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Il dibattito che ha segnato questo dopo terremoto, o meglio le polemiche, tutto sommato modeste, che anche questa catastrofe ha messo in campo, oltre che sulla ingiustificabile fragilità del cemento armato e della prevenzione che non c’è, ha puntato il dito, complice un gas un po’ misterioso, il radon, sulla previsione dei terremoti.

Credo che non sia necessario, dopo tutto quello che è stato detto e scritto, tornare sul funzionamento di quel gas come precursore e sugli evidenti limiti emersi circa le possibilità offerte ad un intervento di protezione civile. E’ infatti del tutto vero che in giro per il mondo il terremoto resta, e resterà probabilmente a lungo, un evento non prevedibile, che non offre la possibilità di rispondere alle tre fatidiche questioni poste da chi deve gestire un’emergenza: dove, cosa e quando sta per capitare, ovviamente in termini operativamente utilizzabili. Nel dibattito un po’ confuso su giornali e teleschermi, è sembrato tuttavia emergere che ciò che la scienza dovrebbe mettere a disposizione per "fare qualcosa di protezione civile" sia, piuttosto che una previsione, una predizione; cosa che riusciva bene solo a Cassandra, salvo poi non esser mai creduta.

Nessun evento naturale, ovviamente, può essere predetto. Nemmeno la meteorologia, con la quale abbiamo oggi tutti una utile confidenza, predice la pioggia ma semplicemente la prevede, attribuendo implicitamente a quel fenomeno una probabilità di accadimento, magari alta, ma pur sempre una probabilità. E siccome statistica e monitoraggio funzionano in quel contesto bene, spesso quanto previsto si avvera. Spesso, ma non proprio sempre, poiché resta una valutazione probabilistica. Quando poi non succede, poiché molto spesso si tratta di portarsi o non portarsi l’ombrello, fare o non fare una gita, le conseguenze sono relative. Certo, sempre in meteorologia, vi sono anche previsioni diverse, quelle per l’appunto che determinano comportamenti di protezione civile, per esempio all’avvicinarsi di piogge intense e concentrate, di allerta o allarme.

Specialmente in questi ultimi anni, il Dipartimento di Protezione Civile ha diramato frequentemente informative di tale tipo che hanno la funzione di testimoniare il fatto che ciascuno, sul territorio, è stato avvertito e quindi messo in condizione di fare quel che rientra nelle rispettive competenze (preparazione delle strutture di protezione civile, controllo, cautele, evacuazioni, etc.), sotto la loro diretta e unica responsabilità. Poi, se le cose dovessero non andare come da previsione, meglio così.

Per i terremoti le cose sono un po’ più complicate, il radon non sta alla scossa demolitrice come le nuvole nere all’orizzonte gonfie di pioggia, all’alluvione. Ed allora, considerata anche la posta in gioco, per gli imprevedibili terremoti è necessario stressare quello di cui si dispone.

E’ stato detto e ripetuto che oggi la ricerca di settore ha restituito una conoscenza dettagliata della sismicità di questo paese, fino a fornire dei valori delle accelerazioni del suolo durante il terremoto, secondo una griglia che copre tutto il territorio nazionale. E’ verissimo. Ma è anche vero che tale conoscenza ha consentito di stimare il rischio sul territorio nazionale, associando i valori di accelerazione del suolo alla vulnerabilità del patrimonio edilizio (cfr. Rischio Sismico – Agenzia di Protezione Civile - Servizio Sismico Nazionale, 2001). Sotto il profilo strategico, la conoscenza della distribuzione del rischio sismico consente un indirizzo mirato delle risorse –ove ci fossero- in prevenzione, posto che la loro entità per la riqualificazione delle vecchie costruzioni, vero zoccolo duro del problema sismico in Italia, è di dimensioni tali da rendere interventi a copertura totale assolutamente velleitari.

Ma in realtà la capacità di generare analisi di rischio nel paese ha consentito di effettuare altri passi che, alla luce di quanto successo al capoluogo abruzzese, assumono un particolare significato. Ha consentito di elaborare le analisi di scenario che riescono a disegnare con dettaglio -e come si vedrà con buona approssimazione- l’impatto di un determinato terremoto su un altrettanto determinato contesto territoriale, il cui utilizzo riveste una notevolissima importanza per diversi aspetti dell’intervento di protezione civile.

Il terremoto dell’Irpinia dell’80 ha rappresentato una delle peggiori performances di Protezione Civile in emergenza, oltre che per l’intensità dell’evento –nemmeno confrontabile con quello dell’Aquila- anche perché non si seppe per tre giorni cosa fosse accaduto e se le vittime fossero 100, 1000 o 10mila. Un’ora dopo il terremoto del 6 aprile, il Dipartimento di Protezione Civile annunciava anche il numero degli edifici che si riteneva fossero stati colpiti dalla scossa appena avvenuta: dai 10 ai 18mila. Vi è da presumere che presso il Dipartimento della Protezione Civile sia ancora in funzione il SIGE (Sistema Informativo Gestione Emergenza – Servizio Sismico Nazionale, 1997) che, conosciuto epicentro e magnitudo dell’evento dalla rete nazionale di rilevamento, elabora in tempo semireale i dati di vulnerabilità del patrimonio edilizio dell’area interessata dal terremoto.

Si può presumere che il Sistema abbia fornito, anche in questa occasione, un quadro di buona approssimazione di quanto accaduto, attraverso l’intero set di dati che è in grado di produrre: oltre agli edifici interessati dall’evento, quelli inagibili e quelli collassati, le persone coinvolte nei crolli (vittime e feriti) ed una prima stima dei danni. Le relative incertezze della risposta del Sistema possono essere imputate alla parzialità dell’informazione sismologica immediatamente disponibile (le elaborazioni partono dopo pochi minuti, con la prima intensità e localizzazione dell’evento,) ed anche al fatto che nella prima versione non erano state introdotte la così dette stime dicasualties, ovvero l’incidenza, calcolata su una consolidata base statistica, dell’ora dell’evento e del giorno della settimana, del mese dell’anno (che sono determinanti nell’affollamento degli edifici) ed ulteriori valutazioni di vulnerabilità.

Gli scenari, tuttavia, non servono solo dopo, quando il terremoto è già avvenuto -per scongiurare la mancanza di un quadro immediato delle dimensioni del disastro, come accaduto in Irpinia- ma hanno un’importante funzione nella fase preventiva e, soprattutto, nella pianificazione dell’emergenza. E’ del tutto evidente che la sintesi tra il molto che si conosce circa le condizioni geologiche e strutturali di un’area, la sismicità storica del luogo, la vulnerabilità del patrimonio edilizio e infrastruturale, nonché la fragilità del contesto territoriale, consente di avere in buona approssimazione una valutazione dell’impatto di un determinato evento. Anzi, di quegli eventi di diversa intensità che la sismicità storica ci dice essersi già prodotti nell’era in esame, a partire da quelli più forti ma, fortunatamente, più rari. Quella degli scenari è una realtà ormai consolidata a livello scientifico e molto spesso trova una verifica nella drammatica realtà dei fatti.

Nel febbraio del 2001, il Servizio Sismico Nazionale, collocato, dopo la chiusura dell’Agenzia nazionale di Protezione Civile, nel ricostituito Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, predispose e trasmise un documento intitolato Rischio sismico in Italia che, partendo da una valutazione delle dimensioni del problema sismico nel paese, segnalava anche alcuni punti irrinunciabili di un percorso per la riduzione di tali condizioni di rischio. Un capitolo riguardava le analisi di scenario, nel quale, per L’Aquila veniva segnalata la situazione con la quale la città si sarebbe dovuta confrontare in caso di tre eventi di diversa intensità (max.storico / grave / moderatamente grave):

intensità epic./abit.crollate/abit.inagibili/sup.dan.giata Mmq

X / 7000-24000 / 13000-2400 / 1.5 -2.3

VIII /100-650 / 1500-4500 / 0.15-0.4

VII / 10-120/ 400-1800 / 0.041-0.17

persone coinv.crolli/ vittime /feriti / senza tetto

16000-58000 / 4000-14500 /8000-29000/ 36000-21000

170-1200 / 40-300/ 80-600 / 2900-10000

20-200 /5-50 / 10-100 / 750-3600

L’evento del 6 aprile ha avuto un’intensità a L’Aquila del IX grado della scala Mercalli, andandosi quindi a collocare tra i primi due scenari allora proposti per il capoluogo abruzzese, e conferma l’efficacia di uno strumento di "previsione d’impatto" quale è in definitiva un’analisi di scenario, per altro realizzata ormai otto anni orsono e che si sarebbe dovuto affinare, come affermato nella dettagliata relazione di accompagnamento.

Certo, le analisi di rischio e le analisi di scenario non sono che un contributo alla soluzione dei fatidici quesiti dove, cosa e quando. Il problema, posto in questi termini, ci porta infatti a ritenere che si possa stimare cosa può accadere dove particolari condizioni di rischio (frequenza/intensità dei terremoti e vulnerabilità del contesto) inducono a concentrare l’attenzione, scontando tuttavia il fatto che nessuna indicazione si ha circa la terza incognita: quando.

La domanda allora non può essere che una: si può fare qualcosa anche se i terremoti non si possono "predire", nel momento in cui si hanno, tuttavia, livelli di conoscenza comunque dettagliati? E’una questione molto difficile da affrontare, su cui è mancata in questi giorni un’approfondita riflessione sia sul piano tecnico-scientifico che su quello politico-istituzionale. Riflessione che dovrebbe maturare, prendendo spunto, proprio sul terreno concreto di quanto successo in Abruzzo, attraverso un’inquietante inversione dell’ordine dei fattori: si può rimanere inerti ma con nelle mani determinati livelli di conoscenza, mentre per alcuni mesi uno sciame sismico genera inquietudine tra la popolazione di una città? Messa così la questione, la risposta non è obiettivamente semplice da formulare, e comunque, dovendo inevitabilmente tener conto di quanto poi avvenuto, difficilmente si può trovare una conciliazione tra le ragioni della scienza e i sentimenti della gente.

La questione è invece importante in prospettiva, come contributo alla riflessione invocata. Si potrebbe infatti richiamare l’attenzione sulla differenza macroscopica esistente tra la gestione di un’emergenza e la sua pianificazione. Ecco, in questo paese la prima ha sempre sistematicamente prevalso sulla seconda e, su questo aspetto, deve esser fatto un passo avanti, direi sul piano della cultura di protezione civile. La pianificazione dell’emergenza, specialmente in quelle aree dove gli scenari disegnano le situazioni più preoccupanti, non può essere solo quella della individuazione delle aree per le tendopoli, della predisposizione dei servizi, della organizzazione ed ottimizzazione del volontariato, ed altre cose di questo tipo a cui oggi meritatamente si plaude, importantissime, vitali nell’immediatezza del post terremoto, affidate dall’attuale normativa alla responsabilità degli amministratori locali.

Opportunamente, in quanto procedura complessa da realizzare con omogeneità sulle aree più esposte, il problema dovrebbe essere affrontato dal livello nazionale della pianificazione dell’emergenza, previsto dalla vigente normativa, come si era iniziato a fare nel 1997, in un contesto emblematico rispetto al rischio sismico, quale la Sicilia orientale e l’area dello Stretto di Messina nell’ambito di una collaborazione instauratasi tra l’Agenzia di Protezione Civile e la Regione Siciliana (quest’ultima anche attraverso un finanziamento di 1.5 miliardi di lire).

Il coordinamento venne affidato al Servizio Sismico Nazionale, ma il progetto si arrestò a causa delle modificazioni istituzionali intervenute nel 2001, sebbene avesse fatto già parecchia strada. Quell’esperienza incompiuta individuava nelle analisi di rischio e in quelle di scenario, nonché nell’affinamento delle valutazioni di vulnerabilità, gli elementi centrali di riferimento attorno ai quali costruire il primo Piano nazionale d’emergenza ed aveva, come obiettivo prioritario, la individuazione delle criticità della risposta del sistema territoriale ai terremoti di riferimento. Criticità collegate alla eventuale insufficienza dei livelli organizzativi deputati al superamento dell’emergenza, sostanzialmente in termini di uomini e mezzi.

Ma anche e soprattutto criticità legate alla vulnerabilità del territorio nel suo complesso, alla perdita delle funzioni strategiche ai fini della protezione civile (prefettura, ospedali, etc., come è avvenuto a L’Aquila), alla fragilità dei sistemi infrastrutturali (quanto ritardo avrebbero avuto i soccorsi ai terremotati abruzzesi se una maggiore sollecitazione sismica sugli gli impalcati autostradali li avesse resi inagibili?), dell’edilizia di uso pubblico, ed altro ancora. Criticità, queste ultime, che non possono evidentemente trovare una soluzione all’interno del Piano, ma richiedono il coinvolgimento di altri livelli di governo ed intervento sul territorio, il concorso interistituzionale da attivare nella logica stringente della salvaguardia dell’incolumità della popolazione.

La questione, così posta, crea un nesso forte di interdipendenza tra le problematiche dell’azione in prevenzione (riduzione delle molte criticità presenti sul territorio) e la pianificazione dell’emergenza (essenziale momento di verifica in grado di far emergere quelle, in genere numerose, criticità). Pianificazione che deve essere intesa come strumento dinamico, in grado di innescare un processo virtuoso nel momento in cui richiede, con la forza dell’esigenza di sicurezza, che le criticità evidenziate siano risolte in modo da essere eliminate dal Piano, determinando passo dopo passo un percorso virtuoso verso la ottimizzazione dell’intervento in emergenza, realizzata anche e soprattutto attraverso la riduzione delle vulnerabilità e delle fragilità del territorio.

Nell’affermazione di questa sintesi tra due aspetti fondamentali dell’azione di protezione civile, prevenzione e pianificazione dell’emergenza, possono essere trovate, almeno in parte, le risposte alle domande inquietanti anche di questo dopo terremoto.

Dello stesso autore e sullo stesso tema, in eddyburg:

La prevenzione che non c'è, 7 aprile 2009

La fortuna dell'Italia, 13 aprile 2009

Il problema sismico in Italia, 21 aprile 2009

Sono una contadina interessata agli espropri del progetto ANAS collegamento tra la S.S. n.11 a Magenta e la tangenziale ovestdi Milano.

Ho avuto notizia del bando di espropri grazie al lavoro certosino fatto da una amica del Comitato No Tangenziale dell’Abbiatense Magentino che lo ha ritrovato sul dischetto del progetto definitivo.

A tutt’oggi 7.4.2009, a distanza di più di un mese dalla comunicazione a mezzo stampa sul “ Corriere della Sera” del 4.3.2009 non ho ricevuto alcuna comunicazione di esproprio di miei terreni e considerato che i privati interessati avranno tempo 60 giorni per presentare a ANAS le proprie osservazioni, mi chiedo come faranno le centinaia di persone interessate agli espropri ad adempiere ai ricorsi in tempi brevi.

Questa è la procedura della legge obiettivo e lascia ampi margini di incostituzionalità.

È chiaro che le osservazioni sul mio piccolo terreno saranno del tutto inutili, se non contribuiranno da un lato a informare la popolazione sui rischi che corre in termini di qualità di vita e salute pubblica, se questo progetto verrà portato a termine, dall’altro a porre in atto tutte le iniziative possibili per contrastarlo.

Quando nella procedura di approvazione si invitano le Province, i Comuni, gli Enti Parco,il Gruppo regionale di lavoro,a presentare motivate proposte di adeguamento o richieste di prescrizioni per il progetto definitivo, è evidente che non si tiene in minimo conto il parere dei comitati, delle associazioni, dei cittadini, degli agricoltori, che in questo territorio vivono e lavorano.

Questo progetto ha un impatto ambientale di tale portata che non è possibile non sottolineare il più possibile i potenziali effetti degli svincoli sopraelevati, dei viadotti, dei ponti. Penso per esempio a quello che si costruirà sul Naviglio di Leonardo in prossimità di Cascina Bruciata e che toglierà la visuale della Darsena e della città di Abbiategrasso, là dove si stanno spendendo soldi in ristrutturazioni della Casa del Guardiano delle Acque e in Palazzi storici lungo il Naviglio.

Quando si progetta una tale infrastruttura all’interno di due Parchi, Ticino e Parco Sud, si è rinunciato fin dall’inizio a capire il ruolo dell’agricoltura nella nostra vita, l’importanza della produzione di alimenti per la città, il ruolo dei paesaggi e della cultura agricola con la sua storia impregnata di lavoro e fatica millenaria.

IL TESORO NASCOSTO NEI CAMPI” come lo ha definito Carlo Petrini su la Repubblica, è lì, e ancor più oggi, in tempo di crisi economica e finanziaria, bisognerebbe investire in un settore che può creare occupazione e offrire opportunità per una vita qualitativamente migliore.

Nelle mie osservazioni ad ANAS non chiederò di spostare la strada qualche metro più in là, consapevole che non ha senso proteggere il proprio orticello, ma lavorerò, come ho sempre fatto in questi anni insieme al Comitato No Tangenziale, per fermare questo devastante progetto.

Stanno procedendo i lavori per il raddoppio della tratta ferroviaria Milano Mortara ed è su questa struttura che dovranno fare affidamento i pendolari, sempre che vengano costruiti i vagoni dei treni, e fatte viaggiare le merci, come si fa in tutte le nazioni progredite d’Europa.

Riqualificare il mezzo pubblico, incentivare l’uso collettivo dell’auto privata, sono consigli che bisogna accettare come scommessa se vogliamo ridurre i tassi di inquinamento della Pianura Padana e salvaguardare la salute dei cittadini.

Mi preme a questo punto sottolineare tutto quello che si sta facendo da anni nel nostro territorio per far comprendere la vivacità del settore agricolo e l’attenzione che si sta riaccendendo tra i cittadini.

A partire dal mio piccolo appezzamento, davanti al Centro di compostaggio di Albairate, dove è in atto il progetto di risemina di fioriture spontanee nei campi di cereali.

Lì i cittadini potranno ammirare anche quest’anno i papaveri e fiordalisi seminati in mezzo al frumento.

Quest’anno oltre alla distribuzione di seme gratuito dei fiori sono disposta a regalare la farina di frumento a chi si sarà impegnato ad informare e a lavorare per fermare il progetto della Superstrada.

Il Centro di compostaggio è già il primo esempio virtuoso di riciclo dei rifiuti, dove verrà sparso il compost riducendo la disponibilità di terreno e rendendo più difficoltosa la circolazione dei mezzi agricoli?

Altro esempio è la creazione del “Consorzio Agrituristico Terre d’Acqua”,che da qualche anno offre servizi ai cittadini , ha stimolato la collaborazione tra gli agricoltori , investendo nella multi funzionalità,nel risparmio energetico, nella tutela dell’ambiente e del territorio.

Di pari passo la Guida alle aziende agricole del Parco Sud Milano le ha fatte conoscere e stimolato i contatti tra mondo agricolo e urbano.

Oggi su richiesta dei G.A.S. si sta lavorando per la creazione di un Distretto Equo Solidale del Sud Milano e la fornitura di beni alimentari di qualità e da filiera corta è uno dei presupposti principali per la realizzazione del progetto.

Inoltre il Parco Agricolo Sud Milano ha recentemente istituito un marchio del Parco che concede alle aziende particolarmente impegnate in attività di salvaguardia ambientale e di promozione del territorio rurale, promuovendo il raggiungimento di alcuni obiettivi specifici,secondo le capacità finanziarie e le risorse che sarà periodicamente in grado di mettere a disposizione.

Altro progetto appena avviato è il protocollo di intesa tra Parco e Slow Food per collaborare allo sviluppo di interventi che favoriscano un modello virtuoso di gestione del territorio agricolo,e a sostenere progetti mirati alla valorizzazione del prodotto locale e della filiera corta.

La richiesta di prodotti biologici è in costante aumento,cifre fornite da Bio Bank danno una percentuale di aumento del 92% negli ultimi cinque anni.

Ma dove produrremo tali prodotti? Sotto ponti e viadotti?

Il progetto della Super strada è fortunatamente già diventato obsoleto se si avrà il coraggio di guardare al futuro in un’ottica attenta a salvaguardare le ricchezze e il paesaggio del nostro paese come la “Campagna Stop al consumo di territorio” sta invitando a fare in tutti Comuni e le regioni italiane.

Renata Lovati

Cascina Isola Maria

Albairate

Milano

Nota: il riferimento immedato per gli espropri qui è all'articolo de la Repubblica firmato da Stefano Rossi (f.b.)

postilla

Probabilmente sono ancora in parecchi a credere che la cosiddetta “postmodernità” coincida con una specie di caricatura del vecchio “edonismo reaganiano”, magari mescolata a un po’ del nostrano cinismo arraffone. E invece, leggendo ad esempio queste ponderate riflessioni sulla vita metropolitana nel XXI secolo, salta all’occhio quanto certe suggestioni un tempo patrimonio quasi esclusivo dell’intuizione artistica si siano ormai fatte esperienza quotidiana. Esperienza quotidiana forse di molti, non certo di tutti, e soprattutto quasi mai di chi decide per tutti: e appare pateticamente quanto pericolosamente in ritardo sulla tabella di marcia di uno “sviluppo” che pure impugna come vessillo da lustri.

Ho usato l’espressione “vita metropolitana nel XXI secolo” perché le note sugli espropri di Renata Lovati descrivono esattamente questo contesto, che a ben vedere ripropone tanti degli scenari spaziali e sociali che ci sono vagamente noti: dagli insediamenti utopici comunitari di Robert Owen, attraverso la città giardino cooperativa di Ebenezer Howard e la tecnologica Broadacre di Frank Lloyd Wright, sino alle recentissime riflessioni di alcuni esponenti della nuova urbanistica legate alla cultura ecologista e/o del cosiddetto Chilometro Zero, o Dieta delle Cento Miglia.

Ma al chilometro zero sembra rispondere la cupa e ottusa avidità di chi invece dista anni luce da questi scenari, e ha pensato la Expo 2015 milanese solo ed esclusivamente come vacca da mungere: non a nutrire il pianeta ovviamente, ma qualche miserabile per quanto vorace appetito locale/globale. C’è un modo per resistere all’assalto e replicare al Progetto con un Piano? Gli argomenti, solidi e del tutto postmoderni, come dimostra la nota, non mancano. (f.b.)

È piuttosto ovvio che una buona gestione delle risorse territoriali, “correntemente” attenta alla sedimentazione storica delle conoscenze locali, e parallelamente a innovazione e aggiornamento tecnico e organizzativo, sia un fattore chiave: nella prevenzione dei rischi, e una rapida reazione/ripresa. In sintesi si tratta di “migliorare l’urbanistica per ottenere il migliore equilibrio fra le necessità della popolazione e lo sviluppo economico, e i vincoli imposti dal rischio sismico” [1].

Dunque alcuni aspetti connessi al rischio sismico trovano spazio nella pianificazione “normale” alle varie scale territoriali, con specifico (e forse più conveniente) apporto rispetto alle misure, più note e discusse anche dalla stampa a larga diffusione, che riguardano i vari adeguamenti tecnici, edilizi, infrastrutturali. Esistono insomma numerosi aspetti specifici che caratterizzano normalmente l’approccio disciplinare della pianificazione del territorio e che emergono poi essenziali proprio nei momenti critici: costruzione di un’idea generale e condivisa di spazio, identità sedimentata, sviluppo socioeconomico.

L’area vasta

È alla scala intercomunale/regionale che si trova anche dal punto di vista del piano un preventivo coordinamento fra aree con potenziali danni a costruzioni e infrastrutture, e altre apparentemente “risparmiate”, ma che in quanto inserite nel medesimo sistema integrato anche a brevissimo termine potrebbero subire contraccolpi e generare nuove emergenze. Dunque è implicito nell’approccio del piano il suo ruolo di contenitore anche per interventi di ricostruzione, ripresa, e successiva gestione “ordinaria” del territorio, unendo ad esempio i problemi dei centri antichi e delle aree montane più colpite e a rischio di isolamento, o quelli delle emergenze storiche e monumentali ad alta visibilità anche simbolica ( si pensi ai danni socioeconomici per attività legate al turismo, spesso essenziali per vaste zone), al tessuto funzionale che garantisce vitalità al tutto, e ad altri elementi altrettanto strategici. Uno schema apparentemente oneroso (è la critica più frequente, anche oltre la solita insofferenza al cosiddetto big government) ma che a differenza di qualunque serie di interventi puntuali e/o di settore è fatto per garantire coesione del tessuto sociale e delle attività economiche. A partire dalla possibilità in caso di emergenza di individuare prontamente una “struttura territoriale minima” che riduca quanto più possibile i rischi di abbandono, impedisca processi di disgregazione della complessità e relativa resilienza.

È poi, evidentemente, alla scala del territorio vasto che si applicano i criteri di classificazione per le aree a sismicità elevata, media, bassa [2].

Ancora a questa dimensione il piano può e deve strutturare, anche secondo le classificazioni di rischio, l’organizzazione di spazi e servizi atti a garantire una immediata reazione, come nel caso italiano i centri della protezione civile e strutture connesse, secondo un criterio che poi si articolerà sia nei sistemi locali di scala inferiore che nelle relazioni orizzontali, ad esempio: con mappe del rischio su dimensioni comunali o di maggior dettaglio, aree attrezzate, punti/edifici strategici , aree di emergenza anche in relazione alle densità demografiche [3]. Il tutto nel quadro di un’idea strategica di sviluppo “con riguardo alla difesa dell’ambiente, alla riproduzione delle risorse ambientali, … alla messa in sicurezza delle città storiche, come contributo ad una qualità ambientale globale dei sistemi insediativi” [4].

La pianificazione territoriale diventa così contenitore ideale dei piani per il rischio, e dovrebbe da sola sottolineare l’inadeguatezza del solo intervento emergenziale: i contesti territoriali sono sempre e comunque complessi, specie con la “stratificazione storica che caratterizza il sistema insediativo del nostro paese” [5].

Il comune

La comunità locale è per definizione la scala conforme di qualunque interazione al minimo livello di complessità fra la rete sociale e quella ambientale, anche nella nostra società tecnologica evoluta, ed è anche quella da cui immediatamente muovono (in senso ascendente o discendente) le reazioni all’evento sismico: verifica dei danni, misure per soccorsi e ricostruzione, ripristino di un flusso organico continuo fra emergenza e vita quotidiana. È a questa dimensione che si può favorire e pianificare la permanenza, sviluppo, costruzione di una vera e propria “struttura urbana antisismica”, ovvero quanto rafforza resistenza e reattività all’evento, ma al tempo stesso ha caratteri specificamente di intervento urbanistico, ovvero non ricade negli abituali controlli e coordinamento delle costruzioni e relativi standards di sicurezza[6].

In quasi tutti i contesti, e specie in quelli misti e montani italiani a rischio sismico, un territorio comunale si caratterizza per la compresenza di vari tipi di insediamento: relativamente compatto ad esempio nel centro storico del capoluogo e le sue prime espansioni periferiche, poi le fasce lineari irraggiate lungo le principali arterie interurbane, poi nuclei minori di varie dimensioni e/o insediamento diffuso, più o meno legato alla rete agricola, naturale, paesistica, con vari equilibri nella distribuzione della popolazione e delle attività. Fra gli scopi del piano urbanistico comunale, scopi del resto esplicitamente ricorrenti – sino alla banalità – in qualunque relazione o articolato di norme tecniche, quello di ridefinire l’equilibrio funzionale fra le parti, ad esempio riqualificando la rete delle comunicazioni, o creando nuove centralità, o integrando elementi decentrati, naturali e di paesaggio entro la trama insediativa.

Ottimo esempio in questo senso, le Norme Tecniche del piano regolatore di Foligno, il centro principale colpito dagli eventi sismici di fine anni ’90, che definiscono (art. 6) lo “spazio urbano” come polarizzato, coordinato, connesso dai sistemi della mobilità, verde, servizi e attrezzature. E poi la rete di servizi e attrezzature (art. 25) a sottendere coesione ed equilibrio, coi suoi spazi per istruzione, cultura, sanità, impianti, ivi comprese sedi Protezione Civile e aree di emergenza [7]. Aree queste “finalizzate a soddisfare le esigenze di insediamenti temporanei in caso di calamità naturali” ma che naturalmente “Nelle more, possono essere utilizzate per attività sociali, ricreative e sportive all’aria aperta” [8].

Salta agli occhi come quel “ Nelle more...”, rappresenti proprio uno dei possibili traits-d’union fra un approccio di emergenza e uno di urbanistica corrente, dove l’emergenza/permanenza si traduce nel sommarsi di zone sicure, dimensioni adeguate, buona viabilità e accessibilità. Infine immediata disponibilità, ovvero sostanziale funzione di spazio pubblico, che nel caso di evento sismico si traduce nel luogo deputato alla funzione collettiva principale: di “attesa”, accoglienza, ricovero per la popolazione colpita.

[1] Cfr. ad esempio, California Seismic Safety Commission, Earthquake Loss Reduction Plan 2002-2006, cap. Land Use Element, dove per esteso si afferma che “Efficient use of land is one of the most critical issues in effective loss reduction and recovery from the disastrous effects of earthquakes. Because the risk of loss from earthquakes increases as the population increases, several areas of concern emerge in respect of land use: 1) generally, seismic hazard knowledge is neither adequately incorporated nor consistently applied in land use decision making; 2) acceptable levels of seismic performance in new developments are not clearly understood; 3 environments review procedures are not adequately addressing seismic hazards; [...] Objective: to improve land use panning to achieve optimum balance between the needs for the state’s population and economic growth and the constraints imposed by seismic hazards”.

[2] Nel caso umbro, su cui si basano sostanzialmente le presenti note, Cfr. Fabrizio Bramerini, La Legge 741/81 nella normativa regionale, in Walter Fabietti (a cura di), Vulnerabilità e trasformazione dello spazio urbano, Alinea, Firenze 1999; Cfr. Norme Tecniche del Piano Urbanistico Territoriale dell’Umbria (BUR n. 31, 31 maggio 2000), Art. 50, Criteri per la tutela e l’uso del territorio esposto a rischio sismico.

[3]La Relazione del Piano Urbanistico Territoriale umbro recita a questo proposito: “il modello proponibile … quello di una localizzazione diffusa delle aree da predisporre per l’emergenza. ... per una ripresa sostenibile che tragga dai caratteri del luogo … le ragioni di un nuovo equilibrio”.

[4] Ivi, cap. Opzioni ed Obiettivi del PUT/Beni ambientali e culturali/Centri storici.

[5] Gianluigi Nigro, Pianificazione territoriale ed urbana e riduzione del rischio sismico, in Regione dell’Umbria, Manuale per la riabilitazione e ricostruzione postsismica degli edifici, a cura di Francesco Gurrieri, Tipografia del Genio Civile, Roma 1999, p. 432.

[6] Si tratta in sostanza di uno schema generale insediativo in grado di meglio resistere e reagire alle scosse telluriche, perfezionato attraverso modelli specifici con la denominazione di “struttura urbana minima”.

[7] Comune di Foligno, PRG ’97, Norme Tecniche di Attuazione, aprile 2003.

[8] Ivi.

Non ci sono dubbi sul fatto che sia quanto mai giusto e opportuno sollevare e denunciare i pericoli e le nefaste conseguenze territoriali, ambientali e paesistiche di un eccessivo consumo di quel bene scarso che è il suolo.

Soprattutto di questi tempi.

L’eccessivo e dissennato consumo di suoli che oggi é in atto, ma che rappresenta anche, purtroppo, da lungo tempo un dato costante e peculiare del nostro Paese, non può essere però imputato né ascritto a generici e non ben identificati “nemici o consumatori” del suolo e dell’ambiente né ad altrettanto vaghe e non ben identificate ragioni.

Se non ci si sforza di individuare ed identificare col loro vero nome e cognome le reali cause di questo inaccettabile fenomeno e di identificare da cosa e da dove questo derivi e prenda origine e forza, difficilmente si potranno mobilitare con successo tutte le sane forze e le “anime belle” dell’ambientalismo o proporre e promuovere nuove leggi o regole che, se non ben mirate, saranno destinate, inevitabilmente, a rimanere inefficaci.

1) l’abnorme, smodato e dilagante consumo dei suoli del nostro Paese nasce, riguarda e prende origine, senso, forma e sostanza dalla natura e dall’origine esclusivamente “urbanistica” che ne causa il fenomeno.

O, meglio, dalle carenze, dalle insufficienze e dalle distorsioni create dalla assenza di una pratica corretta, diffusa e riconosciuta di amministrazione, pianificazione e gestione pubblica del territorio rivolta alla valorizzazione e alla difesa di quei beni che sono il suolo, la terra e il paesaggio. Aggravate ed esasperate dalla attuale situazione critica della finanza locale che spinge spesso i Comuni a ricorrere ai peggiori “giochi della rendita” o ad esagerate “concessioni o svincoli o varianti” nella speranza di potere incassare risorse e oneri di urbanizzazione.

E non da altro.

Il problema del consumo e dello spreco dei suoli è un problema solo ed esclusivamente urbanistico e di natura urbanistica, che nasce e prende origine da quella profonda crisi e da quella assenza di funzionamento dell’urbanistica, della pianificazione territoriale e della amministrazione del patrimonio suolo che caratterizza l’attuale momento;

2) l’odierna assenza di una corretta gestione e pianificazione del territorio -potremmo meglio parlare della scomparsa e del sostanziale abbandono in atto di ogni credibile e concreta pratica e regola urbanistica - non deriva altro che da quella riuscita e radicale operazione di smantellamento - una vera e propria “ controriforma” - dei principi, delle regole, dei metodi e degli strumenti di pianificazione, voluta e promossa da quella destra ideologica e “liberista”, “antipianificatoria”, “antiurbanistica”, “sviluppista e cementificatrice”, che ha saputo, negli ultimi due decenni, distruggere quelle poche e faticate conquiste e regole faticosamente introdotte dalla legislazione precedente. Ovvero di quella destra ideologica che in nome del più rozzo laissez faire, cerca di celebrare oggi il suo trionfante credo con il così detto Piano Casa col quale intende dimostrare la completa inutilità, se non la dannosità, di ogni e qualsiasi regola edilizia e urbanistica.

Purtroppo a questa vincente e straripante controriforma non ha saputo - e spesso nemmeno voluto - opporsi una sinistra politica, culturale e ambientalista minimamente decisa e consapevole (troppo spesso, invece, metrocubo-sensibile e anch’essa responsabile, pertanto, della odierna situazione e degli eccessi dei consumi di suolo in atto) che non ha saputo distinguere e orientarsi tra le dichiarate e vaghe esigenze di innovazione e di rinnovamento contro le evidenti volontà e i concreti atti legislativi di controriforma.

Ecco pertanto le ragioni del mio dissenso dalla leggina proposta:

- la leggina presentata si illude di poter intervenire contro gli effetti del consumo dei suoli anziché, come si dovrebbe fare, contro le cause. Essa pertanto ha poco più del valore di una grida, se pur alla ricerca di un facile consenso popolare (chi mai, alla domanda, sarebbe favorevole al consumo dei suoli?); si comporta come se, volendosi contrapporre agli effetti di una violenta e distruttiva guerra in atto, si promuovesse una leggina per stabilire il numero massimo dei morti ammissibili;

- ancora una volta si evita e non si vuole affrontare nel merito il tema della avvenuta distruzione di ogni forma di controllo e di pianificazione del territorio, accettandone passivamente e senza nessuna azione di contrasto l’esistenza;

- ancora una volta non si vuole riconoscere che solo il ritorno ad una corretta e operante pianificazione territoriale-paesistico-ambientale è in grado di definire le regole e le basi per un corretto e razionale controllo degli usi e delle destinazioni del suolo (che non è un problema di controllo solo quantitatativo ma anche, ed eminentemente, qualitativo) e delle eventuali e necessarie “compensazioni ambientali” (ma non nei termini vaghi e confusi come propone il testo);

- ancora una volta non si sanno guidare e non si vogliono mobilitare le sane forze ambientaliste disponibili (e sono molte) per avviare una battaglia di ricostruzione delle regole di una corretta conduzione del territorio contro i disastri prodotti dal becero “ laissez faire” imperante.

On ne change pas la société par décret (C. Montesquieu).

È stato reso noto che il Cipe, nella riunione che si terrà a giorni, dovrebbe riservare al Ponte sullo Stretto 1,3 miliardi dei cosiddetti Fas (Fondi per le Aree Sottosviluppate). Il ministro Matteoli ha anche fornito delle date per la partenza del progetto: a novembre del 2010 dovrebbero aprirsi i cantieri “e nel 2016 lo Stretto si potrà percorrere in auto”[1]. In una intervista radiofonica di poco successiva, ripresa oggi dalla stampa, il ministro ha anticipato ancora le date (“entro il 2009” la “partenza” del Ponte, non è chiaro con riferimento a quale passaggio del procedimento).

Sebbene l’esperienza suggerisca di prendere con cautela questo genere d’impegni, una cosa però è certa: l’intenzione c’è e la lobby del ponte in questi ultimi anni ha lavorato molto, nel disinteresse delle opposizioni politiche (parlamentari e no) e – quel che più colpisce – da ultimo anche di associazioni e comitati. Oltre alla stanchezza e allo sbandamento deve aver contribuito a questa paralisi la sensazione che l’assurdità del progetto fosse tale da emergere in modo inoppugnabile in questi tempi di crisi e di penuria. Come credere, infatti, che, in un momento in cui mancano risorse per le necessità più urgenti e in cui, nello stesso settore delle costruzioni, persino l’Ance batte cassa per le piccole opere, un impegno di questa portata sarebbe decentemente proponibile?

Né il Ponte può essere ritenuto, al pari di altri interventi infrastrutturali, un possibile volano per la ripresa, dal momento che, anche a prender per buoni i tempi di realizzazione confusamente annunciati, essi saranno in ogni caso troppo lenti perché un qualche apprezzabile effetto anticiclico ne possa mai venire. È quel che ha sostenuto il prof. Giacomo Vaciago, editorialista del “Sole-24 Ore”, persona non ostile all’opera in sé e certo non sospetta di estremismo ambientalista[2]. Non mi risulta però che il suo sensato rilievo sia stato in alcun modo raccolto, e così, nel silenzio, alla maniera di uno sciame di termiti che svuota il tronco lasciando intatta la scorza, la lobby ha continuato e continua a lavorare. Ultima notizia, e indizio che qualcosa di grosso si prepara, Pietro Ciucci, “l’uomo del ponte”, lascia l’Anas e torna alla Stretto di Messina spa.

La tattica del fatto compiuto

L’impressione, anch’essa confortata dall’esperienza, è che ai lobbyisti interessi anzitutto creare dei fatti compiuti, dei punti di non ritorno, quali che siano poi gli esiti immediati. Fu così che, nella primavera del 2006, la Stretto di Messina appaltò l’opera appena due settimane prima del cambio di governo, pur nella consapevolezza che una delle due coalizioni era contraria al progetto e che, in caso di sua vittoria, ciò si sarebbe risolto in un certo danno per la collettività: comportamento solo formalmente legittimo, ma, per usare il termine tecnico, “inopportuno” (come quello, per dirla con i manuali, del dirigente di un’impresa pubblica che effettui massicce assunzioni alla vigilia della chiusura degli stabilimenti), e quindi censurabile e scorretto sia sotto il profilo contabile che del buon andamento. Comportamento che però, purtroppo, nessuna forza politica ritenne allora di condannare come meritava, nemmeno quando poi da parte dei “pontisti” s’invocò lo spettro del danno erariale in caso di revoca dell’appalto.

Al contrario, a riprova della pervadente influenza trasversale della lobby, il nuovo ministro Di Pietro, anziché dare il viatico alla Stretto di Messina, preferì tenerla artificialmente in vita in attesa della sua futura resurrezione[3], guadagnandosi, fra gli altri, il caldo elogio di Totò Cuffaro[4]. In quegli stessi mesi frattanto la stampa locale, soprattutto siciliana, imbastiva una campagna martellante a favore del Ponte, dipinto come il simbolo del riscatto dalla miseria e dall’arretratezza, gioiello che non meglio precisati poteri forti avrebbero voluto “scippare” al Mezzogiorno. Tale battage, intonato al tradizionale vittimismo piagnone e non contrastato da alcuno – dato anche il monopolio assoluto, da quelle parti, della lobby del Ponte sull’informazione – non è stato senza effetti, sia sul piano politico (con le sponsorizzazioni plateali del governatore Lombardo che nel Ponte indicava la “priorità assoluta” per la Sicilia) sia su quello dell’opinione pubblica. È in quel clima che si collocano episodi, che si direbbero comici se non fossero invece infinitamente tristi: come quello dei bimbi di una scuola elementare, che, aiutati dalla maestra, hanno fatto una colletta per il Ponte con i loro piccoli risparmi. Sancta simplicitas, viene da dire.

Apologie e denigrazioni

L’opera di lobbying è proseguita serrata fino a questi giorni. Da segnalare l’apparizione recente del libro di Giuseppe Cruciani (il baldanzoso conduttore di Radio 24), Questo ponte s’ha da fare (Milano, Rizzoli, 2009)[5], intimidatorio fin dal titolo. Chi lo sfoglierà vedrà che si tratta nient’altro che di uno scritto di propaganda, che, pur nell’abbondanza del materiale messo a disposizione dell’autore dalla Stretto di Messina, non possiede nemmeno quel minimo di spessore tecnico che lo avrebbe reso utile sotto il profilo informativo. Il fatto che sia apparso adesso però non è privo d’interesse: ciò testimonia da un lato che la partenza dell’opera è tutt’altro che scontata (altrimenti l’autore e i suoi ispiratori si sarebbero risparmiati il disturbo), dall’altro però che l’intenzione di iniziarla, a dispetto di tutto e di tutti, era e rimane serissima. Per il resto, vi sono affastellati gli usuali argomenti “a favore” già al centro della campagna giornalistica surricordata: il ponte come “simbolo” e monumento, la cultura del fare (“basta con le chiacchiere”), il volano dell’economia e dello sviluppo, e, naturalmente, l’irrisione per gli ambientalisti “catastrofisti”, ridicolizzati perché antepongono le balene e gli uccelli migratori al progresso.

Tutti argomenti che nel selvaggiume della stampa locale avevano già toccato il parossismo, fino ad entrare a far parte, ormai, della sottocultura della piccola borghesia locale collusa e corrotta: le matte risate verso quelli che vogliono difendere le “paperelle”, e tutto il triste repertorio che si sperava appartenesse al passato (Antonio Cederna a suo tempo vi scrisse sopra pagine indimenticabili e, si credeva, definitive, circa l’uomo “che viene prima del camoscio” e simili, leitmotiv storico di tutti gli energumeni del cemento). Su ciò meglio sorvolare. Ma nel caso del Ponte di Messina (e anche del Mose) merita tuttavia aggiungere una precisazione circa un punto che sfugge a molti, anche ad alcuni avversari di questi progetti. Non è affatto vero, come ripetono i demagoghi interessati, che per via di questa o quella specie protetta le grandi opere non si possano realizzare.

Le direttive comunitarie, nello stesso tempo rigorose e intelligentemente elastiche, prevedono infatti che qualora il manufatto sia ritenuto d’importanza “imperativa” e non vi sia alternativa praticabile alla sua realizzazione, il danno da esso arrecato ad un habitat protetto può essere oggetto di una compensazione, previa approvazione delle autorità comunitarie, purché questa sia tale da mantenere o restituire l’integrità del sito. Questi interventi compensativi sono ovviamente complessi e fanno lievitare il costo finale dell’opera. Nel caso del Ponte di Messina però le direttive CEE sono state platealmente disattese, e ciò ha dato origine al contenzioso in sede comunitaria. Se quindi il percorso della “grande opera” sarà fermato per questa ragione, la responsabilità non andrà addebitata agli ambientalisti e alle “anime belle”, ma, per intero, ai progettisti e agli amministratori che non hanno rispettato le leggi[6].

C’è un cliente in attesa

Il grande cliente è la mafia. Una qualche eco ebbe alcuni anni fa il tentativo di cordate legate alla criminalità di Montreal di entrare addirittura tra i finanziatori del progetto[7], ma poca o nessuna attenzione hanno ricevuto i tanti segnali delle attenzioni della criminalità per la grande opera che si vanno moltiplicando sul territorio, praticamente fino ad oggi. Da segnalare fra questi (ma l’elenco è largamente incompleto) l’apertura a Messina, in vista della realizzazione del Ponte, di uno stabilimento della Calcestruzzi spa (tradizionale fornitore di Impregilo e prima ancora di Girola), impresa posta poco appresso sotto amministrazione giudiziaria per collusioni mafiose e per la fornitura di calcestruzzo fasullo[8]; le inchieste sugli appalti della Condotte d’Acqua per la Salerno-Reggio Calabria che nella primavera dello scorso anno hanno portato il prefetto di Roma alla revoca del certificato antimafia alla società[9]; l’interessamento ai lavori per il Ponte della cosca di Villabate (strettamente legata a Bernardo Provenzano) e delle sue diramazioni nel Nord Italia[10], fino alle recentissime rivelazioni dell’operazione “Pozzo”, che ha interessato la mafia di Barcellona Pozzo di Gotto. Quest’ultima vicenda, pochissimo nota, merita qualche parola in più. Ancora una volta è grazie ad un’intercettazione telefonica ed alla sua tempestiva pubblicazione che possiamo essere informati di come l’imprenditore Salvatore Puglisi (P), arrestato per mafia il 30 gennaio scorso, commentasse con un suo interlocutore (G) gli ultimi sviluppi:

“P.: Il Ponte di Messina lo fanno…; G.: Io so che lo fanno… ormai c’è Berlusconi… lo fanno…; P.: Eh… la mia parte di cemento io la devo portare…; G.: Eh… lì ci entri pure tu!; P.: Eh… che faccio non entro io? G.: Eh… allora qua ti conviene… perché poi qua ti fai la strada e sei arrivato… più presto di tutti fai… anche se lì c’è la Margherita [riferito all’impianto di calcestruzzo “La Margherita srl” con sede al Villaggio Pace di Messina]… la Margherita qui abbiamo…; P.: Margherita si fa il suo ed io mi faccio il mio; G.: Ognuno si fa il suo…; P.: Ognuno si fa il suo…; G.: Ah? P.: Ognuno… così lavoriamo tutti…; G.: Così dovete fare…; P.: Non ci scorniamo noialtri… basta che uno si fa il suo…; G.: No… però vedi che ci sono pure quelli di Reggio pure…; P.: Ah? Quelli dell’altro lato…; G.: Ah?…ah… quelli fanno quello di là, l’altra metà…” [11].

La viva voce dei protagonisti è più eloquente di qualsiasi discorso e, al confronto, suonano patetiche le promesse e le raccomandazioni di rigore da parte dei difensori d’ufficio vecchi e nuovi. Dovrebbe ormai esser chiaro che, da un lato, sono i meccanismi stessi della legge obiettivo a facilitare le infiltrazioni, e, soprattutto, che queste sono inevitabili in territori posti sotto il pieno controllo della criminalità, come tutti questi esempi e, ovviamente, i precedenti del porto di Gioia Tauro, del centro siderurgico e della Salerno-Reggio Calabria insegnano. D’altronde, se anche per assurdo i rigorosi controlli promessi fossero possibili ed efficaci, ciò si risolverebbe in una parallela dilatazione dei tempi e delle risorse richieste, e tutto ciò andrebbe contabilizzato in una corretta analisi di costi e benefici, finora del tutto mancata [12].

La lobby all’opera

A riprova del fatto che, come diceva un saggio, nessun libro è del tutto inutile, a questo di Cruciani si deve però almeno un’importante notizia inedita. A p. 138 si narra dell’azione condotta a favore del Ponte dalla Reti, “società di lobbying e public affairs”[13] facente capo a Claudio Velardi (già braccio destro di D'Alema e fondatore del “Riformista”), e si riferisce che Pierluigi Bersani avrebbe suggerito ai lobbyisti: “Andate avanti, così quando arriviamo noi al governo non si potrà più tornare indietro”. E bravo Bersani! Non solo apprendiamo qualcosa in più sul candidato di D’Alema alla guida del Pd, ma abbiamo un’altra conferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, dell’uso spregiudicato del “fatto compiuto” di cui s’è appena detto e di come lavorano le lobbies trasversali. Questo curioso retroscena, ora noto per merito del libro di Cruciani, richiama alla mente un altro dialogo telefonico, quello memorabile tra Fassino e Consorte, dove si parla dell’entrata dell’immobiliarista Marcellino Gavio (azionista Impregilo) nella nota scalata bancaria: “Consorte: Gavio entra perché ha capito che… che aria… che l’aria cambia e siccome lui… Impregilo vuole lavorare con le cooperative…; Fassino: Ho capito, ho capito; Consorte: Non c’è nessuno che fa niente per niente Piero, a sto’ mondo, eh!”[14]. Già, nessuno fa niente per niente.

Berlusconi al Ponte ci tiene

Come stupirsi se quest’opera, così ambita nello stesso tempo dagli industriali del cemento del Nord e dagli ascari governativi del Sud, nonché da tutte le lobbies d’Italia, sia anche in cima alle priorità del Presidente del Consiglio? Oltre a rallegrarci con le solite battute cochon (“Si potrà andare in Italia [sic] dalla Sicilia anche di notte, e se uno ha un grande amore dall’altra parte dello Stretto potrà andarci anche alle quattro del mattino senza traghetti”)[15], fortunatamente il garrulo premier ha avuto modo, nel corso di un comizio tenuto lo scorso novembre durante le amministrative di Abruzzo, di rivelarci anche lui dei particolari interessanti circa le trattative per l’aggiudicazione della gara: “Sapete com'è andata col Ponte sullo Stretto? Avevamo impiegato cinque anni a metter d’accordo le imprese italiane perché non si presentassero separate alla gara d'appalto ma in consorzio... Eravamo andati dai nostri colleghi chiedendo che le imprese non si presentassero in modo molto aggressivo, proprio perché volevamo una realizzazione di mano italiana, e poi avremmo saputo ricompensarli con altre opere pubbliche. La gara d’appalto è stata vinta dal consorzio italiano: poi la sinistra ha distrutto tutto in cinque minuti”.

Come è stato giustamente osservato, “se le parole hanno un senso, il premier spiega di avere – non si sa a che titolo – aggiustato una gara internazionale per far vincere Impregilo sui concorrenti stranieri, invitando quelli italiani a farsi da parte in cambio di altri appalti (pilotati anche quelli?). Ma non è successo niente: siamo mitridatizzati al peggio, anche se in teoria il Codice penale vieterebbe le turbative d'asta. Ma immaginiamo quelle parole in bocca a un Sarkozy, a un Brown, una Merkel, a uno Zapatero, a un Bush, a un Obama. Ammesso e non concesso che, dopo averle pronunciate, fossero rimasti a piede libero, si sarebbero ben guardati dal rinfacciare la questione morale ai loro avversari politici. Berlusconi invece l'ha fatto. E gliel’hanno lasciato fare” [16].

Del resto, tutto si tiene. Chi sa come mai – mi chiedo io a questo punto – Marcello Dell’Utri, in una telefonata intercettata, si diceva certo in anticipo che l’appalto l’avrebbe vinto Impregilo? [17]. La stessa Impregilo che, principale responsabile dello scandalo dei rifiuti a Napoli, è stata salvata dal governo, se non addirittura, appunto, “ricompensata con altre opere pubbliche” (si veda, che so, la grande autostrada costiera in Libia concordata con Gheddafi).

Che fare?

Il tratto unificante di diversi degli episodi che si sono richiamati è la pervasività e la trasversalità della lobby. Dal grosso esponente politico al sindacalista, dal banchiere al giornalista, nessuno ne resta immune. Anche se, ovviamente, il lobbying parte dalla destra affaristica, l’obiettivo più ambito è però guadagnare qualche posizione “a sinistra”, nei giornali e nei partiti, in modo da isolare e mortificare i residui oppositori. Il passo successivo sarà quello di criminalizzarli, qualora, come in passato, volessero manifestare pubblicamente. La vicenda dei rifiuti di Napoli, che vede i responsabili del disastro (industriali ed amministratori) ancora al loro posto e i loro critici (ambientalisti e magistrati) messi sotto accusa e ridotti a sovversivi, costituisce un precedente inquietante, purtroppo avallato o tollerato da quasi tutta la stampa, anche di opposizione.

Non c’è dubbio che la medesima canea, con in più adesso l’accusa di sabotare l’economia in crisi e la ripresa, si scatenerà contro chi volesse scendere in piazza contro il Ponte. Ebbene, questa è una di quelle occasioni in cui bisogna dimostrare che la ragione può averla vinta sulla forza. Oltre al ricorso alle leggi nazionali e comunitarie ed all’informazione dal basso, ho notizia che da parte di molti si propone il ricorso ad uno strumento, poco usato in Italia, ma assai diffuso ed efficace in tutte le democrazie: vale a dire il boicottaggio sistematico delle società, dei gruppi finanziari e delle banche coinvolti nel progetto. A cominciare dalle banche, per altro già in sofferenza per conto loro. Mi auguro che questa proposta sia raccolta: dipende solo da noi, ed è nostro diritto, impedire che un’opera che noi non vogliamo sia finanziata, a beneficio di affaristi e di mafiosi, con i nostri risparmi.

[1] “Il Tempo”, 15.2.09.

[2] “Inserire il ponte sullo Stretto in un pacchetto anti-recessione significa pensare che la crisi durerà almeno cinque anni, non ha senso in un pacchetto congiunturale che voglia dare risposte sul breve-medio periodo” (“L’Unità”, 23.11.08).

[3] Cf. le giuste osservazioni di Carlo Scarpa.

[4]Ponte, il sogno continua, “Giornale di Sicilia”, 26.10.07. Il giorno prima al Senato, con 160 voti contro 149 e il voto determinante dell’Idv, era stato bocciato l’emendamento della maggioranza alla Finanziaria che intendeva sopprimere la Stretto di Messina.

[5] L’opera, mentre scrivo, viene massicciamente recensita sia sulla stampa nazionale (“Sole-24 Ore”, “Riformista”, ecc.) che su quella locale. La simultaneità e il numero dei soffietti permette di farsi una buona idea dell’estensione e delle ramificazioni della lobby.

[6] Su analoghe questioni relative al Mose mi sono soffermato in questo stesso sito.

[7] Questa vicenda e, più in generale, quella degli interessi mafiosi volti alla realizzazione del Ponte è stata assai ben documentata in un lavoro di Antonio Mazzeo, I Padrini del Ponte, che sin dal marzo 2008 attende la disponibilità di un editore alla pubblicazione. Si veda intanto S. Lenzi, Il Ponte sullo Stretto e la mafia, “L’Altra Campana”, II, 1-4 (2004) [ma marzo 2006].

[8] “Giornale di Sicilia”, 1.2.08.

[9] A. Bolzoni, “La Repubblica”, 9 e 13.6.08. Condotte è partner di Impregilo, oltre che nella cordata per il Ponte e nella Salerno-Reggio Calabria, nel Mose e in diversi altri progetti. La revoca è stata successivamente annullata dal Tar.

[10] Testimonianza del collaboratore Francesco Campanella, confermata da quella del costruttore Vincenzo Alfano, siciliano trapiantato in Emilia, arrestato e poi condannato per associazione mafiosa e riciclaggio: “Campanella mi chiamò e mi disse di tenermi pronto e di cominciare a muovermi per i subappalti e i lavori di fornitura per la realizzazione del Ponte sullo Stretto” (“La Repubblica”, ed. Palermo, 23.3.06).

[11] “Gazzetta del Sud”, 3.2.09.

[12] Si vedano, sul Ponte e sulle Grandi Opere in generale, le osservazioni durissime della Corte dei Conti, in particolare la delibera n° 12/2007/G, cf.

[13] Se ne veda il sito.

[14] Conversazione del 17 lug. 2005, cit. in G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio, Mani sporche, Milano 2008, p. 347.

[15] “La Repubblica”, 7.5.05.

[16] M. Travaglio, "L'Espresso", 30 dic. 2008.

[17] L. Fazzo, F. Sansa, Ponte sullo Stretto”. Vincerà Impregilo, “La Repubblica”, 3.11.05, cf..

Condivido ampiamente le considerazioni (vedi Carta, n. 2/2009) sulla necessità di difendere la legittimità di un ragionamento sul dimensionamento dei pesi insediativi, oggi subordinato alle necessità indotte dalle restrizioni economiche cui sono sottoposti i bilanci comunali e all'indicazione quasi esplicita loro data dalla illegittima soppressione nel TU sull'edilizia (prima coi decreti Bassanini, poi con Tremonti che l'ha sancita, infine con Prodi che l'ha estesa al prossimo triennio) dell'obbligo di versare gli oneri urbanizzativi in un conto vincolato (art. 12 della L.10/77 Bucalossi) all'esecuzione di opere urbanizzative. Si sarebbe dovuto, semmai, articolare ulteriormente quell'obbligo vincolando le somme derivanti da monetizzazioni di standard non ceduti ad un ulteriore capitolo destinato esclusivamente ad acquisizione di nuove aree, per evitare di trasformare le aree pubbliche non attuate in finanziamento di opere pubbliche (così come per altro verso fanno i cosiddetti standard qualitativi di molte legislazioni regionali, prima fra tutte la Lombardia).

Si è spalancato così il saccheggio della cassaforte (o cassa-debole?) del territorio, di cui registriamo via via gli effetti devastanti. Bisogna però stare attenti a non opporvi il mito del solo risparmio di suolo, se contemporaneamente non si mantengono i limiti di densità insediativa: concentrare maggiori pesi insediativi in spazi urbani più ristretti ed in edifici più alti, come propongono le politiche dell'assessore Masseroli a Milano (1 mq/mq di indice territoriale!), ma anche la perequazione sui 17,5 mq/ab dei servizi generali mai attuati nei PRG (tra cui 15 mq/ab di parchi territoriali) con nuovi indici virtuali aggiuntivi, non migliora affatto la sostenibilità insediativa e ambientale. Eppure è un'inganno in cui l'ambientalismo o l'ex-ambientalismo più o meno ingenuo spesso si lascia coinvolgere (da Legambiente a Chicco Testa).Si passerebbe, così, dagli indici novecenteschi di densità insediativa e dotazioni di spazi pubblici a quelli ottocenteschi di superficie coperta e altezza (quest'ultima liberalizzata), invece di aggiungervi quelli del XXI secolo di pressione antropica (acqua, aria, traffico, rifiuti).

Che VAS (strategica, appunto, cioè di lungo periodo) seria si può fare sui PGT previsti dall'ultima legge urbanistica lombarda se l'unico orizzonte delle trasformazioni urbane è il quinquennio successivo, senza più alcun obiettivo strutturale di lungo periodo? E' con questo equivoco che l'assessore Masseroli giustifica i 700.000 abitanti in più consentiti a Milano nel nuovo PGT, ma sbandierando la riduzione di consumo di suolo. Non è facile far capire all'opinione pubblica che così la qualità urbana e ambientale non migliora, ma è nostro dovere sforzarci di farlo, difendendo le conquiste storiche degli Anni Sessanta-Settanta e sussumendole in quelle di sostenibilità ambientale, invece di bollarle come vetusti ferrivecchi, come piacerebbe ai convergenti neoliberismi di diversa provenienza.

La commissione Ambiente della Camera dei Deputati ha costituito un gruppo ristretto con il compito di verificare le possibilità di convergenza su un unico testo legislativo sui “Principi per il governo del territorio”. Allo stato attuale sono tre i testi depositati. I primi in ordine di tempo (29 aprile 2008) vedono quali firmatari rispettivamente Lupi (Pdl) e Mariani (Pd). In autunno è stato depositato (15 ottobre) anche un terzo disegno di leggi a firma di Mantini (Pd). L’Istituto nazionale di urbanistica ha infine reso pubblico un suo autonomo testo, nella speranza di poter svolgere un ruolo di mediazione tra i tre disegni di legge all’esame del gruppo ristretto.

1. Il fallimento del liberismo applicato alle città

La prima considerazione riguarda l’impianto culturale che sorregge le quattro proposte. Sono tutte permeate da due convinzioni: che il futuro del territorio possa essere delineato con il concorso della proprietà immobiliare e che si possa fare a meno della fondamentale legge sugli standard urbanistici che, come noto, riconosceva esteso sull’intero territorio nazionale il diritto alla quantità minima di spazi per servizi pubblici e verde.

A questi due elementi la legge Lupi aggiunge anche l’aberrazione che la pianificazione non è attività pubblica autonomamente esercitata dalle autorità rappresentative della volontà popolare, ma che si debba passare “da atti autoritativi ad atti negoziali” con la proprietà fondiaria.

Queste leggi sono dunque figlie del neoliberismo applicato al territorio e alle città. Nell’ultimo ventennio si è affermata la convinzione che il mercato svolge più efficacemente il proprio ruolo propulsivo se privo di regole, sono i meccanismi della concorrenza a determinare gli equilibri. Questa concezione valida per la produzione di merci – e non accettata neppure da molti economisti liberali- è stata estesa anche alla città e alla pianificazione. In questi anni, anche senza l’approvazione di nuove leggi in materia di urbanistica[1], trionfa l’urbanistica contrattata e la programmazione negoziata: è il volano economico (di un’economia basata sulla rendita) a rappresentare il motore delle trasformazioni[2].

Nell’estate del 2008, poche settimane dopo il deposito delle prime due proposte di legge, scoppia la crisi dei mutui subprime su cui era stata fondata la vincente offensiva liberista. Affermava nel 2007 Allen Sinai,uno dei più importanti economisti di Wall street, già consulente di Bush senior e di Clinton: “Forse in Europa non ci si rende conto dell’importanza e della centralità del mercato immobiliare in America. Ad esso è legato tutto, a partire dai consumi che sono continuamente finanziati dai prestiti ulteriori che le banche erogano a fronte di rivalutazioni dell’appartamento, per cui serve che questo si rivaluti senza soste. E’ un meccanismo in virtù del quale si finanzia la maggior parte dei consumi americani che sono il motore dell’economia”.

Mattoni di carta sostenevano l’espansione economica mondiale. Alcuni analisti affermano che i titoli spazzatura ammontano a oltre 3.000 miliardi di dollari. Se si pensa che il piano di investimenti del presidente Barak Obama ammonta ad un di circa 900 miliardi di dollari, si comprende cosa abbia prodotto l’economia senza regole.

Le quattro leggi di riforma sul governo del territorio arrivano dunque fuori tempo massimo, nel pieno di una crisi economica mondiale causata proprio dai principi che esse sostengono. Le leggi in discussione alla Camera sono dunque superate dall’evidenza e dalla profondità della crisi e non esiste linea emendativa che possa ricondurle a coerenza con la prospettiva del ripristino delle regole attualmente in atto in tutti i settori dell’economia.

2. Conoscenza e attività legislativa

Questa critica generale diviene ancora più negativa se si tenta di fare un bilancio oggettivo su quanto è avvenuto in questi anni in cui, con o senza la legge Lupi, il piano urbanistico è stato sostituito dalla logica dei “progetti urbani complessi”ritagliati sulla proprietà fondiaria.

Dal punto di vista dell’effetto quantitativo la concezione liberista ha raggiunto i suoi scopi poiché negli ultimi dieci anni la produzione edilizia è stata, come noto, elevatissima in tutto il paese: si è costruito ai ritmi dei due decenni del dopoguerra quando c’era una tumultuosa dinamica demografica. Ma la qualità delle nostre città ha invece subito un processo opposto: qualsiasi osservatore dotato di onestà intellettuale conviene sul fatto che le città hanno peggiorato in termini di funzionamento e di qualità urbana complessiva.

Prima di emanare la nuova legge, il legislatore avrebbe dunque il dovere di analizzare gli effetti sul territorio e sulle città dell’abolizione dell’urbanistica. Il Ministero delle infrastrutture potrebbe essere investito dal compito di fornire in tempi brevi qualche sintetico indicatore sullo stato delle trasformazioni avvenute. Solo a titolo esemplificativo, dovrebbero essere resi di dominio pubblico i dati sull’occupazione di suolo prodottasi dal precedente studio di Giovanni Astengo confrontandola con le dinamiche demografiche. Dovrebbero essere resi di dominio pubblico i dati sullo spopolamento dei centri storici. Ancora, la mappa dei grandi outlet e ipermercati aperti con tanta disinvoltura. O, infine, i dati sulla produzione edilizia pubblica in confronto con i fabbisogni di disagio abitativo. Sono soltanto alcuni indicatori, ma è indispensabile che il Parlamento proceda con cognizione di causa al varo di una legge di tale importanza. Servirebbe dunque uno scatto di consapevolezza da parte del legislatore tesa ad aprire una discussione senza pregiudizi culturali su quali siano le ricette migliori per riportare ordine nelle nostre città. Gli strumenti tecnologici a disposizione permetterebbero un lavoro in tempi brevi: con pochi mesi si potrebbe avere il quadro dell’assetto territoriale del nostro paese.

Nel giacimento di informazioni accumulate in tanti anni, non si trova infatti nessuna città o territorio che attraverso il metodo del progetto urbano abbia raggiunto di assetti qualitativamente migliori. Del resto, nei pochi casi in cui non siamo stati di fronte a ulteriori espansioni abbiamo assistito a gravi manomissioni dei tessuti urbani con un unico denominatore: l’aumento del carico urbanistico in termini quantitativi e funzionali.

3. Il grande assente: il contenimento dell’uso del suolo

Il fenomeno unificante delle trasformazioni degli ultimi due decenni è senz’altro il consumo di suolo che viaggia da tempo fuori da ogni controllo. Nessuna delle tre proposte parlamentari affronta efficacemente la questione. E’ vero che la proposta Mariani introduce la tematica del contenimento del consumo di suolo sia nei principi (comma b dell’articolo 3) sia nel capo della disciplina urbanistica (articolo 18. Qualità del territorio rurale), ma siamo sempre all’interno di considerazioni di dubbia efficacia. Mancano infatti precisi indirizzi e norme cogenti che obblighino i comuni alla dimostrazione di assenza di alternative di riuso di aree urbanizzate o di edifici già costruiti prima di impegnare nuove porzioni di suolo agricolo, così come manca l’inclusione delle “aree rurali” tra quelle protette ope legis dal Codice del paesaggio.

Soltanto la proposta dell’Inu prtesenta una formulazione convincente ripresa sostanzialmente dalla proposta di legge presentata da eddyburg nel 2006 (articolo 4).

4. Resta la valorizzazione dell’ambiente

Se manca il tema del contenimento del consumo del suolo è invece largamente presente il concetto della “valorizzazione dell’ambiente”. Esso è contenuto in tutte le proposte e raggiunge formulazioni pericolose, come nel caso del testo Mariani quando all’interno delle relazione (pag. 5) afferma: “Di particolare importanza nella riforma sarà il passaggio dalla tutela dei beni paesaggistici a quellapiùcomplessiva della tutela e valorizzazione dei paesaggi, così come previsto dalla Convenzione Europea sul paesaggio”. L’uso della “valorizzazione” come concetto positivo, sempre nel testo Mariani, porta ad affermare (art. 15, comma 3, punto b) che le scelte strategiche del piano, e cioè quelle finalizzate a delimitare i grandi ambiti del paesaggio da sottrarre alle trasformazioni, devono armonizzarsi “con la disciplina di tutela e valorizzazione dell’integrità fisica del territorio”. Il fatto è che nel linguaggio corrente, orrendamente semplificato, al termine “valorizzazione” è sempre sotteso il termine “economica”, e “valorizzare”diventa sinonimo di “commercializzare”, “mettere a reddito”, trasformare in “merce”..

5. Basta con gli standard urbanistici

I “progetti urbani complessi”di questi anni approvati attraverso l’accordo di programma prevedono sempre consistenti aumenti di peso urbanistico. L’unica difesa delle popolazioni e dei comitati è l’invocazione del rispetto del decreto sugli standard urbanistici del 1968. Si sono potute ridurre alcune previsioni edificatorie dimostrando la mancanza di spazi pubblici. In questo senso, particolarmente negativo è il fatto che i quattro progetti di legge abrogano l’istituto delle dotazioni minime estese all’intero territorio nazionale, sostituendolo con la possibilità che ogni regione definisca le proprie.

Ma un’ulteriore trappola è contenuta nell’elenco (quando viene fornito), delle categorie che contribuiscano alla soddisfazione delle dotazioni territoriali. Tra di esse ne sono infatti presenti alcune che non appartengono a fattispecie pubbliche ma sono svolte oggi dai privati. Senza alcuna qualificazione “pubblica” sono infatti citate, ad esempio, la “sanità” e “l’innovazione e la ricerca”. Il rischio evidente è quello che al raggiungimento delle dotazioni territoriali vengano conteggiate funzioni svolte dal privato che non hanno alcuna relazione con la soddisfazione di bisogni sociali.

6. Lo strumentario dell’urbanistica liberista

L’urbanistica liberista resta il pilastro delle leggi. Solo alcune sottolineature.

Permane il vago concetto della concorrenzialità. Si sostiene che il piano strutturale può contenere alternative da sottoporre a procedura concorrenziale in sede di piano esecutivo. Mi sembra la più evidente certificazione della fine dell’urbanistica come è stata fin qui attuata: il futuro delle città verrebbe infatti deciso sulla base di alternative proposte dai più potenti gruppi immobiliari.

Compensazione e premialità appaiono in tutte le proposte. Senza tener nel minimo conto quanto è avvenuto (specialmente a Roma) mediante l’uso della compensazione urbanistica, essa viene resa lo strumento cardine della pianificazione. Si dice addirittura (proposta Inu, ad esempio) che la compensazione è utilizzabile anche nei confronti “dei vincoli ablativi di edificabilità” con cui si demolisce l’impianto vincolistico accettato dalle stesse sentenze della Corte costituzionale: anche i vincoli paesaggistici devono essere “compensati”.

Credo che queste brevi note[3] siano sufficienti all’illustrazione delle principali caratteristiche delle leggi. Sarebbe auspicabile che sulla pagina di eddyburg arrivassero contributi critici che aiutino alla definizione di una organica critica alle quattro proposte legislative.

[1] E’ il caso di ricordare che è stato soltanto per l’impegno degli urbanisti di eddyburg se nel 2006 non è stata approvata dal Senato la legge Lupi che era stata invece licenziata dalla Camera dei deputati nel 2005.

[2]Durante i due anni del secondo governo Prodi, eddyburg fece una battaglia frontale contro un provvedimento di legge che avrebbe messo al parola fine alla pianificazione del territorio: il progetto dell’on. Capezzone che intendeva favorire l’attività imprenditoriale attraverso il rilascio dell’autorizzazione a costruire in tempi ristrettissimi e comunque a prescindere dalle destinazioni urbanistiche. La cultura neolibersta ha prodotto vere e proprie aberrazioni giuridiche di cui non c’è traccia nei paesi europei di più solida cultura liberale.

[3] Le note di merito sulle leggi che abbiamo redatto si concentrano quasi esclusivamente sui testi più accettabili e trascurano l’analisi dell’inaccettabile legge Lupi. La critica puntuale al suo impianto è nel volume La Controriforma urbanistica, Alinea editrice, Firenze 2005, e in numerosi scritti raccolti nella cartella “Tutto sulla legge Lupi

Pochi minuti dopo aver ricevuto le dimissioni di Salvatore Settis da presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali, il ministro Sandro Bondi ha nominato al suo posto l’archeologo Andrea Carandini che negli ultimi tempi ha acquisito molte benemerenze dicendo alcuni “sì” alla linea del governo, da ultimo al trasloco dei Bronzi di Riace alla Maddalena per il G8 e al commissariamento delle aree archeologiche di Roma e Ostia, e attaccando “i Talebani della conservazione”. Dunque era tutto pronto, era tutto predisposto da giorni. Da quando sul “Giornale” – quotidiano della famiglia Berlusconi (elemento di finezza non trascurabile) – Bondi aveva attaccato frontalmente Salvatore Settis, uno degli intellettuali più prestigiosi, direttore della Normale di Pisa, chiedendogli di cessare dalle critiche rivolte alla politica del governo in materia di beni culturali (tagli, commissariamenti, rinvii, ecc.) e ordinandogli, in pratica, di allinearsi o di dare le dimissioni. Non contento, il ministro aveva pure preso di mira l’ottimo soprintendente di Pompei, l’archeologo Pier Giovanni Guzzo, che pure ha dovuto subire in questi anni e mesi tutta una serie di commissariamenti, calati dall’alto, uno più fallimentare dell’altro. Fra l’altro Andrea Carandini è a capo degli esperti che dovrebbero “confortare” il commissario alle aree archeologiche romane il commissario straordinario Guido Bertolaso e il suo vice, l’assessore capitolino Marco Corsini. Non c’è qualche conflitto di interessi in questo Carandini uno e bino?

Sarà dunque Andrea Carandini (o il vice, ancora in carica, l’ex ministro e soprintendente Antonio Paolucci) a convocare la prossima riunione del Consiglio Superiore che si presenta assai movimentata. Ieri, infatti, dopo la lettura della limpida e incisiva lettera di dimissioni di Settis (nessuno può mettere il bavaglio alla cultura) e di due altri componenti del Consiglio, Andrea Emiliani e Andreina Ricci, e, dopo l’uscita del presidente dimissionario dalla sala, il consigliere anziano Tullio Gregory ha deciso di concludere lì la seduta. C’è stato soltanto il tempo di approvare, significativamente all’unanimità, l’ordine del giorno di piena solidarietà a Settis. Che Bondi, dimostrando di ignorare dove si trova, nella lettera al “Giornale” aveva trattato alla stregua di un dirigente del Ministero (cosa che non è mai stato).

A quel punto, il ministro, evidentemente col pieno appoggio di Berlusconi, è andato avanti come una ruspa, ignorando anche la mediazione di Gianni Letta esortato a ciò dalla presidente del FAI, Giulia Maria Crespi, e non tenendo in alcun conto le proteste sdegnate di tutte le associazioni. Il governo vuole mano libera nel ridurre al silenzio i soprintendenti, nel cancellare vincoli e obiezioni, per poter fare quanto vuole: immettere manager esterni nell’amministrazione, esautorare i dirigenti attuali, rimandare sine die i piani paesaggistici previsti dal Codice Settis-Rutelli (e già allontanati di sei mesi), autorizzare la cementificazione dell’Agro romano, del litorale ostiense e di quant’altro, trasferire competenze decisive al Comune di Roma e, dopo, ad altri grandi Comuni, dividere musei, monumenti e siti archeologici fra quelli che possono rendere e quelli invece che non incassano soldi privatizzando la gestione dei primi. E’ una strategia che Silvio Berlusconi persegue da quando era ministro Giuliano Urbani, il primo a proporre la privatizzazione dei maggiori musei italiani.

Quando i direttori delle più grandi collezioni del mondo protestarono contro questo progetto e, in Italia, Giuseppe Chiarante, allora vice-presidente esecutivo del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali, si unì a loro, egli venne con altri (Luca Odevaine e il sottoscritto) subito epurato e il Consiglio, di fatto, non fu più convocato. Subentrarono a noi Suni Agnelli, lo storico Piero Melograni e l’ex presidente della Corte, Giuseppe Mirabelli. I quali accettarono tranquillamente e vennero poi presi in giro con la sostanziale chiusura “per lavori in corso” del CN. Allora l’opposizione parlamentare si disinteressò della cosa. Che accadrà ora?

Ora la questione di fondo si ripropone con maggior drammaticità, rischia infatti di venire travolto in poche battute l’intero impianto legislativo delle tutela a favore di un decisionismo tutto politico che ritiene d’impaccio e puramente consultivo il ruolo dei tecnici del Ministero e delle Soprintendenze. E’ vero che c’è di mezzo l’articolo 9 della Costituzione (“La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”), ma nei fatti il suo aggiramento, grazie anche al Titolo V della Costituzione che pesa sulla coscienza del centrosinistra, verrà perseguito con ogni mezzo. Per puntare a valorizzare quanto può venire commercializzato.

Fra i componenti superstiti del Consiglio Superiore alcuni appaiono decisi a presentare le dimissioni da questo organismo ritenendo che sia inutile restarvi dentro a fare le belle statuine (o a non venire convocati come accadde con Urbani) e pensando che sia molto più utile provocare con un gesto collettivo un forte dibattito politico-culturale nel Paese. Altri invece propenderebbero per rimanere e combattere una sia pur formale battaglia in nome della cultura della tutela. Il problema è, più che mai, politico. Si scontrano infatti due strategie: una tendente a liquidare il Ministero e una storica tradizione di tutela – che rimonta alle leggi medicee e pontificie - in nome di una fruttuosa messa a reddito dei beni culturali e del paesaggio (già massacrato dalla speculazione); l’altra tesa invece a difendere la nostra legislazione e prassi di tutela come fatto di civiltà (cultura che fu dello stesso Giuseppe Bottai autore nel 1939 di due leggi fondamentali) avendo il sostegno e l’appoggio dei più grandi studiosi di tutto il mondo. La prima è stata fatta propria dal centrodestra. La seconda sarà fatta propria dal centrosinistra? Al di là di alcune singole voci levatesi anche ieri (De Biasi, Ghizzoni, Tocci, Giulietti, Della Seta, lo stesso ex ministro Rutelli), si aspettano prese di posizione forti e convincenti in proposito dai vertici del Partito Democratico e dell’Italia dei Valori.

Come abbiamo potuto leggere dalle notizie ANSA del pomeriggio e così come anticipato da un paio di giorni, Salvatore Settis si è dimesso dal ruolo di Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Pochissimi minuti dopo la conclusione della rapida riunione in cui è stata sancita questa decisione, le agenzie stampa hanno diffuso il nome del successore designato dal ministro Bondi. Naturalmente, che in presenza di palesi, profondi contrasti su molte delle decisioni adottate da questo governo in ambito culturale fossero, da un lato, inevitabili le dimissioni del professore e, dall’altro, legittima la sua sostituzione, è evidenza che non vale neppure la pena ribadire.

Ma molti sono gli indizi che questa vicenda sia stata opportunamente "guidata" verso un esito che consentisse l’allontamento di una voce ormai troppo scomoda, senza creare eccessivi clamori. Eppure Settis, ormai da anni osservatore critico di grande competenza e difensore delle sorti del nostro patrimonio culturale (si vedano i molti interventi riportati in eddyburg), non può certo essere definito quale personalità poco incline al dialogo, o arroccata su posizioni di oltranzismo radicale: criticato anzi, a volte anche da eddyburg, per eccesso di mediazione. Con tutto questo insanabilmente distante da atteggiamenti di servile acquiescenza, evidentemente i soli ad avere possibilità di accettazione in questi nostri tempi oscuri.

Il pretesto usato da Bondi per attaccare, con toni di sprezzante arroganza, il professor Settis, è stata l’intervista rilasciata da quest’ultimo all’Espresso nella quale venivano semplicemente ribadite, con toni molto pacati, alcune delle molteplici ragioni che negli ultimi mesi hanno indotto molti osservatori, studiosi, intellettuali italiani e stranieri a parlare di vera e propria dismissione del Ministero voluto da Giovanni Spadolini e di smantellamento di un sistema della tutela che, pur nel progressivo depauperamento delle risorse finanziarie e tecniche in atto ormai da molti anni, ha saputo preservare, nel suo complesso, il patrimonio culturale del nostro paese, perché rimanga un bene pubblico.

In attesa di leggere, domani su Repubblica, la lettera di dimissioni nella quale Settis ribadisce le proprie ragioni, oltre a dichiarare la piena solidarietà di eddyburg a lui e agli altri membri – Andrea Emiliani, Andreina Ricci – che l’hanno seguito in questa decisione, una primissima considerazione può essere fatta a caldo.

Ben pochi commenti merita il successore designato, Andrea Carandini, già da mesi allenatosi ad assurgere al ruolo di archeologo di corte con un accorto dosaggio di attacchi al personale delle Soprintendenze - "i talebani della conservazione" - ed entusiastiche approvazioni, a prescindere, di ogni desideratum del potere politico in materia culturale, crociera dei bronzi di Riace compresa.

Lo sconcerto suscitato nel mondo accademico nazionale ed internazionale dalla scelta di un personaggio la cui reputazione scientifica ha subito più di una incrinatura dopo le ultime boutades reclamizzate a mezzo stampa, dimostra purtroppo la distanza dei parametri di giudizio dell’insieme del mondo scientifico rispetto a quelli adottati da chi ci governa.

Un elemento apparentemente collaterale delle modalità con cui si è svolta la riunione del Consiglio svoltasi questo pomeriggio ci appare illuminante: subito dopo aver letto le ragioni delle proprie dimissioni, il professor Settis avrebbe sollecitato una discussione aperta sui temi da lui proposti e, dunque, non certo sul destino del proprio ruolo, ma esattamente sulle diverse visioni di politica culturale che venivano a confrontarsi fino a confliggere: argomento principe cui il Consiglio Superiore sarebbe chiamato a dedicare massimamente le proprie risorse intellettuali.

Con una tempestività degna di miglior causa, il membro anziano subentrato a presiedere la riunione ha interrotto la seduta, impedendo de facto lo svolgersi di una libera discussione, pratica, quest’ultima, cui chi ci governa dimostra in ogni occasione la propria totale estraneità.

E’ invece esattamente questo che occorre fare ora, in tutte le sedi, suscitando quell’esercizio della critica che appare così pericoloso da dover essere stroncato in ogni forma.

Al contrario, come ci ha insegnato Rossana Rossanda, ‘affilare la ragione, invece che le spade, resta il nostro mestiere’.

Non era stato facile mantenere e ri-affermare l’idea del Centro storico come bene comune, sia in senso culturale che economico, contro ogni tentativo post bellico di appropriazione da parte di interessi privati particolari fossero grandi banche o gruppi immobiliari o l’insieme degli interessi commerciali. E ciò nonostante che già Ricardo avesse individuato nell’insieme delle azioni dei singoli aggregati all’interno della città il fattore determinante del diverso valore della terra urbana rispetto a quella agricola circostante e nonostante il valore di custodia di un immaginario collettivo stratificato nel tempo fosse alla città riconosciuto da storici ed urbanisti e implicito nella cultura dei suoi abitanti negli stessi comportamenti “relazionali” con cui vie, piazze e edifici erano utilizzati.

Ne fa fede la difficoltà con cui agli inizi degli anni ‘70 Pierluigi Cervellati tentò e in parte realizzò a Bologna quella che resta una delle operazioni più ardite ed innovative dell’urbanistica italiana e cioè il recupero di pezzi di città storica sia in senso edilizio che socio culturale sottraendoli alla inevitabile deriva di un degrado fisico e/o funzionale assieme con l’espulsione dei ceti più deboli dal cuore della città. Operazione che letta con gli occhi dell’oggi appare ancora più meritoria e “politica” perché capace di affermare il diritto dei cittadini a non essere deprivati di un bene di cui la loro stessa presenza contribuiva a determinare il “valore”.

Ricordo bene, allora ero studente di quella Facoltà, lo scandalo con cui venne accolta dal prof. Piero Sanpaolesi titolare della cattedra di Restauro dei monumenti alla facoltà di Architettura di Firenze e suo Preside, la proposta avanzata dalle commissioni del movimento degli studenti di tenere un insegnamento sul tema del “Restauro/recupero dei centri storici” che da Bologna sembrava diffondersi come tema rilevante in tutte le città storiche.

Quella operazione ebbe seguito e imitatori di maggiore o minor successo persino fuori dai confini nazionali e conobbe anche in qualche caso una certa continuità di azione da parte delle istituzioni di alcune piccole, medie e grandi città italiane, ma la spinta politica e sociale per la conservazione del bene comune centro storico si spense a poco a poco certo non senza avere conosciuto momenti di vera e propria gloria come nel caso del netto prevalere dei sostenitori della chiusura al traffico veicolare del centro storico nel/i referendum a Bologna; e ciò contro una manifesta coalizione di interessi commerciali ed immobiliari e di egoismi privati. Certo gloria effimera chè non bastò a convincere il governo della città a darle seguito “cedendo”, letteralmente, il campo a chi il referendum aveva perduto, sia nel senso di adottarne il punto di vista che di progressivamente lasciare solo a quegli interessi e ai loro portatori la possibilità di avere parte sulle decisioni in merito.

Dalla vicenda bolognese esce una storia quasi paradigmatica della progressiva espropriazione alle società urbane del loro centro come luogo di incontro di discussione, di vita di relazione con gli altri e della consegna dello stesso alla prevalente funzione del consumo nei modi e con i tempi determinati dagli interessi economici degli operatori commerciali progressivamente affermantisi e/o imposti su qualsiasi altro interesse comune. Parabola che lì ha prodotto anche un Sindaco (Guazzaloca) “di settore” ma ovunque conseguenze oltrechè culturali e politiche anche urbanistiche rilevanti.

Gli spazi di vie piazze rese disponibili a qualunque manifestazione di valenza commerciale, il trionfo dei dehors senza regole né spaziali (transitabilità compromessa degli spazi pedonali), né estetiche (chiusura di prospettive visuali, uso di strutture e materiali incongrui con il contesto), né ambientali (sprechi energetici e di materiali), i ponteggi dei cantieri in corso divenuti enormi cartelloni o schermi pubblicitari. La vendita ai privati degli edifici del patrimonio pubblico o addirittura di spazi verdi e persino le ordinanze sindacali che vietano la sosta delle persone su scalinate, panchine, piazze

E ancora, lo spazio di vie e piazze conquistato definitivamente dall’automobile in moto o in sosta a vantaggio di pochi (chi compra il privilegio di vivere in centro compra anche il privilegio di parcheggiare sotto casa!?) e a scapito dei pedoni e della possibilità di un utilizzo “lento”, “gratuito”, “estatico” e “sostenibile”. Inciso: a Tokyo e Kyoto l’auto in centro può essere parcheggiata solo in spazi privati.

Non solo lo spazio pubblico del centro storico viene alienato ad uso privato in vari modi: concessioni d’uso, pagamento sosta, vendita spazi pubblicitari etc, ma addirittura negli sviluppi più recenti delle politiche del traffico (Sirio, Ecopass e simili) si ripropone in nuove forme la “enclosure” di un “common” (le barriere tecnologiche immateriali hanno sostituito i recinti e le siepi) vendendone il diritto di accesso a chi ha la possibilità di comprarlo

Piano piano il bene comune posseduto dalla comunità urbana e disponibile per tutti, da usare e godere spesso insieme, è diventato uno spazio contenitore di beni da consumare in modo individuale e discriminato. L’allontanamento dal centro storico degli spazi in cui si potesse consumare il delitto di una produzione culturale alternativa e autogestita (centri sociali e spazi liberi) o addirittura praticare modalità di abitare “diversi” (case occupate o comunitarie) è stata l’azione generalizzata di complemento delle amministrazioni urbane.

Non so dove sia stato coniato per la prima volta il taxon con cui vengono ora connotati i centri storici soprattutto in Toscana e in Emilia: “Centro Commerciale Naturale”; accomuna su cartelli, mappe e pieghevoli di produzione istituzionale San Quirico d’Orcia a Pienza, Vignola e Reggio Emilia, solo per esemplificare. Certo l’inventiva promozionale usata dalla sinistra (?) che governa quelle terre a ricreare per lo “sciame inquieto” ( come lo definisce Z. Bauman) dei consumatori lo stesso appeal che hanno ipermercati e città degli outlets, trasformando il Centro Storico in Centro Commerciale Naturale, denota una sicura convergenza con l’ideologia mercantile che anche il centro destra promuove nelle città da lui governate..

Così si esprime l’appello contro la chiusura di COX 18 uno spazio milanese animato da Primo Moroni: “Lo stesso centro storico da tribuna delle idee e di incontro è stato progressivamente trasformato in un luogo destinato solo al consumo opulento, a vetrina infiocchettata della moda” (il manifesto 29/01/2009 pag.20).

La distruzione di un immaginario condiviso che vedeva il centro storico come bene comune si consuma così in un bipartisan silenzio rotto da rare e flebili voci. Ad epigrafe si potrebbe adoperare la scritta apposta da “mano criminale” proprio a Milano su un divieto di accesso alla zona ecopass:

“ZONA A PENSIERO LIMITATO”. (M. Philopat, Il primo amore. Il cuore eretico di Milano, in il manifesto cit)

Il piano casa del governo subordina la possibilità per gli immigrati di ottenere una casa realizzata con contributi pubblici o un’agevolazione pubblica sull’affitto ad una duratura anzianità di residenza in Italia. Siamo di fronte ad una proposta che crea iniquità e ostacola le esigenze dell’economia di mobilità territoriale di quell’esercito industriale di riserva costituito dagli immigrati. Nessuno se ne lamenta. E, mentre si dimenticano le proteste di Adam Smith contro il decreto emanato nel 1662 da re Carlo II d’Inghilterra che di fatto proibiva ai poveri forestieri di spostarsi alla ricerca di assistenze e lavoro, per spiegare queste nuove norme del governo si deve ritornare a Thomas Malthus.

Il piano galeotto

A tre secoli e mezzo dalla sua emanazione in Inghilterra, si è aperto, in Italia, uno spiraglio per evocare lo spettro dell’ Act of Settlement and Removal, che ai poveri viandanti inglesi sbarrava l’ingresso nei villaggi e nei paesi in cui si recavano alla ricerca di una possibilità di sopravvivenza e li condannava all’indigenza e a una vita di stenti in quelli di partenza.

Il sistema della Poor Law (nel cui contesto quel provvedimento si inseriva) affidava i poveri all’aiuto “statale” delle parrocchie, allora anche strutture amministrative del regno. I poveri cercavano di spostarsi da una parrocchia all’altra alla ricerca di aiuto, ma tutte li scacciavano per timore di doverli assistere, caricando di tasse i contribuenti della parrocchia che accoglieva i forestieri nuovi arrivati. Per governare gli spostamenti dei poveri viene, allora, emanato l’ Act. Con esso formalmente non si impedisce ai poveri di trasferirsi “nelle parrocchie in cui maggiori sono le possibilità di trovare una reale assistenza”, ma per non essere rispedito nella parrocchia di provenienza il povero, entro 40 giorni dall’arrivo nella nuova, doveva procurarsi “una tenuta del valore [non] inferiore a 10 sterline”. Evidentemente il possesso di una cifra (allora) così considerevole avrebbe reso del tutto superfluo cercare una nuova sistemazione.

La barriera dell’anzianità di residenza

Con il piano casa (articolo11, legge 133/2008) il governo propone di incrementare l’offerta di abitazioni destinate “prioritariamente a prima casa” anche per gli immigrati (extracomunitari) regolari a basso reddito, purché “residenti da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione”. La barriera dell’anzianità di residenza, può rendere problematico, per gli immigrati, anche continuare ad ottenere il contributo del cosiddetto fondo sociale per l’affitto (ex articolo 11 della legge 431/1998, di riforma dei contratti di locazione). Le nuove norme prevedono, infatti, che le risorse statali del fondo, siano ripartite tra le regioni sulla base di “requisiti minimi necessari per beneficiare dei contributi [che] devono prevedere per gli immigrati il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione”. Le Regioni non sembrano, quindi, formalmente obbligate ad escludere dai contributi gli immigrati che non hanno l’anzianità di residenza richiesta, ma nei fatti sono tutte disincentivate dal non farlo. Quelle di esse che ammettono al fondo anche gli immigrati con anzianità di residenza minore di quella prevista dalla legge, rischiano di dovere finanziare i relativi contributi sui loro bilanci, senza poterne chiedere il “rimborso” allo Stato.

Adam Smith dimenticato

Questa proposta del governo può essere criticata sia sul piano dell’equità, sia su quello della sua efficacia e degli effetti che essa può produrre. Stupisce molto, perciò, la scarsa (se non la mancanza di) attenzione ad essa riservata da parte delle forze politiche progressiste. E meraviglia anche il silenzio di quelli che, nelle elaborazioni teoriche come nei comportamenti pratici, si ispirano a posizioni liberiste, i quali hanno, evidentemente dimenticato, o ignorano, la posizione assunta da Adam Smith sulle le leggi inglesi sul domicilio, che ostacolavano la mobilità territoriale, e, almeno potenzialmente, sociale dei poveri.

In Inghilterra, scriveva Smith, quasi 250 anni fa, al contrario che “in tutti gli altri paesi dove non esistono difficoltà di ottenere un domicilio […], è spesso più difficile per un povero passare il confine artificiale di un distretto parrocchiale che un braccio di mare o una catena di alte montagne”( Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Mondadori, Milano, 1977, vol. I, p. 141). E poiché i limiti posti dagli spostamenti da un luogo ad un altro costituivano un ostacolo all’occupazione dei poveri, che “in un paese civile provvedono a se stessi e all’enorme lusso dei loro signori” ( La ricchezza delle nazioni. Abbozzo, Boringhieri, Torino, 1969 p. 18), e quindi allo sviluppo e all’accrescimento della ricchezza nazionale, egli chiedeva “la revoca delle leggi dei domicili, in modo che un operaio povero, quando perde un’occupazione in un mestiere o in un luogo, possa cercarne un’altra in un altro mestiere o in un altro luogo, senza il timore di un’azione legale o di rinvio al precedente domicilio” ( Indagine vol. II, p. 459).

La restrizione del mercato dell’affitto

L’applicazione delle norme introdotte dal piano casa lascia libertà di movimento da una Regione all’altra, senza che essi vedano ridursi le possibilità di assegnazione di una casa pubblica o di ottenere il contributo del fondo sociale, solo agli immigrati che sono in Italia da molto tempo, i quali, essendosi stabilizzati in qualche posto, sono, probabilmente, i meno disposti a spostarsi. Penalizzano quelli regolarizzati di più recente arrivo, certamente i più disposti alla mobilità territoriale per inseguire la dinamica geografica della domanda di lavoro. È questa componente dell’immigrazione ad assolvere oggi il ruolo di quello che Marx chiamò l’esercito industriale di riserva, “grandi masse di uomini […] spostabili improvvisamente nei punti decisivi”, cioè nei settori e nelle aree in cui la produzione necessità di braccia in un determinato momento. Non è difficile vedere la contraddizione tra la rivendicazione di un mercato del lavoro flessibile e di lavoratori disposti alla mobilità territoriale, da un lato, e, dall’altro, il restringimento delle possibilità di ottenere una casa in affitto proprio per la componente della forza lavoro più disposta alla mobilità.

La netta prevalenza, che caratterizza la situazione italiana rispetto a quella di altri paesi, della quota di famiglie che vive in abitazioni in proprietà su quella che vive in affitto, è ritenuta un fattore di svantaggio, poiché la scarsità di alloggi per la locazione ostacola la mobilità del lavoro ed impedisce alle aree del paese ad elevato sviluppo o in crescita di attrarre i lavoratori di cui necessitano. Sorprende, allora, che, tra quelli che si lamentano di questa ristrettezza strutturale del mercato dell’affitto, nessuno abbia fatto rilevare come il piano casa quel mercato lo restringa ulteriormente per via legale.

Ritorno a Malthus

Le esigenze politico-elettorali sembrano prevalere su quelle economiche: per accrescere i propri voti o per non perderli, è diffusa tra (quasi tutti) i partiti la convinzione che occorra riequilibrare l’azione dello stato sociale, indirizzandone gli interventi un po’ più verso gli italiani e un po’ meno verso gli stranieri. Quello della casa non è l’unico settore nel quale si interviene per rimettere ordine. Ma accrescere la difficoltà per gli immigrati di procurarsi una casa asseconda in maniera più palpabile le attese degli italiani e ha una forza di dissuasione per lo straniero più potente di eventuali interventi in altri settori.

L’aveva ben compreso Thomas Malthus, fiero avversario delle leggi inglesi sui poveri, di cui rivendicava l’abolizione totale (differentemente da Smith, contrario alle leggi sul domicilio), ritenendole responsabili della povertà che avrebbero dovuto eliminare. Constatando che esse non facevano crescere i matrimoni (e conseguentemente la popolazione) nella misura in cui egli si aspettava, agli inizi del diciannovesimo secolo scriveva: “Ho pochi dubbi che la causa specifica di questo effetto inatteso delle leggi sui poveri debba essere ricercata nella difficoltà di procurarsi le abitazioni. [….] È molto probabile che se la difficoltà costituita dalla carenza di case fosse rimossa, vedremmo presto la proporzione di poveri accrescersi in misura molto più grande di quella che si è mai finora verificata” ( Lettera a Samuel Whitbread a proposito della sua proposta di riforma delle leggi sui poveri in Popolazione e povertà, Editori riuniti, Roma, 199 8).

Con l’aggravarsi della situazione economica mondiale ed il suo estendersi anche al nostro Paese, ha preso vigore e grinta il partito dei tagli ai “costi della politica”. Ultimamente non si va per sottigliezze e nel frullatore viene messo di tutto. Non c’è trasmissione televisiva in cui Parlamentari del “Popolo delle Libertà”, dell’UDC e dell’”Italia dei valori”, unitamente ai soliti onnipresenti “maître à pensée” della carta stampata, ossia a quei direttori che non hanno mai fatto una piega dinnanzi ai copiosi sussidi pubblici che i loro editori ricevono grazie ad una generosa legge sull’editoria, pongono sul banco della macelleria i costi sostenuti dai Comuni per i Consiglieri comunali (che si vorrebbero ulteriormente ridurre) unitamente a quelli delle Province e delle Comunità montane, già previsti da abolire nei programmi elettorali dei partiti della Casa delle Libertà. Nel gioco al massacro non si fa alcun distinguo tra Comunità montane che operano efficacemente ed altre che di montano hanno solo il nome e non fanno nulla, tra Province che svolgono con efficienza ed efficacia i propri compiti pur tra mille difficoltà spesso imputabili alla legislazione regionale di riferimento ed altre che invece non hanno alcun senso e che devono la loro esistenza solo alle “grazie” politiche del notabile o dell’onorevole di turno. Di recente, mentre il maggior quotidiano nazionale ( Corriere della sera 5 c.m.) gridava allo scandalo titolando in prima pagina; “Costose, inutili, incancellabili: le (false) promesse sulle province” e mettendo in campo uno dei catoni censori della “casta”, Feltri col suo giornale continua la crociata epurativa chiedendo ai lettori di sottoscrivere “l’appello a Silvio: aboliamo le Province!”. Nella mischia si smarcano i ministri e Parlamentari della Lega Nord che, tirati per il bavero da Consiglieri di Comunità montane e dagli Amministratori di alcune Province, si dichiarano apertamente contrari a questi tagli. Il governo dal canto suo, prendendo atto della situazione politica al suo interno, fa dire allo scalciante ministro Brunetta che «Le Province sono enti inutili, che non servono, ma che non riusciremo a cancellare in questa legislatura». Poiché coloro che imbracciano la durlindana evitano di entrare nel merito dei problemi sollevati e preferiscono affidarsi a facili slogan ad effetto, cercherò qui di fornire alcuni dati ed elementi per una discussione.

Veniamo anzitutto ai costi della politica che sono imputati ai Consiglieri Comunali. Essi coincidono con i cosiddetti “gettoni di presenza” che vengono corrisposti ai Consiglieri che presenziano alle Assemblee Consiliari e partecipano ai lavori delle relative Commissioni. Il loro importo é stabilito dalla legge (DM 119/2000 e sue modifiche del 2005) e varia dai 15,34 € per i Comuni fino a 1000 abitanti ai 92,96 € per quelli oltre 500.000. Nel caso di Comuni aventi una popolazione compresa tra 10.001 e 30.000 abitanti, quale ad esempio il Comune di Codogno, l’indennità di presenza, al lordo, è di 19,98 € e su essa viene effettuata la ritenuta d’imposta del 23%. Al netto dunque 15,38 €. Una somma che, è bene dirlo, neppure finisce nelle tasche dei Consiglieri perché molti, tra i quali lo scrivente, versano l’intera somma percepita al proprio partito o gruppo di appartenenza al fine di concorrere a sostenere le spese connesse alla stampa di volantini e manifesti, per pagare i canoni per le affissioni e l’affitto di sale per le assemblee, ecc. Viene così reso ai cittadini, sotto forma di informazione, quanto hanno corrisposto. Per far capire la dimensione economica complessiva del problema agitato, farò riferimento al Comune di Codogno ed alla Provincia di Lodi che nel 2007 hanno speso per l’attività svolta dai relativi Consiglieri rispettivamente la somma di 4.794 € e 103.394 €, ossia circa 0,3 €/anno per ogni cittadino di Codogno e 0,47 €/anno per ogni cittadino della Provincia. Si taglia pure tutto, come vogliono i nostri rigoristi ed avremo risparmiato l’insignificante 0,05% delle spese correnti nel caso di Codogno e lo 0,35 % circa nel caso della Provincia!

Vengo ora al problema che più assilla i nostri esponenti politici nazionali dei partiti sopra richiamati ed i vari “maître à pensée”, ossia la questione riguardante l’abolizione delle Province. Tralascerò qui il problema connesso alla soppressione di alcune di esse a seguito della istituzione delle “Città metropolitane! sul quale c’è l’accordo unanime ed affronterò la questione più generale premettendo che le Province sono previste dalla nostra Costituzione la quale all’art. 114 specifica che “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Già questo vincolo comporta, se le si volessero abolire, una riforma della stessa Costituzione. Una cosa non da poco che richiederebbe, come dice Brunetta, tempi che traguardano questa legislatura! Anche coloro che sostengono questa campagna abrogazionista lo sanno benissimo, eppure si continua a battere il chiodo per esercitare pressioni sull’opinione pubblica e sul Parlamento affinché, nell’ambito della revisione del codice delle autonomie si pervenga ad una riforma dell’assetto istituzionale in chiave fortemente “deregolativa” in cui la “governance” venga devoluta in modo spinto verso il basso, ossia verso i Comuni, i quali, in nome della liberalizzazione, della competizione e della sussidiarietà orizzontale dovrebbero lasciare ampio spazio agli interessi privati in campo urbanistico, nella gestione dei servizi sociali e dei beni comuni. Essi inoltre, privati del potere vincolante, una volta consultati, non dovranno ostacolare sul loro territorio le scelte sovraordinate di Stato e Regioni (vedasi ad esempio la legge obiettivo). In presenza di conflitti con gli Enti locali, Stato e Regioni dovranno intervenire esercitando ampi poteri sostitutivi. Una volta svuotate ulteriormente di compiti e poteri le Province, non resterà che abolirle modificando la Costituzione. Si tratta di una visione dello Stato marcatamente neoliberista che non tiene conto di cosa comporti questa divisione dei poteri in termini di conseguimento di obiettivi complessi la cui soluzione non risiede né nel localismo e tanto meno nel centralismo. Si tratta di una interpretazione del federalismo non nuova visto che la nostra Regione la pratica da anni. Fanno testo le varie leggi regionali lombarde che sono state emanate a partire dai primi anni 2000 le quali hanno progressivamente tolto alle Province importanti compiti e impedito loro di esercitare un efficace ruolo di governo del proprio territorio. Nel caso della nostra Provincia ciò ha aggravato problemi pregressi (si pensi al problema della centrale di Bertonico) o reso difficoltoso affrontare quelli emergenti (si pensi alla discarica che la CRE vorrebbe insediare a Senna Lodigiana). Tra le leggi citiamo qui, una per tutte, la LR n° 12/2005 “Legge per il governo del territorio” che assegna alle Province compiti puramente “settoriali” in materia di tutela dell’agricoltura “strategica”, di difesa idrogeologica del territorio e di infrastrutturazioni mentre invece lascia ai singoli Comuni carta bianca nella definizione del proprio assetto territoriale avendo soppresso quasi del tutto vincoli sovraordinati o normativi (abolizione degli standard urbanistici, nessun vincolo provinciale nel determinare le espansioni endogene, ecc). Viene così fatta mancare la possibilità di analizzare ed affrontare in modo “sistemico” e di “governance” problemi complessi, come quelli legati al tema dello sviluppo sostenibile, della tutela dei suoli e delle acque, dell’ambiente e dei rifiuti che solo nella scala adeguata, ossia alla scala di vasta area, possono trovare appropriate risposte. Una “devolution” che, nella versione colta, viene fatta derivare dal principio di “sussidiarietà”, reinterpretato in salsa “lümbarda”. Si tratta di una interpretazione che nulla ha a che fare con quella che l’Unione Europea ne dà al fine di individuare “il livello istituzionale più adeguato a dare le risposte sistemiche più efficaci, efficienti ed economiche ai problemi posti dal paradigma dello sviluppo sostenibile”. Si tratta, come si nota, di un approccio che non individua “aprioristicamente” i livelli a cui affidare poteri, compiti di gestione e quant’altro e che al contrario riconosce il fatto che se un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti e questi invece sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (o sott’ordinato) è a quest’ultimo che spetta il compito di intervenire. Non è forse stata questa la strada che a partire dalla metà degli anni sessanta venne perseguita dagli Amministratori lodigiani e che portò, nel riconoscimento dell’impossibilità di conseguire importanti obiettivi socio economici operando ognuno per proprio conto, a realizzare prima, sia pur su base volontaristica, il “Consorzio provinciale per il miglioramento delle condizioni economico sociali del Lodigiano”? Non è forse stata questa la strada che in questi anni hanno perseguito con risultati positivi Provincia e Comuni lodigiani, realizzando strutture consortili e altre forme associative, per affrontare temi complessi quali: i servizi assistenziali, la gestione pubblica del servizio idrico integrato, lo smaltimento dei rifiuti, la valorizzazione dell’agricoltura, il turismo, la tutela del territorio, ossia bisogni e problemi che nessuno a scala locale è in grado di garantire anche in termini di economicità?

Il tema della riforma federale dello Stato non lo si può affrontare schematicamente quasi si trattasse di un referendum: Provincia sì o Provincia no. Nessuno mette in discussione che anche le Province dovrebbero essere oggetto di riforme, visti i cambiamenti che sono intervenuti ed i nuovi complessi problemi che si dovrebbero affrontare, ma una cosa è aprire una seria discussione su tutto questo, altro è assumere un approccio di marca qualunquista per liquidare un livello di governo che ha dato e può dare appropriate ed efficaci risposte. Perché nessuno dei nostri catoni censori vede che è proprio nella gestione localistica dei problemi e dei bisogni che si nascondono gli sprechi, che si depauperano risorse pregiate e scarse quali ad esempio il territorio e l’ambiente? Perché nessuno di loro, ma anche dei due grandi schieramenti politici, si pongono il problema del superamento dell’attuale frantumazione localistica, che, questa sì, la “custa un sacc de danè”? Infine, visto che siamo vicini alle scadenze amministrative, sarebbe auspicabile che le forze politiche provinciali che non ritengono inutili le Province, prendano apertamente e pubblicamente posizione indicando altresì le azioni che intendono intraprendere presso le proprie segreterie nazionali. Suonerebbe infatti assai stucchevole pensare che mentre anche questi partiti si preparano ad affrontare la prossima campagna elettorale per le Province, elaborando programmi che ne presumono l’utilità, non facciano nulla per impedire che a livello nazionale si ridisegni un assetto dello Stato che le cancella.

Postilla

L’articolo per Carta ha provocato due reazioni: l’articolo di Andrea Rossi, Capogruppo in Provincia di Lodi del partito della Rifondazione comunista, e una breve nota e-mail di Gianni Zampieri, Collemincio di Valfabbrica (Pg). Colgo l’occasione per integrare l’articolo di Rossi e completare in tal modo le ragioni della provincia, che già emergono dal suo scritto. Ma anzitutto ecco la nota di Zampieri.

“Ma cos'è sta novità? Stai a difendere le Provincie? Cioè quella riserva di poltrone e poltroncine che ci costa un occhio e serve a pochissimo? Tutte le funzioni delle Provincie possono serenamente essere attribuite alle Regioni, abolendo tutta la schiera di poltrone e poltroncine dei piani alti. Non si rinuncerebbe ad un bel niente. Semplicemente andrebbero a casa (con laute e immeritate liquidazioni e/o pensioni) alcune centinaia di inutili e spesso incapaci funzionari di partito. Ti prego di riconsiderare la tua posizione in merito, con serietà e onestà. Grazie e buon lavoro”.

Molti di noi (i più vecchi, e quelli che si sono sempre occupati del territorio) ricordano gli eventi e le discussioni attraverso cui si è passati all’attribuzione alle provincie di nuovi ruoli accanto a quelli, più deboli, che storia e costituzione avevano consolidato. Il fatto è ch in una società che voglia utilizzare la pianificazione per governare l’uso e le trasformazioni del territorio, la dimensione comunale non è affatto sufficiente e non lo è, per le ragioni opposte, quella regionale; esiste un livello di pianificazione utile, che ha una scala intermedia tra le due. Questioni come i pendolarismo casa-lavoro-servizi, le localizzazioni di attrezzature e di sedi per le attività produttive e commerciali a raggio d’azione superiore a quello del piccolo o medio comune, il governo delle acque e dei rifiuti (per non citare che alcuni elementi) richiedono na visione sovracomunale ma un’ottica più ravvicinata di quella regionale. Questa è la ragione per cui in tutte le democrazie moderne esiste una forma di pianificazione d’area vasta. In Italia la prima sperimentazione fu il vero e proprio piano territoriale che venne fatto, all’inizio degli anni 30, per la bonifica e urbanizzazione della Pianura pontina (la cui dimensione, non a caso, coincide proprio con quella di una provincia).

Naturalmente la dimensione territoriale dell’ambito può dar luogo a una pianificazione che fa capo a diverse autorità: può far capo all’associazione dei comuni che ne fanno parte, oppure può avere come protagonista la regione, o addirittura lo Stato (quest’ultimo fu proprio il caso dell’area pontina): In Italia, negli anni dell’istituzione delle regioni, si tentarono tutte le strade. La premessa era che dovesse esserci una corrispondenza tra il livello di pianificazione e il livello di governo: titolare della pianificazione doveva essere un istituto democratico elettivo. Si tentò con degli enti elettivi di secondo grado (i “comprensori”); ma ogni membro del consiglio di comprensorio rappresentava il comune che lo aveva eletto, non si pervenne mai a decisioni efficaci (come del resto nei tentativi di pianificazione intercomunale). Si pensò di istituire i comprensori al posto delle province, ma sarebbe stato necessaria una modifica della Costituzione. L’uovo di Colombo fu il seguente ragionamento: le province sono previste dalla Costituzione, ma hanno poteri, competenze, ruoli molto deboli: riformiamole, utilizziamole per la pianificazione territoriale, così recuperiamo una istituzione esistente, le sue tradizioni, il suo personale, le sue strutture. Certo, i confini delle province furono tracciati in età napoleonica, andrebbero rivisti: ma è più facile rivedere confini e rafforzare competenze che cancellare enti divenuti poco utili e costruirne di nuovi. La conclusione del dibattito portò alle competenze delle province stabilite nella legge 142 del 1980.

Da allora avrebbe dovuto cominciare un lavoro molto serio per recuperare le province. Sarebbe stato necessario un ceto politico capace di comprendere che la pianificazione del territorio è un metodo e un insieme di strumenti necessario per assicurare un assetto ragionevole del territorio: convinto quindi a investire nelle nuove province. Così non è stato. Perciò solo in un numero limitato di casi (ma ve ne sono, e non sono pochissimi) le province hanno lavorato e lavorano. Ha ragione Andrea Rossi: parlare oggi di abolire le province significa soltanto voler dare un’ulteriore spallata al deperimento del potere pubblico democratico.

Ormai su periodici, magazine e quotidiani l’architettura si affianca sempre più alla moda, al glamour, al gossip. È quella la vetrina dove i cittadini possono venire a sapere di importanti trasformazioni del contesto in cui vivono. Non perché interessi il loro parere. I media li relegano al ruolo di spettatori impotenti (semmai immaginati nell’atto di emettere esclamazioni di meraviglia).

I politici? Da quelli dell’opposizione (di qualunque colore): silenzio. Non è materia che li riguardi, che abbia attinenza con la politica. Per quelli che hanno le redini del potere, le fantasmagoriche restituzioni virtuali sono l’incenso con cui si avvolgono: il sostituto di ogni discorso, di ogni giustificazione. Non solo la comunicazione, ma il mezzo a cui essa si affida è tutto (di nuovo McLuhan): dietro non c’è niente. Non un pensiero, un’argomentazione. Non un logos che possa essere oggetto di discussione nella polis. Così l’attacco si svolge su due piani: la città reale e la città ideale (nel senso non dell’utopia ma della civitas definita dalla convivenza civile e dalla condivisione delle ragioni su cui si fonda). Un punto su cui le restituzioni virtuali lavorano è l’immaginario. Che viene destrutturato e sganciato dalle ragioni civili. È anche così che si distrugge la città.

Esemplare è il lavoro svolto da una pubblicistica storicamente e formalmente attribuita a un’area di centro-sinistra e che in passato ha svolto un ruolo importante sul piano della difesa/costruzione di un cultura civile. Si pensi al lavoro di Antonio Cederna. Sì: sto parlando dell’«Espresso» e anche di «Repubblica», dove accanto all’ottimo lavoro svolto da un Francesco Erbani, troviamo il dilagare di maître à penser che hanno dirette responsabilità nella distruzione della città. O dove alcune star internazionali dell’architettura hanno un lasciapassare assicurato, avvalorato da giornalisti che si sono eletti a loro alfieri/maggiordomi. Per non dire delle pagine locali di «Repubblica», dove, come anche sul «Corriere della Sera», alcuni servizi su complessi edilizi in programma si presentano in tutto e per tutto come pagine pubblicitarie a pagamento: una prosecuzione della pubblicità immobiliare.

Tra gli effetti di trascinamento di questo caravanserraglio è l’automatica promozione di alcuni architetti di grido al ruolo di esperti in pianificazione urbanistica e disegno urbano. Ambiti su cui tali architetti non hanno alcuna preparazione, né alcuna esperienza che giustifichi l’affidamento di compiti di tale importanza. Chi glieli affida? Hanno incominciato gli immobiliaristi con il pieno avvallo degli amministratori pubblici, e ora li seguono su questa strada gli stessi amministratori in prima persona. La cosa è stranota: l’archistar è il grimaldello per ottenere l’innalzamento degli indici di edificabilità. L’amministratore pubblico li concede in cambio del fatto che acquisisce, o pensa di acquisire, uno scudo che lo mette al riparo da ogni genere di critica. Ogni discussione viene così tranciata di netto: chi osa muovere obiezioni si trova davanti un fuoco di sbarramento: «Chi è questo Carneade che osa schierarsi contro progetti che portano firme tanto prestigiose?». E via di questo passo. L’impreparazione degli amministratori e dei tecnici comunali fa il resto, finendo per trascinare nel vortice ammirazione/ignoranza larghe componenti dell’opinione pubblica: settori della società che via via si convincono che sulle trasformazioni territoriali e urbane non hanno voce in capitolo, perché non avrebbero la competenza. Mentre il problema primo di un amministratore pubblico sarebbe l’opposto: porsi come tramite fra competenze tecniche e competenze civili. Il vortice si trasforma così in tritacarne: le cosiddette competenze tecniche fanno a pezzi le competenze civili, ovvero quella materia - ciò che fa città - in cui tutti siamo esperti in quanto cittadini.

Queste le considerazioni suggerite da uno degli ultimi botti del fitto bombardamento mediatico: l’articolo Cantiere aperto Milano apparso su «L’espresso» del 23 ottobre 2008 a firma di Enrico Arosio.

Al centro dell’articolo è il progetto di Rem Koolhaas per l’area dei gasometri nel quartiere milanese della Bovisa. Il termine progetto è in questo caso un eufemismo. Si tratta più propriamente del divertissement di un individuo che evidentemente non ha giocato abbastanza da piccolo. Butta sull’area, a manciate, dei pezzi presi da una scatola di giochi d’infanzia e dopo averne cavato un assemblaggio che gli pare abbastanza stravagante da sorprendere gli allocchi, mette la sua firma sotto questo affastellamento, lo chiama masterplan e lo manda, con relativa parcella, al committente diretto. Ovvero a EuroMilano. Che qui, in termini di potere, avrebbe tutte le prerogative del principe. Come le avrebbero i suoi interlocutori primi: il Sindaco di Milano e il Rettore del Politecnico, il quale rappresenta un ente che in questo caso è il maggiore destinatario dell’intervento di recupero.

Principi? Sì: principi. Solo che nel quattro-cinquecento i principi avevano in generale buon gusto e ci tenevano a rispecchiarsi nelle opere. Ma si dirà: «Anche il “masterplan” di Koolhaas riflette qualcosa». Vero. È uno specchio che la dice lunga sulla impreparazione e il cattivo gusto dei moderni principi. I quali tra i gasometri della Bovisa, a dispetto dell’archistar usata come foglia di fico, appaiono in tutta la loro non entusiasmante nudità.

Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito è un pazzo oppure un economista, Kenneth Boulding, 1966

Cosa fa la gente dinnanzi alla crisi? Non compra! esclama preoccupato anche Epifani; un dramma, secondo lui (attualmente il miglior dirigente di una sinistra moderata in declino dopo l’autodistruzione della sinistra detta radicale). Proprio così. Bisogna comprare le cose inutili, poiché, penso, quelle necessarie e irrinunciabili per la normale e buona vita si acquistano comunque salvo sottoporle a una maggior attenzione riguardo al rapporto qualità prezzo. Il solito schema: comprare comprare comprare affinché la produzione corra. Schema vecchio come il cucco. Formula elementare e approssimativa che, mentre il whirl capitalism col turbo a pezzi è ricusato dagli stessi esaltati preti della globalizzazione, viene rilanciata dalla sinistra accodata ai marpioni della speculazione finanziaria e industriale. Che mancanza di idee, di fantasia, di risorse intellettuali e morali. Anche morali, certo. Perché allinearsi ai liberisti pentiti? Ai cultori dello scambio ineguale? Ai maestri di altrui rovina? Non dovrebbe, questa crisi, essere colta come occasione per ricominciare da capo, per pensare a un modello di società diverso dall’attuale modello capitalistico socialmente insostenibile? Anzi, economicamente insostenibile, si è visto, se persino colossali aziende mondiali perdono il 90 per cento del proprio capitale, e gli ex ultra liberisti debbono rimpolparle coi soldi della “gente” per salvarne altra. Non dovrebbe la sinistra smetterla di sottostare senza dubbi alla duale il-logica del consumare di più per produrre di più? E non dovrebbe denunciare la menzogna che l’aumento progressivo del Pil genera automaticamente più ricchezza per tutti quando è dimostrato il contrario, più reddito e ricchezza per pochi e maggior grandezza del divario con chi ne possiede poco o nulla dell’uno e dell’altra? Berlinguer, dimenticato dai dirigenti attuali, fu eccezionale chiaroveggente a perorare austerità nei consumi, vigilanza verso lo spreco. Non dovrebbe la sinistra ripartire dal suo pensiero berlingueriano e proporlo accanto a elaborazioni vecchie e nuove contestatrici del concetto e del fatto della crescita confusa con lo sviluppo? Carla Ravaioli, straordinaria irriducibile critica dello sviluppismo, ce lo ha ripetuto col suo ultimo libro (Ambiente e pace una sola rivoluzione): crescita concerne le merci e il reddito, sviluppo deve riferirsi a tutti i fattori di umanizzazione delle risorse. Perché la sinistra non “studia”, perché non vede che esistono pensieri sull’economia e la società diversi da quello dominante ma scosso e perdente? Perché non si misura con il principio di Serge Latouche relativo alla decrescita o acrescita (“decrescita serena” “decrescita conviviale”)? Perché non farlo con le istanze critiche del sistema capitalistico di un Kenneth Boulding, di un Walden Bello, di un Jared Diamond e tanti altri studiosi? Perché non liberarsi dalla sudditanza al liberismo, al pensiero convenzionale “occidentale” e propugnare idee e progetti per una diversa economia punto di partenza per cambiare il mondo?

Perché non cogliere l’occasione?

Sull’argomento vedi anche gli articoli di Giorgio Ruffolo, Loretta Napoleoni, Burgio e Giacchè, Barbara Spinelli , Rossana Rossanda e Zygmunt Bauman, nonché i numerosi scritti di Carla Ravaioli e Piero Bevilacqua (usando il “cerca”)

I giornali e i telegiornali hanno parlato poco o nulla della seconda sentenza, quella del Consiglio di Stato, sulle torri eoliche di 110 metri installate sui Poggi Alti di Scansano già bocciate in prima istanza dal Tar della Toscana. Sarà prudente attendere le motivazioni di questo secondo giudizio che peraltro condanna – cosa non da poco – il fatto che la Regione Toscana non abbia compiuto, prima dell’installazione delle torri in una zona paesaggistica e naturalistica di pregio, fra i vigneti del Morellino, vicino al bel castello di Montepò, una adeguata valutazione di impatto ambientale sull’avifauna e sulla pericolosità per i volatili. Da non trascurare, aggiungiamo, pure il mancato invito alla Soprintendenza competente a sedersi al tavolo della conferenza dei servizi (in nome di un frettoloso “ambientalismo del fare”?).

L’assessore regionale competente ha subito annunciato, sbrigativamente: rifaremo l’autorizzazione e tutto andrà a posto. Nemmeno per sogno ha replicato, con una secca diffida, uno dei ricorrenti, l’imprenditore agricolo Jacopo Biondi Santi, “il parco eolico realizzato in località Murci è ab origine privo di titolo autorizzativo e perciò del tutto abusivo”. Quindi va subito demolito.

Sull’impianto eolico di Scansano l’ambientalismo si è diviso: favorevole senza se e senza ma Legambiente, contraria Italia Nostra, col Wwf in una posizione neutra. In effetti tre anni fa la meritoria associazione naturalista aveva sottoscritto, assieme a Legambiente, un patto con l’Enel per la promozione dell’energia eolica. Ma, di recente, essa si è opposta in maniera ferma all’eolico nell’Alto Molise (si minacciava pure la valle dove sorge la splendida città romana di Saepinum) ed ha salutato con favore la moratoria approvata dalla Regione Calabria a causa della eccessiva concentrazione di pali eolici in quell’Appennino. Con innegabili danni al paesaggio e allo stesso territorio montano.

Installate in tutta fretta le torri a Scansano, Italia Nostra e un noto produttore di vini, Jacopo Biondi Santi, appunto, hanno fatto ricorso al Tar vincendo la prima causa. A quel punto sono ricorsi al Consiglio di Stato la Regione Toscana, la Provincia di Grosseto e Legambiente. Col risultato che ho detto: seconda bocciatura, più limitata, pare. A quel punto ho ritenuto utile scrivere per il quotidiano Il Tirreno un commento, uscito il 1° agosto scorso (“Le torri eoliche fatele a Livorno”), nel quale sostenevo: a) l’energia eolica è utile e necessaria, ma bisogna pianificarne con raziocinio gli impianti e le Regioni avrebbero dovuto farlo d’intesa col Ministero dei Beni culturali, per motivi paesaggistici; b) Enel e altre aziende la stanno invece promuovendo, specie nel Sud, senza alcuna pianificazione, vanno là dove trovano Comuni montani poveri e indebitati, ovviamente più disponibili degli altri; c) meglio installare queste torri di 110 metri di altezza nelle aree portuali o industriali, oppure in aree ex industriali dismesse, e citavo Piombino, Livorno, Priolo, ecc. Ultima considerazione: molto meglio comunque puntare sulle varie forme di solare perché – come dimostra un recente studio del Club Alpino Italiano, e come ha sempre affermato il Nobel Carlo Rubbia – il vento nel nostro Paese è mediamente poco intenso (tranne che in certe zone della Sardegna e della Sicilia) e soprattutto incostante. In sintesi, ribadita ogni contrarietà al nucleare, sì all’eolico, ma con piani seri e non dove distrugge paesaggi e territori preziosi (anche al turismo).

Il giorno dopo è comparso un intervento di Ermete Realacci, responsabile per l’ambiente del PD, presidente onorario di Legambiente e gran patron dell’eolico. Titolo (già significativo): “Sì alle torri, ma siano più belle”. Dopo aver ripetuto quanto si sa da tempo sul ritardo italiano in tema di fonti rinnovabili e aver stigmatizzato la sindrome “non nel mio giardino” così cara all’ex ambientalista ed ora nuclearista Chicco Testa, ha sostenuto che l’eolico non pone problemi. Soltanto occorre “pungolare le aziende a produrre impianti eolici sempre più belli, e non soltanto funzionali, magari con torri più basse e meno impattanti”. Indi ha affermato (ex cathedra?) che “chi conosce Scansano sa, però, che quell’impianto eolico non ha prodotto gli impatti devastanti descritti nell’articolo di Vittorio Emiliani”. Per la verità avevo scritto che non è serio sostenere – come fa Legambiente – che la valutazione d’impatto ambientale realizzata “dopo” va benissimo lo stesso. Checché ne dica Realacci, conosco bene Scansano. Dopo di che Ermete parte in quarta: “Devastante, invece, è ridurre l’ambientalismo ad un’idea claustrofobicamente ripiegata su se stessa e incapace di rappresentare in pieno una speranza per l’umanità. Quella per cui l’ambiente è la più grande sfida, ecc.ecc.” Beh, capisco il nervosismo per essere rimasto solo a sostenere l’eolico a qualunque costo, ma queste trombonate potrebbe anche evitare di esibirle. Non basta: l’ultimo capoverso lo dedica al racconto “esemplare” della vicenda dei Bischeri (ben gentile), “la ricca famiglia fiorentina che si oppose alla costruzione del Duomo, perché avrebbe turbato la loro proprietà nel centro di Firenze”. L’allusione è forse diretta a Jacopo Biondi Santi. L’imprenditore vinicolo – che non conosco – si è opposto, a suo tempo, alle torri eoliche vicino al castello e ai vigneti di Montepò affermando, fra l’altro, che un paesaggio antico e intatto (fino a ieri) come quello toscano, noto per questo in tutto il mondo, favorisce anche le esportazioni di prodotti tipici, come i vini, sui mercati esteri più qualificati. Dove associano bellezza dei luoghi di provenienza e qualità dei prodotti colà ottenuti. Una “bischerata”? Francamente, non mi pare. Mentre invece accostare le torri eoliche a Santa Maria del Fiore e Arnolfo di Cambio, beh, non mi sembra propriamente una botta di genio. Sempre che Ermete l’Eolico accetti ancora qualche ironia critica.

Nei primi anni’60, abitavo in un piccolo comune della Brianza lecchese, che come tutti gli altri a quel tempo aveva i suoi individuabilissimi angolini di edilizia moderna di varia iniziativa pubblica. La mia casa, come mi spiegò una volta vagamente la mamma, veniva da tale “piano Tupini” non meglio identificato. Poi, separate da qualche ettaro di orti, dalle case operaie di une delle ubique tessiture, dalla trafficatissima Statale 36, c’erano le mitiche “canfanfan”.

Mitiche perché avevano un nome conosciuto a tutti, al punto da essere storpiato da ragazzini e analfabetismo diffuso. Mitiche perché avevano un aspetto immediatamente riconoscibile, anche quando le vedevi per la prima volta e in un altro comune. Mitiche perché, come avrei scoperto molto, ma molto dopo, quel mito era stato costruito a tavolino, studiando per bene i polli a cui andava propinato: inaugurazioni col prete in alta uniforme, controllo “morale” prima durante e dopo sugli occupanti, una riconoscibilità che nonostante tutto non le faceva spazi estranei, come invece succedeva anche in quei posti microscopici con le altre case popolari. Quelle mica erano case popolari, erano le “canfanfan” e ci si poteva andare a giocare senza paura di finire all’inferno.

Mi sono tornate in mente, queste cosucce banali, durante le varie recenti puntate del dibattito sull’esternazione di Fuksas a proposito della nuova frontiera della casa economica. Ovviamente non è un caso che l’architetto romano ripeschi proprio “quel” piano, e credo lo faccia esattamente per i motivi di cui sopra: ha avuto un’ottima pubblicità, a suo tempo e più tardi, ha dei caratteri fortemente “populisti”, pur temperati da altri elementi di indubbia qualità, ed è stato seguito da altri, forse più ampi e positivi programmi, che volutamente o meno non ne hanno colto questi insegnamenti.

In altre parole, niente da obiettare se si osserva come fa Salzano, che Fuksas e altri tendono a sorvolare la "ben più compiuta strategia delineata, a partire dalla legge 167/1962 (quartieri integrati nell'ambito delle zone d'espansione del PRG), con le successive leggi per la programmazione dell'edilizia abitativa pubblica, per il recupero dei quartieri e delle case degradate e sottoutilizzate, infine per il controllo del mercato privato (equo canone)". Molto da obiettare invece quando si liquida tutto questo come “ignoranza”. Quello che certamente gli architetti interessati a proporre grandi programmi per la casa economica non ignorano, né possono ignorare, è l’assoluta necessità di recupero della comunicazione, ormai strumento indispensabile al punto che i grandi nomi dello star system (ormai anche delle stelle di media lucentezza) sono figure assai più vicine a esperti/e di pubbliche relazioni che non a un vero e proprio coordinatore di progetto. Né possono ignorare, come non lo ignora la totalità del grande pubblico, il ruolo di spauracchio che da quasi trent’anni sono andati assumendo i quartieri di edilizia sovvenzionata in tutto il mondo. C’è tutta una smisurata e ripida china da risalire, dal punto di vista dell’immagine, che nel terzo millennio è spesso più sostanziosa dei materiali da costruzione.

E non importa nulla, o quasi nulla, se i dati, i riscontri reali ecc. dimostrano quanto ci siano altre “strategie delineate e compiute …”: senza una adeguata e buona comunicazione, tutti continueranno a pensare: però, che belle le “canfanfan”, vorrei abitarci anch’io, invece che in questa Tupina qualunque!

Come barlumi nella nebbia, segnali nel buio, alcuni accadimenti di segno diverso che riguardano il Mezzogiorno sono rintracciabili sulla stampa di questi ultimi mesi e giorni.

Il primo segnale è dello scorso settembre, e viene da Confindustria, che in Sicilia ha deciso di espellere le aziende che pagano il pizzo. Gli imprenditori hanno dunque compreso che senza legge non c’è mercato, libertà d’azione, dignità del lavoro, prospettiva futura. Il ministro Lunardi aveva torto: nessun tipo di convivenza è possibile, perché alla fine la moneta cattiva scaccia sempre quella buona. Una decisione storica, che va sostenuta e tempestivamente esportata nelle altre regioni, a cominciare dalla Campania, dove appare integro il patto collusivo tra criminalità, imprenditoria e politica, che ha trasformato da tre lustri l’emergenza rifiuti in un affare lucroso.

Il secondo segnale giunge dal presidente della Sardegna, Renato Soru, che ha motivato il suo assenso a ricevere parte dei rifiuti campani, con l’esigenza di tener fede al patto di coesione nazionale. Tra tanti localismi e opportunismi, si fa strada finalmente un ragionamento istituzionale, una visione diversa del nostro paese, fatta di responsabilità, cooperazione, confronto civile. Questa scelta gli è valsa l’assalto notturno della casa da parte di un’orda di farabutti, ma l’opposizione a Soru è più ampia, per colpa del piano paesaggistico che protegge le coste e, pare, del suo brutto carattere, che è poi l’accusa che gli italiani riservano solitamente alle persone serie e rigorose.

Un ultimo segnale, nelle recenti dichiarazioni del ministro Bersani, secondo il quale è meglio restituire a Bruxelles i fondi comunitari, piuttosto che spenderli male. Non avremmo mai sperato di udire simili parole da un ministro di governo italiano. Secondo Bersani troppi soldi non aiutano lo sviluppo del Sud, e comunque gli aiuti comunitari dovrebbero essere impiegati esclusivamente per fabbricare beni comuni, per rimpinguare la dotazione di capitale sociale. Il ministro ha naturalmente ragione, ma sembra non cogliere un aspetto importante della questione. Negli ultimi decenni, i fondi strutturali sono stati sostitutivi più che integrativi dei trasferimenti ordinari. Essi hanno rappresentato quindi le sole risorse a disposizione, che sono state diffusamente impiegate ricorrendo a procedure discrezionali, non ordinarie, emergenziali, perché “altrimenti si perdono i fondi”. Il problema vero è questo: quello di una classe dirigente perennemente tesa alla ricerca di grimaldelli istituzionali e procedurali – si tratti di commissariati straordinari o di procedure di spesa derogatorie – con lo scopo di aggirare i controlli democratici, e di poter liberamente alimentare la zona grigia, la fabbrica malsana del consenso.

Dalle nostre belle isole, ma anche da Roma, barlumi, segnali, frammenti di un discorso politico. In fiduciosa attesa che da qualche parte maturi una nuova sintesi.

Vi ricordate la vecchia urbanistica, quella della legge 1150 del 1942, i piani a cascata, i pareri di conformità obbligatori, i poteri sostituivi, ecc. In questi sessanta e più anni, le cose sono radicalmente cambiate: abolita la gerarchia dei piani e le conformità, introdotta la sussidiarietà fra livelli istituzionali, definita la temporalità delle destinazioni urbanistiche, stabiliti i meccanismi di perequazione, entrati ambiente e paesaggio come temi principi del governo del territorio, si è configurata una legislazione magmatica e confusa – con tutte le possibili varianti regionali - in cui, più che la norma scritta, vale la prassi. Ma al di là dei cambiamenti cui ho fatto cenno, peraltro ampiamente noti e commentati, vi è un aspetto generale su cui occorre riflettere. Il governo del territorio, in Italia, non è più affidato all’osservanza delle leggi, bensì al conflitto fra diverse istituzioni e fra soggetti pubblici e privati. Lungi dall’essere un incidente di percorso, il contenzioso è divenuto la vera anima dell’urbanistica.

Citiamo come esempio il Codice del Paesaggio che, emendato dalla commissione Settis e ulteriormente corretto nella Conferenza Stato Regioni, ha suscitato i commenti trionfali di Giovanni Valentini su Repubblica del 20 marzo 2008 e quelli più misurati ma comunque positivi di Vittorio Emilani sull’Unità, entrambi riportati su eddyburg. Il regime autorizzatorio è conteso fra Soprintendenze e enti locali. Il parere del Soprintendente non è vincolante se il piano paesaggistico è stato elaborato e approvato a seguito dell'accordo fra Ministero e Regione e se il Ministero ha positivamente verificato l’avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici alle prescrizioni del piano paesaggistico. Qualora si verifichino queste due condizioni chi rilascia l'autorizzazione è la Regione che tuttavia può delegare il compito alle Province, ai Comuni in forme associate o addirittura ai singoli Comuni, qualora essi dispongano di adeguate strutture tecniche di valutazione. Le associazioni ambientaliste possono impugnare le autorizzazioni presso il TAR e appellare le sentenze anche se non abbiano proposto ricorso di primo grado.

Sono perciò passaggi cruciali: un piano prescrittivo e non di mero indirizzo; la conformità degli strumenti urbanistici (ora non prevista in molte regioni ed esecrata in Toscana); l’effettiva verifica dell’adeguamento delle strutture tecniche. Snodi decisivi che implicano una piena lealtà delle istituzioni, in particolare di Regioni e Comuni, al dettato di legge; ma è assai più verisimile un’ottemperanza formale e burocratica degli enti locali e un’acquiescenza di Ministero e Soprintendenze. Ognuno di questi passaggi alimenta un potenziale contenzioso ed è perciò facile prevedere che ancora una volta associazioni, comitati e cittadini dovranno farsi carico dell’osservanza della legge. Risparmio al lettore analoghi ragionamenti sui cosiddetti piani operativi, sulla loro rispondenza ai piani strutturali, sui bandi e gli avvisi di concorso e su tutta la prassi contrattuale (nobilitata come governance) dell’urbanistica contemporanea

Il conflitto sull’uso delle risorse territoriali riflette d’altra parte una società articolata e complessa: non è quindi eliminabile e non può essere governato in modo dirigistico. La legge attualmente non previene né dirime, ma piuttosto delinea l’arena del contendere e le regole del gioco. Queste regole, che suppongono una specie di fairplay istituzionale, non vengono tuttavia osservate dalle amministrazioni. Occorre pertanto che almeno una parte della normativa che riguarda il territorio, specificatamente la normativa paesaggistica, sia sottratta alla guerriglia del conflitto quotidiano; ovverosia che il conflitto – inteso come confronto tra diversi progetti di uso del territorio - sia istituzionalizzato e risolto preliminarmente al piano.

La proposta, già avanzata come osservazione al PIT toscano, è che il piano paesaggistico assuma caratteri statutari. Ogni territorio deve essere dotato di uno statuto costruito in modo partecipato, una carta costituzionale non variabile se non con procedure straordinarie e altrettanto partecipate. E’ il piano territoriale o urbanistico, o meglio, le trasformazioni che essi prevedono, a doversi conformare alle regole e alle invarianti che definiscono per ogni territorio il suo ‘essere paesaggio’. Il conflitto così istituzionalizzato deve essere risolto nella fattispecie della conformità dei piani urbanistici agli statuti del territorio e alle loro regole. L’eventuale sede giudicante non deve essere esterna all’apparato amministrativo e alla legislazione urbanistica e deve operare in modo analogo a quello della corte costituzionale rispetto al legislatore ordinario,.

Nel dibattito sul Codice del Paesaggio probabilmente troppa attenzione è attualmente rivolta ai beni paesaggistici, che in Toscana – tanto per fare un esempio - coprono il 57% del territorio regionale di cui però il 50% è superficie boscata già protetta dalle leggi forestali, quindi il 7% scarso della superficie totale. Si tratta comunque di un giocare in difesa e sperare in Soprintendenze meno oberate da impegni e meno prive di risorse. Così rimanendo le cose, conflitti e contenzioso non saranno incidenti congiunturali ma apparterranno ad una fisiologia normativa voluta da un legislatore esso stesso al suo interno conflittuale. Il succo politico è molto semplice: in questa situazione chi è più forte vince, non certamente i cittadini.

Ha un bel mostrare i muscoli Terminator Schwarzenegger, anche nella versione turbo dei muscoli politici, che fanno leva sulle energie della collettività: contro la villettopoli sembra non esserci niente da fare.

I suoi ambiziosi piani per combattere il riscaldamento globale attraverso la riduzione delle emissioni sembrano avviarsi baldanzosi, muovere i primi passi, ma poi arrestarsi più o meno bruscamente quando inciampano in quello che Dick Cheney ha azzeccatamente definito “il nostro stile di vita irrinunciabile”.

Uno stile di vita fatto di varie cose irrinunciabili: l’automobile per andare ovunque comunque; l’aria condizionata per potersene fottere, del riscaldamento globale, di cui si accorgono solo cervelloni e comunisti; consumi opulenti senza i quali non c’è identità alcuna; e al centro di tutto la casa familiare, il più grande possibile, col garage enorme per tutte le auto di famiglia, col giardino enorme, magari per metà asfaltato così non sporca, e in fondo al giardino un’altra piccola casa, dove tenere la collezione secondaria di motori a combustione interna, ovvero tutta la micidiale serie dalla turbofalciatrice in giù.

E non è proprio il caso che noialtri tribù italomediterranee si rida della goffaggine degli elettori di Terminator: siamo messi uguale, se non peggio. Ad esempio lo scorso inverno un rapporto (naturalmente ignorato o quasi dai giornali) dell’Agenzia Europea dell’Ambiente spiegava come nell’assenza di politiche serie e diffuse l’urbanizzazione si stia diffondendo come una specie di cancro a scala continentale, da un lato mangiandosi la risorsa terra che – forse val la pena ricordarlo – è quella cosa che ci dà da mangiare, entro la catena evolutiva di cui noi vediamo solo il supermercato, dall’altro produce esattamente quanto sopra: le automobili, le emissioni, le falciatrici ecc. ecc. Fin quando anche il decisionismo locale non si scontrerà, tentando di applicare le tabelline suggerite dagli scienziati stravaganti alla vita reale, e ai suoi stili irrinunciabili.

Tanto irrinunciabili che ho iniziato a scorgerne vistose e consolidate tracce non solo negli stili di vita, ma anche in quelli di morte.

Non è una battuta macabra, ma la constatazione che emerge dall’esperienza personale di visita periodica abbastanza frequente al cimitero urbano di una città di oltre 100.000 abitanti. Le cui dimensioni consentono di rilevare un campionario vario e articolato di lotti edificati, particolari architettonici, abitudini di vita e trasporto. Che conducono a una sola conclusione: il suburbio perenne come categoria dello spirito ce l’abbiamo nel sangue, e per tentare di sradicarlo ci sarà bisogno non di un piano regolatore, ma di qualche generazione di campagne tipo quelle sull’alcol, il fumo, le malattie infettive.

La cosa che colpisce di più, è che nella necropoli diffusa la propensione salta all’occhio nonostante la mano livellatrice. Non quella livellatrice della Grande Vecchia, che sarebbe sin troppo ovvia, ma della povera amministrazione municipale, che col suo regolamento almeno limita gli spazi a due o tre categorie di rettangoli, contiene gli accessi ai veicoli, cerca con vario successo di mettere un po’ di ordine fra i riottosi dolori personali. Eppure.

Eppure si notano immediatamente, specie all’avvicinarsi del fine settimana, le grandi manovre delle maggioritarie tribù suburbane che riproducono qui il loro lifestyle. A partire dal passatempo coatto della manutenzione ad ogni costo: SUV stracarico di attrezzi, prolunghe, macchine varie, e accessoriato di anziano non autosufficiente per via del pass, senza il quale è necessario ahimè trasportarsi tutte le armi di distruzione di massa ignominiosamente a piedi fino alla villett… pardon, alla tomba.

La quale tomba inizia spesso con una solida e quasi impenetrabile siepe, dietro la quale ci si stupisce un po’ di non vedere il muso del Rottweiler d’ordinanza antimmigrato. A cosa serva, si può solo tentare di immaginare. Forse, come le ciotole di cibo nelle camere mortuarie sotto le Piramidi, l’ambiente villettaro così riprodotto serve simbolicamente a traghettare l’anima del caro estinto verso i giardinetti coi Nani Eterni lassù, negli spazi non inutilmente ristretti da un Comune dirigista.

Oltre la siepe, non il letterario buio, ma l’accecante bagliore di tutti i campionari di marmi possibili e immaginabili, con l’aggiunta del luccichio dei bronzi. Marmi e bronzi plasmati dagli artisti locali in un trionfo di tutto quanto l’obbligatorio utilitarismo della Villetta n. 1 ha sinora impedito: lucide are bianche prese di peso dalle pagine dei rebus della Settimana Enigmistica, pesanti tomi aperti su citazioni varie dal significato oscuro. In certi scorci, i vialetti della necropoli sono un concentrato (qui la densità è obbligatoria) di suburbio e relativi comportamenti, secondo modalità che non vedevo dall’epoca dei più micidiali campeggi di massa negli anni ’60: il bagnino col detersivo svuotato sul prato della buonanima confinante perché così si fa prima; il quattro ruote motrici di traverso sul vialetto manco fossimo in un cantiere della TAV; i cavi delle prolunghe e i tubi di aspirapolvere vaporello che tranciano qualche malcapitato fiore dell’altro dirimpettaio. Naturalmente, con un dispendio energetico proporzionale. Chissà che buco nell’ozono, sopra i cimiteri!

E in fondo non c’è molto da stupirsi, se fra puttini disposti come nanetti e aceri giapponesi “unici” identici a migliaia, la città dei morti assomiglia così tanto a quella dei vivi. Ci manca forse il centro commerciale, ma basta aspettare che (è già successo con gli ospedali, no?) a qualcuno venga in mente di dare spazio ai privati in cambio di qualche copertura delle spese di gestione, e il gioco sarà fatto. Sembra già di sentirli, gli assessori genialmente interventisti, dire che per mettere ordine nel suk (parola magica, che fa scattare il voto automatico) di fioristi e bancarelle si è pensato a una struttura centralizzata in project financing che, annessa alla cappella, ospiti il locale fleur du mall (nome giuro inventato sul momento, che spero non venga preso sul serio).

Con buona pace di tutti i buoni propositi di arginare il riscaldamento globale, contenere i consumi di suolo, fare qualcosa di qualunque genere per rispondere alla questione dell’esaurimento del petrolio. Macché: al massimo c’è qualche furbacchione che già specula su risaie e pioppeti pensando di farci un paradiso dell’etanolo neosaudita, naturalmente ristrutturato e ritagliato da simpatiche ottocorsie tipo la formigoniana “ Autostrada della Lomellina”.

Come barbaro, decisamente, era molto meglio il giovane Arnold. Che poi da grande almeno ha tentato di fare qualcosa di buono: ma nemmeno i suoi bicipiti fossili possono nulla, contro la dipendenza psicologica da combustibili fossili. Lo si vede anche nella necropoli di oggi, modello della metropoli di domani.

E’ morto Luigi Meneghello. Il TG ne ha dato notizia la sera scorsa, lapidario, sul finire della trasmissione, dopo l’ultima notizia, quella che riguardava Lele Mora e il suo amico Corona: «E’ morto a Thiene, Luigi Meneghello, saggista dialettale veneto, che da tempo viveva in Inghilterra, tra le sue opere ricordiamo Libera nos a Malo. Arrivederci e buona serata».

Se ne va sottovoce Meneghello, così com’è stato il ritmo della sua vita e delle sue opere, premiate e riconosciute solo di recente, e non certo con enfasi particolare. La sua opera più nota – Libera nos a Malo – è del 1963, pubblicata dal coraggioso e pionieristico editore Feltrinelli, approdata poi presso Rizzoli nel 1975, per essere diffusa al grande pubblico – negli Oscar della stessa casa editrice – solo dieci anni dopo, a oltre vent’anni dalla prima uscita.

Quando la lingua italiana, nel dopoguerra, era il giusto collante di una neonata e gracile Repubblica, Meneghello sceglieva due volte d’andare contro corrente. Da un lato il dialetto alto vicentino (di Malo), piegato, adattato per un pubblico non veneto, a raccontare le piccole e straordinarie saghe familiari, di una terra che stava transitando sommessamente dall’agricoltura alla «protoindustria». Perchè solo la fonia del dialetto, le sue allegoria, la forza evocativa, è il coadiuvante audace per costruire il discorso attorno ad una società così particolare come quella veneta tra le due guerre mondiali del secolo scorso.

D’altro lato, ancora contro corrente, il Piccolo Maestro, il partigiano che nel ’44 dall’Università di Padova, coi suoi coetanei sognanti, si oppone al fascismo e si fa partigiano nelle montagne venete, stabilisce, subito dopo la guerra, che la lotta partigiana non aveva dato vita al Paese che stava nei sogni di quegli stessi Piccoli Maestri, alla scuola di Toni Giuriolo. Dopo l’esperienza nel Partito d’Azione – da lui giudicata deludente - Meneghello si trasferisce in Inghilterra, dove fonda e dirige un corso di letteratura italiana. Era il 1946. Vi rimarrà stabilmente fino ad oggi.

«(..) la politica è la regina di tutte le cose. Toni Giuriolo – il nostro maestro – ci aveva insegnato, e non solo a parole, ma fecendotelo capire, che la politica è inseparabile dall’assetto della tua mente, mi pareva evidente….però non è durato molto questo “affaire” con la politica. Nell’immediato dopoguerra, il partito che incarnava la mia idea di politica è andato a farsi benedire fin dal primo congresso. Il nuovo partito perfetto, avrebbe dovuto essere il partito d’azione. Purtroppo nessuno votava per noi, neanche le nostre fidanzate mi sa, perché i voti che prendevamo erano uguali al numero degli iscritti (...). Dopo i primi due anni del dopoguerra, mi sono accorto che le cose andavano male, che il Paese aveva scelto diversamente, si era diviso in due campi, e ho pensato: in questo mondo non ho più niente di utile da fare. (...) Poi c’era la voglia di andare a conoscere altre civiltà contemporanee (...). Arrivavi in un paese, l’Inghilterra, che era considerato reazionario o conservatore e trovavi invece che il senso dello “spartire” tra la gente, spartire le durezze, le difficoltà, le privazioni, era incomparabilmente più diffuso che da noi. Noi parlavamo di socialismo e loro lo realizzavano» [1].

Della sua storia e della sua produzione letteraria, inevitabilmente e irriducibilmente battagliera, rimangono quei passi memorabili legati a un paesaggio veneto (e italiano!) misterioso e scomparso, dove la ricerca filologica e linguistica sono servite a «globalizzare» immagini di una quotidianità epica. Fa quasi sorridere pensare a Meneghello che negli anni sessanta, racconta agli studenti britannici, in un «gramlot» angloveneto, la storia e i personaggi di Malo nel vicentino, avamposto sconosciuto di un confuso Paese in via di normalizzazione. Che cos’avranno pensato quegli studenti ascoltando il professore italiano «dispatriato» (così lui si definiva) che leggeva «un libro scritto dall’interno di un mondo dove si parla una lingua che non si scrive[2]»?

Sbaglia chi vede in gente come Meneghello e nella sua opera (o in quella di Zanzotto, o Rigoni Stern) il fertile humus per indottrinamenti neolocalistici, per sentimenti bigotti di difesa del «particolare», in contrasto con lo spavento o la paura per un mondo che avanza e propone (o impone) sparizione delle tradizioni, standardizzazioni degli stili di vita, eliminazione delle differenze. Al contrario, la capacità così singolare e sim-patica di evocare il passato, la tradizione, «un mondo perduto», fa emergere la voglia non tanto di recuperarlo quel mondo, ma di salvare, «manutenere» e riprodurre alcuni valori, universali e per definizione senza tempo. Valori come il paesaggio, la socialità, l’amicizia, la tolleranza, che sono cristallizzati nel lessico dialettale di Meneghello. Parole e termini e modi di dire, che evocano questi valori come nessun altra lingua o codice evocano. Uno stile che inconsapevolmente (forse) abbandona la prosa per farsi poesia, diventando suono e immagine.

«C’erano luoghi inesprimibilmente ameni lungo il torrente: boschetti di acacie, praticelli come quello in fondo al Prà, oltre il doppio anello dei platani, un margine d’erba più basso del prato comunale, quasi al livello del torrente. Il dirupo del torrente lo chiude scendendo con uno speroncino di roccia aggirato da una traccia di sentiero nel sasso. Sopra la roccia un aspro recinto di spine rinserra il brolo antico del prete, aggrappato alla costa che spiove, e da questa parte affatto inaccessibile.»[3]

La silente scomparsa di Meneghello, ascoltata al TG, farebbe smettere di sorridere, se non si continuasse a leggerlo, con l’esplicito invito a giocare col dialetto, a sorridere dei paradossi della nostra terra, della nostra gente e dei nostri tempi. Liberaci dal letame (il luàme) o dal male, è in fondo la stessa preghiera.

«Liberaci dal luàme, dalle perigliose cadute nei luamàri, così frequenti per i tuoi figliuoli, e così spiacevoli: liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della morte, la bocca del leone, il profondo lago»[4].

[1] Mazzacurati C., Paolini M. (2006), Luigi Meneghello. Dialoghi, Fandango Libri, Roma.

[2]Meneghello L. (1986), Libera nos a Malo, Oscar Mondadori, Milano.

[3]Ibd, pag. 93.

[4]Ibd, intro.

Il tema della presenza/assenza del governo del territorio sulla stampa è affascinante e merita molta attenzione, forse è un tema eluso a livello mediatico soprattutto in Italia, quanto e come il tema della scienza. E’ possibile che qualcosa stia cambiando negli ultimi anni, per merito di una evoluzione virtuosamente festivaliera. Gli strepitosi successi delle notti bianche, dei festival della letteratura, dei festival della scienza, dei festival della filosofia, dei festival della matematica, dei festival del cinema, dei festival della fotografia, dei festival dei giovani, dei festival della felicità, dei festival della economia, non so se raccontino che ha ragione Rifkin quando afferma che il lavoro è finito, ma certo sembrerebbero raccontare che la vita è un festival gradito e gradevole per tutti o per lo meno per quelli che hanno il tempo di animare in qualsiasi modo i festival, in un continuum che va da Sanremo all’economia.

A questo punto mi sembra che qualcosa di molto divulgativo sul tema del territorio potrebbe riguardare proprio i segni di cambiamento positivo di attenzione e sensibilità sulla stampa nazionale e locale.

Sarebbe interessante pensare ad un “Premio Eddyburg” da conferire ogni anno alla stampa locale che più frequentemente e adeguatamente illumina i molti aspetti delle scienze del governo del territorio.

Per fare un esempio:

La pagina 16 del Corriere dell’Umbria di mercoledì 11 aprile riguarda

Amelia (provincia di Terni) e parla con tanto di schede , spiegando che cosa sono le “opere di urbanizzazione” a proposito di una indagine della Corte dei Conti sulle attività degli ultimi venti anni delle varie amministrazioni che hanno concesso licenze edilizie senza che venissero fatti i completamenti delle opere di urbanizzazione per i nuovi insediamenti. Ma, intanto “il Comune non potrà fare neppure un euro di sconto sulle necessarie opere di urbanizzazione”

La stessa pagina parla di un rifiuto di una o più amministrazioni della valle del Tevere (Giove, Terni) di chiedere la valutazione di impatto ambientale per un nuovo insediamento industriale piuttosto mostruoso dal punto di vista geologico e paesaggistico, attaccato al Tevere e alla autostrada. “Travisud, c’è il nodo dell’impatto ambientale”

E ancora, abbattimento di una quercia secolare perché disturbava una stalla, autorizzato dalla comunità montana invece che dalla forestale ad Amelia.

E così via, amministrazione (Alviano, Terni) che si giustifica dall’essere soprannominata “motosega selvaggia” perché, taglia, ma ripianta nuovi alberi da un’altra parte.

Piacevolissimo il commento ironico della giornalista: “Insomma, avviene anche così nella vita. Da una parte si taglia, dall’altra si pianta. Spesso è questione di specie. Passata l’epoca dei pini marittimi, per cui i tempi si son fatti duri, è l’ora dei tigli e degli elci.”

Credo che se esistesse un “Premio Eddyburg” regionale o nazionale qualcuno di questi articoli firmati da tre diversi autori, meriterebbe una segnalazione. Non credo che tutti e tre, ma almeno uno, quello che ha fatto la scheda tecnica su che cosa significa il percorso amministrativo che porta alle diverse responsabilità per la esecuzione delle opere di urbanizzazione, dovrebbe essere segnalato.

Credo che in Italia mancando una alfabetizzazione diffusa alla responsabilità individuale e collettiva per i beni comuni, il percorso per divulgare l’abc delle responsabilità ambientali, ma anche il know how della gestione pubblico-privata del governo del territorio se non lo fa a sufficienza la scuola, dovrebbe farlo almeno la stampa, forse lo sta facendo, la pagina che ho citato mi sembra un segnale.

Così in attesa di scoprire che magari già esiste (nuoto piacevolmente in Eddyburg solo da ieri), le vorrei fare la proposta di pensare ad un premio per la migliore “scrittura di territorio” e/o per il più alto indice di segnalazioni sul territorio selvaggio. Se questo debba riguardare solo la stampa locale o anche la stampa nazionale credo che “gli amici di Eddyburg” siano in grado di saperlo con sicurezza e autorevolezza. Sarebbe un bel festival…e anche un bel successo, nel tentativo quotidiano di mettere le mutande al mondo!

Walter Le Moli ha messo in scena con il teatro stabile di Torino una nuova edizione dell’Antigone di Sofocle. Nuova perché si fonda su una traduzione del testo originario eseguita da Massimo Cacciari(1).

La tragedia nella traduzione di Cacciari è restituita con frasi brevi che riducono e mettono sullo sfondo i personaggi e fanno emergere la potenza tragica della parola che, come scrive lo stesso Cacciari, si manifesta nell’Antigone nella sua forma più pura, come archè della parola stessa. Il dialogo torna ad essere forte, appassionato, tragico e la parola, quella di Creonte come quella di Antigone, uccide. Logos é il nostro modo di essere uomini, ciò che ci distingue dal resto del creato, ma Logos é un’unità con Polemos, con il conflitto, con la molteplicità e la differenza. E Polemos ha la stessa radice di Polis. La città é quindi dialogo, conflitto. La città pacificata non vive, essa è dialogo. La città é il prodotto più complesso dell’uomo, essa é quindi artificio che si costruisce nel dialogo.

Antigone portatrice della parola umana e Creonte, invece, che incarna la parola della ragione, della città Stato e, quindi, dell’artificio sono le forme estreme di questo dialogo. L’Etica della tradizione degli antenati cui Antigone si ispira nel pretendere uguale sepoltura per i due fratelli morti, sebbene su fronti opposti, é del tutto accettabile: siamo dalla sua parte. Ma altrettanto razionale é la Parola di Creonte che, invece, pretende il rispetto della sua Legge: quella che ha origine nell’artificio della città. La legge che obbliga tutti i cittadini a punire Polinice (a lasciarlo senza umana sepoltura) perchè si é schierato sul fronte dei nemici. La condizione della città é l’inseparabilità di queste due parole, l’essere necessari l’uno all’altro. Scrive Cacciari. “Quando due figure si affrontano con l’arma più tremenda, la parola, e scoprono reciprocamente di essere destinalmente impotenti all’ascolto, lì scoppia il conflitto incomponibile – che significa tuttavia, a un tempo, la necessità della loro relazione.”

Vuol dire che la nostra unica condizione é la rassegnazione al conflitto imcomponibile, al dialogo tragico e omicida? Alla contrapposizione tra natura dell’umano e l’artificio della città stato?

Antigone, scrive Cacciari, non mira a riformare il potere di Creonte, a renderlo più ossequioso delle tradizioni, non cerca compromessi più o meno “alti” tra il diritto positivo dello Stato e la pietas domestica. Non rivendica un nuovo diritto, né un nuovo ordine politico. La parola di Antigone manifesta un’alterità radicale rispetto a tutte queste dimensioni del logos. (…) Antigone vuole esclusivamente fare ciò che deve (…) Il logos di Antigone, “semplicemente”, non ha nulla da dire a quello di Creonte se non che é nulla.”

Antigone nell’essere portatrice di una parola che ci é vicina perché umana é però esaltazione di una polis di solitari, ma appunto non può darsi una polis di individui che si sottraggono alla legge (qui é il Coro a riconoscere con dolore questa verità).

A noi che pure ci sentiamo vicini all’umana sensibilità di Antigone ci assalgono i dubbi e non possiamo che riconoscere a Creonte lo sforzo di lottare contro il pericolo di un’anarchia dannosa per tutti. Riconosciamo a Creonte, scrive ancora Cacciari, che “La sua parola decisiva suona piuttosto: che salvezza si trova soltanto nella Polis saldamente organizzata. La struttura della Polis non garantisce solo il perseguimento dell’utile di ciascuno”. La Polis e la sua legge si impongono, sebbene con tutti i limiti, che però Creonte non vede, e qui sta il suo errore tragico, solo se non si rivelano in contraddizione con ciò che si ritiene essere il “bene comune” della città.

Alla irriducibilità di queste due parole in conflitto noi contrapponiamo la città come fatto che può esso stesso contribuire al superamento di una condizione inconciliabile. Andare verso le cose ci pare il modo per andare oltre il conflitto per non incatenarsi in una distanza che è impossibile da pacificare. “Ciò che incombe, ciò che é necessario affrontare é la cura per la città, perché la città resista nei suoi confini di umana, troppo umana saggezza, di prudenza e di misura. In tali confini non é dato sapere il futuro, avere a guida l’oracolo del dio. Scrutarlo possiamo, soltanto, per deboli indizi, sulla base dell’historia, della conoscenza e della descrizione dei fatti, dell’accaduto.”

Alle cose, andare verso le cose(2) ci pare la condizione da perseguire. Andare verso le cose vuol dire articolare lo sguardo unitario nell’incontro con “le cose”. Andare verso le cose significa radicare le nostre interpretazioni nell’esperienza concreta che diventa fondamento sia delle teorie sia dell’agire.

Coltiviamo il dialogo e il potere della parola nell’incontro con le cose, l’umana dimensione dell’artificio della città stato imponiamola nella ricerca del dialogo non suddito, entusiasta, che fa della conoscenza lo strumento per la costruzione della legge degli uomini e della città da cui essa origina.

Questo ci auspichiamo e questo possiamo dire a noi stessi e forse anche ai lettori di eddyburg che interrogano, noi e loro, sul da fare.

(1) Sofocle, Antigone, traduzione di Massimo Cacciari, Einaudi, Torino, 2007.

(2) Edmund Husserl, Ricerche logiche, (vers. originale 1901), trad. italiana edizione Net, 2005.

Quasi in contemporanea, due avvenimenti caratterizzano l’attuale fase del Piano paesistico della Sardegna. Un referendum e la fase due del Piano, relativa alle zone interne. Si tratta di quel Piano che è stato preceduto dalla coraggiosissima decisione di sospendere per due anni gli effetti potenziali di tutti i piani regolatori, per una fascia di due km dal mare. Coraggiosa decisione davvero, a mio parere più della tassa sul lusso che magari ha più appeal mediatico.

Il punto, per il Presidente della Regione è questo: la Sardegna con uno sfruttamento “turistico” delle coste del tutto legale sta distruggendo il suo paesaggio. La risorsa costa rischia di essere seppellita sotto milioni di mc di costruzioni, per di più senza alcun legame con la storia dei luoghi. In Costa Smeralda è stato inventato un nuovo vernacolo, fatto di archetti, tegole, tinteggiature alla veneziana, scale a profferlo che nulla hanno a che fare con le tradizioni costruttive della Sardegna e col rapporto fra costruzioni e paesaggio consolidatosi nei millenni. E il cancro si è rapidamente metastatizzato: il modello smeraldino ha invaso ogni angolo di Sardegna, con un effetto comico e tragico ad un tempo.

Ora, il Piano per la costa è stato approvato un anno fa e valgono nuove regole, ispirate agli intendimenti dell’amministrazione Soru. Regole che, com’era prevedibile, non sono piaciute a molti e in particolare all’opposizione che ha appena raccolte le 10 mila firme necessarie per sottoporre a referendum popolare il Piano paesistico della costa. Gli uffici, nel frattempo, hanno quasi concluso la parte del Piano relativa alle zone interne che, ovviamente, presenta difficoltà assai minori rispetto agli interessi in gioco.

Sarebbe veramente una beffa se l’unica seria esperienza italiana in corso in materia di pianificazione paesistica, per di più aggiornata sulla base delle più recenti direttive e leggi (convenzione europea e codice Urbani) venisse azzerata da un referendum. La possibilità c’è, perché l’attuale versione del Piano paesaggistico un vulnus ce l’ha. Nell’insieme il piano è molto ricco di innovazioni e di attenzioni per il paesaggio della Sardegna ma, come insegna l’esperienza, è sufficiente un neo per aprire una voragine.

La questione è stata da me già posta in quanto membro del Comitato scientifico per il piano. Ma la mia posizione non ha avuto successo. Credo che i recenti citati avvenimenti creino le condizioni per una riapertura anche pubblica del dibattito.

Il punto, il vulnus è contenuto nell’articolo 15 delle norme del piano per la costa. Tale articolo è stato redatto sulla base del principio che vanno fatti salvi alcuni diritti acquisiti dai proprietari delle aree oggetto di previsioni edificatorie dai piani regolatori. Si tratta di un principio che vede divisi i tecnici, già quando si parli della sola pianificazione comunale. In altri termini, c’è chi dice che una previsione, specie se consolidata da atti (convenzioni, concessioni e altro), non possa più essere rimessa in discussione e chi, come me, ritiene che un Prg fatto oggi possa e debba assolutamente non tener conto di precedenti decisioni. D’altra parte, è a tutti noto che la sensibilità ambientale si evolve anche sulla base delle acquisizioni tecniche e culturali. Se quindi, un’amministrazione comunale può ritenere che bisogna lasciare libero sfogo agli imprenditori edilizi, è altrettanto lecito che quella che la segue possa ispirarsi a principi del tutto opposti. D’altra parte il piano è lo strumento con il quale la comunità decide del suo futuro e lo fa occupandosi di paesaggio, di ambiente e di quella risorsa irriproducibile che è il suolo. Niente di anomalo, quindi, se un’amministrazione si muove con grande prudenza (di gran lunga preferibile all’incoscienza) e dispone delle sue risorse con la dovuta attenzione. La giurisprudenza asseconda questa impostazione anche se vi sono sentenze che la negano. In sostanza, a livello di Prg si può ancora intravedere una giurisprudenza contraddittoria, ma quando si parla di paesaggio la musica cambia assai.

La pianificazione paesaggistica, in sostanza, poiché opera in funzione di un interesse superiore, può decidere anche in modo molto drastico, comprimendo il diritto di proprietà fino al limite estremo di limitare o vietare la pratica di determinate modalità colturali, senza che per queste limitazioni sia dovuto alcun indennizzo. Il Piano paesaggistico della Sardegna, come il decreto transitorio che lo ha preceduto, nascono dalla situazione di allarme descritta in esordio, secondo la quale se le previsioni dei Prg si fossero attuate si sarebbe distrutto il paesaggio costiero della Sardegna.

Se questa era e rimane la motivazione di fondo delle attività della Giunta Soru in materia di pianificazione paesaggistica, è evidente che il piano può prevedere anche un nuovo modo di considerare eventuali espansioni edilizie. Gli studi economici di supporto al piano sono chiarissimi. Se espansione “turistica” ci dovrà essere, essa sarà limitata alle attività alberghiere, con una decisa limitazione dell’edificazione di seconde case. Non solo, ma anche le seconde case esistenti e gli insediamenti che le raccolgono, dovranno essere urbanisticamente e paesaggisticamente riqualificati e sono possibili anche premi di cubatura per quanti riconvertiranno le seconde case in attività para alberghiere. In sostanza, la Sardegna non può permettersi il lusso, che stava diventando un’abitudine, di lasciar edificare manufatti destinati a essere utilizzati per pochissime settimane l’anno.

Ma l’articolo 15, concepito come se fosse la norma transitoria di un Prg, per altro non proprio di avanguardia, è scritto in modo tale da sollevare con facilità quei problemi che hanno consentito all’opposizione di raccogliere rapidamente le 10 mila firme necessarie alla richiesta di referendum. Perché? Perché hanno raccolto il comune sentire che la Regione ha bloccato le piccole speculazioni ma ha lasciato delle chances alle grandi imprese, che sono le uniche in grado di operare nel settore alberghiero. E così in fondo è se, per un lungo periodo, le uniche cose che si faranno, saranno edificate laddove era già previsto che si facessero. Dove c’erano interessi costituiti e ratificati da atti pubblici.

Ma la strada maestra non è questa, quanto piuttosto quella del piano paesaggistico della costa orientale nuorese, redatto negli anni Sessanta da esperti del calibro di Insolera, Giacomini, Pratesi e altri, che era un piano che sceglieva con accortezze legate a un approfondito studio degli ecosistemi dove localizzare espansioni quasi esclusivamente di tipo alberghiero, e cioè destinate a generare risparmio di suolo e ampia e più stabile occupazione. Quel piano non è stato mai adottato e poi è finito nei cassetti. Ma se fosse stato attuato (verificare per credere) quella costa oggi sarebbe ben più bella.

Il metodo di allora è applicabile ancora oggi. Semplificando molto, basterebbe davvero azzerare tutto (con il piano) e decidere (indipendentemente dalle pressioni dei proprietari delle aree) in quali luoghi e con quali vincoli e limitazioni si possono realizzare strutture alberghiere. Poi, con avviso pubblico, selezionare le proposte imprenditoriali più meritevoli da tutti i punti di vista (paesaggio e economia in primis).

Un simile procedimento, che si farebbe sempre in tempo a prendere, spunterebbe le armi a chi si aggrappa alla disparità di trattamento e ai diritti acquisiti. Un piano del genere sarebbe inattaccabile in quanto equanime e credibile, specie se gestito come l’Amministrazione Soru intende fare.

Postilla

Condivido con Ciccone la tesi che un piano urbanistico ha il diritto di modificare motivatamente qualunque previsione di un piano precedente, e che non esistono precostituiti “diritti edificatori” che debbano essere compensati. Tanto più ha il potere di modificarla n piano paesaggistico. Ciò però ha poco a che fare con l’articolo 15 delle norme attuative del Piano paesaggistico regionale della Sardegna. Quelle norme non derivano da un principio , ma da una opportunità politica . Il PPR ha indubbiamente, e saggiamente, fatto violenza alla situazione preesistente, che a sua volta faceva violenza alla qualità del paesaggio sardo. Ha cancellato o sospeso non “diritti”, ma legittime aspettative. Ha contrastato decisioni (generalmente insane) di comuni legittimamente costituiti e legittimamente operanti: decisioni che erano state legittimate da precedenti poteri regionali (e statali).

Non sembra affatto scandaloso, né rischioso dal punto di vista della legittimità costituzionale, che la Regione abbia anche deciso, là dove le precedenti decisioni della pianificazione attuativa erano consolidate, di esaminare nel concreto, caso per caso, con la provincia e il comune interessati, quali convenzioni già stipulate prima dell’adozione del PPR e fuori della fascia di 2000 m dalla linea di costa potessero essere completate. Si tratta della ricerca di una posizione di equilibrio tra le nuove decisioni della regione e le componenti più consolidate di un lungo pregresso che l’amministrazione regionale ha ritenuto politicamente opportuno assumere.

Forse è anche per effetto di questo atteggiamento misurato che, mentre il piano di Insolera, Giacomini e Pratesi è ricordato solo dagli studiosi, il piano paesaggistico della Giunta Soru riuscirà a cambiare le cose in Sardegna: come le ha già cambiate, cancellando almeno una buona metà dei 70 milioni di metricubi approvati senza eccessive resistenze negli anni trascorsi, e facendo comprendere a tutti che si è aperta una nuova epoca. Beninteso, se il referendum o altri atti non cancelleranno il piano paesaggistico (e.s.).

“I popoli edificano i propri campi come le proprie città” scrive Carlo Cattaneo a conclusione del suo studio sul territorio della Lombardia. Il rapporto tra suolo e società è strettissimo, e ci sono momenti della storia nei quali le civiltà si impegnano in opere immani di miglioramento del suolo e del territorio, nei quali si producono nuovi paesaggi. Nel nostro Paese, dalla Liguria alla penisola Sorrentina-Amalfitana al promontorio del Gargano, le popolazioni costiere hanno edificato nei secoli sistemi di terrazzamenti estesi per decine di migliaia di ettari, mentre la sistemazione idraulica delle pianure tirreniche è il frutto di un progetto di lunga durata, dai sovrani illuminati del ‘700 sino alla bonifica integrale di Arrigo Serpieri degli anni ’30 dello scorso secolo.

Il rapporto tra suolo e società, si diceva, è strettissimo, nelle fasi di sviluppo come in quelle di crisi. Il Dust Bowl raccontato da Steinbeck in Furore, l’erosione eolica dei suoli e le tempeste di polvere che condussero alla fame gli agricoltori delle pianure centrali negli anni della Grande Depressione, è insieme il prodotto di una crisi ambientale, economica, sociale ed umana.

La risposta di Roosevelt, all’inizio del suo primo mandato, fu l’istituzione del Soil Erosion Service (1933), il servizio federale che assumerà poi nel ‘35, con la promulgazione del Soil Conservation Act, la denominazione definitiva di Soil Conservation Service. Si tratta di uno degli atti fondativi del New Deal, con l’impiego di manodopera inoccupata in grandi interventi pubblici di forestazione e sistemazione idraulica negli oltre 3.000 Soil Conservation District. La tradizione statunitense di intervento pubblico per la conservazione dei suoli e delle terre è poi proseguita sino ai giorni nostri, con la Soil Bank degli anni ’60, il Soil and Water Conservation Act degli anni ’70, il Farm Bill degli anni ’80.

A settant’anni di distanza, è nel solco di simili esperienze che la proposta di direttiva comunitaria che istituisce un quadro per la protezione del suolo intenderebbe in qualche modo porsi.

La direttiva si basa sull’identificazione del suolo come risorsa multifunzionale e non riproducibile, dal cui stato di salute dipende l’equilibrio dei bacini idrografici, degli ecosistemi e dei paesaggi europei. Essa obbliga gli Stati membri a identificare le aree a rischio di degradazione dei suoli, e a definire per ciascuna di queste programmi d’azione per contrastare i processi di erosione, declino dell’humus, salinizzazione, compattazione, dissesto (landslides).

Un approccio diverso è indicato per la contaminazione dei suoli, con l’obbligo di predisporre inventari nazionali dei siti contaminati e di definire strategie nazionali di bonifica.

Francamente debole, come già sottolineato nel commento di Eddyburg, l’approccio della direttiva nei confronti del sealing, l’impermeabilizzazione dei suoli conseguente alla trasformazione urbana. Se pure nelle considerazioni preliminari è scritto che “… il fenomeno dell’impermeabilizzazione sta diventando sempre più intenso nella Comunità a seguito della proliferazione urbana” e che “occorrono pertanto misure adeguate per contenere questo fenomeno, ad esempio il recupero di siti abbandonati e contaminati (brownfield) che limiti lo sfruttamento di aree verdi”, l’art. 5 della direttiva non va oltre un generico invito agli stati membri a prendere misure appropriate di contrasto.

Eppure sono proprio i recenti report dell’Agenzia Europea per l’Ambiente a identificare nell’urbanizzazione fuori controllo il rischio principale di degrado del territorio rurale e dello spazio naturale europeo, a causa del consumo di suolo e della frammentazione dei paesaggi e degli habitat che essa comporta. Nel decennio 1990-2000 sono stati urbanizzati in Europa poco più di un milione di ettari, pari al 2,9% del territorio comunitario: le città europee sono cresciute del 6,5%, un tasso di crescita che comporterebbe il loro raddoppio in poco più di un secolo, una prospettiva inquietante nel già fosco scenario di global change.

Il problema, come è noto, è istituzionale: il Trattato istitutivo dell’Unione assegna infatti alla Commissione competenze in materia ambientale, ma non nei settori della pianificazione e governo del territorio. Ed infatti, il documento comunitario che più direttamente si interessa di assetto territoriale, lo Schema di Sviluppo Spaziale Europeo coordinato da Andreas Faludi, è stato approvato a Potsdam nel 1999 a livello di Consiglio informale dei ministri. All’interno di esso, come si ricorderà, viene chiaramente delineata una strategia di contenimento dei consumi di suolo basata sul riuso delle aree urbane esistenti e sul contrasto della dispersione insediativa.

Naturalmente, il problema delle competenze non deve essere sfuggito al gruppo di esperti che ha redatto la nuova direttiva sulla protezione del suolo se, nel rapporto tecnico-scientifico che la accompagna, troviamo scritto che “come prima cosa, si pone l’esigenza di una Convenzione europea sulla restrizione dei consumi di suolo. Essa dovrà affermare con chiarezza che il consumo di suolo è un processo non desiderabile. La diminuzione dei consumi di suolo può essere ottenuta attraverso misure tecniche, socio-economiche, ed anche fiscali”. Senza dimenticare, ci sentiremmo di aggiungere, quelle politico-istituzionali.

Insomma, è necessario continuare a lavorare perché “il suolo si ribellerà a chi violerà i suoi diritti”, come ha scritto ancora Cattaneo. L’ammonimento era per noi, suoi compatrioti, ma funziona bene anche a scala globale.

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