In questi giorni un’overdose di notizie ed informazioni a corollario del dramma abruzzese ha reso i cittadini più consapevoli. Durerà poco, come è sempre successo. Le notizie sul terremoto ovviamente scaleranno nelle pagine interne dei giornali, fino a scomparire. La speranza è che non si dissolva, assieme all’attenzione dell’opinione pubblica, quella montagna di impegni assunti da chi si è prodigato davanti ai teleschermi per far dimenticare le inadempienze del passato con le promesse per il futuro. Comunque, i cittadini, almeno in questo momento, hanno le idee più chiare su quanto questo paese sia esposto al rischio sismico. Sono stati fatti confronti con California e Giappone, e proprio su un terremoto in Giappone è utile spendere qualche altra parola.
La città di Kobe venne colpita nel 1995, il 17 gennaio alle ore 5 e 46 minuti, da un forte terremoto di magnitudo 6.8, che liberò una quantità di energia circa 10 volte maggiore di quella rilasciata il 6 aprile a L’Aquila. Fu un terremoto dagli effetti devastanti: 6.500 vittime, una quantità enorme di danni valutati oltre 100 miliardi di dollari. Alcuni articoli usciti sulla stampa italiana, anche di prestigiose firme, traevano da quel disastro qualche spunto consolatorio. Si sosteneva che, dopo tutto, anche i giapponesi, così tecnologicamente avanzati, così attenti alla preparazione della popolazione alle calamità, così avanti nel campo della geofisica e nella progettazione antisismica, così efficienti e consapevoli dei livelli di rischio a cui erano esposti, con un evento solo un po’ più forte dell’Irpinia avevano dovuto registrare un numero di vittime più che doppio ed un danneggiamento di dimensioni spaventose.
Le cose, in realtà, non stavano proprio così. Kobe è una città moderna che si apre sul mare, un attivissimo porto, con una popolazione di 1.5 milioni di abitanti che con l’hinterland supera i 4 milioni. Una città per la quale non era atteso un terremoto di quell’intensità – era infatti inserita nella fascia più bassa di pericolosità sismica – e quindi nemmeno tanto preparata e difesa. Kobe si era trovata invece all’interno dell’area di massima intensità, con epicentro a circa 20 km dal cuore della città; e un terremoto al mattino presto è una pessima ora in termini di conseguenze per la popolazione.
Dall’esperienza di Kobe, e di altri eventi distruttivi in contesti metropolitani occorsi nel mondo, possiamo trarre qualche considerazione sulla fortuna che ha assistito l’Italia negli ultimi decenni.
Il terremoto di Reggio Calabria e Messina ebbe un’intensità dell’ XI grado della scala Mercalli (magnitudo stimata 7.2), colpì due città (oggi due aree metropolitane) causando circa 85 mila morti. In tutto il resto dello scorso secolo ci sono stati in Italia altri terremoti distruttivi. Uno in particolare, quello della Conca del Fucino del 1915 causò oltre 30 mila vittime; la cittadina di Avezzano che contava 11 mila abitanti si trovò nell’area epicentrale; il 90 per cento della sua popolazione rimase sotto le macerie. Dopo questi due eventi il paese ha avuto fortuna. Altri terremoti di forte intensità distruttiva, il Vulture nel 1930, l’Irpinia nel 1962 e nel1980, hanno causato moltissime vittime ma si sono tenuti lontani con le massime intensità dalle aree urbane. La stessa cosa è avvenuta in Belice nel 1968 e in Friuli nel 1976 con la distruzione di centinaia di paesi e nuclei abitati.
Mai più, tuttavia, in una città, in un’area urbana, fino a qualche giorno fa. Per questa ragione possiamo dire che il nostro paese è stato fortunato a lungo, per molti decenni. L’esserlo stato fino ad oggi avrebbe dovuto rappresentare l’elemento fondante attorno al quale sviluppare un’azione lungimirante di prevenzione, tanto più inderogabile quanto la nostra situazione è diversa da quella di Kobe, una città che fu capace di resistere, anche se con perdite enormi, ad un evento estremamente distruttivo. Da noi le cose, molto probabilmente, non andrebbero come in Giappone; molte delle nostre città in aree ad elevato rischio sismico potrebbero subire, a parità di magnitudo, un impatto molto più severo ed oggi L’Aquila dovrebbe essere, oltre che una enorme sciagura, anche un inconfutabile monito.
Chi avesse voluto in tutti questi anni prendere le distanze da quanto successe a Reggio e Messina e ad Avezzano ormai un secolo fa, con un consolatorio "ora c’è la normativa sismica e il cemento armato" o altre semplificazioni tranquillizzanti, deve oggi invece prendere atto di quanto accaduto nella città abruzzese; ancor di più resterebbe fortemente deluso guardando le città attraverso gli scenari di evento che da tempo sono disponibili. La "città vecchia", i centri storici vulnerabili lo sono per definizione e della loro situazione in qualche misura ne fanno sfoggio con franchezza, la "città moderna" invece può indurre all’errore se si ritiene che solo perché tale offra maggiori garanzie; molto spesso non è così né sotto il profilo delle scelte urbanistiche né per la qualità edilizia (spesso anche quando entrambe non siano state travolte dall’abusivismo) né per l’assetto infrastrutturale e delle reti dei servizi.
Spesso poco, molto poco è stato pensato, progettato, realizzato e mantenuto pensando ad un terremoto, anche dove conoscenza, norma o semplice buon senso lo avrebbero preteso. Ed allora in un contesto come quello della difesa dai terremoti, dove la previsione dell’evento è una chimera, l‘unico strumento utilizzabile ai fini "predittivi" risiede nella capacità di operare una particolare sintesi tra la conoscenza di un fenomeno naturale, il terremoto, e quella di un comportamento antropico, l’uso del territorio, soprattutto nei termini, per l’appunto, delle tante fragilità su di esso prodotte; l’esito di questa operazione complessa, che ha come risultato finale la produzione di scenari, dovrebbe influenzare in modo determinate la preparazione all’emergenza e promuovere l’azione in prevenzione. Ma questo è un altro discorso.