Un articolato dibattito internazionale e nazionale sui meccanismi che presiedono l’adozione delle politiche pubbliche per il territorio reclama una partecipazione della società civile nell’elaborazione dei processi decisionali maggiore rispetto a quella prevista e consentita dalle politiche urbanistiche di tipo tradizionale. Si auspica in altre parole la ricerca di forme di elaborazione politica bottom up attraverso pratiche negoziali e di contrattazione, da integrare con quelle top down criticate come scarsamente partecipative e fortemente centraliste e dirigiste.
Ma se questa letteratura si fa portatrice di istanze volte a legittimare nella configurazione e nel governo degli spazi e dei luoghi gli interessi di coloro che vi risiedono (la comunità, lo sviluppo locale etc.), sembra tuttavia sottovalutare la funzione sociale e collettiva del territorio urbano nella sua componente eminentemente naturale. Una funzione che non può essere soddisfatta attraverso la sommatoria di interessi compositi anche se legittimi e rilevanti. Le esigenze che tale carattere implica – per esempio non si può negoziare su alcuni interventi di tipo ambientale - ha in qualche modo sotteso ed ispirato l’intera tradizione urbanistica europea fin dalle sue origini. E, d’altra parte, l’esigenza di un funzionamento corretto e non distruttivo dei meccanismi che regolano la città come realtà ecosistemica complessa è implicita nella materia urbanistica, e ciò è vero anche prima dell’affermazione dei movimenti e delle associazioni ambientaliste così come le conosciamo oggi.
Il sorgere di una serie di atteggiamenti critici nei confronti delle politiche urbanistiche di tipo tradizionale, d’altra parte, nasce in gran parte dalle forme che esse hanno assunto nelle principali città italiane nel corso degli ultimi decenni. Vezio De Lucia ha a questo proposito introdotto la definizione di urbanistica sostenibile ed urbanistica non sostenibile, intendendo con la prima espressione il controllo pubblico delle trasformazioni territoriali attraverso la pianificazione ordinaria, e con la seconda, invece, la pratica diffusamente accettata in alcune amministrazione comunali – Milano e Roma ad esempio - di adattare o modificare il piano a seconda delle istanze e dei progetti privati attraverso norme in deroga. Il contributo che l’analisi storica può fornire a questo dibattito è quello di inidividuare quando e come le politiche urbanistiche hanno garantito i meccanismi di riproducibilità delle risorse naturali producendo ricadute positive su un’intera realtà urbana.
Nonostante il ruolo marginale che le tematiche ambientali hanno svolto in Italia all’interno della pratica urbanistica almeno fino ai primi anni ottanta - anche quando gli urbanisti italiani hanno frequentato scuole ed autori stranieri maggiormente sensibili ad esse, hanno assunto prevalentemente aspetti diversi da quelli ecologici - non sono mancati esempi che risalgono agli anni sessanta e settanta che mostrano una attenzione da parte della cultura urbanistica alla qualità del territorio, sebbene limitata ad alcuni elementi: i centri storici, le adiacenze dei centri storici, le colline e il paesaggio agrario. A tale proposito basti qui ricordare: le battaglie culturali e politiche in difesa per impedire gli sventramenti dei centri storici, la pianificazione del centro storico di Siena e delle sue pendici naturali ad opera di Ranuccio Bandinelli e Luigi Piccinato; la difesa delle colline di Firenze e Bologna con i piani, rispettivamente, di Edoardo Detti, urbanista e assessore, e di Giuseppe Campos Venuti; il piano regolatore di Assisi di Giovanni Astengo; il piano per il centro storico di Bologna di Pier Luigi Cervellati. A ciò si aggiungano il piano di recupero del centro storico di Matera, il piano comprensoriale di Venezia, il progetto Fori a Roma.
Ma la di là del ruolo e dell’importanza che la tutela ambientale ha assunto nell’ambito di piani e di progetti, occorre capire in che misura le politiche urbanistiche hanno prodotto effetti concreti positivi sul piano ambientale e cioè in termini di riduzione del consumo del suolo, di miglioramento della qualità dell’aria e dell’acqua, di interruzione di processi abusivi di uso delle risorse e di salvaguardia del verde. Certo nessuno è in grado oggi di mostrare che cosa sarebbe accaduto al nostro territorio se anche i vincoli e le norme definiti dalle politiche pubbliche fossero stati rimossi. Non esistono dati calcolati sulla base di indicatori precisi per valutare la loro ricaduta reale. E’ possibile, tuttavia, individuare attraverso una disamina più approssimativa alcuni effetti concreti di tutela ambientale di lungo periodo che tuttora sopravvivono. A tale proposito il caso di Napoli si è venuto configurando come caso di successo e come tale è ritenuto da una parte autorevole della letteratura territorialista italiana.
In controtendenza con i casi di altre grandi città italiane, Napoli vede l’approvazione nel luglio del 2004 di un piano regolatore che lungi dall’ispirarsi ad un principio di espansione regolata della città, si fonda invece sulla tutela dell’integrità fisica del territorio. Il piano rappresenta l’esito finale di un processo più lungo e complesso che prende avvio nei decenni precedenti dall’adozione di un modello di pianificazione fondato su una concezione della città che attribuiva una grande importanza al carattere produttivo della natura ed alla sua intima e profonda attività sinergica con la società. E, d’altra parte, a Napoli la questione ambientale si era venuta configurando fin dagli anni settanta in una maniera più drammatica rispetto ad altre città italiane per l’alto livello di inquinamento atmosferico e marino, per la scarsa quantità di aree verdi, per la quasi totale copertura e cementificazione del territorio comunale, per i frequenti fenomeni di dissesto idrogeologico etc. In quest’area la questione ambientale si era venuta ponendo come una questione di sviluppo equilibrato tra attività umane e risorse naturali.
Articolata in momenti diversi la fase storica che ha condotto all’adozione del piano regolatore si riconnette all’elaborazione del “piano delle periferie” (1978-1980) che trovava attuazione durante i primi anni della ricostruzione seguita al terremoto del novembre del 1980. La continuità che caratterizza il percorso che dalla fine degli anni settanta giunge fino ad oggi è essenzialmente una continuità di gruppo: molti sono i protagonisti dei precedenti interventi ancora presenti nel pool degli urbanisti che prestano la loro opera per il Comune. Nel corso degli anni ottanta furono dunque ricostruiti e riqualificati più di 13.000 alloggi situati in dieci comuni dell’hinterland napoletano secondo una serie di intervento volti a fornire una soluzione non solo al problema della casa in senso stretto, ma ad una più generale esigenza di miglioramento delle condizioni abitative e della qualità della vita. L’operazione urbanistica consisteva sia nella ristrutturazione dei centri storici e nel mantenimento delle comunità preesistenti nei luoghi di nascita, che nell’istituzione di parchi, asili e scuole.
Ma se durante la seconda metà degli anni ottanta si assisteva ad un restringimento degli spazi politici che avevano consentito la realizzazione del piano delle periferie, essi si riaprivano durante i primi anni del decennio successivo. I valori ed i principi che avevao ispirato il piano delle periferie e la sua attuazione vengono ripresi e rafforzati in una modello di intervento urbanistico che trovava la sua compiuta espressione negli Indirizzi di pianificazione redatti nel 1993 dall’allora assessore all’Urbanistica Vezio De Lucia nella fase iniziale della prima giunta diretta dal sindaco Antonio Bassolino. Nel loro complesso gli Indirizzi predisponevano una riorganizzazione ecologica della città che si proponeva di affrontare non solamente il problema della riabilitazione e della riqualificazione urbana, ma anche più in generale, quello della qualità dell’ambiente e dell’integrità fisica del territorio: l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, dei suoli, la gestione delle risorse, il trattamento dei rifiuti, il controllo del dissesto idrogeologico.
Gli Indirizzi trovavano nel corso degli anni successivi due concrete realizzazioni con l’adozione della Variante di Salvaguardia e della Variante alla zona nord-occidentale (o variante per Bagnoli) al piano regolatore del 1972. Per ciò che riguarda gli aspetti più propriamente ambientali ambedue le politiche predisponevano l’adozione di provvedimenti volti da una parte a ridurre il consumo del suolo e la cementificazione del territorio comunale, e dall’altra a favorire la mobilità interna per abbassare il tasso di motorizzazione e l’uso del trasporto urbano.
La vera innovazione consisteva nel vincolare sine die i residui del territorio rimasti inedificati: 4000 ettari di aree agricole, incolte a naturali. Per la prima volta nella storia dell’urbanistica italiana si progettava di migliorare le qualità abitative senza ricorrere a progetti di accrescimento e di espansione della parte edificata della città. Nel vincolare queste aree si prevedeva la costituzione di una serie di parchi. Tra i principali si ricordi qui l’istituzione del parco metropolitano delle colline di Napoli che copre un’area di 2.215 ettari e costituisce il 20% del territorio cittadino. Le finalità dell’istituzione del parco non sono solo volte a preservare i valori ambientali, naturalistici e paesaggistici di queste zone, ma anche a garantire un regolare funzionamento dei meccanismi ecologici per l’intera area metropolitana. Nell’ambito di una concezione di riabilitazione della città diretta a garantire le condizioni di sostenibilità urbana senza accrescere le parti costruite rientra anche quanto predisposto per le sue zone più antiche.
Per il centro storico infatti non si sono previsti sventramenti e spostamenti della popolazione, bensì una serie di interventi (anche immediati qualora i privati lo avessero voluto) di restauro volti a recuperare e conservare le sue parti sia materiali che sociali, e cioè abitazioni, monumenti, spazi pubblici, tradizioni commerciali ed artigianali. Nell’area deindustrializzata di Bagnoli nella zona nord-occidentale, inoltre, ex sede di uno dei principali complessi siderurgici italiani, il territorio viene vincolato alla istituzione di due parchi che corrispondono a circa i due terzi del territorio interessato dalla variante ed alla restituzione alla fascia di territorio bagnata dal mare delle sue condizioni normali di balneabilità.
Per ciò che riguarda, invece, gli interventi sulla mobilità nel 1997 fu adottato il Piano comunale dei trasporti come era previsto e predisposto dalla Variante di Salvaguardia volto a incrementare un sistema di trasporti su ferro basato su 5 interscanbi ad uno formato da 18 luoghi di interscambio e 16 nodi intermodali tra strade e ferro. Già negli Indirizzi di pianificazione i problemi della mobilità a Napoli sono concepiti come un problema fondamentalmente urbanistico. Lo sono nella misura in cui riguardano le insufficienze strutturali relative alla dotazione delle reti di trasporto pubblico con particolare riguardo a quelle su ferro. E’ stato infatti calcolato che nel corso degli anni novanta il 70% dell’inquinamento atmosferico in ambito urbano era provocato dal traffico veicolare.
I caratteri specifici delle politiche pubbliche per la città adottate a Napoli dalla fine degli anni settanta ad oggi derivano dalla presenza di una combinazione di fattori che ha consentito il configurarsi di un contesto favorevole all’adozione di interventi per il territorio che si possono definire sostenibili: l’esistenza di un gruppo di professionisti legati a quel pezzo della cultura nazionale che fin dagli anni sessanta si era andata opponendo ad una concezione della crescita urbana ad oltranza, un movimento di lotta per la casa che fondava le proprie istanze sulla qualità della vità e del territorio, la nascita nell’ambito del dibattito culturale e politico nazionale di una “questione ambientale” a Napoli, l’apertura di spazi politici all’interno dei quali trovare sostegno nella realizzazione di un controllo pubblico delle trasformazioni territoriali.
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