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Fabrizio Bottini
Ascolto il tuo Stomaco, Città
28 Dicembre 2007
Recensioni e segnalazioni
Sciopero selvaggio dei Tir e perversione del rapporto città/campagna. Una recensione a Plenty, Random House, 2007,e un articolo di Carlo Petrini da la Repubblica, 13 dicembre 2007

Fa benissimo, Carlo Petrini [vedi articolo riportato di seguito] a ricordare a botta calda, l’indomani dello “scampato pericolo” degli scaffali vuoti nei supermarket per via del blocco dei Tir, come una certa autarchia locale, quella che spesso si riflette nella cultura Slow Food o della ristorazione legata al territorio, avrebbe parecchio aiutato, e possa ancora aiutare, in questi casi.

Evoca giustamente, l’articolo di Petrini, immagini che ci sono ancora assai vicine di campagna italiana, piccoli produttori, prodotti di alta qualità, città che per quanto mostruosamente cresciute spesso mantengono ancora qualche contatto col proprio hinterland rurale, che rifornisce in parte anche ristoranti e mercati rionali.

Quello che forse il lettore di Petrini non coglie in pieno, però, è da un lato l’estrema modernità di questa lettura del rapporto fra città e campagna, dall’altro il fatto che si tratta di un affascinante nuovo campo di ricerca, sperimentazione, ambito di sviluppo socioeconomico.

I moltissimi firmatari dell’ Appello Parchi di eddyburg, hanno sicuramente colto al volo uno degli aspetti immediati di questo tentato colpo di mano, evidentemente dettato dalla cultura dei palazzinari: si trattava di un attentato all’ambiente e alla vivibilità, soprattutto metropolitana, visto che il primo obiettivo era il Parco Agricolo Sud Milano, dove da lustri grandi e piccoli operatori non vedono l’ora di “fruire” (è il temine usato dall’assessore comunale milanese Masseroli) di questi spazi lasciati inutilmente a cose poco produttive tipo erba, alberi, acque, animali …

Anche chi ha aderito all’appello, in maggioranza, non ha però forse colto l’aspetto, per niente secondario, di quell’aggettivo, “agricolo”, abituati come siamo a considerare questa attività, nel migliore dei casi, come una specie di zoo socioeconomico senza recinti, dove quella specie di panda col cappello che appare ai più il contadino si aggira svolgendo attività residuali. Insomma, il suo vero lavoro è di esistere, farsi fotografare dai bambini in gita scolastica insieme a galline e rotoballe, e al massimo come spiega anche l’autorevole Cpre britannica in un suo recente rapporto , garantire un’ottima manutenzione a prati, siepi, drenaggi, prevenire il dissesto ecc.

Un’agricoltura che sempre più, insegna la pianificazione territoriale, si deve invece legare strettamente ai modi di progettare la città moderna, non solo come versione aggiornata del grande parco urbano per andare in bicicletta o guardare un paio di vacche al pascolo, ma entrare a pieno titolo fra le attività economiche centrali e strategiche, assai più all’avanguardia che non i pensosi slanci plastici delle architetture griffate che spesso vorrebbero occuparne gli spazi, proprio in nome di una mal concepita idea di modernità (quando non in palese malafede come nel caso milanese citato).

In un interessantissimo articolo pubblicato circa un anno fa, il direttore della rivista ufficiale della Regional Plan Association di New York, partiva da uno spuntino nella pausa di mezzogiorno per ricostruire un bozzetto di mondo affascinante: una mela comprata al farmer’s market nella zona di Times Square, che propone solo prodotti certificatamene regionali, serviva all’ampia cultura geografica, tecnica, socioeconomica dell’intellettuale per tentare un recupero del rapporto fra la grande metropoli e il suo territorio, per quasi due secoli (con l’eccezione del Central Park e poco altro) usato solo come piattaforma su cui avvitare grattacieli e edilizia minore residenziale, produttiva, commerciale.

Un modo assai interessante di raccontare da una prospettiva personale al tempo stesso insolita e molto familiare tutto ciò, è quello scelto da una coppia di giornalisti, Alisa Smith e James B. MacKinnon, che col loro Plenty (letteralmente: Abbondanza, Random House, 2007), descrivono un anno vissuto niente affatto pericolosamente, fra gioie, perplessità e scoperte, della “dieta delle cento miglia”. Ovvero, mangiare nulla che non sia coltivato entro un raggio di circa 150 chilometri da casa. La faccenda diventa piuttosto interessante quando si consideri che “casa” sta nel centro di Vancouver, Columbia Britannica canadese, città famosa per le sue politiche urbanistiche tese a limitare il consumo di suolo, vicina all’Oceano Pacifico, alle montagne, ma non esattamente un piccolo centro, né al centro di ubertose campagne, né in area che noi chiameremmo temperata, come si capisce immediatamente dalla carta geografica.

E come si capisce immediatamente sin dalle prime efficacissime, battute che la coppia dedica a una di quelle miracolose primavere del Nord, col fango e le ultime croste di neve che fanno spazio a un’inusitata esplosione di natura. Le prime verdure nell’orto, i germogli nei parchi, nei fossi, sui cigli dei terrapieni vicino alla superstrada … una ricchezza forse inusitata, ma che genera subito l’angosciosa domanda: tutto bellissimo e magari anche buonissimo, ma basta a garantire una dieta equilibrata, sali, zuccheri, proteine, vitamine ecc.?

Ed è proprio questa laboriosa ricerca, fra gli equivalenti locali del mercato rionale italiano raccontato da Carlo Petrini, o del farmer’s market di New York, le banchine del porto dove attraccano i pescatori, la fascia suburbana esterna dove qualche eccentrico sperimenta le colture più audaci, a raccontare il rapporto fra città e campagna in una prospettiva assai realistica da XXI secolo. Dove naturalmente si mescolano spazi, figure e anche prodotti che spesso non hanno nulla a che fare con la “tradizione”, ma che possono contribuire a costruirne una nuova, come le verdure cinesi per la miriade di piccoli esercizi, o qualche esperimento a mezza strada fra la pura stravaganza e la straordinaria innovazione. Ma emerge, per converso, anche qualcosa di terrificante quando si pensa agli ettolitri di gasolio bruciato ogni giorno, ogni minuto, per far convergere sulla città, attraverso i canali “tradizionali” della grande distribuzione organizzata, prodotti succedanei a quelli reperibili dietro l’angolo, facendoli invece spostare lungo la filiera degli infiniti e costosissimi (per il portafoglio e l’ambiente) passaggi e intermediazioni.

Ci sono anche motivazioni pratiche, dietro a questa neotradizione dello shopping mall. Ad esempio, di solito chi non sta ad esempio a Cuba, o per altri versi a Ferrara, inizia ad avere problemi per fare una cosa con cui quasi tutti iniziano le giornate: due cucchiaini di zucchero nel caffè. Alisa e James devono passare da subito al miele, scoprendo via via la rete dei produttori locali, il rapporto con le stagioni, le trasformazioni ambientali, l’urbanizzazione selvaggia che avanza.

E avanti così, con la voglia di pane che si trasforma in una caccia a improbabili coltivatori di grano nell’area metropolitana di un capoluogo del nord, con risvolti inquietanti dentro a silos abbandonati in balia dei ratti. O la necessità fisiologica del sale, forma antichissima di moneta, che nella città affacciata sul Pacifico diventa occasione per una sorta di matrimonio del mare, prelevando da una barca a remi una grande quantità d’acqua e facendola poi bollire fin quando compaiono quasi magicamente i cristalli bianchi.

Il tutto condito da scenette di vita familiare e amicale, di raccolta di more nella canicola estiva dei roveti sotto l’autostrada, di bisticci e bronci davanti al pentolone della conserva di pomodori per l’inverno. Parafrasando Alberto Savinio, verrebbe da dire “ascolto il tuo stomaco, città”. E dal punto di vista della cultura urbanistica, sociale, ambientale che questo pur “leggero” resoconto da Vancouver e dintorni evoca, emerge l’esigenza di superare una certa sedimentata prospettiva. Certamente quella della città che cresce a macchia d’olio, infinita, mastodontica, alimentandosi con tubi che risucchiano risorse da sempre più lontano, e scaricandosi più o meno addosso tutti gli scarti. Superare l’idea della città macchina, non solo quella degli architetti modernisti fatta di angoli retti, cemento, e idee tetragone, ma anche quella letteraria dei “ventri” ottocenteschi, che da Sue attraverso la Serao fino alle processioni di Zola, dei carri che dalla campagna sciamano fino alle Halles, propongono un rapporto gerarchico fra la pietra e la terra.

C’è da sperare, che magari lo sciopero dei camionisti faccia riflettere chi di dovere, anche qui da noi, sulla necessità di superare davvero le chiacchiere sulla “misura d’uomo” o addirittura sullo “sviluppo sostenibile”, fatte a solo uso di qualche dichiarazione televisiva o elettorale. Ascolto il tuo stomaco, città, e credo che dovresti curarti l’ulcera. Urgentemente.

Nota: fra i testi e temi citati nell’articolo si vedano anche le traduzioni in italiano di Susan Cozier, La Dieta dei 150 Chilometri, E/Environmental Magazine, 15 settembre 2007; e Robert Freudenberg, Comprare locale aiuta a salvare il mondo? Spotlight on the Region, dicembre 2006 (f.b.)

Carlo Petrini, La rivincita del localismo, la Repubblica, 13 dicembre 2007

È una pace fragile quella siglata tra gli autotrasportatori e Palazzo Chigi, un’intesa che lascia al Paese una sensazione di grande debolezza strutturale visto che sono bastati due giorni per mettere in ginocchio quasi tutte le città.

Tuttavia, sia pure senza volerlo, il blocco dei Tir ci ha dato una risposta laterale e straordinaria, che se ne sta lì, quieta e sorridente, in attesa che qualcuno la noti e gli sorrida di rimando. «Nel mondo vì sono tante città, una te l’ho già detta, quale sarà?». Era un giochino che, dalle mie parti, ci facevano da bambini e che ci insegnava a vedere le soluzioni dentro i problemi (Mondovì era la città nascosta nella domanda).

Lì dove? Non certo sulle autostrade intasate, né nei telegiornali che hanno alternato con zelo la par condicio tra padroncini arrabbiati e politici indignati e quella tra gli automobilisti che avevano ancora abbastanza benzina per andare a bloccarsi in una coda per ore e quelli che invece sono rimasti fuori da quella follia solo perché il benzinaio è restato senza carburante.

Ma tra le tante interviste televisive alcune hanno fatto centro, sia pure senza saperlo. In un mercato rionale di Roma i giornalisti hanno cercato di indagare sulla situazione delle vendite al dettaglio di generi alimentari. I venditori quasi si scusavano: «Oggi c’è poco, è arrivata solo la roba locale per via dello sciopero dei Tir…». La telecamera si è allargata su una specie di Bengodi di verdure di stagione, locali, un commestibile giardino d’inverno ricco di tutti i colori, i profumi e i sapori che l’agro romano può offrire. Mancavano le banane, i manghi, le fragole? Evviva. Mancavano i gamberetti del Pacifico e la polpa di granchio? Perfetto.

Certo Roma ha intorno a sé un’areale agricolo che altre città non possono nemmeno sognare. Però usiamo questa vicenda come il paradigma della storia che stava nascosta dietro i tir, perché non ci sono solo le grandi città, in Italia; ci sono centinaia di città piccole e medie che hanno i campi e gli orti appena fuori dal centro storico.

Le economie locali non le fermi tanto facilmente, perché non hanno molti bisogni. Chi ha molti bisogni ha molti padroni. Le economie locali sono libere perché sono piccole e agili. Perché sono adattabili e flessibili. E sono così perché hanno un alto tasso di biodiversità e perché la soddisfazione delle loro esigenze è al centro di un sistema paritario, di dare e avere, che invece non può essere il paradigma della grande distribuzione. Le economie locali non hanno padroni, hanno una rete di interazioni. E parte di questa rete è costituita proprio dai consumatori, i quali si possono rilassare: escano a piedi, facciano una passeggiata nel centro storico delle loro città, arrivino fino al più vicino mercato, facciano due chiacchiere con i venditori, che magari sono anche agricoltori, acquistino frutta e verdura locali di stagione e quanto il loro territorio offre. Poi tornino a casa o in ufficio (anche uno spuntino può essere arrivato in Tir o essere stato prodotto localmente) e si godano un pasto a chilometri zero, a carburante zero, a emissioni zero, a nervosismo zero.

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