccia, un progetto. Perchè da questo incontro possa nascere una nuova coscienza collettiva, essa non può che essere fondata sulla consapevolezza dell’impossibilità del mercato di risolvere i problemi derivanti dal carattere intrinsecamente sociale e collettivo della città e del territorio, in contrasto con il carattere individualista proprio dell’ideologia che sta alla base del sistema capitalistico, ovvero dell’attuale sistema economico sociale.
giacimenti patrimoniali locali per modelli di sviluppo peculiari e unici” di cui ha parlato Magnaghi.
Ma questo obiettivo, a mio parere, non potrà essere raggiunto senza una politica capace di tagliare le unghie alla rendita che passa attraverso una riforma del regime dei suoli e il rilancio del metodo della pianificazione urbanistica, ponendo fine alla sciagurata pratica dell’urbanistica contrattata. Essa ha determinato, osservata da Nordest tre dinamiche:
Ricostruire una città umana significa eliminare la congestione, restituire alle piazze la loro funzione originaria di luogo d’incontro, di scambio di esperienze, significa rendere accessibile per i deboli, come per i forti, i luoghi della vita collettiva ed i luoghi della vita privata, significa fare della città il luogo nel quale i differenti ceti, i differenti mestieri, funzioni sociali, differenti etnie, abitudini, culture si mescolano e si scambiano reciproci insegnamenti. La visione è un invito alla socialità, se possibile alla socievolezza, la città come luogo della libertà e della crescita personale”.
E’ una visione che, tradotta nel nostro linguaggio più consueto, si propone di affermare il diritto all’ambiente, alla mobilità, alla casa, al lavoro, alla salute, all’istruzione e poi anche opportunità formative e culturali.
Nota. Testo scritto da Oscar Mancini per il convegno "Terra futura" (Firenze, maggio 2007)
Con l’insediamento del Presidente Vendola e della Giunta da lui nominata nell’aprile 2005 si è aperta una nuova stagione per la Regione Puglia. Una forte spinta all’innovazione data da una straordinaria ricerca di partecipazione democratica di vari strati della popolazione regionale non poteva che coinvolgere anche il tema dell’assetto e del governo del territorio. Può essere interessante osservare quindi, in maniera per quanto organica possibile, come questo tema è stato approcciato in un territorio, quale quello pugliese, dominato da una sorta di immobilismo cronico e sfruttamenti particolaristici ripercorrendo ciò che a riguardo già è stato scritto e pubblicato su Eddyburg.
Un buon punto di partenza per cominciare ad orientarsi nel panorama pugliese è rappresentato dal programma per il governo del territorio estratto dal sito della Regione nel 2005. L’assessore regionale Angela Barbanente delinea una piattaforma concreta da cui partire per il governo del territorio regionale di cui due sono gli aspetti fondanti: l’assetto del territorio e le politiche abitative. Per quanto concerne l’assetto del territorio, vengono individuate delle linee guida che individuano i punti critici su cui l’Amministrazione si impegna ad incentrare tempestivamente la sua azione di governo.
In primo luogo la Regione Puglia si propone di superare l’incertezza e la confusione normativa derivanti dalle due leggi regionali in materia di governo del territorio, 56/1980 e 20/2001. L’Amministrazione opta per utilizzarli, anziché rivederli, conferendo loro un diverso indirizzo politico, scelta motivata principalmente per tempi ed l’efficacia dell’azione governativa. Questa linea intrapresa risulta chiara e confermata anche nella lunga intervista rilasciata ad Eddyburg dall’assessore Barbanente nel settembre 2007 “Ridare impulso alla pianificazione: sfida in Puglia”, nella quale proprio il fatto di adattare la strumentazione prevista dalle leggi vigenti ad una nuova concezione politica, viene individuato come il nodo di svolta per conferire impulso alla pianificazione e al territorio più in generale.
Altra azione cardine viene individuata dalla Giunta nella rottura del modello gerarchico e centralistico che ha dominato, sin dall’inizio, il governo regionale del territorio in Puglia. Questo è stato associato alla necessità della messa in atto di più agili, efficaci e trasparenti procedure di approvazione o verifica di conformità dei piani e di ogni altra forma di autorizzazione in merito alle trasformazioni d’uso del suolo, operando da un lato uno straordinario sforzo di recupero dei ritardi accumulati, anche attraverso la definizione di “corsie accelerate” per specifici temi di rilevanza strategica, dall’altro, agendo sul duplice fronte della semplificazione procedurale e del decentramento di funzioni. Per affrontare queste tematiche la Regione Puglia si è impegnata fortemente e su più livelli, a partire dall’approvazione di un documento di indirizzo relativo alla pianificazione di area vasta. Attraverso tale accordo si promuove la collaborazione tra Regione e Province in materia di pianificazione territoriale e urbanistica e si esplicitano le ragioni del rilancio del ruolo delle autonomie locali nel sistema di governo del territorio regionale al fine di creare un reale sostegno e spinta all’innovazione delle pratiche di pianificazione locale. Riconosciuto l’esaurimento della spinta all'espansione urbana, la pianificazione viene orientata decisamente verso obiettivi di miglioramento della qualità dell’ambiente e della vita dei cittadini, di bonifica di aree inquinate, di riqualificazione di aree degradate e recupero dei tessuti urbani consolidati.
L’approccio alla questione ambientale che nelle linee guida era affrontata in termini di “ rinnovamento delle forme di tutela del paesaggio secondo le indicazioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio” e di “ costruzione di rapporti sinergici fra il sistema di governo del territorio e le iniziative di tutela ambientale e programmazione dello sviluppo” viene a delinearsi più nettamente il 13 novembre 2007, quando la Giunta Regionale approva il documento programmatico del nuovo Piano Paesaggistico Regionale che definisce i presupposti, l'impianto e le modalità di redazione del nuovo piano.
Infine, echi di stampa arrivano da “la Repubblica”, cronaca di Bari 31 marzo 2007: nell’articolo " Puglia. Urbanistica, scatta la rivoluzione: più legalità con i nuovi piani" la nuova stagione di piani viene presa a simbolo di impegno al cambiamento e a legalità.
Punta Palascìa rappresenta certamente uno dei punti più suggestivi del tratto di costa tra Otranto e Santa Maria di Leuca.
Essendo il luogo più ad Est d'Italia il sito è oggetto di interesse ogni inizio anno da parte di migliaia di persone in quanto da qui è possibile per primi vedere l'alba del nuovo anno.
L'area è interessata da diversi progetti per una maggiore valorizzazione delle risorse ambientali e paesaggistiche.
Risale a qualche anno fa, per iniziativa della Giunta Fitto alla Regione Puglia, la decisione di fare del Faro di Punta Palascìa un museo sul Mar Mediterraneo: in questo contrastando un progetto di vendita a privati per la realizzazione di un ristorante "sulle onde".
A livello nazionale il Ministero dell'Ambiente progetta di includere questo Faro nell'ambito di un progetto che coinvolge altri quattro fari per metterli a sistema (Genova, Gibilterra, Tunisia, Alessandria d'Egitto). Con questo affermando con forza che le acque del Mediterraneo sono acque di pace e di accoglienza.
Ciononostante, ed in contrasto con l'orientamento degli Enti Locali, nonchè contro la volontà popolare, è in essere un tentativo di deturpazione "ulteriore" del sito con la realizzazione di strutture ad opera della Marina Militare.
Il Comitato Giù le mani da Punta Palascia si ripropone di contrastare questo progetto con ogni mezzo messo a disposizione dalla nostra Costituzione, sicuro di avere dalla sua parte l'appoggio e l'affetto della popolazione.
Il Comitato