La disciplina per il centro storico nell’ambito del nuovo PRG di Napoli
Convegno fondazione Michelucci, Fiesole, 18 febbraio 1999
Intervento di Roberto Giannì,
Il nuovo PRG di Napoli, recentemente adottato dalla giunta comunale, è il frutto di un intenso lavoro iniziato con la prima amministrazione Bassolino, quando assessore all’urbanistica era Vezio De Lucia e portato a termine, nei giorni scorsi, con la delibera di giunta su proposta dell’attuale assessore Rocco Papa. Ora la parola passa al consiglio comunale. Elaborato interamente dagli uffici comunali, il piano è stato inizialmente concepito come somma di cinque varianti parziali che avrebbero dovuto coprire l’intero territorio comunale. Questa procedura è stata rivista parzialmente nel corso dei lavori. In definitiva la procedura adottata è stata la seguente.
Due di queste varianti sono state approvate. Si tratta della variante per la zona occidentale, avente per oggetto la riconversione industriale dell'area di Bagnoli, e della variante di salvaguardia, che si occupa principalmente della tutela delle aree verdi sopravvissute all'ondata di speculazione edilizia che nel dopoguerra ha funestato la città, cambiando i connotati alle bellissime colline napoletane.
Le altre tre varianti, quella per il centro storico, quella per la zona orientale, la più grande zona industriale della città, e quella per le zone nord-occidentale (la grande periferia della città) sono state invece unificate e, insieme con i territori originariamente compresi nella variante di salvaguardia, costituiscono un’unica grande variante. Tale variante, sommata all’altra variante per Bagnoli, concepite secondo una metodologia e uno schema di classificazione unitario, formano, di fatto, il nuovo PRG della città. Nella nuova disciplina urbanistica per Napoli il piano per il centro storico, come vedremo si tratta per la gran parte di regole direttamente operative, fa parte del piano regolatore generale della città, non costituisce un documento a parte, come in molte altre esperienze di pianificazione, soprattutto di grandi città.
Prima di soffermarci sul tema specifico di quest’incontro, le scelte di pianificazione per il centro storico, è indispensabile pertanto riassumere gli elementi salienti del nuovo Prg, che si propone l’obiettivo prioritario di migliorare la qualità urbana, ritenuta una pre-condizione allo stesso sviluppo economico. Il nostro piano, che esclude tassativamente ulteriori espansioni edilizie, è basato sulla combinazione di interventi di conservazione e interventi di trasformazione. I primi riguardano l’ancora consistente patrimonio di aree verdi e il centro storico. I secondi concernono l’espansione del secondo dopoguerra e, in particolare, le aree industriali dismesse: il legame verso il passato, da un lato e la proiezione verso il futuro, dall’altro, nella consapevolezza che un forte radicamento nella storia è una condizione imprescindibile per tutelare l’integrità fisica del territorio, e la stessa identità culturale della città e per determinare vantaggiose condizioni di sviluppo. La combinazione tra rispetto e restauro delle parti più pregiate e definizione di grandi progetti di sviluppo è possibile ed è necessaria perché è possibile trovare gli spazi di trasformazione e di modernizzazione occorrenti per portare la città a competere con le grandi metropoli del mondo.
Mobilità
L'elemento di coesione, quello che deve tenere insieme queste differenti iniziative e che rende plausibile l’obiettivo della riqualificazione è la riforma della mobilità cittadina, consistente in primo luogo in un fortissimo potenziamento della rete su ferro e nel contemporaneo alleggerimento del grovigli sovrabbondanti di superstrade che soffoca la città senza servirla. Questo è uno dei lavori più impegnativi ai quali il comune di Napoli si è dedicato negli ultimi cinque anni, al fine di migliorare l’accessibilità nel centro storico, impedirne l'invasione da parte delle auto, consentire collegamenti tra centro storico e grandi aree verdi della periferia, eccetera. Alla riforma della mobilità è affidato inoltre il compito di rompere la marginalità delle aree periferiche e metterle in condizione di recepire le manovre di riqualificazione che il piano propone per essa.
Un problema comune a molte altre città italiane, e che anche Napoli vive in termini che ritengo particolarmente gravi, è lo squilibrio tra la scala dello strumento di pianificazione amministrativamente praticabile e l'estensione concreta dei problemi. Mentre le trasformazioni urbanistiche avvengono cioè alla scala metropolitana, lo strumento di pianificazione utile per governarle, è costretto a operare nell’ambito del confine comunale, con evidentissimi limiti (ricordo a questo proposito che la provincia di Napoli è più piccola del comune di Roma e l'area comunale occupa un decimo di questo territorio). Nel corso della preparazione di questo piano abbiamo fatto il possibile per adottare soluzioni ispirate a una potenziale e possibile proiezione alla scala metropolitana, almeno su alcuni problemi importanti, come quello della mobilità e delle politiche ambientali.
Verde
L’altro tema è quello del verde. A Napoli esistono 3.500 ettari, sugli 11.000 dell’intero territorio cittadino, che si sono salvati miracolosamente dalla speculazione edilizia del dopoguerra. Sono ambienti di straordinaria bellezza, comprendenti i parchi storici tradizionali della città, come il parco di Capodimonte, quelli di nuova formazione, come il parco dei Camaldoli, nonché le aree agricole, e che sono stati oggetto della tutela prevista dalla variante di salvaguardia. Dei 3.500 ettari, ben 2.000 sono ancora coltivati (pensate: 2.000 ettari di agricoltura che penetrano fin dentro il centro storico). La manovra sull’agricoltura costituisce uno dei più ambiziosi e significativi contenuti del piano. È anche attraverso il sostegno e il rilancio dell’agricoltura, infatti, che il comune si propone di tutelare il territorio e di ricostruire l’immagine del paesaggio napoletano, un paesaggio rappresentato, a volte anche idealizzato, in molte pitture, soprattutto dell’'800, che noi consideriamo un patrimonio da restaurare e da conservare. Ne è un esempio la collina di S.Martino, in pieno centro storico, sulla quale è ritornata l’agricoltura, sono stati reimpiantati i vigneti: la fermezza con cui l’amministrazione napoletana, dalla variante di salvaguardia in poi, ha posto questo problema, sta portando a primi risultati concreti.
Rimane l'interrogativo di cosa fare dei 3.500 ettari di verde superstite. La proposta avanzata dal piano è di farne un grande parco regionale, anzi due grandi parchi regionali, che dovranno costituire il cuore verde dell’area napoletana: un elemento intorno al quale ricostruire la pianificazione dell’intera area metropolitana, costituita da oggetti molto diversi tra loro, nei quali occorre inserire un luogo per il godimento della natura, per lo spazio e il tempo libero e anche per l’accoglienza dei turisti. Sostanzialmente, si intende costituire un’attrezzatura metropolitana per lo sport e il tempo libero; un’alternativa al lungomare di Napoli e alle attrezzature che si dovranno formare nell’area dismessa di Bagnoli.
Aree dismesse
E veniamo così all’altro tema portante del piano, quello delle. A Bagnoli sono iniziati i lavori di bonifica e sta procedendo di pari passo – dopo l’approvazione della variante urbanistica - il piano urbanistico esecutivo. Qui si prevede di ricostituire la spiaggia, formare un grande parco attrezzato di circa 190 ettari, arricchito dalle più significative architetture industriali, restaurate per ospitare nuove funzioni e, infine un nuovo insediamento edilizio a bassa densità con residenze, produzione avanzata e attrezzature per il turismo di cui Napoli è carente pur in presenza di una domanda di accoglienza turistica in forte crescita.
L’altro polo di trasformazione è l’area industriale orientale della città. Anche qui, per quanto l'intento del comune sia quello di farne principalmente un nuovo insediamento produttivo, la manovra sugli aspetti ambientali è determinante. La delocalizzazione di tutte le attività petrolifere è uno degli elementi basilari del piano. La ricerca della qualità si persegue con la riforma del sistema delle urbanizzazioni e del disegno urbano. Una nuova maglia stradale riconnetterà le attività produttive ancora operanti e quelle che sostituiranno le fabbriche dismesse. Gli elementi del nuovo impianto sono: un boulevard – in realtà un lungo viale pedonale e ciclabile - che congiunge, anche simbolicamente, il centro con l’estrema periferia orientale; il grande parco di Napoli orientale, che congiunge il mare con la piana agricola dell’entroterra. il tracciato di un corso d’acqua che riprende il percorso del mitico fiume Sebeto, che scorreva dalla piana agricola di Volla fino al mare. Il restauro di questo bacino, sostanzialmente una riproposizione dello stesso, ha al tempo stesso una funzione di riordino idraulico di una zona che soffre dell’urbanizzazione incontrollata degli ultimi decenni, ma anche di restauro paesaggistico di questo territorio.
Centro storico
Passiamo ora all’illustrazione delle scelte che il piano opera per il centro storico. E’ utile a questo fine ricordare una specificità del centro storico di Napoli, che lo differenzia dai centri storici di altre grandi città. A differenza del centro storico di Firenze, ad esempio, o da quello di Milano e di Roma, il nostro centro storico non presenta fenomeni consistenti di terziarizzazione ma, al tempo stesso, non vi si riscontrano quei fenomeni di spopolamento e abbandono che si verificano in altre aree centrali, in Italia l’esempio più evidente è Palermo. Esso è ancora abitato dalla popolazione e dalle attività tradizionali, che hanno conservato in vasti quartieri di quest’area un apprezzabile circuito di sussistenza. Si tratta di una condizione che, per un verso, rende difficile l’opera di restauro, che si deve svolgere in un’area densamente popolata, ma per un altro verso l’avvantaggia, se è vero che l’essenza del centro storico non sono solo le pietre, i fabbricati, ma anche la popolazione e le attività che tradizionalmente li hanno occupati.
La mancanza di estese trasformazioni fisiche e sociali di quest’area si è accompagnata tuttavia – e non poteva essere diversamente – a un lento declino delle sue condizioni fisiche e sociali. E’ per questa ragione che l’amministrazione comunale ha inteso avviare nel centro storico un procedimento di pianificazione a due velocità: nel tempo breve, con la già citata variante di salvaguardia, sono stati estesi i confini del centro storico, introducendo al tempo stesso una normativa transitoria che consentisse una ripresa dell’attività edilizia finalizzata agli interventi di conservazione (l’attuale Prg che risale al 1972, rinvia invece tutti gli interventi all’approvazione di piani particolareggiati, che non sono stati mai redatti); nel tempo medio, l’approntamento della disciplina definitiva, con una normativa di Prg direttamente operativa per gran parte del territorio: insomma, da circa cinque anni è in corso un avvicinamento progressivo all’obbiettivo della riqualificazione.
L’estensione dei confini del centro storico, introdotta dalla variante di salvaguardia, è una misura che noi consideriamo di significativo rilievo. Il perimetro del centro storico nel Prg del 1972 includeva sostanzialmente la città preindustriale. La nuova delimitazione si spinge ben oltre, fino a comprendere gli insediamenti ottocenteschi e novecenteschi, fino alla seconda guerra mondiale, e i centri periferici di origine agricola. La sua estensione passa così da circa 700 ettari, ai 1.700 ettari della variante di salvaguardia (il confine definitivo, delimitato nell’ultima variante misura circa 1.900 ettari). Il documento usato per definire il nuovo perimetro è un rilievo fotografico militare del 1942.
Lo scopo che ci siamo proposto è stato quello di segnare un confine tra città storica e città moderna, che separa essenzialmente il complesso degli organismi cresciuti sulla base di una pianificazione o di una regola riconoscibile dalla informe espansione edilizia del dopoguerra. Si tratta di organismi fortemente dissimili tra di loro, anche nelle quantità: a Napoli, come in tutte le grandi città italiane, lo spazio occupato dalla città sorta dal dopoguerra è fino a dieci volte più grande di quello occupato dalla città fino al 1945.
Le modalità d’intervento in quest’area così estesa sono, per la gran parte del territorio, direttamente fissate nella normativa di Prg: quando l’obiettivo è la conservazione servono poco i piani particolareggiati. Solo dove l’impianto esistente richiede, per ragioni diverse, un intervento, sia pure limitato, di trasformazione il piano prevede un rinvio all’elaborazione di strumenti urbanistici esecutivi.
Per la disciplina degli interventi diretti, il piano ha adottato il metodo della classificazione tipologica. L’intero organismo storico, ovviamente classificato come zona A, è stato sottoposto a un lavoro meticoloso di classificazione che ha portato alla individuazione di oltre 16.000 unità di spazio, raggruppate in più di 50 tipi edilizi. Per unità di spazio si intende tanto il singolo fabbricato, quanto lo spazio aperto che viene trattato allo stesso modo, dato che allo stesso modo contribuisce alla costituzione dell’organismo storico che è l’oggetto della tutela.
Sostanzialmente la classificazione degli edifici è stata fatta distinguendo le due grandi famiglie: l’edilizia di base, nata per finalità abitative, e l’edilizia speciale, costituita soprattutto dai grandi edifici religiosi o civili. Distinti secondo l’epoca di costruzione, preottocentesca, ottocentesca, otto-novecentesca e così via, gli edifici, integrati dalle schede relative agli spazi aperti, vengono suddivisi ancora in base alle varie tipologie: a blocco, a corte, eccetera.
Il sistema viene poi perfezionato con ulteriori articolazioni della classificazione. E’ così che, per esempio, il tipo dell’unità edilizia di base preottocentesca originaria con struttura a corte, si articola ulteriormente nella corte pre-ottocentesca rurale, o nella corte pre-ottocentesca semplice o di corte pre-ottocentesca complessa. Questo sistema di classificazione è formulato non sulla base del valore dell’edificio ma delle sue caratteristiche strutturali. Ciò consente, di volta in volta, una valutazione più attenta e oggettiva del tipo di intervento possibile.
Il materiale di base per la formulazione di questo apparato normativo è costituito da una ricca serie di documenti fotografici e cartografici di cui è stato fatto un uso comparato: la carta del Lafrery, o quella del Duca di Noja, o ancora quella redatta dallo Schiavoni, che fu realizzata per predisporre piano per il risanamento della città alla fine del secolo scorso e fu elaborata negli uffici comunali. Questi documenti sono stati messi a confronto prima fra loro stessi, sia in modo sincronico che diacronico, e poi con il rilievo della situazione attuale, riguardante tutti i piani terra dei 1.900 ettari che compongono il centro storico: un rilievo ottenuto mettendo insieme vari documenti esistenti (principalmente il rilievo elaborato da un gruppo di lavoro diretto dal prof Italo Ferraro, ma anche rilievi della società per il risanamento, dello Iacp e altri documenti sparsi) ma anche effettuando numerosissime battute sul campo. Ogni unità edilizia è stata osservata per lo meno tre volte prima di decidere la sua classificazione.
La classificazione consiste, sostanzialmente, nel selezionare in ogni tipologia gli elementi ricorrenti tipici, strutturalmente caratterizzanti l’organismo edilizio. Questi stessi elementi essenziali sono anche quelli da porre sotto vincolo di tutela e che, per converso, consentono i necessari margini di libertà sugli altri elementi, quelli che invece possono essere oggetto di manovra per l’operazione di modernizzazione sul fabbricato, che pure è necessaria. Si tratta di un’operazione complessa, che in molti casi deve consentire anche il frazionamento dell'unità edilizia, poiché il centro storico di Napoli annovera un numero assai elevato di palazzi, secondo la classica definizione tipologica, organismi edilizi nati per ospitare una sola famiglia; palazzi che oggi devono essere convertiti ad un uso residenziale diverso, dal momento che resta necessario consolidare anche la funzione residenziale del centro storico.
Questo tema del rafforzamento della funzione residenziale nel centro storico è uno dei –contenuti forti del piano: il diffuso recupero, che riteniamo indispensabile, della funzione residenziale nel centro storico, richiede di studiare le modalità per attribuire l’utilizzazione residenziale non solo all’edilizia di base, l’edilizia ordinaria, che per tipologia si presta ancora a questo uso, ma anche a molti edifici monumentali, i palazzi aristocratici per esempio, che nel tempo hanno perso questa funzione. Essi hanno caratteristiche tipologiche e dimensioni che non ci consentono di utilizzarli per abitazioni, con gli standard attuali, senza modificazioni consistenti. E’ per questo che di solito si preferisce utilizzarli per attrezzature pubbliche e rilevanti funzioni sociali e culturali. Ma questi edifici hanno una sorprendente diffusione nel centro storico di Napoli e non si può certo pensare di trasformarli tutti in musei o in altre simili attrezzature. E’ stato indispensabile quindi individuare una normativa che ci consenta di riportarci dentro la gente, gli abitanti, lasciando inalterati i caratteri più significativi della loro tipologia. E’ nata da quest’esigenza la norma che consente il frazionamento.
Nel complesso, è naturalmente dalla definizione degli elementi strutturali, caratteristici della tipologia, che è possibile stabilire quali siano gli interventi edilizi che è possibile consentire e quali le utilizzazioni compatibili. Quest’operazione è stata svolta con un sufficiente grado di dettaglio, d’intesa con le soprintendenze, il che dovrebbe facilitare, tra l’altro, la successiva fase della gestione. Questo tipo di classificazione consente soprattutto di operare con grandi margini di libertà, superando i vincoli posti dalla legge 457/1978 con la sua definizione dei tipi di intervento, e di determinare invece, per ogni singola tipologia, quali siano precisamente gli interventi possibili e quali no, andando anche molto al di là della definizione tradizionale di restauro e di risanamento conservativo.
L’effetto sorprendente di questo lavoro è stato il sostegno da parte dell'Associazione dei costruttori di Napoli, che ha assunto le difese del piano, benché esso non consenta nemmeno un metro quadrato di espansione edilizia, cogliendo l’importanza che regole così concepite per il centro storico possono avere anche per un rilancio del settore edilizio: ipotesi peraltro confermata dalle prime rilevazioni dell’attività edilizia dopo il varo della variante di salvaguardia.
Non tutto il centro storico è disciplinato, come abbiamo detto, per intervento diretto. Ci sono alcune parti per le quali abbiamo invece ritenuto indispensabile subordinare l’intervento alla preventiva redazione di piani urbanistici esecutivi. Questa modalità si rende necessaria per circostanze diverse tra le quali merita un rilievo particolare quella relativa alle aree di rilevanza archeologica. Si tratta di pezzi del centro storico dove vi è una forte compenetrazione tra edilizia storica, nata dall’epoca medievale in poi, e preesistenze archeologiche, elementi appartenenti alla città antica. Quale dei due periodi deve prevalere sull’altro? O sono possibili soluzioni capaci di preservare questa ricchezza di stratificazioni, come quella che la soprintendenza archeologica di Napoli sta, proprio in questi mesi, sperimentando in un’area del centro greco-romano? E’ evidente che la configurazione definitiva del progetto di restauro non può essere determinata in questo caso con una norma astratta, ma va affidata a un progetto urbanistico esecutivo.
Altro aspetto che merita un rinvio alla pianificazione urbanistica esecutiva è quello delle mura della città antica e storica. Obiettivo del piano è di far riemergere queste mura, quando è possibile, ma anche in questo caso è necessaria la redazione di specifici piani urbanistici esecutivi.
Tutto questo lavoro è stato effettuato con strumenti informatici e l’informatizzazione si sta ulteriormente perfezionando. Nel momento in cui la nuova disciplina sarà approvata, soprattutto quella che riguarda gli interventi diretti, noi ci auguriamo di poterla tradurre in un congegno informatizzato, capace di semplificare i procedimenti di gestione. L’informatizzazione presenta numerosi vantaggi, tra i quali mi limito a ricordarne due: il primo è che consente di trattare temi complessi come questo - perché la classificazione tipologica, la descrizione delle caratteristiche dei fabbricati, la disciplina per gli interventi, sono argomenti molto complessi - con un atteggiamento amichevole e trasparente nei confronti dei cittadini. Insomma, tanto per capirci, il nostro obiettivo e di far sì che il Sig. X, che vuole chiedere una concessione per operare sul suo fabbricato, possa avere a disposizione uno strumento informativo che non solo gli dia tutte le informazioni sull’oggetto fisico che lui intende conservare, ma che lo informi anche sulla disciplina, cioè sulle cose che deve fare per ottenere la concessione edilizia, senza complicate interpretazioni delle norme, ma ottenendo un risultato immediatamente. Noi pensiamo di poter spingere questo lavoro fino ai dettagli, con la collaborazione, naturalmente, delle amministrazioni dello Stato che sono preposte a questo livello di tutela, a cominciare dalla soprintendenza per i Beni Architettonici. Dovrebbe essere possibile poter dire ai cittadini: ”guarda che se utilizzi questa tecnica per restaurare il pavimento, ti sarà consentito automaticamente il diritto di ottenere la concessione e il permesso della soprintendenza”.
Insomma - è questo il secondo punto - poter fare in modo che, progressivamente, questa disciplina, anche informatizzata, si configuri come uno strumento definitivo per il restauro e la manutenzione del centro storico. Uno strumento che potrebbe essere oggetto di miglioramento, di perfezionamento, ma non dovrebbe richiedere sostanziali revisioni. D’altra parte, salvo che non cambi l’orientamento generale, che cioè non prevalga a un certo punto un orientamento che, per il centro storico, ritenga prevalente la trasformazione piuttosto che la conservazione (ma quest’eventualità non mi sembra francamente possibile): salvo che non si verifichi quest’improbabile mutamento di orientamenti, che bisogno ci sarebbe di cambiare uno strumento che è basato sulla conoscenza dell’oggetto da conservare?
All’epoca del convegno il piano era stato appena completato in sede tecnica e la giunta comunale aveva assunta la delibera che ne proponeva l’adozione in consiglio. Se si considera che fino alla primavera dell’anno precedente il dipartimento urbanistica, che ha curato la progettazione del piano, era stato impegnato nella formazione due varianti citate in questo testo ( per Bagnoli e di Salvaguardia, approvate entrambe nelle primavera del 1998) e nel seguire le relative procedure di approvazione, si può dedurre che l’elaborazione tecnica del documento definitivo ha richiesto circa un anno di tempo. Il percorso di approvazione è stato lungo e travagliato: si è concluso solo nel giugno di quest’anno con l’approvazione regionale. Le modificazioni che sono state apportate al testo originario, specie per effetto delle circa 300 osservazioni, non sono tali da modificare l’illustrazione che del piano si fa in questa nota.
Anche il piano urbanistico esecutivo per Bagnoli, cui la nota fa cenno, è stato intanto adottato dal consiglio (anche in questo caso l’elaborazione è a cura del dipartimento urbanistica) ed è pronta la delibera di controdeduzioni. Sempre per Bagnoli il comune ha acquisito le aree ex industriali e ha costituito una società di trasformazione urbana (Bagnolifutura Spa) per la gestione degli interventi.