«Con gli scavi d'emergenza non preserviamo alcunché, né immagazziniamo conoscenze per le generazioni future. Accumuliamo solo una congerie bruta, sparsa e caotica di indizi non tradotti in cultura, che col passare del tempo sarà impossibile redimere, per cui non rimarrà che il danneggiamento alla risorsa archeologica».
Un grande archeologo che se la prende con i colleghi archeologi, «colpevoli» di scavare troppo e, a suo avviso, inutilmente. Andrea Carandini, classe 1937, insegna Archeologia classica e Storia dell'arte greca e romana all'università La Sapienza. Ed è uomo che ama (quasi un paradosso per uno studioso della sua materia) pensare al futuro e preoccuparsi dei posteri.
Nel suo ultimo saggio in uscita domani da Einaudi ( Archeologia classica - Vedere il tempo antico con gli occhi del 2000, pagine XV-2008, € 24) si ritrova intatto il coraggio di un cattedratico che sfidò «i Talebani della conservazione», secondo lui identificabili in Italia Nostra e dintorni, schierandosi ad agosto a favore della realizzazione dei famoso parcheggio del Pincio a Roma: «L'Italia, da zero a quindici metri di profondità, presenta sempre vestigia romane o alto-medioevali. Cosa facciamo? Non viviamo più per le nostre civiltà sepolte?»
Poi del parking non se ne fece nulla, ma Carandini rimane della sua idea. E viene da- sorridere pensando a un piccolo conflitto in una illustre famiglia (il professore è figlio dell`ambasciatore Nicolò, campione dell'antifascismo, e nipote di Luigi Albertini, dal 1900 al 1925 direttore del Corriere della Sera).
Andrea Carandini è fratello di Maria Antonelli Carandini, per anni instancabile presidente della sezione romana di Italia Nostra e tuttora una delle sue attivissime animatrici. Al suo posto ora siede Carlo Ripa di Meana, protagonista della vittoriosa battaglia anti-Pincio. Ma questa è tutta un’altra storia. Ora Andrea Carandini nel volume godibilissimo per i continui rinvii letterari e non archeologici elegantemente collegati a alla sua disciplina (Proust, Sàndor Màrai, Gadda, Balzac, Calvino, e sono solo alcuni) contesta la scavo-mania del colleghi. Ovvero l'ansia di sottrarre alla terra ciò che è conservato da secoli nel caso si profili una «emergenza», cioè - per esempio - la necessità di decidere se permettere o meno un'edificazione. Meglio, scrive Carandini, «sfruttare le tecniche di indagine non distruttive. Cioè le foto aeree dell'area, la magnometria, il georadar, le tecniche della valutazione anche predittiva dei depositi archeologici per arrivare a una protezione e a un utilizzo controllato delle risorse storiche del sottosuolo».
In questo modo, argomenta Carandini, si può offrire una risposta senza scavare. Perché «. Gli archivi degli scavi d'emergenza, al contrario, sono tracce di documentazione da riscavare con possibilità di far rivivere il passato straordinariamente ridotte». Il professore ironizza con le abitudini di certi suoi colleghi: «Dopo tanti scavi d'emergenza l'archeologo funzionario, convinto di aver bene operato, va tranquillo in pensione anche se la documentazione riposa magari sotto il suo letto o nascosto in un angolo introvabile di un deposito di pratiche. Pubblicare vecchi scavi e vecchie documentazioni è opera meritevole, ma chiunque abbia pratica dello scavo e della sua edizione sa che si trova fra le mani un estratto esangue di quanto molto più riccamente la matrice terrestre preservava».
Un esempio tra tutti, i contestatissimi scavi di piazza della Signoria di Firenze: «Uno dei più gravi misfatti archeologici imputabili all'amministrazione statale».
Il giudizio finale di Andrea Carandini contro la sua categoria accademica è durissimo: «Questi scavi, più che contribuire alla costruzione della memoria, fanno parte essi stessi di un problema che contribuiscono ad aggravare. La sua distruzione». Perché gli scavi d'emergenza «più che mitigare perdite d'informazione sono protagonisti attivi di quelle stesse perdite, similmente alle distruzioni operate da sterri dovuti a un'edilizia incontrollata o all`usura lenta e nascosta del tempo». E ancora: «Gli innumerevoli scavi d'emergenza - nessuno sa calcolare quanti sono - sono dovuti ad avidità di conoscenze approssimative, al volersi mettere il cuore in pace rispetto alle maligne forze della vita e a prassi burocratiche consolidate e mai più ripensate». Carandini non abbassa la guardia nemmeno contro i «Talebani della conservazione» che lui ~ individua in funzionari statali formati in «madrasse della tutela» i quali «a tutto della vita si oppongono, in sterile e costosa resistenza, e che hanno l`unico scopo di vincolare l`intero Paese, come se separare dalla vita implicasse anche conservare». E poi (riecco la polemica «familiare») ci sono «associazioni benemerite e vecchiotte» (come non pensare a un identikit di «Italia Nostra») e «la sinistra radicale acriticamente venerata». Tutto carburante che può rinvigorire, secondo l'analisi di Carandini, il movimento di destra «favorevole alla deregulation che vorrebbe sbaraccare la tutela impoverendola e abbandonare il Paese a un`anarchia liberistica». Quindi attenzione, avverte il professore, all'universo in cui «lo sviluppo della vita appare sempre nemico della conservazione e dove il libero mercato è ritenuto comunque un satana: sono qui all'opera antiamericanismo, anticapitalismo, statalismo, avversione per una democrazia partecipata». Potrebbero essere loro i più forti alleati di un distacco tra Paese reale e universo chiuso della tutela, aprendo il varco ideale per la deregulation totale. I Talebani della conservazione, sorride Andrea Carandini, sono avvisati.
Postilla
E oplà, con l'ennesima capriola il principe del lupercale, Andrea Carandini, è atterrato dritto dritto nei territori dei sostenitori di una tutela "ammorbidita", più consona (asservita?) alle ragioni della moderna, progredita società capitalista, filoamericana e antistatalista. Per uno che era partito come apostolo di un'archeologia marxista dura e pura (v. Anatomia della scimmia , correva l'anno 1979), allievo di Bianchi Bandinelli, se non proprio fra i più apprezzati dal maestro, sicuramente fra i più rumorosi, che ha predicato a schiere di studenti l'osservanza senza compromessi di una archeologia del "coccio", la dedizione assoluta alla cultura materiale nel culto maniacale del più infimo frustulo di reperto (v. Archeologia e cultura materiale , 1979 e Settefinestre , 1985) si è trattato di un bel tragitto, ma si sa, solo gli stupidi non cambiano mai opinione e di questi tempi così flessibili e veloci, una giravolta in più è solo sintomo di capacità di adattamento allo Zeitgeist. Quanto poi ai contenuti del brusco cambio di rotta, sembrano in verità alquanto confusi oltre che del tutto ignari delle più elementari nozioni di legislazione e normativa in materia dei beni culturali. Oltre all'articolo 9 della Costituzione (ma forse è quello cui si allude con l'elegante perifrasi "prassi burocratiche"), a Carandini sfugge in toto il Codice dei Beni Culturali e il secolare dibattito che ha portato all'elaborazione normativa più avanzata forse di tutto il mondo occidentale: uno dei nostri pochissimi vanti moderni di civiltà, universalmente riconosciuto. L'archeologia preventiva non è quindi conseguenza ed esercizio di queste norme, ma "tigna" di funzionari frustrati, adepti della sinistra radicale, asserviti ai pericolosi guerriglieri di Italia Nostra. Cosa poi, nello specifico, egli intenda con l'affermazione "offrire una risposta senza scavare" è difficile cogliere, quando enumera una serie di tecniche, ben note e usate dagli archeologi da decenni (complicato, però, a nostro avviso, il ricorso alla foto area in ambito urbano...) e che costituiscono, come ben sa qualsiasi matricola di corsi umanistici, strumenti per il monitoraggio, che aiutano a scavare, ma non risolvono il problema del che fare una volta individuata l'evidenza archeologica. Insomma di fronte alle ruspe delle tante autostrade, tangenziali, porti turistici, linee di alta velocità in costruzione, par di capire che sarebbe meglio esimersi da azioni troppo "conservative" e lasciar riposare i reperti in qualche discarica, perchè, come afferma il professore, ex consulente a contratto TAV: "gli archivi sottoterra sono potenzialmente vivi, resuscitabili". Se la logica di tutto l'assunto appare un po' claudicante, non così lo spirito da vecchio tribunus plebis: il climax finale in un crescendo di furor demagogico sviluppista tutto rimescola alla vecchia maniera, sempre mediaticamente spendibile, affratellando tutela e anticapitalismo, conservazione e antiamericanismo e, touch of class di sublime non-sense, "avversione alla democrazia partecipata" (sic!). Certo per chi negli ultimi anni ci ha sottoposto a rivelazioni quasi quotidiane su straordinarie scoperte archeologiche (dai templi quirinalizi alla grotta di Romolo e Remo) - pur se regolarmente smentite dall'insieme del mondo scientifico - addentrarsi nei territori infidi e poco sfavillanti dei problemi connessi alla salvaguardia del nostro patrimonio nazionale è esercizio faticoso, ma necessario però a chi si dedica ad una difesa coerente e convintamente appassionata del libero mercato. Anche quello librario... (m.p.g.)