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«Beni comuni. Parte la svendita del patrimonio immobiliare statale tramite i nuovi vertici della Cassa depositi e prestiti. Senza patrimonio un popolo perde la sovranità: allo scellerato disegno del governo è ora di opporre un progetto di pari sistematicità che metta al centro dell’agenda politica la difesa dei beni pubblici». Il manifesto, 10 gennaio 2016

Per acquistare a poco prezzo il patrimonio immobiliare della Grecia i circoli finanziari europei hanno imposto il durissimo intervento del governo europeo e della Bce che ha condizionato i prestiti necessari alla sopravvivenza di centinaia di migliaia di famiglie greche alla vendita di immobili e infrastrutture per un valore di 50 miliardi di euro. In Italia è sufficiente l’azione di Renzi e del fidato Padoan.

Venerdì sono circolate le anticipazioni della grande svendita del patrimonio di tutti gli italiani e non è certo un caso che sia stato il giornale di casa, L’Unità, a darne con grande risalto l’annuncio. Erano due decenni che i governi di centro-destra avevano tentato la vendita del patrimonio degli italiani ma senza grandi successi.

Dopo le prime leggi di alienazione approvate anche dal centro-sinistra (l’intera vicenda era stata denunciata già dal 2002 da Salvatore Settis nel volume Italia spa edito da Einaudi), il primo tentativo operativo risale al 2004, quando si affidò alla società Investire immobiliare 394 immobili dello Stato poi passati a Blackstone.

Nel 2007 si tentò con la Scip 2, la società veicolo creata dal ministro Tremonti. All’epoca, anche per il contrasto con le Fondazioni bancarie, non si raggiunsero gli equilibri economici e finanziari e la Scip 2 concluse la sua azione con un forte deficit. Né migliore fortuna ebbe l’altra società di valorizzazione immobiliare, Fintecna.

I fallimenti portarono Tremonti alla costruzione nel 2009 di una nuova società: la Sgr investimenti, nata all’interno della Cassa depositi e prestiti, alla cui direzione mise un suo fedelissimo, Massimo Verazzani, che appena un anno prima era stato nominato commissario straordinario per risanare il deficit di bilancio di Roma.

Anni di sperimentazioni sono serviti per mettere a punto il sistema di vendita e indubbiamente il Renzi sindaco di Firenze è stato l’uomo che con più lucidità ha portato avanti in sede locale il disegno ideato per l’intero paese.

Proprio quando sta per concludere l’offensiva contro Enrico Letta, Renzi rischia grosso. A dicembre 2013 il debito accumulato dal comune di Firenze supera i limiti del patto di stabilità imposti dal governo Monti e solo un provvidenziale aiuto da Cassa depositi e prestiti al cui vertice sedeva ancora Franco Bassanini riesce ad evitargli l’onta del default: la Cdp acquista attraverso il Fondo investimenti per la valorizzazione Plus per 23 milioni di euro il Teatro comunale che il sindaco aveva inutilmente tentato di vendere già dal 2009 ad un valore molto maggiore: 44,5 milioni. Dall’anno seguente il teatro viene inserito nella lista dei beni immobiliari pubblici da vendere e chissà quando troverà un acquirente: con queste spericolate operazioni, dunque, lo Stato si indebita dilapidando contemporaneamente il patrimonio pubblico.

La Firenze renziana diventa la città che persegue con disinvoltura la svendita sistematica del patrimonio immobiliare pubblico: il comune come agente di speculazione immobiliare. Sotto la guida del nuovo sindaco Nardella, ma il lavoro era iniziato sotto il suo predecessore, viene reso pubblico il dossier Florence city of the opportunities, una gigantesca apertura al mercato immobiliare internazionale. Il dossier comprende 47 schede di compendi immobiliari privati e 12 pubblici di straordinario valore storico e che negli anni passati erano stati recuperati in modo straordinario, come nel caso dell’ex carcere delle Murate.

Il sindaco di Firenze aveva dunque le carte in regola per diventare il «sindaco d’Italia» e condurre finalmente in porto la svendita immobiliare. L’annuncio era stato preparato da due provvedimenti coerenti con quella finalità.

Il primo era arrivato con lo Sblocca Italia, all’interno del quale (articolo 10) sono state create le condizioni per il sistematico intervento di Cassa depositi e prestiti nell’acquisto e valorizzazione degli immobili da dismettere. Insomma, la positiva esperienza della vendita del teatro comunale ha contribuito a costruire un veicolo molto più potente ed efficace di quelli dei governi di centro-destra.

Il secondo provvedimento riguarda la campagna di occupazione del potere: nel luglio dello scorso anno vengono indicati i nuovi vertici di Cassa depositi e prestiti. In cima alla piramide viene nominato Claudio Costamagna, ex banchiere Goldman Sachs e attuale presidente di Salini-Impregilo. Amministratore delegato diventa Fabio Gallia che ricopriva identico ruolo nella Banca nazionale del lavoro.

E visto che il mercato immobiliare langue, meglio aiutarlo con l’ulteriore deregulation. L’articolo 26 dello Sblocca Italia prevede la variante urbanistica automatica per tutti i progetti che riguardano gli edifici pubblici. In particolare il comma 8 prevede che una parte della valorizzazione immobiliare ottenuta attraverso la variante urbanistica venga attribuita alle amministrazioni locali che hanno costruito il provvedimento di alienazione. È lo stesso meccanismo di incentivazione alla vendita che era stato inserito in molti provvedimenti legislativi da Giulio Tremonti.

Si chiariscono dunque sempre meglio i motivi che hanno portato alla repentina scalata al potere di Renzi e i motivi strutturali di tale disegno. Verremo inondati dai soliti annunci trionfali, si dirà che i proventi della vendita serviranno per trovare risorse per il rilancio dell’economia. Saranno i soliti annunci privi di fondamento: i valori immobiliari sono ai minimi storici dell’ultimo ventennio e la vendita servirà solo a soddisfare gli appetiti degli investitori internazionali o a creare un indebitamento futuro come dimostra il caso del Teatro comunale di Firenze.

L’insigne giurista Paolo Maddalena ha di recente scritto Il territorio bene comune degli italiani (2013 Donzelli) in cui si sostiene lucidamente che senza patrimonio un popolo perde la sovranità: allo scellerato disegno del governo è ora di opporre un progetto di pari sistematicità che metta al centro dell’agenda politica la difesa dei beni pubblici.

(continua a leggere)

Seconda parte [1]

Angela Dorothea Merkel è intelligente (cioè capisce) molto più degli altri leader europei. Alcuni di loro non lo sono per connaturata inibizione poiché sono fascisti e nazisti quasi di­chiarati (Kaczynski e Andrzej Duda, Orban…); altri sembrano come indica la seconda scelta di un qualsiasi dizionario dei sinonimi e dei contrari, idioti – stupidi; altri ancora, chiamiamoli intermedi, si muovono solo secondo gli umori classisti prevalenti; altri infine, piccoli per piccolezza di patria, devono vivere nell’ombra di uno grosso, adeguandosi.

Per Angela Merkel, incurante di contestazioni e persino di proprie contraddizioni, la Germania ha di nuovo bisogno di immigrati in massa, come nel passato. Solo con l’immissione di popolazione giovane, dice, essa potrà riequilibrare lo stato demografico e, udite udite, il si­stema pensionistico. Infatti, il diagramma piramidale della popolazione per età presenta una base molto ridotta e un vertice allargato: pochi giovani e giovani-adulti, tanti anziani. Tassi di natalità minimi (8 per mille, idem l’Italia) e tassi di mortalità superiori (11 per mille, 10 l’Italia), movimenti migratori a parte, minacciano la stessa riproduzione. Tutto questo nonostante la crescita lungo cinque-sei decenni della presenza di stranieri provenienti da diverse nazioni, tuttavia propensi, evidentemente, ad assimilare rapidamente comporta­menti di vita famigliare o personale. Ma si devono risolvere due enormi problemi: assicu­rarlo davvero quel lavoro, del quale il paese sembra avere urgente necessità, ai nuovi cit­tadini; garantir loro un’abitazione dignitosa insieme a un coerente modo di vita. Solo così si potrà ricostituire un processo relazionale costruttivo e stabile fra rapporti di produzione e riproduzione.

Vogliamo dire, indipendentemente dalla questione tedesca, che la vecchia e durevole lo­gica capitalistica e mercatistica volta a restringere o a espandere la forza lavoro secondo gli investimenti e i disinvestimenti nel gioco fra sviluppo e crisi, può essere battuta da una realizzata condizione sociale e politica incentrata su due atti: riduzione per tutti del tempo di lavoro, magari prendendo spunto dalla provocazione di Paul Lafargue (i francesi hanno provato…) e radicale modificazione del rapporto fra consumo di beni d’uso e di beni di scambio in favore dei primi, compresi quelli immateriali. In altre parole: parallelamente alla diminuzione del tempo penoso (lo è per la stragrande maggioranza), aumento del tempo vissuto con felicità attraverso la cultura, per la crescita di sé razionale e sentimentale.

La Germania è il più popoloso paese dell’Unione, ottantuno milioni di abitanti. Gli stranieri sono più del 10 % (di questi il 20 % vi è nato) ma se si aggiungono gli immigrati pervenuti man mano alla cittadinanza tedesca la percentuale quasi raddoppia, 19%. La tumultuosa ricostruzione sostenuta dall’enorme ammontare degli aiuti americani anche in funzione dell’alleanza antisovietica e la gigantesca espansione industriale degli anni Cinquanta e seguenti richiesero un incessante flusso di mano d’opera da altri stati europei. I meridionali italiani espatriarono in massa, insieme ai turchi (che oggi rappresentano la più numerosa comunità straniera, oltre un milione e mezzo), ai polacchi, ai greci e altri…

Come simbolo del lavoro italiano in terra tedesca scegliamo Wolfsburg (Bassa Sassonia), “Città del Lupo”. Furono specialmente nostri muratori e artigiani a costruire, insieme alle prime case, la fabbrica della “Macchina del popolo” voluta da Hitler nel 1938. Volkswagen, programma industriale, politico e “sociale” bloccato dalla guerra fu rilanciato dopo la scon­fitta, intensificato fortemente dal 1955 e negli anni Sessanta grazie al lavoro degli immi­grati meridionali. Non fu a caso l’arrivo a Wolfsburg di tantissimi compaesani, fu dovuto a una preferenza, a un atto di fiducia degli industriali e dell’Istituto Federale per il Colloca­mento della Manodopera e per l’Assicurazione contro la Disoccupazione.

Probabilmente valse il riflesso delle prestazioni d’opera risalenti alla fondazione della fabbrica e della città. Ne derivò anche la modifica del termine che designava i lavoratori: dapprima Gastar­beiter poi, a causa della contrarietà degli industriali a considerarli solo “ospiti”, Südländer. Così il clamoroso successo del Maggiolino (Käfer) incorporava l’abilità e l’affidabilità degli operai siciliani, calabresi, abruzzesi… e la loro accettazione di un modo di abi­tare che non aveva nulla dell’abitazione famigliare nella propria regione, seppur povera, magari cadente, igienicamente inadeguata.

Una ricerca svolta presso l’Università degli studi di Roma Tre, pubblicata nel semestrale Altreitalie[2], presenta un quadro preciso degli alloggiamenti. Non furono usate le vecchie baracche ma si costruì un Villaggio degli italiani (Italienerdorf) costituito da lunghe “case” a due piani prefabbricate in legno. Nel 1964 erano 46, nel 1966, 58. Gli immigrati tuttavia continuarono a chiamarle baracche: ognuna con 32 stanze per 2-4 persone, a ogni piano una cucina comune, un gruppo di servizi igienici, un locale “per stirare” (?).

Wolfsburg cambiò notevolmente lungo i decenni fino ai giorni nostri. Da luogo-fabbrica de­dicato solo alla produzione divenne una città di oltre 120.000 abitanti dotata di tutte le ri­sorse che ne designerebbero l’abitabilità e la gradevolezza. Lo scrittore Maurizio Mag­giani, autore di quel romanzo fuori del rigo convenzionale che è Il coraggio del pettirosso[3] racconta in un articolo sul Secolo XIX di una delle sue visite[4]. Ha amici compatrioti, del re­sto un quarto degli abitanti ha origini italiane o è tuttora nostro concittadino. L’italianità la si trova non solo nei ristoranti nelle gelaterie nei caffè ma anche nelle scuole, nelle bibliote­che. Per Maggiani «Wolfsburg è una bella città… ricca di verde, funzionale… i suoi quar­tieri operai sono formati da villette a schiera, separati da parchi e collegati con ampi viali».

Il maggior vanto civico è la presenza del Phaeno, il più grande museo scientifico interattivo della Germania dotato di 250 postazioni. Progettato da chi? Diamine, dall’immancabile Zaha Hadid (vogliamo subito paragonarlo col meraviglioso Exploratorium di San Franci­sco, fondato da Frank Oppenheimer nel 1969, un grande spazio entro un’ariosa semplice struttura di ferro, come fosse testimonianza della rivoluzione industriale). Non manca un museo d’arte moderna. Infine la Kulturhaus di Alvar Aalto, che ricordiamo non fra le opere eccelse, funzionava già nel 1962.

Maggiani discorre con gli amici, tutti hanno in certo modo nostalgia dell’Italia; «ma, fatte le ferie se ne tornano a starsene nel cuore della Bassa Sassonia a casa loro, che è Wolfsburg, dove il clima non sarà un granché, ma dove dopo le quattro del pomeriggio nessuno lavora più, si va a passeggiare sui viali, a nuotare nei laghi, al cinema, a teatro, a bere birra sul lungofiume…». E la settimana di ferie autun­nali, l’asilo nido sotto casa, le tessere per i musei e le gallerie, il medico che li chiama per accertarsi della loro salute? Allora una specie di paradiso? Forse il nostro simpatico ro­manziere è propenso a romanzare, ma non a contar balle. In ogni caso un tale paesaggio urbano e umano non può riguardare l’intera Germania; e quali conseguenze proprio lì, nella sede madre dell’azienda, provocherà l’attuale vicenda delle emissioni inquinanti truc­cate in certi modelli?

Stiamo osservando una fotografia del 1964: in un’aula scolastica immigrati italiani ascol­tano qualcuno che li sta istruendo sul lavoro da minatori per essere avviati alle miniere carbonifere di Duisburg, Renania Settentrionale-Vestfalia. Tutta la Ruhr rappresentava, a quell’epoca, una delle massime concentrazioni territoriali minerarie (è noto che soprag­giunto il tempo della chiusura, l’intera regione, con le sue città grandi e piccole, sarà tra­sformata in un insieme multicentrico ricco di occasioni culturali, paesaggistiche, turistiche). I cavatori italiani meridionali, a nostra memoria, furono più fortunati dei loro colleghi emi­grati in Belgio, dove a metà degli anni Cinquanta lavoravano 142.000 minatori, fra i quali 63.000 stranieri comprendenti 44.000 italiani. A Marcinelle, miniera di carbone Bois du Cazier nella periferia meridionale di Charleroi, l’8 agosto 1956 a causa di un irrefrenabile incendio morirono 262 minatori, i sopravvissuti furono solo 13. 136 le vittime italiane, le metà abruzzesi. Sfogliando le notizie in memoriacondivisa.it leggiamo che il ricordo della tragedia è ancora vivo; anche quest’anno nel sito minerario del Bois du Cazier, dal 2012 entrato nel patrimonio mondiale dell’Unesco, si terranno le cerimonie di commemorazione dell’evento.

Ai lavoratori italiani per morire in miniera non occorreva emigrare all’estero. Poco più di due anni prima dello sterminio di minatori a Marcinelle era stata la Maremma, terra di miniere dove l’attività della società Montecatini era iniziata alla fine dell’Ottocento, a essere teatro di una tragedia. Provincia di Grosseto, comune di Rocca­strada, frazione di Ribolla (in effetti, un villaggio Montecatini), miniera di lignite sezione “Camorra”: nella prima mattina del 4 maggio 1954 una spaventosa esplosione di grisù causò la morte di 43 operai. I minatori erano in totale poco più di 1.400, in forte diminu­zione dal 1948 coerentemente alla politica della Montedison, smobilitare anno dopo anno: condotta che comportava la riduzione delle provvidenze per la sicurezza del lavoro. Il libro “d’epoca” di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola I Minatori della Maremma[5] dedica un capi­tolo a La sciagura di Ribolla.

Fu per noi una lettura importante. Due ricercatori che sali­ranno la china della letteratura d’autore e della fama fino al vertice ci ragguagliavano sulla storia e la condizione sociale poco conosciute della loro regione, in maniera così accurata e dimostrativa come solo una vocazione allo studio storico e una diretta partecipazione alle vicende potevano permettere. Chi conosceva quale fosse l’abitare per i lavoratori scapoli arrivati lì provenendo da territori lontani? Ecco i “camerotti”, costruiti per cacciarvi i prigionieri di guerra. “Costruzioni a un piano, lunghe e strette, divise all’interno in tante stanzette quadrate…gli scapoli… vivono là dentro, a gruppi di tre o quattro per stanza: brande di ferro, armadietti, pure di ferro, un tavolo, sgabelli… In cima all’armadietto una cassettina di legno… La sensazione è quella, la caserma”.[6]

L’io narrante di La vita agra, il capolavoro di Luciano Bianciardi, sente la “missione” di vendicare le vittime della tragedia: «…venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento [sarebbe la sede della Montecatini a Milano], chiedendomi a quale finestra, in quale stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pratica degli assegni assisten­ziali, dove la cartella personale… di tutti i quarantatré i morti del quattro maggio. Chieden­domi dove, in che cantone, in che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione; metano miscelato con aria in proporzione fra il sei e il sedici per cento. Tanto ce ne vuole perché diventi grisù, un miscuglio gassoso esplosivo se lo inneschi a contatto con qualsiasi sorgente di calore su­periore ai seicento gradi centigradi. La missione mia… era questa: far saltare tutti e quat­tro i palazzi».[7]

[1] Vedi la prima parte in eddyburg, 2 dicembre 2015.


[2] Katiuscia Curone, Italiani nella Germania degli anni Sessanta: immagine e integrazione dei Gastarbeiter, Wolfsburg 1962-1973, in Altreitalie, rivista internazionale di studi sulle popolazioni di origini italiane nel mondo, n. 33, luglio-dicembre 2006.

[3] Edito da Feltrinelli nel 1995, ha vinto nello stesso anno i premi Viareggio, Rèpaci, Campiello. Nel 2010 la quattordicesima edizione.

[4] Maurizio Maggiani, Povera Italia, vista da Wolksburg, in Il Secolo XIX (unito a La Stampa), 31 agosto 2010.

[5] Luciano Bianciardi – Carlo Cassola, I minatori della Maremma, Editori Laterza, Bari 1956 – Libri del tempo.


[6] Ivi, p. 50-51. «Le famiglie, che dovettero costituirsi parte civile accettarono le offerte in denaro della Montecatini e il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati e il disastro fu archiviato come ‘mera fatalità. A seguito del disastro la direzione della Montecatini decise la chiusura della miniera, la cui smobilitazione richiese ben cinque anni», dal sito memoriacondivisa.it.

[7] La vita agra, 1967, in Luciano Bianciardi - L’antimeridiano - Tutte le opere, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Cipolla e Alberto Piccinini. Volume primo. Saggi e romanzi, racconti, diari giovanili, Isbn Edizioni e ExCogita Editore, Milano 2005, p. 595.

(continua la lettura)

Una biblioteca che chiude dovrebbe essere considerato sempre un lutto nazionale. Nel momento in cui viene sbandierato il ruolo dell’Italia e di Roma come portatrici della bellezza e della cultura, gli amministratori del Comune di Roma non esitano a mettere a repentaglio l'esistenza della biblioteca Fabrizio Giovenale che ha tenuto accesa la luce della cultura nella lontana periferia della città, in un popoloso quartiere fra le vie Nomentana e Tiburtina, antiche zone industriali di cui rimangono oggi vuote fabbriche abbandonate.

La biblioteca Fabrizio Giovenale si trova in Via Fermo Corni presso il Centro di Cultura Ecologica. Nato un quarto di secolo fa in una prima sede provvisoria, il Centro ha ospitato incontri e lezioni di una delle ultime Università Verdi animate, fra l’altro, proprio dall’architetto Fabrizio Giovenale, figura centrale della cultura ambientale e urbanistica. Vice presidente di Italia Nostra, fra i fondatori della Lega Ambiente, scrittore e giornalista, Giovenale è stato instancabile educatore e animatore di migliaia di persone in tutta Italia sui problemi dell’ambiente, del territorio, della città.

Nel 2003 il Centro ottenne dal Comune di Roma, tramite convenzione, la gestione di una vecchia stalla che, ristrutturata e attrezzata con scaffali e computer, è divenuta sede della biblioteca, federata con le Biblioteche di Roma. Negli anni la biblioteca ha ospitato importanti mostre e convegni, centinaia di ore di didattica ambientale, eventi letterari, teatrali, cinematografici e musicali, mettendo in contatto i cittadini con personalità della cultura, del volontariato sociale, dell'arte e dello spettacolo. La biblioteca si è via via arricchita di libri e documenti donati anche dagli studiosi che la frequentavano e dagli studenti che depositavano le loro tesi di laurea preparate studiando nelle sale della biblioteca.

La biblioteca del Centro di Cultura Ecologica si è ulteriormente arricchita quando, alla morte di Giovenale, nel 2006, i familiari hanno voluto donarle le carte, i documenti e i libri scritti e letti dal grande urbanista. A questo fondo iniziale si sono aggiunte altre donazioni di materiale archivistico spesso unico. Non una semplice biblioteca, quindi, ma un importante archivio storico del movimento ambientale, dell’evoluzione del pensiero ecologico in Italia, della storia delle periferie. Il Centro ha voluto intestare a Fabrizio Giovenale la biblioteca.

La convenzione tra il Comune di Roma e una associazione del quartiere, grazie alla quale la biblioteca ha potuto esistere come presidio culturale nella periferia nord est di Roma, si conclude alla fine dell'anno. Ora gli amministratori di un Comune senza sindaco comunicano ai cittadini, agli studenti e agli operatori che se vogliono tenere aperta la biblioteca dovranno pagarsela di tasca propria, altrimenti si chiude!

Ritengo ingiusto e scandaloso che la capitale d'Italia non sia in grado di assicurare la vita di una biblioteca che costituisce un servizio essenziale per una delle periferie della città. Ci saranno motivi amministrativi che inducono il Comune alla sua decisione, ma l’effetto è un’ulteriore offesa alla cultura, a chi studia l’ambiente denunciando l’inquinamento, il dissesto idrogeologico, la congestione urbana, l’abusivismo edilizio, l’abbandono dei parchi, l’erosione delle spiagge, che caratterizzano il nostro paese.

Occhi potenti, periscopi di stomachi voraci, puntati sulle aree dismesse dal pubblico (cioè dai cittadini) per fini di lucro. La chiameranno “rigenerazione urbana". Il Fatto Quotidiano, blog “cittadinanzattiva”, 23 dicembre 2015

Nell’articolo La città rinasce sui binari dismessi di Alessandro Arona, pubblicato su Il Sole 24 Ore si affronta il tema del recupero e valorizzazione di suoli urbani non più utilizzati. Il punto di partenza è che esistono 6,6 milioni di metri quadrati di “aree o strutture ferroviarie dismesse pronte alla riqualificazione urbana, senza consumo di nuovo suolo” corrispondenti ad aree delle ferrovie dello Stato che oggi risultano in stato di sotto utilizzazione o di abbandono e che sono “quasi sempre centralissime” nelle grandi aree urbane del Paese.

I meccanismi utilizzati per la trasformazione di queste aree (aree non utilizzate = edilizia; aree centrali = elevati profitti) afferiscono un po’ troppo al solo sistema economico marginalizzando così il più profondo interesse culturale, ambientale e sociale che è alla base di una qualificazione degli insediamenti.

Partiamo dall’inizio. Le ferrovie dello Stato sono un soggetto pubblico a cui in passato è stato affidato il compito di creare, implementare e gestire la rete e il trasporto su rotaie. A un certo punto, con una scelta aziendale precisa e perseguita coerentemente negli anni, le Ferrovie si sono disinteressate al trasporto merci (che è molto più basso in Italia che in gran parte dei Paesi europei) e si sono concentrate sul trasporto passeggeri privilegiando alcune e più trafficate linee.

Questo fatto, unito all’evoluzione delle tecnologie, ha fatto sì che molti magazzini, molte aree di stoccaggio, dei materiali e dei treni merci, molte aree di manutenzione e di riparazione e molte aree connesse al funzionamento delle stazioni passeggeri e merci siano state abbandonate. Allora la prima domanda che ci si pone è: le aree, essendo state destinate alla mobilità su ferro e sapendo quanto tale mobilità sia meno inquinante di quella su gomma, al di là delle scelte dell’”azienda ferrovie”, possono rappresentare una potenzialità per la mobilità merci su ferro? Possono essere utilizzate per supportare i viaggi di piccola media percorrenza? Potremmo investire su esse per praticare sistemi di mobilità più consone, ad esempio, alla soluzione dei problemi climatici che ci attanagliano? In sintesi possono essere in qualche maniera collegate alla mobilità delle persone e delle merci (interscambio o altro), ragione prima della loro destinazione d’uso?

Può essere di sì o può essere di no. Se fosse sì, forse si potrebbe riflettere e, al di là della necessità di pareggio di bilancio di una azienda, trovare altre soluzioni. Se fosse no, perché il futuro di queste aree dovrebbe essere di interesse delle Ferrovie che hanno come obiettivo non la speculazione immobiliare ma il trasporto pubblico?

Le Ferrovie che non servono per la mobilità dovrebbero essere restituite alla comunità, avendo loro avuto una concessione finalizzata a un uso specifico molto lontano dagli interessi specifici di una società come Sistemi Urbani (gruppo Fs) a cui è demandato il compito di fare fruttare tali aree.

Con un’impostazione così limitata i risultati non possono che essere asserviti a finalità immobiliari estranee all’interesse comune come sono stati i grattacieli a Porta Nuova a Milano o la stazione Tiburtina a Roma, interventi pesanti che hanno in un caso ridefinito il paesaggio urbano della città e nell’altro prodotto altre cubature inutilizzate, lontani dalle esigenze dei cittadini e dai caratteri dei luoghi (e ambedue oggi per gran parte di proprietà di banche). Ma è questo il prezzo che bisogna pagare per non occupare altro suolo? O forse sarebbe più interessante verificare l’esistenza diinteressi comuni per quelle aree, aprendo ad una verifica non esclusivamente economica della “riqualificazione”?

(continua a leggere)


La ruota smette di girare

il sole tramonta
con amarezza.

Sono le prime righe di una poesia che lo scrittore inglese Ian Mcmillan ha scritto in occasione della chiusura, nei giorni scorsi, dell’ultima miniera sotterranea di carbone del Regno Unito, quella di Kellingley, nello Yorkshire, Inghilterra nord orientale. Finisce così un’era cominciata nel Medioevo quando si è scoperto che il carbone poteva sostituite il legname come fonte di calore, salvando così i boschi dalla distruzione. Il carbone è stato il motore della rivoluzione industriale in Inghilterra e poi in Germania, Francia e negli altri paesi europei e poi negli Stati Uniti.
In Inghilterra sono state fatte le principali scoperte che hanno spianato la strada al trionfo del carbone. Già nel Seicento si è visto che il carbone fossile, estratto dalle miniere, si prestava alla produzione di ferro e acciaio per trattamento del minerale molto meglio del carbone di legna, e nei primi anni del Settecento fu scoperto che risultati ancora migliori si potevano avere trasformando, per riscaldamento in camere di acciaio chiuse, il carbone fossile in carbone coke, più resistente alla pressione. Era così possibile costruire forni (gli altiforni) di maggiori dimensione e produrre ferro di migliore qualità e con minori costi. La chimica ha permesso poi di scoprire che i gas che si liberavano insieme al coke bruciavano con una fiamma luminosa; nei primi anni dell’Ottocento cominciava la diffusione delle lampade a gas e “la luce”, proprio quella alla cui celebrazione era stato dedicato l’anno che sta finendo, illuminava le strade, le case, le biblioteche, le fabbriche.

Una storia travagliata perché ben presto si è scoperto che la combustione del carbone era fonte di inquinamento, che l’estrazione del carbone dalle miniere sotterranee era accompagnata da crolli ed esplosioni e morti dei lavoratori, condannati ad una vita faticosa all’oscuro, in mezzo alle polveri. Le dure condizioni di lavoro e i miseri salari imposti dai primi spietati campioni del capitalismo spinsero i minatori a dar vita alle prime organizzazioni sindacali, a imparare parole come sciopero e lotte per nuovi diritti e dignità. Poche merci come il carbone hanno stimolato gli scrittori nella denuncia delle miserevoli, dolorose e pericolose condizioni di lavoro. Il libro Il re carbone (1917) del socialista americano Upton Sinclair (1878-1968) e i due romanzi Le stelle stanno a guardare (1935) e La cittadella (1937) del medico inglese Archibald Cronin (1896-1981) stimolarono le autorità per un maggior rigore nel controllo della sicurezza dei lavoratori delle miniere di carbone.

L’uso del carbone provocava la liberazione di polveri che si rivelarono mortali; l’esistenza degli idrocarburi aromatici policiclici cancerogeni fu scoperta cercando le cause del tumore che si manifestava negli operai delle cokerie e negli spazzacamini che venivano a contato con la fuliggine. D’altra parte il lavoro nelle miniere assicurava un salario alle famiglie più povere che lasciavano i campi alla ricerca di meno misere condizioni di vita. In questo mondo di contraddizioni il carbone continuava il suo cammino trionfale, estratto in quantità sempre maggiori al punto che l’economista inglese William Stanley Jevons (1835-1882) nel 1865 scrisse il libro Il problema del carbone, affermando che se fosse continuato lo sfruttamento delle miniere inglesi un giorno le riserve di carbone si sarebbero esaurite.

Le scoperte di altri giacimenti, a profondità sempre maggiori, ha permesso all’Inghilterra di continuare a estrarre carbone fino ad un picco di produzione di 290 milioni di tonnellate all’anno nel 1913. A partire dal 1950 comincia il declino del carbone inglese ed europeo non per l’esaurimento delle riserve ma per la comparsa di un invadente e aggressivo concorrente come fonte di energia, il petrolio. Fra le cause del declino del carbone c’è anche la difficoltà di trasporto; essendo un combustibile solido il carbone deve essere caricato su navi e treni carbone in maniera scomoda e costosa, mentre il petrolio che è un liquido e, ancora di più poi, il gas naturale, appunto un gas, possono essere trasportati mediante condotte o navi in modo molto meno costoso.

Benché l’Unione Europea sia nata nel 1950 come Comunità del carbone e dell’acciaio, il carbone europeo ha subito, nella seconda metà del Novecento, un continuo declino; le ferree leggi del libero mercato hanno portato alla progressiva chiusura delle miniere sotterranee in Belgio, Francia, Germania; in Inghilterra le prime drastiche chiusure si ebbero nel 1984 con il governo conservatore e l’ultima chiusura è delle settimane scorse. Una storia piena di luci e di ombre e non fa meraviglia che gli ultimi minatori abbiano salutato con malinconia la perdita del posto di lavoro che non era solo un salario, ma anche l’orgoglio di aver fatto la storia del mondo contemporaneo.

Il carbone comunque non è scomparso dalla scena delle fonti di energia, con i suoi otto miliardi di tonnellate estratti nel mondo, quasi la metà in Cina, seguita da Stati Uniti, India, Australia, e tanti altri paesi che sul carbone basano il loro impetuoso successo economico; la Germania estrae carbone da miniere a cielo aperto. Le riserve di carbone e lignite nel mondo ammontano a circa mille miliardi di tonnellate; dal carbone dipende ancora gran parte della produzione di acciaio, di elettricità, di prodotti chimici. Con tutti i suoi limiti per motivi ambientali, il re non è morto.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

«Nell’area protetta dei Monti della Laga che punta al riconoscimento dell’Unesco, scontro tra interessi e modi opposti di pensare la natura». Il manifesto, 19 dicembre 2015

Da un lato i lavoratori della montagna, dall’altro le associazioni ecologiste. In mezzo il Gran Sasso. È, sì, uno scontro di interessi, quello che oppone - in sintesi - il comitato #SaveGranSasso - nato a L’Aquila per chiedere la riperimetrazione dei Siti di Interesse Comunitario (Sic) e delle Zone di Protezione Speciale (Zps) del Parco nazionale dei Monti della Laga - al cartello di associazioni ecologiste «EmergenzAmbiente Abruzzo» (appoggiato dal Prc) che combatte per andare nella direzione opposta e si oppone alla costruzione di nuovi impianti di risalita e seggiovie nelle aree tutelate.

Ma è anche un conflitto tra due modi opposti di pensare la montagna e la salvaguardia della natura, tra chi mette al primo posto la protezione delle specie animali e vegetali perfino a costo di creare zone off limits all’uomo, e chi crede che invece al centro delle politiche ambientaliste debbano comunque essere messe prima le persone, con i loro bisogni e i loro desideri, come sostengono molti operatori del settore ma anche alcuni amanti degli sport d’alta quota.

L’associazione giovanile «GranSassoAnnoZero», per esempio, preme per il finanziamento di progetti che promuovano la «cultura del free-ride in sicurezza, sci alpinismo, snowpark, bikepark, sci da fondo, parapendio, arrampicata, trekking», ecc. Ma anche una pista di downhill può cozzare contro i vincoli di una zona Sic.

È una diatriba che si ripete da anni e che divide tante comunità montane, dalle Alpi alla Sicilia, a Livigno come sui Colli Berici, nel Parco del Pollino come in Abruzzo. Non solo a L’Aquila, dunque, dove comunque la battaglia, almeno per il momento, è stata vinta dagli ambientalisti, dall’Ente parco e dal gruppo consiliare di Rifondazione comunista perché a bocciare il progetto comunale di costruzione di una nuova seggiovia in località le Fontari - prima opera di un Piano d’Area più ampio che prevede in futuro impianti di risalita à gogo per un costo complessivo di circa 40 milioni di euro - è arrivato all’inizio di dicembre il no del Comitato regionale per la Valutazione di impatto ambientale. Il nuovo tracciato, che è lungo il doppio di quello che si vorrebbe sostituire e finisce in una delle zone tutelate, è stato giudicato «insostenibile» nell’impatto con un territorio annoverato tra i bacini di maggiore biodiversità d’Europa.

Ma la bocciatura era nell’aria e la petizione lanciata su AVAAZ​.org dal consigliere Prc Enrico Perilli che, al contrario del comitato «#SaveGranSasso», chiede di salvare le zone Sic e Zps e propone piuttosto di «puntare sul turismo sostenibile» per rilanciare l’economia locale, ha raggiunto ormai la quota di 10 mila firme. Tutto questo, aggiunto alla minaccia del Prc di uscire dalla giunta di Massimo Cialente, ha convinto i «pro» a trattare con i «contro».

L’accordo raggiunto, con la mediazione del vicepresidente della Regione Giovanni Lolli, prevede innanzitutto l’impegno del centrosinistra a mantenere immutati i confini del parco e dei suoi vincoli, con buona pace dei «falchi no Sic». Comune e Regione finanzieranno inoltre, con una parte dei fondi destinati alla ricostruzione post terremoto, una serie di interventi di rinaturalizzazione del territorio e di promozione di una vera cultura montana nella comunità aquilana. Dove, a dire il vero, colate di cemento e mega opere sono quasi sempre state, nell’accezione comune, sinonimo di sviluppo.

E così, al posto di impianti di risalita inutili (quelli esistenti funzionano al massimo 40 giorni l’anno e nel Piano d’area sono previsti alcuni che dovrebbero arrivare solo a quota 1.400 metri. Ma anche in Trentino, se non fosse per gli aiuti regionali, molti impianti avrebbero già chiuso per fallimento) si è deciso di ristrutturare i rifugi ad alta quota e quelli pastorali abbandonati, ammodernare le strutture turistiche esistenti, smantellare i vecchi impianti in disuso, realizzare e sistemare una rete articolata di sentieri per escursioni giornaliere e trekking di lunga durata, anche su terreno innevato.

Per un piano d’area molto più ambizioso di quello supportato dai maestri di sci locali: far riconoscere dall’Unesco il Gran Sasso come Patrimonio mondiale dell’umanità.

Truffa alla democrazia, onestà, buonsenso e patrimonio comune. «La legge di stabilità torna ad autorizzare le perforazioni, scavalcando i quesiti referendari con aggiunte e abrogazioni subdole». Il manifesto, 18 dicembre 2015

«Un autentico inganno. Gli emendamenti presentati dal governo alla legge di Stabilità 2016 ricalcano solo apparentemente i quesiti referendari. Essi, tra abrogazioni e aggiunte normative, mimetizzano e mascherano, in modo subdolo, il rilancio delle attività petrolifere in terraferma e in mare e persino entro le 12 miglia dalla costa». Il movimento No triv torna così all’attacco di Renzi, accusato di “barare”. E boccia le modifiche proposte dal suo esecutivo in materia di ricerca ed estrazione del petrolio. «I passaggi normativi del disegno governativo — scrivono in un documento i No triv — sono riassunti nell’abolizione del “Piano delle aree” (strumento di razionalizzazione delle attività oil & gas) e nella previsione di far salvi tutti i procedimenti collegati a “titoli abilitativi già rilasciati” — all’entrata in vigore della legge di Stabilità — “per la durata di vita utile del giacimento”».

Un mix esplosivo, che avrebbe effetti devastanti sul futuro dei mari italiani, dato che «l’obiettivo principale del governo è mantenere in vita e a tempo indeterminato tutti i procedimenti attualmente in corso entro le 12 miglia» dalle spiagge. «La soppressione del “Piano delle aree” — viene aggiunto — costituisce, poi, il vero “cavallo di Troia” del governo»: il coordinamento nazionale No triv lo aveva già evidenziato, formulando per l’occasione alcuni sub-emendamenti volti a correggere le proposte del premier e dei suoi fedelissimi.

Emendamenti che, però, sono stati bocciati alla Camera dei deputati, in commissione Bilancio. «Nulla è negoziabile rispetto all’obiettivo dei quesiti referendari – si fa ancora presente — non lo è il “Piano delle aree”, in quanto mezzo di controllo degli interventi di ricerca ed estrazione degli idrocarburi; non lo è lo sfruttamento a tempo illimitato dei giacimenti; non lo è la possibilità che i procedimenti entro le 12 miglia marine siano solo sospesi e non chiusi definitivamente; non lo è neppure l’istituzione di un doppio regime di titoli (permessi di ricerca e concessioni di coltivazione/titoli concessori unici) che consentono alle società del greggio di scegliere a proprio piacimento, a propria discrezione, in che modo muoversi nel nostro Paese».

«Da rilevare — dichiara il costituzionalista Enzo Di Salvatore, autore dei 6 quesiti del referendum avviato da dieci Regioni — l’assoluta incoerenza del governo. Prima l’ermetica chiusura verso queste problematiche e, dopo il via libera della Cassazione al referendum, il 28 novembre scorso, l’idea di aprire una trattativa sulle norme oggetto della consultazione popolare. Quindi la solita furbata… Ma il referendum non è nella disponibilità di alcuno».

Il coordinamento nazionale No triv evidenzia: «Delle due l’una: o con le modifiche si accolgono tutti i quesiti referendari senza tradirne lo spirito o si va alle urne. Nessuno è autorizzato a mediare rispetto a questa alternativa, cercando un punto di incontro e accontentando, con un compromesso al ribasso, le Regioni e i loro delegati, attraverso la facile promessa di un maggiore loro coinvolgimento nelle scelte che in materia lo Stato effettuerà d’ora in avanti. Una promessa del tutto evanescente, destinata ad essere tradita dopo le elezioni amministrative del prossimo anno e dopo il referendum sulla revisione costituzionale, che come noto, riconduce nelle mani esclusive dello Stato ogni scelta in materia di energia. Gli emendamenti del governo costituiscono, quindi, un autentico atto di sabotaggio e uno schiaffo alla democrazia. Per questo chiediamo agli amministratori pubblici e ai cittadini che hanno a cuore il proprio territorio di percorrere assieme a noi e fino in fondo la strada referendaria». Una sfida rilanciata con determinazione, per impedire che molte aree dello Stivale vengano ulteriormente inquinate e impoverite.

L’Italia, rinomata per la bellezza del proprio paesaggio, vive il paradosso di essere prima al mondo per biodiversità, con 7 mila differenti specie vegetali e 58 mila animali, con 140 diversi tipi di grano e 1.800 vigneti spontanei e di racchiudere, al contempo, attività impattanti che scaricano costi sui bilanci di imprese e famiglie per oltre 48 miliardi di euro l’anno (oltre il 3% del Pil).

Emendamento “mascalzone” quello per l’aeroporto di Firenze: , ma forse è meglio definirlo “criminale”. Si tratta ... (continua la lettura)

Emendamento “mascalzone” quello per l’aeroporto di Firenze: ma forse è meglio definirlo “criminale”. Si tratta di un emendamento presentato dai relatori della Legge di Stabilità, Melilli (Pd) e Tancredi (Ncd), volto a spianare la strada al progetto del nuovo aeroporto di Firenze. Mascalzone, perché manipolare le leggi per favorire un progetto o un intervento in corso, cambiare le regole durante il gioco, è profondamente antidemocratico. “Criminale”, perché qui non si tratta di una bretella stradale o di una linea ferroviaria (ciò che sarebbe già grave); qui si tratta di un aeroporto situato a tre chilometri dal centro di Firenze, in una zona densamente popolata, ad alto rischio idraulico, dove è insediato il polo scientifico universitario e dove si vuole costruire un nuovo inceneritore il cui inquinamento si sommerà a quello dell’aeroporto; e dove sono presenti centri commerciali, autostrade, linee ferroviarie e ogni sorta di infrastrutture. Un progetto che secondo l’Università di Firenze non valuta adeguatamente il rischio di catastrofe aerea: si gioca con la vita delle persone.

Cosa contienel’emendamento? Una norma retroattiva, valida per tutti gli aeroporti, ma cucitaper quello fiorentino, per cui “i piani di sviluppo aeroportuale degliaeroporti finanziati o cofinanziati dallo Stato, considerati aeroporti diinteresse nazionale, sono redatti, anche ai fini della Valutazione di ImpattoAmbientale, con il grado di definizione degli interventi previsto a carico delsoggetto proponente (e non più sul progetto definitivo come prescrive la Legge152/2006 vigente)”. Si applica, cioè, surrettiziamente la criminogena “LeggeObbiettivo” e di fatto si svuota la Via, perché condotta su uno studioapprossimativo, incompleto e sviluppato a piacere del proponente. Ma non basta:per sbarazzarsi del fastidio di dovere decidere come e dove trattare 3 milionidi tonnellate di terre inquinate, il piano di smaltimento delle terre di scavoviene sottratto alla Via e rimandato a una qualche fase successiva. Infine, ilparere favorevole della Regione, (bypassando la Conferenza di servizi) “comprendee assorbe a tutti gli effetti la verifica di conformità urbanistica epaesaggistica delle singole opere inserite negli stessi piani, e comportavariante di tutti gli strumenti della pianificazione territoriale, urbanisticae paesaggistica comunque denominati e da qualunque ente approvati”. Emendamentopalesemente anticostituzionale, ma cosa importa; l’importante è piazzare ilcolpo, poi con la Consulta si vedrà (tra qualche anno).

L’emendamentoè stato ritirato nell’arco di dodici ore per le combattive opposizioni parlamentarie per la mobilitazione contraria di associazioni ambientaliste eamministrazioni locali, cui si si sono aggiunti alcuni esponenti del Pd eperfino il sindacato Cgil. Un ritiro che non è dato di sapere se dipenda dalla pessimaqualità giuridica dell’emendamento o dal fatto che lo si voglia ripresentare,magari in forme meno eversive, in qualche ‘veicolo’ più veloce della Legge diStabilità.
Rimanetuttavia un fatto che non può essere cancellato da un ripensamento non si saquanto convinto: l’attuale governo (perché non si può pensare a un’iniziativanon programmata, per quanto mal condotta) supera di gran lunga per spregiudicatezzae favoreggiamento degli interessi privati quello di Berlusconi.

Con un’ultimanotazione: il giornale La Repubblica, nell’edizione fiorentina fin dall’inizioschierato senza se e senza ma a favore dell’aeroporto, ha ripetutamente argomentatoa favore dell’emendamento con la motivazione che, in fondo, questo traduceva inlegge una “prassi consolidata”; attestando così che dal 2008 ad oggi i progettidegli aeroporti sono stati approvati in violazione della legge tuttora vigente.In attesa, seguendo questa linea di ragionamento, di un emendamento che legalizzila compravendita e la corruzione politica. Per prassi consolidata.

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I partecipanti alla conferenza sul clima di Parigi hanno concluso i lavori con un accordo per limitare il riscaldamento globale. Hanno parlato di quanti gradi potrà aumentare la temperatura media del pianeta entro qualche improbabile data del futuro e soprattutto di tanti soldi, chi li deve spendere e chi li prenderà. Fra i tanti argomenti poco spazio ha ricevuto il rapporto fra cibo e clima, un rapporto bivalente. Il cibo ha come unica fonte l’agricoltura che produce i vegetali per fotosintesi utilizzando l’anidride carbonica dell’atmosfera, il principale fra i “gas serra” responsabili delle modificazioni climatiche; l’agricoltura opera, quindi, come depuratore di parte dei gas emessi dai camini e dalle automobili. La biomassa di prodotti agricoli adatti, direttamente o indirettamente, all’alimentazione umana nel mondo è dell’ordine di dieci miliardi di tonnellate all’anno.

Intanto va chiarito che ci sono due modi di accedere al cibo; gli alimenti che ci sono familiari, la pasta, la carne, i formaggi, i grassi, la verdura che acquistiamo nei negozi, sono stati ottenuti da una agricoltura industrializzata che fornisce prodotti agricoli in grande quantità, di elevata qualità e a basso prezzo con impiego di energia ricavata da combustibili fossili e con conseguente liberazione nell’atmosfera di gas serra in quantità molto maggiore di quella eliminata dalla fotosintesi dei vegetali. L’agricoltura industrializzata impiega macchinari che richiedono energia nella fabbricazione e nell’uso; concimi ottenuti per sintesi con consumo di energia e liberazione di gas serra, e che si trasformano nel terreno liberando altri gas serra come ossidi di azoto; occorrono poi navi e treni e camion (e energia) per il trasporto dei raccolti dai campi alle industrie di trasformazione e la produzione degli alimenti finali richiede processi di conservazione, trasformazione, inscatolamento, distribuzione, tutte operazioni che richiedono energia. La carne e i latticini e le uova, con le loro proteine di elevata qualità nutritiva, sono ottenuti da animali che sono stati nutriti con una parte dei prodotti vegetali e, durante la loro vita, tali animali hanno prodotto altri gas serra, alcuni, come metano, nella loro digestione, altri liberati dalla decomposizione degli escrementi.

Non solo; molti prodotti agricoli pregiati possono essere ottenuti soltanto con monocolture e pascoli che richiedono crescenti spazi che vengono recuperati, soprattutto nei paesi più poveri, distruggendo le foreste spontanee che sono uno dei sistemi naturali per eliminare dall’atmosfera una parte dei gas serra. E ancora: le modificazioni della superficie terrestre alterano anche loro lo scambio di energia fra la Terra e il Sole, con conseguente aumento della temperatura dei continenti. Insomma l’agricoltura industrializzata, capace di assicurare a circa un terzo dei terrestri, abitanti nei paesi economicamente più avanzati, cibo di buona qualità e abbondante, contribuisce anch’essa, insieme ai trasporti e alle industrie e alle centrali, al riscaldamento del pianeta e ai mutamenti climatici; tali cambiamenti provocano, in alcune zone, piogge improvvise che allagano i campi coltivati, in altre zone siccità, in altre ancora alterazioni dei cicli biologici naturali che favoriscono la diffusione di parassiti sempre più difficili da combattere: il tutto con perdita di preziosi raccolti. Insomma se si assicura più cibo per alcuni, si compromette la disponibilità di cibo per loro stessi e per tutti, in una reazione a catena.

Gli altri due terzi degli abitanti della Terra sono i poveri dei paesi avanzati, e i poveri dei paesi emergenti come India, Cile, Brasile, e i poveri e poverissimi dei paesi che chiamiamo “arretrati”, in Asia, Africa, America meridionale; questi poveri ricavano cibo da una agricoltura contadina che soddisfa il fabbisogno locale senza alimenti in scatola o esotici, spesso con raccolti scarsi e con alimenti meno nutritivi. Questi abitanti della Terra non contribuiscono praticamente alle modificazioni climatiche ma sono i primi a subirne i danni nella maniera più grave. Le tempeste tropicali spazzano via i raccolti dei loro miseri campi, la siccità inaridisce i campi e li trasforma in terre sterili. Mentre, quindi, un terzo dei terrestri è danneggiato dai cambiamenti climatici provocati dal progresso e dal benessere della “civiltà”, avendo in cambio almeno un cibo abbondante e adeguato, gli altri due terzi, esclusi dalla “civiltà” industriale e merceologica, hanno soltanto dei danni e diventano ancora più poveri.

Alcuni mesi fa numerosi studiosi si sono riuniti a Brescia, su iniziativa del Museo dell’Industria e del Lavoro MusIL e della Fondazione Micheletti, per discutere sul futuro dell’agricoltura e hanno analizzato i caratteri delle varie agricolture (gli atti sono raccolti nel volume Le tre agricolture, pubblicato da Jacabook). L’agricoltura contadina è quella più esposta ai danni dei cambiamenti climatici; quella industriale assicura maggiori quantità di cibo ed è causa e vittima, nello stesso tempo del riscaldamento planetario. La produzione di cibi “biologici” senza concimi e pesticidi, la diffusione dell’uso di prodotti agricoli locali “a chilometri zero”, sono alcune possibili soluzioni. Ma la salvezza per i nove miliardi di persone che abiteranno la Terra nella metà di questo secolo è possibile soltanto con una “terza agricoltura ecologica” che recuperi un rapporto fra coltivatori e consumatori riconoscendo la centralità della “terra”, in grado di assicurare cibo alla crescente popolazione in armonia con i cicli e le leggi della natura. E, come diceva Bacone, la natura soddisfa i bisogni umani solo se le si ubbidisce.

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Ci sono analisi settoriali che svelano molte più cose di profondità sistemica che non tante indagini di portata programmaticamente generale. E' questo il caso del libro di Walter Tocci, La scuola, le api e le formiche. Come salvare l'educazione dalle ossessioni normative, Donzelli 2015, che è' molto più di una tagliente analisi della scuola italiana nel nostro tempo. Senza forzare molto le cose si potrebbe dire che è una diagnosi della società italiana e al tempo stesso una spiegazione etiologica del suo conclamato declino attraverso le politiche della formazione. L'autore, infatti, prende in esame i tentativi di riforma degli ultimi anni, i suoi impatti sulla scuola, ma ha il grande merito di non rimanere dentro questo recinto, di scorgere le origini dei problemi in dinamiche più generali, sotto il cui influsso l'Italia indietreggia a grandi passi, chiudendosi in un processo di autoemarginazione di cui non si vede la fine.

La situazione della scuola italiana e il livello culturale dell'intero paese sono il risultato di processi economici e sociali molteplici, e al tempo stesso il frutto di scelte, di assecondamento, da parte delle classi dirigenti e del ceto politico, di convinzioni ideologiche dominanti. Si pensi alla diffusione del mito della società della conoscenza. «Dagli anni novanta - ricorda Tocci - si è diffusa una interpretazione rassicurante della modernità riflessiva, come processo auto-generativo della competenza sociale. Si suppone una capacità degli individui e delle istituzioni di cogliere nel cambiamento stesso i saperi necessari per il suo governo. E' il sogno del cittadino razionale che sceglie nel mercato, decide in politica ed è in grado di progettare la propria vita. Innovare sembra come passeggiare in un prato raccogliendo i fiori della conoscenza».
E' da tale visione - illusione, rielaborazione e insieme cascame ideologico della cultura neoliberista, che nasce la politica di intervento “riformatore” sulla scuola degli anni recenti. Un politica tutta orientata a piegare, attraverso dispostivi normativi, le strutture “antiquate” della formazione alla “modernità” rampante della società che avanza. «La scuola - sottolinea Tocci - è sempre in ritardo rispetto a una presunta paideia della modernizzazione. La sua resistenza al cambiamento diventa una colpa rispetto alla società. E può essere mondata solo con le riforme». Senza che gran parte dei riformatori ne abbia piena consapevolezza, tale posizione assume la società plasmata dal cosiddetto libero mercato, le sue intime logiche competitive, come il principio di realtà a cui la formazione scolastica deve adattarsi per poterla più prontamente servire. Non è più la scuola, la comunità scientifica ed educativa dello Stato-nazione che progetta le linee di formazione delle nuove generazioni, sulla base della sua storia e dei bisogni conoscitivi e culturali dell'epoca, ma è la società di mercato che tenta di trascinare le istituzioni nel vortice delle sue imperiose dinamiche.

Da ciò discende l'emarginazione sempre più dispiegata della cultura umanistica, poco utile ai bisogni economici del momento, l'insistenza ossessiva sulla valutazione e sui suoi criteri, piegati a logiche sempre più attente ai risultati quantitativi immediati, piuttosto che al processo evolutivo dei ragazzi. Il fine della scuola è sempre meno quello di formare spiritualmente e civilmente i cittadini italiani, di dotarli di un patrimonio cognitivo e culturale per la futura navigazione in una società complessa, ma di renderli più pronti alle esigenze del mercato del lavoro. Questo spiega l'ossessione normativa con cui i governi sono intervenuti negli ultimi decenni in tale ambito, senza alcuna ambizione di innalzare la qualità dei processi formativi, di innovare i metodi e i modi dell'insegnamento, di attingere alle novità dei saperi contemporanei, oggi impegnati in uno straordinario sforzo di cooperazione interdisciplinare. Una tendenza a cui si è accompagnata la nessuna cura per le sorti di chi “non eccelle”, dei ragazzi provenienti da famiglie modeste, che sempre più numerosi ripercorrono il destino sociale dei padri, entro un meccanismo di mobilità sociale bloccato, riproduttore di disuguaglianze sociali oltre che territoriali.

Indagini recenti - ricorda Tocci - mostrano che nel nostro paese poco meno di un terzo della popolazione attiva possiede le competenze necessarie per interagire consapevolmente nella società del XXI secolo. Da noi, tale incapacità, fondativa di una piena cittadinanza, riguarda il 70% dei cittadini tra i 16 e i 65 anni. Una cifra impressionante - che ci colloca agli ultimi posti, insieme alla Spagna, nelle statistiche OCSE - composta da dati articolati in altre cifre edificanti: il 6% di analfabeti primari; il 22 % di analfabeti di ritorno (quelli che perdono negli anni le poche competenze apprese a scuola); il 42% di analfabeti funzionali, di coloro, cioè che pur essendo in grado di leggere un testo non riescono a padroneggiarne il significato.

Un quadro allarmante che avrebbe dovuto essere posto al centro della riflessione delle classi dirigenti italiane, quale fuoco strategico decisivo su cui intervenire per invertire il corso accelerato del declino nazionale. E che invece non trova attenzione se non per qualche giorno sui nostri media, figuriamoci nell'agenda politica di governo. Tocci racconta che nel 2014, quando i giornali pubblicarono i risultati dell'indagine Piaac-Ocse, di fronte all'enormità dei dati, il governo Letta decise di nominare una commissione, presieduta da Tullio De Mauro, per studiare i rimedi. Giusto un gesto di buona volontà. Inutile rammentare che il governo Renzi, l'ha messa da parte, realizzando il progetto risolutivo a tutti noto come “Buona scuola”: sigillo definitivo di questo esecutivo sulla propria radicale inadeguatezza ad affrontare i problemi fondamentali del Paese.

Significativamente poche voci critiche si son levate dal mondo imprenditoriale e professionale, dal giornalismo, dai gruppi intellettuali, e non per caso. I livelli di istruzione delle nostre classi dirigenti sono fra i più bassi d'Europa: il 31% di laureati contro la maggioranza assoluta in Germania, Regno Unito e Francia, accompagnati da un sontuoso 26% di individui col solo titolo elementare. A fronte di dati a una sola cifra negli altri paesi.

Tali numeri sono decisivi per comprendere come si configura il sistema-Italia e il carattere perverso del suo avvitarsi verso il basso. Tocci lo mostra con nitore espositivo e argomentazioni inoppugnabili. Una classe imprenditoriale fra le più incolte del Continente investe in ricerca meno di quanto faccia lo stato - caso unico in Europa - che già di suo investe meno di tutti gli altri. Il sistema produttivo avanza una domanda modesta di innovazione tecnologica e si accontenta di una percentuale annuale di laureati che è la metà di quella europea. Sicché non stupisce come nel nostro Paese sia stato politicamente così agevole, ai vari governi, praticare i tagli lineari alla scuola e all'Università degli ultimi anni. Così come non stupisce lo spreco delle competenze e dei saperi dei nostri laureati e ricercatori, della nostra gioventù studiosa di cui l'intero sistema paese, fondato sullo sfruttamento intensivo della forza lavoro, non sa che fare. Come non vedere allora che scuola e Università sono le leve strategiche per invertire la china e che solo un grande progetto politico può metterle in moto?

Ogni giorno in ogni città d’Italia avvengono operazioni immobiliari sul patrimonio pubblico che costituiscono rapine ai danni dei cittadini italiani. Mi viene in mente …(continua la lettura)

Ogni giorno in ogni città d’Italia avvengono operazioni immobiliari sul patrimonio pubblico che costituiscono rapine ai danni dei cittadini italiani. Mi viene in mente in mente una filastrocca degli anni 60:

Prima classe, il passeggero è un miliardario forestiero.
Italia bella, io comperare. Quanti dollari costare?
Ma il ferroviere, pronto e cortese:
Noi non vendiamo il nostro Paese

È una delle Filastrocche in cielo e in terra di Gianni Rodari. Altri tempi, altre fiabe. Ora il nostro Paese è stato ampiamente svenduto, assieme al ferroviere cortese, ma i mezzi di propaganda del potere ci esortano a fare di più. Così, mentre ogni giorno il bollettino delle svendite si allunga con nuovi elenchi di palazzi e stazioni, caserme e scuole, ospedali e prigioni, musei e fari, isole e parchi, che vengono sottratti ai cittadini per essere trasformati in albergo o attrazione turistica e ceduti agli investitori immobiliari, alcuni intellettuali in servizio di complemento si adoperano per convincerci che “la nostra eccellenza sta nella cultura/turismo”… il “turismo è la nuova industria mondiale”.

Di questa pattuglia fa parte Lorenzo Salvia che, con il suo libro Resort Italia, sottotitolo Come diventare il villaggio turistico del mondo e uscire dalla crisi, pubblicato da Marsilio, casa editrice della famiglia De Michelis, intende spiegarci che “il turismo è la salvezza dell’Italia”.

A questo scopo, dalla prima all’ultima riga, ci martella con affermazioni perentorie: «dobbiamo renderci conto che la nuova divisione globale del lavoro impone che ogni paese si debba specializzare in qualcosa, per noi è il turismo» … «il turismo è l’unica industria italiana a prova di Cina e delocalizzazione»… «il turismo è il migliore degli export possibili». In realtà, vari episodi, come la recente cessione da parte della Cassa Depositi e Prestiti degli edifici della Zecca e del Poligrafico di Roma ad investitori cinesi, dimostrerebbero il contrario, ma Salvia non ha dubbi sulla validità della lista di quelle che considera le «occasioni perse» e delle proposte per il futuro.

Tra gli errori del passato, segnala il «non aver fatto Disneyland a Bagnoli, non aver trasformato la Sardegna nei Caraibi d’Europa, non aver costruito sufficienti campi da golf in Sicilia». Ogni singola vicenda viene liquidata con poche battute. Per quanto riguarda la Sicilia, ad esempio, Salvia si/ci chiede «è più intelligente, verrebbe da dire di sinistra, aprire in Sicilia un campo da golf che attirerebbe turisti americani e cinesi oppure tenere in piedi per anni la cassa integrazione della Fiat di Termini Imerese?». Oltre che il discutibile modo di presentare le due scelte, come fossero alternative, colpisce il disinteresse dell’autore per il fatto che un campo da golf consuma in media 2000 metri cubi d’acqua a giorno, l’equivalente di un paese di 8000 persone.

Che preoccupazioni ambientali e sociali non rientrino nelle sue priorità emerge ancor più chiaramente dalle proposte per il futuro, per la cui realizzazione, ci ammonisce, bisogna innanzitutto «liberarsi della retorica del bene comune e della maledizione dei coccetti, a causa della quale il solito reperto che spunta fuori dagli scavi… blocca un cantiere per anni». Tra le misure operative compare, ovviamente, «la concessione ai privati di alcuni monumenti» che potrebbe dare allo stato le risorse per «investire in un grande progetto di restauro, magari installandovi una scultura moderna, di cento piazze”, che rappresentano “quel misto di composizione scenografica e centro della vita quotidiana cosi tipico del nostro paese e cosi apprezzato all’estero”. Salvia suggerisce anche di mettere negli aeroporti e nelle stazioni qualche pezzo dei musei locali e renderli visibili subito dopo il check in, «sarebbe il modo migliore per dare il benvenuto a chi arriva nel paese della cultura e dell’arte». Per quanto riguarda le città in genere, poi, raccomanda di considerarle come «i capannoni della nuova industria» e di «fare come a Londra dove i vecchi quartieri operai grazie agli investimenti privati attirano persone nuove».

Molte altre perle di saggezza vengono sciorinate nel volume, inclusa l’idea di portare l’alta velocità in Sicilia, dopo di che, «si potrebbe ripensare al ponte sullo stretto come infrastruttura strategica e come attrazione turistica». Il capitolo dedicato a Roma è incentrato sull’idea di trasformare il lungo Tevere in uno «waterfront del divertimento», costruire un collegamento via acqua con le spiagge, consentendo così di «cominciare a prendere il sole appena saliti a bordo», e creare una Disneyland ispirata all’antica Roma a Ostia. Sembra di rivedere la scena del film Suburra nella quale il boss Samurai annuncia a Numero 8 che Ostia diventerà il waterfront di Roma. «Pensa», gli dice, «prova a pensare. Sforzati di elevarti dal marciapiede». Ma Numero 8 non capisce. «Uoter de che?» chiede e Samurai deve spiegargli: «casinò, alberghi, ristoranti, palestre, yacht, negozi. Questo significa waterfront, sottocorticale che non sei altro».

Forse “sottocorticali” siamo anche noi che non abbiamo ancora capito che dobbiamo «riconvertire al turismo tutta la nostra economia dalla scuola agli uffici pubblici, dagli aeroporti al cinema». Nessun settore e nessuna attività, infatti, sfugge all’afflato riformatore di Salvia, la cui visione della scuola e della sua utilità sembra uscire dalla bocca del ministro Poletti/Crozza. Così, per darci la prova dello scollamento tra istruzione e mondo del lavoro, ci informa che il mestiere che ha avuto l’aumento maggiore di addetti è «l’istruttore di ginnastica da spiaggia, il cui numero dal 2008 a oggi è cresciuto di 3360 volte».

Il libro è stato recensito con entusiasmo sulla stampa nazionale. Tra gli altri, Gian Antonio Stella gli ha dedicato un pezzo dal titolo “Bell’Italia delle occasioni perse”. A tratti è una lettura godibile. Purtroppo, però, molte di quelle che sembrano battute di spirito riproducono esattamente i programmi e le azioni dei governi nazionali e delle amministrazioni locali che fanno o procacciano affari grazie al Resort Italia, programmi e azioni che possono far rimpiangere perfino il gerarca fascista Achille Starace quando dichiarava «non permetteremo che facciate dell’Italia un paese di albergatori e camerieri».

Riferimenti:
Sulla mercificazione della «città antica attuata tramite la svendita del patrimonio edilizio pubblico e l’abdicazione al controllo della trasformazione di quello privato» si veda di Ilaria Agostini Firenze. Città merce o città felice?. Su quel che accade a Venezia la cronaca di Enrico Tantucci Tris di palazzi in vendita a Cassa depositi e prestiti

Anche a Venezia la CDP continua l'acquisizione di immobili per "valorizzare"il patrimonio pubblico per farne in gran parte alberghi. E' improbabile l'interesse pubblico di queste speculazioni rese possibili con il risparmio postale di milioni di italiani. La Nuova Venezia, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)

Continua in città lo «shopping» immobiliare di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) in città e questa volta con un «tris» di edifici comunali che saranno ceduti entro l’anno. La Cdp Investimenti è infatti tornata alla carica per Palazzo Diedo e Palazzo Gradenigo, per i quali aveva già trattato con il commissario straordinario Vittorio Zappalorto, che aveva ritenuto l’offerta complessiva di 16 milioni e 900 mila euro per i due palazzi troppo bassa, rinunciando alla vendita. Ora l’offerta per i due palazzi è salita a 20 milioni di euro complessivi e il Comune è pronto ad accettare, tanto da aver già inserito i due immobili nel piano delle alienazioni approvato il 19 novembre.

Per Palazzo Diedo, ex sede della procura della Pretura, c’è già il cambio di destinazione d’uso e il permesso di costruire appena approvato, secondo un progetto già presentato da EstCapital quando il palazzo faceva ancora parte del Fondo Immobiliare Città di Venezia da cui poi è stato sganciato. Un progetto che prevede la creazione di servizi igienici e magazzini al piano terra, funzionali al ristorante che si prevede di realizzare al piano ammezzato dell’edificio, mentre il primo e secondo piano saranno riservati a negozi e l’ultimo piano a due appartamenti. Ma a Palazzo Diedo e a Palazzo Gradenigo si aggiunge un terzo edificio comunale che sarebbe ceduto alla Cassa Depositi e Prestiti, che l’ha richiesto: è Palazzo Donà, in Campo Santa Maria Formosa, attuale sede della Direzione Politiche sociali, partecipative e dell’accoglienza e del servizio sociale della Municipalità, oltre che dell’archivio della Procura della Repubblica. Il Comune è pronto a cedere Palazzo Donà e a spostare in altre sedi gli uffici che ospita.
Sbarcata negli ultimi anni in laguna, la società del Ministero dell'Economia sta conducendo una serie di operazioni immobiliari mirate. Si è cominciato con l'acquisto dal Comune dell'ex Ospedale al Mare del Lido. Poi è toccato al fabbricato delle ex Carceri di San Severo a Castello, costruite dagli Austriaci all'inizio dell'Ottocento, anch'esso acquisito dalla Cassa che - con il suo Fondo strategico italiano - ha stipulato un accordo di investimento con il Gruppo Rocco Forte Hotels, che prevede l'ingresso del Fondo nel capitale del gruppo alberghiero inglese guidato dall'imprenditore di origine italiana, per un piano si sviluppo incentrato sull'Italia, di cui proprio Venezia dovrebbe essere uno dei capisaldi. Un altro immobile su cui la Cassa pensa di investire sarebbe l'isola di Sant'Angelo delle Polveri, lungo il canale Contorta-Sant'Angelo, che ha acquistato lo scorso anno. La Cassa ha acquistato anche l'ex Casotto Capogruppo di San Pietro in Volta e ha messo le mani anche sull'isola di San Giacomo in Paludo. Ha acquistato a prezzo di saldo dalla Regione il settecentesco Palazzo Manfrin sul rio di Cannaregio (stimato 16 milioni e mezzo di euro e venduto a 10).
Riferimenti
A Firenze come in tante altre città succede lo stesso: di Ilaria Agostini Firenze. Città merce o città felice?

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sui mutamenti climatici, responsabili di alluvioni, frane, allagamento delle città, avanzate dei deserti e fusione dei ghiacci. Finita la sfilata iniziale dei potenti della Terra, resta il lavoro di funzionari dei vari governi che cercano di inventare un qualche sistema per attenuare i danni del riscaldamento del pianeta diminuendo le emissioni nell’atmosfera dei “gas serra” che si formano nella combustione dei combustibili fossili: carbone, petrolio, metano. E’ questione di soldi: i paesi ricchi vorrebbero limitare i danni dei mutamenti climatici senza rinunciare alla crescita economica che è possibile soltanto con la produzione di sempre nuovi oggetti e macchine e abitazioni, cioè con crescenti consumi di energia e emissioni di “gas serra”; altri paesi, quelli poveri, chiedono che non vengano imposti limiti ai consumi di energia necessari per uscire dallo stato di miseria e sottosviluppo o che almeno siano previsti compensi per i loro sacrifici. In questo scontro di interessi, quelli della difesa dell’ambiente e quelli dei soldi, circola un movimento di “scienziati” e opinionisti che negano che il riscaldamento globale e i conseguenti mutamenti climatici siano dovuti alla produzione e al consumo, alle attività umane e merceologiche.

Alcuni negazionisti, che suppongo in buona fede, cercano degli errori scientifici nella descrizione delle cause dei mutamenti climatici elaborata dalla maggior parte dei loro colleghi; altri sono scrittori pagati dalle grandi forze economiche per ridicolizzare o negare proposte che potrebbero danneggiare i loro affari.

Tanto per cominciare i negazionisti sostengono che non c’è nessun cambiamento climatico significativo: estati calde e inverni freddi ci sono sempre stati anche in tempi recenti, nel secolo scorso o nell’Ottocento; per non andare poi a più lontani periodi in cui i ghiacciai avanzavano o diminuivano anche in Europa. Comunque, se effettivamente ci sono dei mutamenti, se è vero che c’è un lento, piccolo, continuo aumento della temperatura del pianeta e in particolare delle acque oceaniche, e che tale aumento provoca una parziale fusione dei ghiacci e fa aumentare il livello delle acque oceaniche e la frequenza delle tempeste tropicali e l’estensione delle zone aride e desertiche, tutto questo, secondo i negazionisti, non dipende dai gas emessi dalle automobili o dai camini delle centrali elettriche e delle industrie e solo la crescita economica e dei consumi può mettervi rimedio. Alcuni negazionisti, che pur ammettono l’esistenza di un riscaldamento planetario, lo attribuiscono ad innocui cambiamenti dell’attività solare; altri pensano che se aumenta la concentrazione nell’atmosfera dell’anidride carbonica, il principale dei “gas serra”, ne verrà un beneficio per l’agricoltura perché aumenteranno le rese dei raccolti.

Per diminuire le emissioni di “gas serra” i combustibili fossili possono essere sostituiti con altre fonti di energia, quelle rinnovabili e non inquinanti fornite dal Sole: elettricità ottenuta con pannelli fotovoltaici o con motori eolici, calore dalla combustione delle biomasse, cioè dei prodotti e sottoprodotti agricoli e forestali che ritornano sempre disponibili ogni anno con la fotosintesi. Alcuni zelanti negazionisti spiegano che non si può avere una società moderna con pannelli solari o con le forze del vento che forniscono elettricità soltanto in maniera intermittente e variabile a seconda delle stagioni, quindi ben diversa e più costosa di quella prodotta col carbone, col petrolio o col metano. Secondo i negazionisti, poi, chi propone di usare carburanti derivati dai prodotti agricoli vuole togliere il mais e il cibo dalla bocca degli abitanti dei paesi poveri, pur di fare un dispetto ai petrolieri.

L’amore per i poveri è un tema caro ai negazionisti; secondo loro, se si desse retta a chi, per rallentare un ipotetico riscaldamento globale, vuole diminuire il consumo di energia da combustibili fossili, si andrebbe incontro ad un mondo con meno macchine e servizi e calore e elettricità, ad un rallentamento della crescita economica che colpirebbe maggiormente le classi povere dei paesi industriali e gli abitanti dei paesi più poveri. Anzi alcuni negazionisti del riscaldamento globale fanno credere che nelle trattative per limitare le emissioni di gas dell’atmosfera ci sia un progetto delle classi abbienti per tenere arretrati e soggetti i poveri della Terra. In alternativa altri negazionisti sostengono che la proposta di rallentare i consumi e gli sprechi per limitare il riscaldamento globale è un progetto per realizzare una società mondiale comunista, di persone tutte uguali e parsimoniose. Ah, dimenticavo, ci sono poi quelli che si sono infilati nel dibattito sostenendo che il riscaldamento globale si può evitare conservando un alto livello di consumi se si usa l’energia nucleare che produce elettricità senza emettere gas serra, poco conta se, in compenso, produce scorie che restano radioattive e tossiche per secoli e millenni, da lasciare come condanna alle generazioni future.

Come modesto studioso dei processi di produzione e di consumo vorrei tranquillizzare i lettori che è possibile rallentare il peggioramento del clima conservando civiltà e benessere, con innovazioni tecniche e nuovo lavoro: una bella sfida per le giovani generazioni. A condizione però, questo sì, di una maggiore equità nella distribuzione dei beni materiali in modo da diminuire gli sprechi e migliorare le condizioni di chi oggi ha così poco. Una società meno ineguale è la premessa anche per sradicare la violenza.

L'articolo é stato inviato contemporaneamente a
La Gazzetta del Mezzogiorno-

Fa un grande effetto leggere la lista di beni pubblici che stanno per essere venduti. A Firenze come in tante altre città. Perunaltracitta.org, 28 novembre 2015

Se si escludono il tunnel TAV, la costruzione del nuovo aeroporto che punta dritto sulla cupola del Brunelleschi, il metrò sotto piazza del Duomo, i parcheggi interrati nel centro antico, la principale emergenza fiorentina resta, senza ombra di dubbio, la mercificazione della città antica attuata tramite la svendita del patrimonio edilizio pubblico e l’abdicazione al controllo della trasformazione di quello privato. Grazie anche a un piano strutturale deprivato a bella posta di una qualsiasi parvenza di significato pianificatorio.

Abbiamo già avuto modo di commentare l’inqualificabile attività del sindaco-agente del real estate quando il “Renzi in sedicesimo” batteva le fiere internazionali della speculazione finanziario-immobiliare per promuovere la vendita di edifici cittadini pubblici e privati. Attività nelle quali – come prevede lo “Sblocca Italia” (art. 26, comma 8) che trasforma gli enti pubblici in agenti immobiliari – il Comune avrà il suo tornaconto economico in percentuale sul prezzo di vendita degli immobili.

Dei 59 immobili elencati nella brochure propagandistica del sindaco, alcuni sono stati venduti. Cominciamo da qui.

Il Teatro Comunale dal luglio 2015 è di proprietà della Nikila Invest che ha acquistato il teatro per circa 25 milioni dalla Cassa depositi e prestiti Spa, la quale a sua volta aveva rilevato l’edificio da Palazzo Vecchio per 23 milioni di euro (molti meno rispetto ai 44,5 milioni di valutazione del 2009): nel 2013, il provvidenziale acquisto, avvenuto poche ore prima della chiusura dei bilanci comunali, permise a Renzi di non sforare il patto di stabilità. Al posto del teatro, 120 appartamenti di lusso («stile Fifth Avenue») a 8.000 euro al mq (di cui sessanta «residenze “servite”, con maggiordomo e assistenza stile hotel»). Il progetto è di Marco Casamonti, architetto dal problematico rapporto con la Magistratura (attualmente condannato in appello nell’ambito dell’inchiesta su Castello).

Il palazzo Vivarelli Colonna (4.400 mq), sede dell’Assessorato alla cultura, ha la stessa sorte. La Cassa depositi e prestiti versa 12 milioni di euro nelle casse di Nardella, «che – scrive il Corriere – potrà così contare su una solida stampella per far tornare il bilancio falcidiato dai tagli statali». La CDP sarebbe ora in trattativa per la vendita ad una società che ha l’obiettivo di realizzarvi un hotel di lusso. Tanto per cambiare.

Mentre questo scritto va in “stampa”, apprendiamo che anche i 2.500 mq di palazzo Demidoff, in via San Niccolò, sono stati venduti dall’Azienda Pubblica di Servizi Montedomini, con un ribasso che si aggira intorno al 40%. L’acquirente, Amarante, ne prevede la «commercializzazione – in vendita o affitto – di altissimo livello».

Tra gli edifici in cerca di un nuovo padrone spicca, per la qualità e la sua vicinanza con Palazzo Vecchio, il convento dei Filippini in piazza San Firenze: l’ ex Tribunale è ceduto per 29 anni – come stabilito da una delibera di giunta del 6 luglio 2015 – alla Fondazione Franco Zeffirelli per un “Centro internazionale di formazione per le arti e dello spettacolo”, «scuola di eccellenza aperta agli studenti di tutto il mondo».

La villa di Rusciano, 5.400 mq, sull’arco collinare a sud della città, oggi sede dell’Assessorato all’ambiente, è una villa rinascimentale brunelleschiana. Il complesso di Rusciano fu donato al Comune nel 1977 con vincolo di assistenza ai giovani, che il Comune, con eccessiva disinvoltura, ha stravolto in turistico-ricettivo. Per l’inosservanza del vincolo, il Cantiere Beni Comuni Q3 ha presentato un esposto alla Magistratura (il parco invece resta pubblico anche grazie alle osservazioni di perUnaltracittà al Ru).

La Manifattura tabacchi (88.687 mq), proprietà Fintecna e CDP, è in vendita con annessa variante adottata nel 2014 malgrado l’opposizione del comitato per la sua tutela. La variante prevede un paio di torri alte 53 metri, in deroga al regolamento edilizio. Merita ricordare in proposito un disarmante processo partecipativo che lasciava alla cittadinanza la scelta tra due torri da 23 piani o tre torri da 17 piani. La variante prevede 700 appartamenti. Il teatro Puccini, attivo sull'area, diventa centro congressi.

Il cosiddetto Palazzo del sonno: 21.000 mq di fronte al polo fieristico della Fortezza, oggi avviato alla ristrutturazione, anche cementizia (e qui si aprirebbe un capitolo che rimandiamo a un’altra occasione). Si tratta di un boccone prelibato per “The Student Hotel”, giovane società olandese che avrebbe inventato l’«ospitalità ibrida»: compresenza di albergo e di residenze per studenti. L’acquisizione dell’edificio sarebbe stata realizzata in collaborazione con Invest in Tuscany, il sito della Regione «che aiuta a investire in Toscana». Architetto: Casamonti.

Ex caserma in costa San Giorgio: dal “Corriere fiorentino” del 5 settembre 2015: «appena arriverà il nulla osta dalla soprintendenza partiranno i cantieri per realizzare un hotel a 5 stelle con 6o camere, centro benessere e un grande parcheggio per gli ospiti. Alfredo Lowenstein, imprenditore americano di origine argentina, vi investirà 40 milioni». Il Lowenstein lo conosciamo già come investitore a Cafaggiòlo. Si servirebbe dell’architetto Casamonti.

Anche il Monte dei Pegni di via Palazzuolo si trasforma in hotel a cinque stelle da 100 camere, grazie a pregresse manovre della giunta Domenici e malgrado gli esposti in Procura di perUnaltracittà. L’immobile da 10.000 metri quadrati, è ora in mano a una società del colosso alberghiero Accor (lo stesso che ha appena aperto l’hotel nell’ex cinema Apollo di via Nazionale). Come indennizzo della concessione del cambio di destinazione d’uso, il Comune riceve 900.000 euro di “compensazione”: la stessa cifra la ricava dall’apertura del negozio di computer in piazza della Repubblica. Si tratta, afferma la stampa, della seconda volta che il Comune «monetizza al massimo la svolta resa possibile grazie alle nuove norme» (cfr. l’art. 25.2.4 delle NTA del RU e la delibera della Giunta comunale n. 127 del 10/05/2013 “Opere di urbanizzazione realizzate dai privati a scomputo degli oneri. Aggiornamento dei criteri e nuovi indirizzi per la stesura di una bozza di convenzione”).

Ci troviamo insomma di fronte alla monetizzazione del cambio di destinazione d’uso (ovvero degli standard urbanistici): tutto può farsi, basta pagare.

Tra le aree in vendita, anche luoghi di lunghe vertenze come il Panificio militare e il Meccanotessile, oggi entrambi “impantanati”: non se conoscono pubblicamente gli sviluppi.

Nel solo centro antico, il patrimonio immobiliare in via di trasformazione è immenso; patrimonio che, osso della società civile e speranza per la sua rifondazione civile, è costituito da edifici i quali anziché essere resi «socialmente disponibili», sono destinati o alla speculazione tout court o ad usi esclusivi pur pubblici (tra cui l’ennesimo museo etc.). Tra i maggiori, in vendita o di imminente passaggio tra enti (ad es. dal Ministero della difesa al Comune), bisogna ricordare almeno:

- l’ex Borsa merci in via Por Santa Maria e l’ex cinema Capitol alla loggia del Grano, che la Camera di Commercio intende vendere con base d’offerta, rispettivamente: 60 e 18,7 milioni di euro con vantaggi particolari nel caso di doppio acquisto... (cfr. “Corriere fiorentino”, 13 novembre 2015);
- in vendita pure l’intero complesso delle Murate (23.500 mq);
- le poste di Michelucci (11.700 mq);
- la Cassa di Risparmio (19.000 mq) all’ombra della cupola del Brunelleschi, valorizzati dalla previsione di un parcheggio interrato (cui si oppone il comitato per Piazza Brunelleschi...). Il complesso è stato comprato dal Tom Barrack – noto per l’investimento in Costa Smeralda – a capo della Colony Capital (Colony Capital: il nome non lascia spazio a dubbi né sulle finalità né sui metodi). Barrack trasformerà l’isolato in nome di: «lusso al posto del trading»;

- Sant’Orsola, di proprietà della Provincia (17.500 mq);
- Palazzo Portinari ex Banca toscana sul Corso (13.000 mq per 44 appartamenti e 47 posti auto interrati);
- la Scuola allievi sottoufficiali nel convento di Santa Maria Novella;
- la Corte d’assise in via Cavour, progettata da Bernardo Buontalenti;
- il Distretto militare nel convento di Santo Spirito;
- l’ex Ospedale militare in via San Gallo (16.200 mq);
- il Tribunale per i minori in via della Scala;
- l’Accademia di Sanità militare in via Tripoli;
- la Scuola di Sanità militare nell’ex convento del Maglio;
- il convento di Monte Oliveto sulla collina di Bellosguardo;
- il Nuovo Conventino;
- la Caserma Cavalli in piazza del Carmine;
- la Dogana in via Valfonda;
- la Caserma Baldissera;
- la Rotonda di Brunelleschi e il contiguo convento;
- il Teatro Nazionale e il Supercinema in via de’ Cerchi-Cimatori;
- il Teatro Niccolini in via Ricasoli;
- il cinema Eolo (per il quale il si ventila l’ipotesi della trasformazione in parcheggio-silos, in pieno centro);
- l’ospedale di San Bonifazio, sede della Questura, messo all’asta da Nardella, ora in veste di presidente della Città metropolitana.

Ultima arrivata in ordine di tempo, la Leopolda: 7,2 milioni di euro, superficie commerciale di 5.200 mq, emblema del nuovo corso politico, ma ora anche del vecchio sistema per far cassa.

L’articolo è la (quasi fedele) trascrizione dell’intervento all’assemblea della ReTe dei comitati per difesa del territorio tenutasi a Firenze il 14 novembre 2015. Ringrazio Maurizio Da Re per l’indispensabile collaborazione

Il Ponte dal titolo “Emigrazione cento anni 26 milioni” ... (continua a leggere)
Il Ponte dal titolo “Emigrazione cento anni 26 milioni”, non tutti sembrarono credere alle cifre pubblicate. L’incipit nell’introduzione del direttore Enzo Enriques Agnoletti anticipava seccamente le verità che i numerosi saggi del volume avrebbero dimostrato e che i politici al governo e i ceti dominanti avrebbero preferito tener nascosta o fingere fosse normale vicenda riguardante l’economia mondiale e tutti i popoli: «dall’unità d’Italia non meno di ventisei milioni d’Italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro paese. È un fenomeno che per vastità, costanza e caratteristiche non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo». Non meno impressionanti i dati presentati nel saggio di Paolo Cinanni, presidente della Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie).
Nel 1971 i nostri concittadini residenti fuori della patria erano oltre 5.200.000, distribuiti in tutti i continenti con fortissima prevalenza di Europa e Americhe. Aggiungendo gli italiani con cittadinanza straniera acquistata dal dopoguerra, 1.200.000, ne consegue che a quella data fuori del nostro paese esistevano circa sei milioni e mezzo di connazionali. Milioni di vite in gioco, miriade di casi angosciosi nella ricerca di lavoro e di casa, impatto frustrante con lingue sconosciute, inenarrabili sfortune personali e famigliari. Per un risultato appena coerente con la speranza cento tradimenti del sogno e accettazione di ogni tipo di sfruttamento pur di lavorare e di abitare, tant’era pura sopravvivenza la vita in patria, e infine tanta volontà di costruire nuova famiglia. Dovremmo definirli, questi emigrati, adottando l’inammissibile invenzione idiomatica attuale, “economici”? Il pugliese Ferdinando Nicola Sacco e il piemontese Bartolomeo Vanzetti, l’uno operaio l’altro pescivendolo, onesti “economici” anarchici approdati negli Stati Uniti vi trovarono la morte sulla sedia elettrica. Oggi, invece, immigrati in Italia e in altri paesi europei, fuggiaschi o “economici” che siano, incontrano la morte in mare o nel carrello di un aereo o nel cassone di un TIR.
Come non commuoversi dinanzi a tante tragedie e non ragionare sulle loro cause? D’altra parte, come dimenticare che una nuova popolazione è riuscita a insediarsi qui, a lavorare, a produrre reddito, a contribuire al bilancio attivo nazionale e a ripianare il preoccupante deficit demografico italiano? Quattro milioni e mezzo di persone. Non abbiamo fatto nulla per sostenerne la vitalità, in primo luogo nella ricerca di abitazioni dignitose. Così accettiamo, esempio noto e crudele, il «modo di abitare» senza casa e persino senza baracca dei raccoglitori di frutta nelle regioni meridionali…Poi sopportiamo i Salvini, i Borghezio, i Maroni… e consistenti gruppi di concittadini organizzati in formazioni fascistoidi, xenofobe e razziste che, oltre a manifestare sentimenti di puro odio, falsificano la realtà sociale per ricavarne consenso; sanno infatti che fuori dei loro movimenti una parte dell’opinione pubblica, incolta e perciò propensa a tener per veri luoghi comuni fritti e rifritti sugli stranieri, si presenta come un campo fertile per seminarvi i loro criminosi principi e le loro eversive proposte politiche.
Eppure, al tempo delle grandi migrazioni interne, mai cessate dal dopoguerra ma di portata eccezionale negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, provenienza prevalente - a parte i vicinati regionali – dal meridione e, all’inizio, anche dal Veneto, destinazione il triangolo industriale, certi comportamenti di istituzioni e di italiani verso italiani potremmo considerarli batteri di una malattia sorta lì, in seguito rimasta latente e riesplosa ai nostri giorni. La realtà e il mito di Piemonte, Lombardia e Liguria, di Torino, Milano e Genova furono richiamo talmente potente da permettere illimitata libertà di sfruttamento in ogni senso del bisogno di lavoro e di abitazione che masse di povera gente sradicata dalle loro terre esprimevano con umiltà e sottomissione. A questo riguardo assumiamo la città di Torino degli undici anni dal 1951 al 1961 (studiata nei corsi di urbanistica insieme ad altri contesti nei primi anni Settanta) come maggiormente rappresentativa, simbolo di un’epoca che per alcuni aspetti e per tutt’altre cause sembra riprodursi oggi in diverse aree del paese, come fosse una contorsione della nostra storia sociale.
Torino simbolo dal momento che ne fu raffigurazione la Fiat, industria-richiamo come nessun’altra per tanti connazionali, anche se non era l’azienda a dare lavoro a tutti: «l’importante era essere vicino al benessere, nella città delle prospettive mirabolanti, lontani dalla fame e dalla miseria» (C. Canteri, Immigrati a Torino, Ed. Avanti, 1964). Il lavoro si trovava per lo più nelle fabbriche che vivevano grazie a essa o nei cantieri edili o in una falsa «cooperativa» di facchinaggio, oppure attraverso diffusi racket delle braccia. Intanto gli immigrati che non fossero piemontesi provenienti dalla campagne o dalle valli (aiutati dai parenti torinesi) dovevano scontrarsi con una legge fascista del ’39 avversa all’urbanesimo che sarà abolita solo nel 1960: per avere un lavoro occorreva possedere una residenza, per ottenere la residenza bisognava avere un lavoro; allora si registravano come lavoratori in proprio, ossia come «soci» di quelle pseudo-cooperative che li avviavano ai posti di una qualsiasi occupazione teoricamente stabile taglieggiandoli pesantemente sul salario. Oggi in Italia, se raggiungere la residenza avendo un recapito non è troppo difficile, purché non la si richieda in comuni amministrati da sindaci leghisti, razzisti, neofascisti e similari, è di fatto impossibile conquistare la cittadinanza.
Non diversa era la condizione degli operai utilizzati all’interno degli stabilimenti di Fiat ma non da questa dipendenti. Erano le organizzazioni a cui il lavoratore «si affiliava», dette «enti di offerta di lavoro», ad appaltare ogni genere di opere che la fabbrica, ormai avviata a una produzione di massa, aveva convenienza a non esercitare in proprio. L’azienda pagava all’”ente” per ogni operaio cifre inferiori anche del 50% agli oneri complessivi sopportati per il dipendente regolare. Cosa fanno oggi le poche fabbriche sopravvissute alla deindustrializzazione del paese se non accettare al loro interno operai estranei all’azienda e ricadenti nel «lavoro somministrato»?
Così la Fiat mentre da un lato propagandava una prospettiva di benessere per tutti da un altro accompagnava minimi spunti riformisti con politiche duramente discriminatorie. A queste apparteneva anche la piaga della raccomandazione al padrone attraverso i parroci, che potevano avviare a un posto fisso gli iscritti ai loro elenchi di partecipanti in qualche modo alla vita della parrocchia. Uno sguardo all’intera città all’inizio degli anni Sessanta rivelava che la condizione professionale degli immigrati era comunque ai livelli più bassi: circa due terzi manovali comuni, 30% ambulanti e artigiani, pochissimi operai specializzati. Eppure molti di loro dopo anni e anni di esperienza non erano più impreparata forza lavoro idonea solo alle prestazioni più mortificanti e magari pericolose.
Discriminati e sfruttati sul lavoro, discriminati sfruttati e ricattati per la casa. Vent’anni di cronache quotidiane mostrarono che Torino non ebbe eguali nella speculazione sulle spalle degli immigrati, nuova popolazione giovane di cui la città aveva pur bisogno per produrre e riprodursi. La classe dirigente torinese le offrì una gamma di possibilità abitative vergognosa: stalle dismesse ai confini del comune con la campagna, soffitte degradate prive di ogni dotazione igienica nel vecchio centro o nei trascurati quartieri operai, cosiddette «case alloggio» invece sudici dormitori in cui si affittava il posto branda, talvolta a rotazione secondo il susseguirsi dei turni lavorativi di otto ore; infine le bidonville da cui le famiglie furono sgombrate con la forza al momento delle celebrazioni del primo centenario dell’unità, per essere cacciate nelle cosiddette «casermette» prima adibite a ricovero dei sinistrati. Nel caso dell’alloggio decente e di un salario sicuro l’affitto ne sottraeva un quarto se proveniente dall’impiego in Fiat ma fino a metà se guadagnato in aziende piccole o comunque subalterne alla grande madre. L’aspirazione dell’immigrato di poter accedere a un alloggio popolare pubblico fu delusa dalla scarsità delle iniziative.
Per parte sua la Fiat mancò colpevolmente al dovere di accompagnare con una coerente politica della casa la scelta di forzare vantaggiosamente per sé l’immigrazione. La necessità, oggi nel paese, di un’estesa attività di edilizia popolare rivolta anche alla domanda dei «nuovi» immigrati è ignorata dalle aziende che hanno sostituito i vecchi istituti pubblici autonomi. In Lombardia, specialmente a Milano, per gran parte del secolo scorso agiva il più qualificato Istituto autonomo per le case popolari (Iacp) che realizzò quartieri spesso di notevole qualità. Il cambio del nome da Iacp ad Aler (Azienda lombarda per l’edilizia residenziale) avvenuto grazie al dominio politico nella Regione di Forza Italia e della Lega mostra lo stravolgimento dei contenuti: non più istituto pubblico ben identificabile ma azienda come altre, non più autonomia ma dipendenza dal potere politico, non più case popolari e precisa destinazione sociale ma pura edilizia residenziale generica dotata di sola identità economica.
Torino nel 1951 contava 700.000 residenti. Bastarono dieci-undici anni per diventare una grande città di oltre un milione di abitanti. Arrivò una nuova popolazione di mezzo milione di persone, mentre l’esodo fu di sole 160.000. Uno sconvolgimento epocale, un sovvertimento del precedente stato demografico. Nonostante le mille difficoltà di accoglimento, di lavoro, di insediamento, insomma di vita urbana lontanissima dal genere di vita dei luoghi di provenienza, fu merito degli immigrati, nuovi torinesi estranei alle tradizioni degli autoctoni, se una città chiusa in sé stessa, sorda e sospettosa per consuetudine di una vecchia borghesia, col ceto operaio tradizionale talvolta anch’esso reticente verso le novità, si rifondò, evolvette - lentamente - verso l’accettazione dei compiti che la stessa nuova composizione sociale richiedeva. Ne fu un primo attestato il successo delle celebrazioni per il centenario dell’unità. Tuttavia la Fiat, sempre più estesa, pretendeva ancora la reductio ad unum, cioè a se stessa, della rappresentazione di Torino, che infatti tardò a superare il dannoso statuto di città dipendente da una sola imponente monocoltura industriale.
Gli operai immigrati raggiunsero rapidamente la coscienza di classe nel vivo dei rapporti di lavoro e delle relazioni con gli altri lavoratori. Quando nel 1969 il grande sciopero generale non per aumenti salariali, non per diverse condizioni di lavoro ma, prima volta nella storia sindacale e delle lotte, per il diritto alla casa («casa uguale a servizio sociale» lo slogan sbandierato), imponenti manifestazioni conquistarono le strade e le piazze delle città italiane. Gli operai di Torino, immigrati e torinesi uniti in una comune rivendicazione vitale, mentre partecipavano alla giornata di lotta nazionale potevano vantare di averla preceduta con un’altra giornata di sciopero nella loro città, quando avevano manifestato in massa contro il potere del padronato, al comando il principe della Fiat, vassalli e valvassini obbedienti. Fu vera lotta perché si comandò ai poliziotti, per lo più poveri meridionali grati alle autorità per aver ottenuto un’occupazione, di attaccare duramente i cortei operai: infatti, la ricordiamo ancora oggi con la denominazione impiegata dai quotidiani di allora, «la battaglia di corso Traiano a Torino».

Le strategie politiche dell'estrema destra italiana, per raccogliere consenso su temi tradizionali come la sicurezza fai da te, in fondo si legano perfettamente con l'idea di città reazionaria e privatizzata tanto in voga nel mondo. Today, 30 novembre 2015

Alle prossime elezioni comunali di Milano, un partito di destra presenterà tra i candidati di punta per il consiglio il pensionato sessantacinquenne diventato improvvisamente famoso per aver ucciso un intruso nella sua casa, in un centro suburbano ai margini dell'area metropolitana. Certo, non c'è nulla di nuovo nell'uso strumentale della notorietà a scopi politici, come succede ad esempio con personaggi dello spettacolo, ma la questione oggi assume un particolare valore simbolico per il modello di convivenza civile e urbano che sottende. E non mancano precise coerenze di tipo urbanistico, anche se la cosa può apparire a prima vista strana e addirittura forzata. Proviamo a guardare, da questo punto di vista, anche solo a due degli ultimissimi casi di sparatorie casalinghe con morti in villetta, a pochi giorni e pochi chilometri l'uno dall'altro.

In un caso, ancora in corso di accertamento da parte della magistratura, c'è stata una difesa diciamo così preventiva, ovvero il padrone di casa avrebbe sparato al ladro senza troppe storie, rivendicando in sostanza l'autodifesa fai da te, e conquistandosi così quella proposta di rappresentanza politica. In un secondo caso, c'è la storia di una rapina con sequestro, dai presupposti senz'altro più drammatici, le minacce col coltello, l'affrontarsi diretto, e poi le dichiarazioni per nulla compiaciute del traumatizzato sparatore. Insomma due casi molto diversi, unificati però dal tipo di ambiente urbano-sociale che gli fa da sfondo: il suburbio metropolitano di casette con giardino, da sempre teatro di queste vicende perché luogo in fondo paradigmatico di uno stile di vita. Quando mai la cronaca ci racconta di cose del genere in città? Certo anche nelle strade urbane non mancano di sicuro fatti di sangue e violenza, rapine, morti ammazzati, ma pare chiaro a tutti che l'irruzione di banditi giù per lo scivolo della tavernetta o appena oltre il cancello del giardino con la madonnina di Lourdes, richiama quei luoghi fatti di stradine, percorse quasi sempre solo dalle auto, deserte salvo il rientro dei ragazzini da scuola o l'uscita per il giretto del cane.

Sono anche, come ci raccontano infiniti studi internazionali, i luoghi simbolo e sostanza dei partiti di destra e del loro consenso: il culto del privato e della famiglia, della proprietà, il lieve disprezzo verso tutto ciò che è pubblico e collettivo, l'identità relativamente chiusa sul locale, sulla fascia economica, sulla conoscenza diretta. Ed è, anche, questo sprezzo di tutto ciò che è pubblico e collettivo, la base fondante della città terzo millennio della destra, la sua urbanistica fatta di enormi progetti di trasformazione privati, concepiti in fondo col medesimo schema del quartiere di villette, salvo metterci delle torri residenziali di lusso progettate da qualche archistar, e un'opera d'arte postmoderna invece della madonnina nella sua grotta di cemento. Nelle finte piazze privatizzate di questi quartieri, invece del giustiziere suburbano fai-da-te, ci saranno magari (come già ci raccontano attente osservatrici come Anna Minton o Saskia Sassen) le guardie armate pagate dal condominio, o dall'associazione commercianti. Che magari saranno un po' più professionali nello sparare a vista, o magari nel non sparare affatto perché prevenire è meglio che curare. Ma il trasloco dell'ambiente suburbano in città, a costruirsi uno zoccolo duro di consenso di destra ed espellere il resto, usa queste strategie.

Pistola Due: un giustiziere immerso nel verde :: Blog su Today
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Su Eddyburg l'ultimo contributo di Saskia Sassen dedicato ai grandi progetti di privatizzazione urbana nel mondo


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Settanta anni sono un periodo lunghissimo; chi ha oggi venti anni ha, della seconda guerra mondiale, finita nel 1945, lo stesso ricordo che io ... (continua a leggere)

Settanta anni sono un periodo lunghissimo; chi ha oggi venti anni ha, della seconda guerra mondiale, finita nel 1945, lo stesso ricordo che io potevo avere, quando avevo venti anni, delle guerre di Indipendenza, cioè niente. Con la differenza che le guerre di indipendenza dell’Italia avevano lasciato conseguenze soltanto politiche, amministrative e sociali, mentre la seconda guerra mondiale coinvolge, a loro insaputa, i ventenni di oggi e quelli che verranno, per molte generazioni, con l’eredità politica e ecologica della bomba atomica. Per conservare questo ricordo proprio nel dicembre di settanta anni fa, pochi mesi dopo il bombardamento americano delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, un gruppo di scienziati, colpiti dalla grande tragedia generata dalla “bomba” che loro stessi avevano contribuito a fabbricare, decisero di fondare un “bollettino” di informazioni, il Bulletin of the Atomic Scientists. Il fine era di avvertire il pubblico di quello che avrebbero potuto aspettarsi, nel male e nel bene, dalla scoperta dell’enorme energia che si libera dalla fissione del nucleo atomico. Per settanta anni, ogni mese, il Bulletin parla dei problemi delle armi nucleari ma anche delle conseguenze delle scoperte scientifiche che influenzano la vita dei terrestri, 2,3 miliardi di persone nel 1945, 7,2 miliardi di persone oggi.

A partire dal 1947 l’avvertimento dei pericoli è espresso con la immagine di un orologio, che appare sulla copertina di ogni numero, con le lancette che indicano i minuti, prima della mezzanotte dell’umanità, il giorno-della-fine-del-mondo, che restano se non si prendono provvedimenti. In mancanza dei quali l’umanità davvero rischia l’annientamento per la radioattività liberata dalla possibile esplosione di bombe atomiche, o per guerre, o per fame, o per catastrofi dovute agli sessi terrestri.

All’inizio la lancetta è stata messa a sette minuti a mezzanotte quando solo gli Stati Uniti possedevano le bombe atomiche; si avvicinò a tre minuti a mezzanotte nel 1949 quando anche l’Unione Sovietica dimostrò di possedere “la bomba”. La lancetta segnò due minuti a mezzanotte nel 1953, dopo l’esplosione della bomba H americana, e tornò indietro a dodici minuti a mezzanotte quando, nel 1963, Stati Uniti e Unione Sovietica decisero di far cessare le esplosioni nucleari sperimentali nell’atmosfera, limitandole alle esplosioni nel sottosuolo; negli anni successivi ci furono alterni rapporti fra le potenze nucleari “ufficiali” che erano diventate cinque: Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Unione sovietica e Cina, con l’aggiunta del misterioso arsenale nucleare di Israele. Nel 1991, dopo la distensione seguita al crollo dell’Unione Sovietica, l’orologio segnò diciassette minuti a mezzanotte, una boccata di speranza di pace, ben presto vanificata dall’entrata di India e Pakistan fra i paesi dotati di bombe nucleari.

I primi quindici anni del Ventunesimo secolo hanno visto nuovi pericoli di instabilità per la popolazione umana, anche se lentamente la Russia e gli Stati Uniti hanno deciso di smantellare una parte delle “vecchie” bombe nucleari. Si tratta di delicate operazioni tecniche che liberano grandi quantità degli esplosivi plutonio e uranio arricchito, in parte utilizzati come combustibili per le centrali nucleari commerciali, in parte esposti a incidenti, e a furti da parte di criminali e terroristi. Dalle sessantamila bombe nucleari esistenti nel mondo all’apice delle crisi internazionali, nel 1987, oggi esistono nel mondo “soltanto” circa 10.000 bombe nucleari, alcune delle quali in stato permanente di allerta.
Le bombe nucleari si deteriorano col tempo e le due principali potenze nucleari continuano ad aggiornare i loro arsenali; adesso i collaudi delle bombe non richiedono più esplosioni sperimentali ma possono essere fatti con altri metodi. Di recente è stato annunciato che le bombe nucleari a fusione americane B61, alcune delle quali sono depositate anche in Italia a Ghedi (Brescia) e ad Aviano (Pordenone), saranno perfezionate nel modello B61-12 con una spesa di dieci miliardi di dollari; così si allontana ancora di più la speranza che gli stati nucleari rispettino l’impegno, da loro sottoscritto col Trattato di non proliferazione nucleare, che impone, all’articolo VI, l’avvio di trattative per il disarmo nucleare totale.

Eppure un disarmo atomico sarebbe possibile; si è riusciti, pur dopo anni di dibattiti, a vietare le armi chimiche e quelle biologiche, perché non si dovrebbero vietare quelle nucleari? Il denaro risparmiato fermando le attività nucleari militari, centinaia di miliardi di dollari ogni anno nel mondo, permetterebbe di affrontare e risolvere almeno una parte dei problemi di miserie, di ingiustizie e di sottosviluppo, di fame e di mancanza di acqua e di suoli inariditi, che sono la vera radice della violenza internazionale.

Altre nuvole tempestose hanno infatti affollato il cielo rendendo possibili disastri, anch’essi planetari, dovuti al riscaldamento globale, e anche per questo l’orologio del Bulletin si è avvicinato, di recente, di nuovo a tre minuti dalla mezzanotte dell’umanità. Vedremo che cosa uscirà dal dibattito iniziato a Parigi per attenuare i peggioramenti del clima dovuti alla nuova “bomba atomica”: i gas inquinanti, figli dei nostri processi produttivi e dei nostri consumi e sprechi di energia, di minerali, di prodotti agricoli e di merci. Mi piacerebbe che di questi problemi si parlasse nelle scuole, nelle Università, nei partiti e, magari, nel Parlamento, al di là delle dichiarazioni di buona volontà. Miseria, migrazioni, disperazione, le madri del terrorismo, sono alle porte e non basta chiuderle. Bisogna aprire piuttosto, con coraggio, come raccomanda il Papa Francesco, le porte dei nostri cuori alla giustizia che è l’unica mamma della pace.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

«Avviata la procedura che tiene presente la complessità di gestione Fs e la necessità di aumentare gli obblighi di servizio pubblico, esordisce Delrio. Però coi tagli degli ultimi anni, il servizio ha sofferto: sacrificati pendolari e lunghe percorrenze». Il manifesto, 24 novembre 2015 (m.p.r.)

Roma. Il governo mette in vendita il 40% delle Ferrovie: la privatizzazione, che segue quella di Poste e precede quella di Enav, è stata decisa ieri dal consiglio dei ministri, che ha varato un Dpcm ora atteso alle camere. Il provvedimento è stato illustrato dal ministro dei Trasporti Graziano Delrio, e ha subito suscitato le preoccupazioni dei sindacati e dei partiti di opposizione, con alcune perplessità espresse anche da componenti del Pd. Non è ancora pienamente chiaro - nonostante le rassicurazioni offerte da Delrio - il destino di Rfi (la rete), che il governo punta comunque a scorporare (e quindi almeno in parte a quotare?), mentre l’indebolimento del pubblico fa temere per i già disastratissimi servizi pendolari.

«Viene avviata la procedura che tiene presente la complessità della gestione delle Fs e la necessità di aumentare gli obblighi di servizio pubblico», ha esordito Delrio. Va detto però che con i tagli degli ultimi anni, il servizio pubblico ha al contrario sofferto: sacrificati i pendolari e le lunghe percorrenze (basti pensare ai treni notte), la gran parte degli investimenti si sono diretti invece verso i convogli ad alta velocità e con biglietti piuttosto cari per i viaggiatori. «L’alienazione di Ferrovie non potrà andare oltre il 40% - ha spiegato Delrio - È un avvio di percorso che tiene presenti alcune questioni: l’infrastruttura ferroviaria dovrà rimanere pubblica, dovrà essere garantito l’accesso a tutti in maniera uguale». «Nel processo parziale di privatizzazione di Fs si manterrà un'attenzione particolare all'azionariato diffuso e alla partecipazione dei dipendenti del gruppo Ferrovie dello Stato, gruppo che produrrà anche quest'anno ottimi risultati».
Il valore stimato dell’azienda è di 45 miliardi di euro, e i proventi della privatizzazione dovrebbero andare a coprire il debito pubblico. Non è ancora chiaro, però, quanto punti a incassare il governo: Palazzo Chigi in una nota ha spiegato infatti che la privatizzazione «potrà procedere in più fasi» e alla richiesta di una cifra attesa, Delrio ha risposto con un ermetico: «Adesso ci penseremo». I conti dell’azienda, d’altro canto, ultimamente vanno piuttosto bene: nel 2014, il gruppo Ferrovie dello Stato ha realizzato quasi 8,4 miliardi di ricavi operativi (303 milioni il risultato netto). Il 2015 appare promettente: nel primo semestre i ricavi hanno sfiorato i 4,2 miliardi di euro, mentre l’utile è aumentato del 2,5% rispetto allo stesso periodo del 2014, raggiungendo i 292 milioni.
Un’azienda "risanata" dopo svariati anni di debito, che però adesso, almeno a sentire i più critici, potrebbe esporsi a un pericolo di «svendita» delle proprie azioni. È ad esempio il timore di Franco Nasso, segretario della Filt Cgil: «Da quanto si può capire dagli annunci - dice - la privatizzazione non darà risorse al trasporto regionale, anzi finirà per limitare fortemente la capacità industriale di Trenitalia, limitandosi a fare un incasso dalla vendita che, viste le condizioni e la fretta, potrebbe sostanzialmente consistere in una svendita». Secondo la Cgil c’è «un problema di mancata corrispondenza tra le aspettative degli utenti del trasporto regionale e il servizio offerto. Le ragioni sono dovute principalmente ai tagli operati da tutti gli ultimi governi su questo fondamentale servizio universale che, per essere erogato, ha bisogno del contributo pubblico». E abbiamo tutti sotto gli occhi le immagini (alcuni lo vivono sulla propria pelle) di treni congelati in inverno e simili a saune in estate; la folla e i ritardi, i bagni in condizioni pietose.
«Questa privatizzazione acefala è una stupidaggine gigantesca che farà solo danni al Paese, ai cittadini italiani e ai lavoratori delle Ferrovie. Non abbiamo elementi di chiarezza e il ministro non ha ritenuto di spiegarci nulla nonostante le reiterate richieste di incontro», rincara il segretario Fit Cisl Giovanni Luciano. «Siamo d’accordo su massimo il 40% delle quote e l’azionariato diffuso compresi i dipendenti. Per il resto pensiamo che, laddove non vi siano chiarimenti, occorrerà mobilitarsi». «Privatizzazione sbagliata, mera operazione di cassa», taglia netto anche la Uiltrasporti. Nel Pd è Marco Filippi, capogruppo in Commissione Lavori pubblici del Senato, a chiedere che «si eviti che la vendita sia solo un’operazione economico/finanziaria».
Contro «la svendita del patrimonio dello Stato per tappare i buchi del bilancio» si pronuncia il M5S, che chiede al contrario di «potenziare il trasporto pubblico locale». Disco rosso anche da Stefano Fassina, di Sinistra italiana: «La privatizzazione di Fs vuol dire ulteriore drammatico disinvestimento e peggioramento per i servizi di trasporto per i pendolari. Noi ci opporremo». In uscita, infine, gli attuali vertici, divisi proprio sulla privatizzazione: l’amministratore delegato Michele Mario Elia difende l’unicità del gruppo, mentre il presidente Marcello Messori è favorevole allo scorporo di Rfi. Tra i successori in pole, Renato Mazzoncini, ad di Busitalia.

L’annuncio che il Papa Francesco darà inizio al Giubileo, domenica prossima 29 novembre, alcuni giorni prima che a Roma ... (continua a leggere)

L’annuncio che il Papa Francesco darà inizio al Giubileo, domenica prossima 29 novembre, alcuni giorni prima che a Roma, aprendo la “Porta Santa” della Cattedrale di Bangui, nella Repubblica Centrafricana, nell’ombelico del Continente Nero, sta portando all’attenzione mondiale questo quasi sconosciuto paese. Al suo arrivo a Bangui il Papa sarà accolto dal “presidente di transizione” che è una donna, Catherine Samba-Panza, laureata in legge nell’Università di Parigi II. La Repubblica Centrafricana ha una superficie doppia di quella dell’Italia e una popolazione di poco meno di 5 milioni di abitanti, in rapida crescita, la cui principale fonte di reddito, oltre all’agricoltura, è l’esportazione di diamanti e di legname pregiato.

La popolazione è molto povera perché è stata soggetta a continue invasioni e sfruttamento e violenze sia dai paesi vicini sia dalla Francia che, alla fine dell’Ottocento, aveva costituito una provincia coloniale Ubangi-Chari. Nel 1910 la zona era stata inglobata nell’Africa Equatoriale Francese in cui si erano precipitate le imprese private che producevano e esportavano cotone e diamanti. Durante la seconda guerra mondiale, quando la Francia venne occupata dai nazisti, nell’Africa Equatoriale Francese si rifugiò la Francia Libera, quella parte dell’esercito francese, guidata dal generale De Gaulle, che combatté al fianco degli Alleati contro la Germania ed ebbe l’onore di entrare per prima nella Parigi liberata nel 1944.

La Repubblica Centrafricana ottenne l’indipendenza nel 1960 e fu afflitta da lunghi periodi di instabilità dovuti a scontri fra etnie locali; nel 1965 prese il potere il colonnello Bokassa, bizzarro e megalomane dittatore che si proclamò “imperatore” nel 1972, sostenuto dalla Francia che aveva interesse a proteggere le imprese impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del paese: nel 1979 Bokassa fu sostituito da vari presidenti in lotta fra loro fino al gennaio 2014 quando assunse la presidenza la signora Samba-Panza, in attesa di nuove elezioni.

La Repubblica Centrafricana è uno dei paesi dell’Africa che non ha accesso al mare e confina a nord col Chad, ad ovest col Cameroon, a sud col Congo e con la Repubblica Democratica del Congo e a est con Sud Sudan e Sudan. La Repubblica Centrafricana è una specie di grande altopiano con foreste e savane, ricche di biodiversità, e si trova nello spartiacque dei bacini idrografici di due grandi fiumi, l’Ubangi che fa da confine fra la Repubblica Centrafricana e la Repubblica Democratica del Congo, e il Chari. Su alcuni degli affluenti sono state costruite delle dighe e delle centrali idroelettriche.

La Repubblica Centrafricana è coinvolta in un importante problema ecologico. Al nord del paese si trova il Lago Chad, che “appartiene” agli stati del Niger, della Nigeria, del Chad e del Cameroon; il lago Chad è stato uno dei più grandi laghi di acqua dolce, portata da numerosi fiumi fra cui il Chari, che compensano la continua evaporazione di acqua dovuta all’intensa radiazione solare; nel 1960 il lago, poco profondo, aveva la superficie di 25.000 chilometri quadrati (cento volte superiore a quella del Lago Maggiore in Italia) e le sue acque irrigavano i campi dei popoli vicini e consentivano attività di pesca. Per aumentare le rese agricole i prelevamenti di acqua per irrigazione si sono fatti sempre più intensi e questo, insieme all’evaporazione aumentata a causa dei mutamenti climatici, ha fatto diminuire la superficie del lago, oggi ridotta a 2.500 chilometri quadrati, il che compromette la sopravvivenza di milioni di persone, oltre ad alterare l’intero ecosistema della zona a sud del Sahara.

I paesi che condividono la superficie del lago e la Repubblica Centrafricana hanno costituito una Commissione per il Lago Chad che da anni studia come è possibile evitarne la scomparsa e restituirgli almeno una parte delle acque perdute. Una delle proposte prevede di trasferire una parte delle abbondanti acque dei fiumi che attraversano la Repubblica Centrafricana e che adesso vanno verso sud, nel fiume Ubangi e poi nel fiume Congo e infine nel mare, dirottandola attraverso una sistema di condotte e canali verso nord, nel bacino del fiume Chari e quindi nel Lago Chad. La soluzione sarebbe facilitata dal fatto che i fiumi del bacino del Congo scorrono ad una altezza di un centinaio di metri superiore a quella del lago e quindi una parte delle acque scorrerebbe verso il lago Chad in discesa, per gravità, in un flusso continuo. Da questo flusso di acque in discesa sarebbe anche possibile recuperare energia idroelettrica da utilizzare in parte per i servizi dei nuovi canali e in parte per dare vita a attività minerarie e industriali.

Il progetto di questa gigantesca opera di ingegneria idraulica per ora è fermo non tanto per i costi o per le difficoltà tecniche, quanto per i possibili rischi ambientali. Gli indubbi vantaggi economici, per l’agricoltura, l’allevamento e la pesca, e quelli ecologici del ritorno delle acque nel lago Chad, potrebbero essere annullati da modificazioni negativi dell’intero ecosistema con danni per l’agricoltura del Centrafrica. Sulla natura non si può intervenire con leggerezza e senza precauzioni.

C’è da sperare che il messaggio di solidarietà, di pace e di misericordia portato dal Giubileo che si aprirà in questo poverissimo paese lo aiuti a liberarsi delle divisioni, dai conflitti e dallo sfruttamento delle sue risorse e possa mettere le sue grandi ricchezze naturali al servizio dello sviluppo umano degli abitanti.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

Come osserva uno studio internazionale: le spinte neoliberiste al ridimensionamento delle libertà collettive in nome della sicurezza sono assurde e pericolose, già di per sé significano solo sostituire una violenza all'altra. La Città Conquistatrice, 19 novembre 2015

Se si guardano certi quadri urbani, anche piuttosto famosi, di epoca pre-industriale, si notano con più o meno evidenza comparire nell'immancabile striscia di campagna o foresta fuori le mura alcune presenze inquietanti. A volte in forma di vaghe ombre o semplici nubi minacciose all'orizzonte, a volte coi tratti più espliciti di una scura sinistra sagoma a fare capolino da un masso o da un albero, sono parte della natura nemica chiusa fuori dalle fortificazioni, reale o immaginaria, belva o poltergeist che sia. Da una certa prospettiva, la vera differenza di questo ambiente urbano rispetto al castello o alla corte rurale, sta nell'articolazione e ampiezza dei suoi spazi pubblici e collettivi, ben più ricchi e aperti delle stanze illuminate dal camino, o del falò sull'aia, attorno a cui si radunano le popolazioni rurali per scacciare gli incubi della notte. Ma come ci insegnano sia certe travolgenti fiction gotiche, che i serissimi ma egualmente affascinanti racconti di storici alla Jacques Le Goff, anche dentro le mura urbane culla di civismo cultura tolleranza, fucina di lumi e luminarie fisiche e mentali, non mancano certo in agguato oscure presenze, infiltrate dalla selva o di produzione propria. Ancora qui, la grossa differenza con la campagna sta nel metodo di lotta basato sull'assimilazione anziché sull'esclusione.

Il bar di Guerre Stellari

La città è il luogo della differenza, dell'individuo che pur confuso tra la folla non è mai folla, anzi la sua individualità ne viene enfatizzata, non sminuita. Differenza a volte significa anche devianza in senso antisociale, però soltanto in casi estremi ha davvero senso ricorrere alla repressione: il più delle volte basta lo stesso ambiente urbano a digerire e rendere assimilabile qualunque comportamento, traducendolo in conflitto, innovazione, progresso. Non a caso uno dei maggiori sociologi urbani del '900, William Whyte, nei suoi primissimi studi sullo scontro fra etica protestante individualista, ed etica sociale tendenzialmente massificante, individuava certe caratteristiche spaziali come molto favorevoli all'una e di ostacolo all'altra. E in ricerche successive sullo spazio pubblico continuava a sottolineare quanto una adeguata disponibilità di luoghi di incontro e intreccio di vari soggetti e comportamenti fosse la soluzione generalizzata alla sicurezza, garantita anche per la quota restante da quelli che Jane Jacobs (in prima battuta sua creatura) chiamava «occhi sulla strada». Quindi ciò su cui chiunque si avvicini al problema in buona fede concorda, è che l'antidoto alla criminalità, ai portati peggiori della devianza, all'insicurezza reale (su quella percepita lasciamo sfogare ansiosi e destrorsi), è più spazio pubblico, non meno spazio pubblico.

Quantità, qualità, spazio, tempo

Quanto spazio pubblico non si calcola certo solo al metro quadro, anche se come insegnano certe subdole politiche conservatrici il criterio di un tanto al chilo non va mai abbandonato. Quindi più parchi, più marciapiedi, piazze, slarghi accessibili, portici, atrii, arretramenti di edifici eccetera. Ma anche più varietà e qualità, mescolanza di usi, magari un po' di confusione che non fa male anzi aiuta. Poi cala la sera, e tutto cambia, rispuntano le ombre …. No che non deve essere così! Ce lo ricorda quella classicissima canzone di Petula Clark, Downtown, quando dice: «Just listen to the music of the traffic in the city, and linger on the sidewalks where the neon signs are pretty». Una scena che si svolge evidentemente di notte, in un ambiente che forse oggi chiameremmo di movida, o su una strada dello shopping, ma può anche essere un giardino, il piazzale della stazione: vogliamo tutti che la città sia efficiente, deve esserlo, è uno dei suoi ruoli, ma chi ci sta e ci va vuole, pretende, qualcosa di diverso, vagamente deviante, trasgressivo (si fa per dire), molto poco fantozziano. Oggi certo economicismo contabile moralista ci vorrebbe tutti a casa a guardare il telegiornale appena finisce l'orario di lavoro da travet: non è una violenza peggiore di un'aggressione in un vicolo buio? Reagiamo, rivendichiamo il diritto alla città naturalmente senza trasformarla in un pentolone ribollente, a tutto c'è un limite, ma non facciamolo fissare al moralizzatore di passaggio.

Riferimenti:

Marion Roberts, Economie della notte metropolitana
William H. Whyte, Indesiderabili
Bradley L Garrett, Cities at night: why our right to use public spaces after dark is under threat, The Guardian, 19 novembre 2015

Un paio di settimane fa il Tar dell'Emilia Romagna ha dichiarato l'illegittimità del progetto - voluto innanzi tutto dalla locale Fondazione Cassa di Risparmio - di 'riqualificazione' del Sant'Agostino...(continua a leggere)
Un paio di settimane fa il Tar dell'Emilia Romagna ha dichiarato l'illegittimità del progetto - voluto innanzi tutto dalla locale Fondazione Cassa di Risparmio - di 'riqualificazione' del Sant'Agostino - l'ex ospedale modenese - attraverso la creazione di un "polo librario". Topograficamente, il complesso si trova di fronte al Palazzo dei Musei, il settecentesco "Grande Albergo delle Arti", la sede che dal 1889 accoglie la Galleria e la Biblioteca Estensi, entrambe istituzioni di primaria importanza per il patrimonio conservato.
Ma non solo: in quest'unico contenitore, grazie alla lungimiranza dei passati amministratori furono ospitati anche il Museo Civico, la Biblioteca Poletti, specializzata in storia dell'arte, l'archivio comunale, una gipsoteca, il lapidario e, fino a pochi anni fa, anche il museo del Risorgimento (ora sloggiato e imballato). Nel tempo, questo lucido disegno civico si è via via fatto più confuso, tanto che ampi spazi dello stesso enorme edificio sono stati destinati a funzioni del tutto diverse, fra cui soprattutto quelle ospedaliere, mentre, sul lato settentrionale della piazza, l'Ospedale Sant'Agostino, creato nel XVIII secolo dal Duca Francesco III, diveniva sempre più inadatto per le moderne esigenze di assistenza e cura.

A partire dalla metà degli anni ‘90 si costruì quindi il nuovo Ospedale Estense-Sant’Agostino, a Baggiovara. Operazione rivelatasi assai gravosa per le casse comunali e dell’Ausl al punto da costringere il Comune alla vendita del Palazzo del Sant'Agostino, ormai svuotato dalle funzioni di nosocomio. Comune e Azienda sanitaria, in sostanziale coincidenza di interessi politici e finanziari, invitarono caldamente la locale Fondazione bancaria ad acquisire il centralissimo complesso del Sant’Agostino di enorme valore sul piano architettonico e urbanistico.

Un buon affare, ma evidentemente non sufficiente per le strategie di visibilità della Fondazione da subito interessata al potenziale di immagine della dirimpettaia Biblioteca Estense con i suoi 500.000 volumi, fra i quali soprattutto 16.000 cinquecentine, incunaboli e codici miniati fra cui la famosissima Bibbia di Borso. Così, dal 2007, anno dell'acquisizione, è stato avviato un progetto di "riqualificazione" il cui obiettivo sarebbe stato il trasferimento dell'intero patrimonio librario dell'estense e della biblioteca Poletti nel Palazzo Sant'Agostino per la creazione di un nuovo "polo librario". Non di ‘semplice’ trasloco si sarebbe trattato, bensì di una radicale trasformazione del carattere e delle funzioni delle biblioteche pubbliche, suddivise fra una sezione no-profit per la pubblica lettura e un polo "espositivo" dove poter ammirare - a pagamento - codici miniati ed "eccellenze" librarie e dotato, ça va sans dire, di adeguati servizi commerciali a supporto.

Naturalmente adattare un ex ospedale a biblioteca non è impresa semplice e all'uopo è stata chiamata l'immancabile archistar, figura totem che ha ormai assunto, in Italia, un carattere taumaturgico rispetto a qualsivoglia problema urbanistico. Lo studio di Gae Aulenti, su commissione della Fondazione, ha quindi elaborato un progetto che prevedeva la costruzione di due torri librarie di oltre 23 metri di altezza inserite nell'edificio settecentesco, il riempimento dei cortili con altri fabbricati, demolizioni e altre vistose manomissioni. In sintesi, lo stravolgimento di un edificio tutelato ope legis, sul quale sarebbero consentiti quindi solo interventi di restauro conservativo e filologico.

Che tale progetto fosse poi in contrasto con il piano regolatore vigente, è stata ritenuta quisquilia superabile con stratagemmi al limite della liceità (tavole del piano strutturale comunale con indebite varianti, misteriosamente apparse nel frattempo). Oltre ai problemi urbanistici - e legali - e a quelli di tutela architettonica, sono state superate con la stessa souplesse tutte le obiezioni relative alla tutela del patrimonio librario: le torri librarie sono ormai ovunque ritenute strumento pericoloso per l'integrità dei volumi; l'inadeguatezza degli spazi del Sant'Agostino avrebbe costretto a modifiche disastrose degli arredi storici, il semplice trasloco, con la distruzione del microclima, avrebbe messo a serio rischio il patrimonio librario nel suo insieme.

Di fronte alle ripetute denunce della gravità di un simile progetto, non solo per la salvaguardia di beni culturali preziosissimi, ma per lo stravolgimento radicale del concetto di fruizione che comportava, denunce condotte quasi in solitudine dalla sezione Italia Nostra di Modena, gli organi del Ministero, ad ogni livello dirigenziale, hanno trascurato qualsiasi criterio di verifica e di prudenza e, con una catena ripetuta di errori amministrativi, per tacer di quelli sostanziali sull'esercizio della tutela, hanno ripetutamente avallato le decisioni di Fondazione e Comune.

Il progetto è stato approvato da Comune, Mibact e Fondazione, il 13 novembre 2007, quando i rapporti di forza pubblico- privato furono plasticamente evidenziati al momento della firma dell'accordo di programma, siglato presso la sede della Fondazione, dove l'allora ministro Rutelli e l'allora Sindaco Pighi si recarono a rendere omaggio al dominus della partita, accettando persino - il Mibact - di pagare tutte le spese per il trasferimento del materiale librario da un edificio pubblico ad uno di proprietà privata. Cornuti e mazziati, ma si sa, la politica ha ragioni che la ragione (e la cultura) non conosce.

Nella sentenza dello scorso 6 novembre, il Tar non ha potuto che prendere atto dell'incredibile serie di irregolarità che viziavano il progetto, negando la validità del permesso di costruire e interrompendolo in radice.

In perfetto Zeitgeist, le reazioni di politici e amministratori (attuali, ex, post...), che si sono affannati a sminuire la portata della decisione, relegandola a cavillo burocratico utilizzato dai soliti conservatori, misoneisti a prescindere. La superficialità (eufemismo) con cui, anche in quest’occasione, i politici locali hanno interpretato il loro ruolo di amministratori della cosa e degli interessi pubblici ha trovato compiuta espressione nelle dichiarazioni – scritte – dell’Assessore all’urbanistica Anna Maria Vandelli che non necessitano di alcun commento: “le norme sono un pretesto, l’architettura [quella della Aulenti n.d.s.] ha regole altre da quelle che possono essere contenute in un piano…è la qualità del professionista che fa la differenza […] …credo che la maggior parte dei cittadini ritenga che la produzione e continua modifica delle norme siano fastidiosi impedimenti, occorrono meno regole e più autorevolezza demandata alla professionalità” (Su Facebook e “Prima Pagina”, 10 novembre 2015).

Immediate anche le reazioni indignate della stampa locale, contro il danno incommensurabile derivato allo "sviluppo" della città dalla perdita del segno dell'archistar, a sottolineare tristemente quale sia ormai l'unico fine cui sembra destinata la pianificazione urbanistica o ciò che ne rimane: il marketing territoriale.

Quest’ultimo, appare l'obiettivo esclusivo di amministratori, classe dirigente e media assortiti, incapaci di concepire anche una minimale strategia culturale. Ma ancor meno, basterebbe appellarsi all'evidenza del buon senso per comprendere come, senza alcun trasferimento, lo stesso Palazzo delle Arti, svuotato delle funzioni incongrue, potrebbe offrire tutti gli spazi necessari agli ampliamenti di cui archivi e biblioteche sempre necessitano compresi quelli utili a trasformare queste istituzioni che da troppo tempo galleggiano al limite della sopravvivenza, in veri centri di ricerca al servizio dei cittadini e degli studiosi.

La vicenda del Sant’Agostino ha un carattere esemplare rispetto alla situazione italiana per più di un aspetto. Ci parla innanzi tutto della confusione in cui si trovano i nostri amministratori, per i quali il patrimonio culturale è quasi solo un fardello oneroso e se non ha immediati riscontri sul piano turistico, diventa un problema di cui liberarsi o (s)vendendolo ai privati (come a Venezia, o Siena, o Torino) o privandolo dei mezzi di sussistenza (v. il caso del Castelvecchio di Verona).

Ci racconta del ruolo distorto che hanno assunto, ormai da molti anni, le Fondazioni bancarie, in particolare per quanto riguarda la gestione degli eventi e delle istituzioni culturali. Enti privati (anche se amministrano pur sempre un patrimonio della collettività…) che, soprattutto dallo scoppio della crisi economica, sono man mano diventati, in virtù delle disponibilità economiche, gli arbitri – talora assoluti - delle politiche culturali delle nostre città. Con risultati alterni, spesso discutibili, sempre “opachi” perché frutto di operazioni decise da non eletti e non vincolate alla trasparenza di un pubblico dibattito, anche se – come nel caso di Modena – interferiscono pesantemente sul patrimonio collettivo e se, come accade sempre più di frequente, i costi di gestione delle operazioni intraprese sono troppo spesso destinati, prima o poi, a riversarsi sulle casse pubbliche.

Il vuoto culturale indebitamente – dal punto di vista costituzionale – occupato dalle Fondazioni, non ha però solo una genesi economica. E’ l’inevitabile conseguenza della progressiva incapacità degli organismi pubblici – il Mibact prima degli altri – ad elaborare una seria politica culturale o anche solo ad esercitare i compiti di tutela loro assegnati, a difesa degli interessi dei cittadini italiani. Tutela che non significa “solo” vincolo passivo, ma, prima di tutto, la restituzione, in termini di accessibilità, comunicazione, fruizione, del patrimonio culturale alla collettività. Incapaci di riconoscere e quindi trasmettere le funzioni e il valore non meramente patrimoniale dei beni culturali, tali organismi – in particolare a livello dirigenziale – tradiscono quello che dovrebbe essere il loro ruolo di guida e coordinamento culturale finendo sempre più spesso preda delle sirene di un concetto di sviluppo provinciale e attardato e autorelegandosi alla funzione di “facilitatori” di politiche culturali assunte da altri.
Nel caso di Modena, il provincialismo del progetto dell’archistar risiedeva – ad esempio – in un concetto stravagante di uso del patrimonio librario, ottenuto con metodologie superate e pericolose (le torri librarie) e contrario ad ogni principio di sostenibilità gestionale. Principio ben presente, al contrario, nella controproposta, quella sì innovativa, che suggeriva di utilizzare le ingenti risorse (come abbiamo visto anche pubbliche) del progetto per un’operazione di digitalizzazione a largo raggio del patrimonio librario. In linea con quanto sta avvenendo in tutte le maggiori biblioteche e istituzioni pubbliche, dagli Stati Uniti all’Inghilterra, questo progetto avrebbe inserito Modena e i suoi tesori librari all’interno di un patrimonio universale, ottenendo al contempo un effetto di “marketing territoriale” di ben altro spessore culturale.

Ma la vicenda del Sant’Agostino ci racconta drammaticamente anche della mutazione etica della nostra classe politica che, dimentica delle più elementari regole istituzionali, arriva a definire esplicitamente le leggi come un fastidioso orpello. Siamo dunque arrivati alle estrema evoluzione dei “lacci e lacciuoli” di berlusconiana memoria, il cui esito naturale è la “semplificazione”, obiettivo guida di quest’ultima stagione governativa.

La gravità di tale fenomeno – di cui il Sant’Agostino è solo un esempio fra i tanti – non è solo per le conseguenze operative che è destinato a provocare (sul nostro paesaggio, sul patrimonio culturale, sui centri storici, sulla qualità urbana, dell’ambiente, dei servizi), ma costituisce un vulnus mortale allo stesso concetto di democrazia. Dal codice di Hammurabi in poi, uno dei cardini di questo concetto è rappresentato da un insieme di regole scritte, perfettibile all’infinito, ma uguale per tutti. Il rispetto del quale è l’unica garanzia contro la violenza e il sopruso del più forte sul più debole.

… e infine, per fortuna, il caso Sant’Agostino ci ribadisce che, anche se non sempre, esiste un giudice a Berlino.

, hanno più volte .. (continua a leggere)

, hanno più volte annunciato che tutto deve procedere celermente nelle fasi di valutazione e approvazione del progetto, affinché alla fine del 2017 l’aeroporto possa accogliere i capi di governo in un G7 che, tuttavia, sembra ora dirottato verso la Maddalena con disperazione della stampa locale; che si è ben guardata di appurare se la data fosse credibile; e, poiché è del tutto incredibile, a chiedersi le ragioni di una così plateale mistificazione.

Ma vediamo quali sono le operazioni da compiere in poco più di un anno e mezzo. Approvato il, progetto esecutivo, si tratta di espropriare tutti i terreni necessari. Poi si deve realizzare il nuovo Fosso Reale e trovare una destinazione a oltre 3 milioni di tonnellate di terra da bonificare; e poiché il Fosso Reale deve attraversare l’autostrada nel tratto Peretola-Firenze Nord, questa deve essere sopraelevata di circa 70 cm per qualche centinaio di metri, in contemporanea alla costruzione della terza corsia su entrambe le carreggiate; nel frattempo devono essere realizzate le aree di laminazione a compensare quelle eliminate e a mitigare le nuove impermeabilizzazioni; deve, inoltre, essere realizzato il nuovo collegamento tra Sesto Fiorentino e l’Osmannoro, rifatto il reticolo minore delle acque basse e alte con la viabilità di servizio. Infine, si potrà costruire la nuova pista, le infrastrutture di supporto, la viabilità di accesso, i parcheggi e, ovviamente le gallerie commerciali, il vero business dell’aeroporto.

Tutto finito e funzionante e collaudato in meno di due anni. Da ciò si deduce che chi annuncia la fine dei lavori in quei tempi o è matto o è uno sprovveduto che sottovaluta la complessità delle operazioni da compiere (e interferenze e opposizioni) o è in malafede. E se è in malafede, per quale ragione tutta questa fretta? Le ragioni sono fin troppo chiare: si vuole forzare la mano rispetto a leggi, regole e procedure affinché il progetto sia approvato prima possibile, ma, soprattutto, senza opposizioni e senza che i cittadini siano informati delle magagne, delle criticità, della pericolosità e della non convenienza (pubblica) del progetto. Perciò, un Master Plan spacciato per progetto definitivo, con così numerose omissioni e carenze ed errori da far concludere all’Università di Firenze, nelle sue osservazioni, che nella procedura VIA vi sono evidenti profili di illegittimità, tali da “giustificare un parere negativo dell’Autorità competente”. Perciò, niente Dibattito pubblico, nonostante che sia obbligatorio per legge e prescritto da una delibera del Consiglio regionale: poiché i proponenti non intendono collaborare mentre la Regione Toscana è inerte e sostanzialmente collusiva.

Il progetto deve essere approvato perché così si vuole dall’alto. Lo ha affermato Il Presidente dell’ENAC, Vito Riggio, parafrasando il marchese del Grillo: discutete e opponetevi pure, tanto decide il Ministero dell’Ambiente (cioè noi). E cosa deve decidere? Semplicemente che per ‘prassi consolidata’ la soluzione di tutte le criticità, delle carenze progettuali, delle magagne, verrà rimandata al progetto esecutivo, dove nessuno sarà in grado di controllare alcunché. E se il rischio di catastrofe aerea (come segnala l’Università) è stato sottovalutato, pazienza; e se il volo non sarà esclusivamente monodirezionale e molti aerei passeranno sulla città di Firenze, i fiorentini ci sia abitueranno; e se la ‘diga’ dell’aeroporto comporterà qualche esondazione, l’acqua in quei luoghi c’è sempre stata, inutile preoccuparsi. E in ogni caso, nessuno sarà responsabile.

Ora è importante portare il progetto su un piano inclinato in modo da non potere tornare indietro, con una prima tranche di denaro pubblico impegnato e speso; come già è stato ribadito per il sottoattraversmento di Firenze da parte dell’altavelocità. Poi si vedrà.

Alla fine dello scorso aprile, alla vigilia della solenne inaugurazione dell’EXPO 2015 di Milano, la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia ...(continua a leggere)

Alla fine dello scorso aprile, alla vigilia della solenne inaugurazione dell’EXPO 2015 di Milano, la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia ha riunito presso il suo Museo dell’Industria e del Lavoro (MusIL), un centinaio di studiosi invitandoli a chiedersi come si presentano, in Italia e nel mondo, le “agricolture”. “Agricolture” al plurale perché sono tante le forme in cui viene praticata la più importante attività umana, quella che assicura agli oltre settemila milioni di terrestri il cibo, ma anche molte altre materie prime essenziali. Lo storico Pier Paolo Poggio, direttore della Fondazione Micheletti, ha curato la pubblicazione del libro, appena apparso col titolo: Le tre agricolture: contadina, industriale, ecologica (Jaca Book, Milano), che raccoglie le relazioni presentate al convegno sopra ricordato. Non c’è dubbio che a “nutrire il pianeta” contribuiscono tante diverse forme di coltivazione del suolo: dalla cerealicoltura della Valle Padana, agli oliveti pugliesi, agli agrumeti della Sicilia, dalle monocolture a mais del Nord America o della canna da zucchero del Brasile o della palma dell’Indonesia, dalle innumerevoli comunità agricole dei villaggi contadini sparsi in Africa, Asia, America Latina, ai giovani che abbandonano le città per mettersi a produrre mele “biologiche”.

Chiamateli agricoltori o imprenditori o contadini, sono le centinaia di milioni di persone che zappano con poveri strumenti, o si spostano con moderni trattori, o lavorano nelle fabbriche in cui i prodotti agricoli e zootecnici sono conservati e trasformati, sono loro che permettono a (quasi) tutti noi di trovare ogni giorno sulla tavola il pane fresco e la carne e la frutta. In molti paesi esiste ancora una agricoltura contadina che coltiva la terra in armonia con i cicli naturali ma che può soddisfare soltanto il fabbisogno alimentare delle piccole comunità locali, sempre più sostituita dalla agricoltura industriale, così come l’artigianato è stato soppiantato dalla grande manifattura di prodotti di serie e il piccolo negozio è soppiantato dai supermercati.

Il successo dell’agricoltura industriale, con alte rese per ettaro, è assicurato dall’uso intenso di macchine, di energia, di concimi artificiali, di sementi geneticamente modificate, di pesticidi, ed è presentato come l’unico mezzo “moderno” con cui è possibile sfamare la crescente popolazione mondiale, sempre più urbanizzata e lontana dai campi e dai pascoli. Questo successo economico e finanziario oscura le trappole in cui la transizione ha fatto cadere l’umanità. Le monocolture e l’impiego di pesticidi alterano la biodiversità che è condizione essenziale per la stabile successione delle coltivazioni; il crescente impiego di concimi artificiali provoca l’immissione nell’atmosfera di ossidi di azoto, uno dei “gas serra”; la zootecnica contribuisce all’immissione nell’atmosfera di metano, altro “gas serra”, per cui l’agricoltura industriale contribuisce in maniera crescente al riscaldamento globale e alle conseguenti modificazioni climatiche che sempre più spesso distruggono i fertili campi.

La coltivazione intensiva del suolo e l’abbandono delle terre meno produttive alterano il moto superficiale delle acque e provocano allagamenti e frane che colpiscono in primo luogo proprio l’agricoltura stessa. La pasta e l’olio, la frutta e le carni diventano “manufatti”, standardizzati nella qualità; la diversità biologica è sostituita dalla fantasia dei nomi, delle etichette, dalle mode gastronomiche e così aumentano sprechi e rifiuti. Si può quindi amaramente dire che l’agricoltura industriale, nel secolo ormai della sua esistenza, dopo aver distrutto l’agricoltura contadina sta distruggendo se stessa con i guasti ambientali e sociali.

Nell’introduzione al volume prima ricordato Pier Paolo Poggio ricorda che la salvezza, umana e ambientale del pianeta, è realizzabile con una agricoltura ecologica che veda “i contadini” appropriarsi del meglio della tecnologia attraverso il suo utilizzo selettivo e intelligente, producendo cibo con una “economia circolare”, per usare un termine oggi di moda, come hanno fatto sempre nel corso della storia.

Alla fine dei lavori del convegno di Brescia i partecipanti hanno redatto un “manifesto” in cui auspicano l’avvento di una economia agricola rinnovata, ecologica, appunto, capace di assicurare un reddito dignitoso, un lavoro soddisfacente, la sperimentazione di nuove forme di convivenza sociale e un rapporto consapevole con l’ambiente di vita e naturale. Una trasformazione legata ai prodotti e ai produttori di ciascun territorio, al servizio degli abitanti delle campagne e delle città, volta a limitare gli sprechi materiali ed energetici.

Una agricoltura ecologica può e deve raccogliere e superare l’eredità sia dell’agricoltura contadina sia di quella industriale, una transizione in cui è fondamentale il ruolo delle giovani generazioni e delle donne. La sua affermazione, passando da situazioni di nicchia a fenomeno socialmente rilevante, le consentirà di svolgere un ruolo prezioso di rigenerazione sul piano culturale, ambientale ed economico, rimettendo al centro dell’operare umano il valore del saper fare e della manualità, il valore del lavoro e del suo senso, il valore delle cose e delle relazioni, il valore dei tempi dell’attesa.

Abbastanza curiosamente simili concetti sono stati espressi da Papa Francesco parlando ai “Movimenti popolari”, per lo più piccoli contadini sparsi in tutto il mondo, riuniti sotto una bandiera che chiede “Terra, casa, lavoro”. “La passione per il seminare, ha detto il Papa, per l’irrigare con calma ciò che gli altri vedranno fiorire sostituisce l’ansia di occupare gli spazi di potere e di vedere risultati immediati”. Forse sarà questa la vera “modernità” per nutrire il pianeta.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno



Una riflessione documentata che evidenzia lo iato incolmabile fra le innovazioni in atto nel governo e nella pianificazione dell’area metropolitana lionese e i modestissimi risultati finora conseguiti nel percorso di istituzione e attribuzione di competenze alle nostre Città Metropolitane: in particolare a quella milanese.

Il 17 e 18 settembre scorsi la scuola di eddyburg si è strasferita a Lione per due giorni di fitti incontri con amministratori e tecnici del Grand Lyon e dell’Agence d’Urbanisme de l’Agglomération Lyonnaise. Queste mia note sono dedicate a mettere in evidenza, sia pure per cenni sintetici, lo iato incolmabile fra le innovazioni in atto nel governo e nella pianificazione dell’area metropolitana lionese e i modestissimi risultati finora conseguiti nel percorso di istituzione e attribuzione di competenze alle nostre Città Metropolitane (CM), in particolare a quella milanese.

Dal gennaio 2015 a Lione è attivo un ente di governo metropolitano a ‘statuto particolare’, grazie alla entrata in vigore nel 2015 della “Loi de modernisation de l’action publique territoriale et d’affirmation des métropoles” (MAPAM) la quale, a differenza della coeva ma dannosa legge Delrio[1], ha istituito città metropolitane con competenze molto estese, pur riconoscendo e legittimando percorsi istituzionali differenziati sulla base delle caratteristiche delle singole agglomerazioni metropolitane e dello stato di avanzamento dei processi locali di governance di area vasta. La Communauté Urbaine de Lyon, che partiva avvantaggiata grazie alla sua lunga e positiva tradizione di concertazione intercomunale, è stata considerata ‘matura’ per un passaggio immediato allo statuto di “collectivité territoriale unique[2].

La legge istituisce due altre collettività territoriali a statuto particolare: la Métropole du Gran Paris che entrerà in vigore nel 2016 raggruppando la capitale e i dipartimenti della petite couronne (Hauts-de-Seine, Seine-Saint-Denis et Val-de-Marne), con compiti di pianificazione territoriale e ambientale e di politica abitativa (mentre i trasporti continueranno ad essere in capo alla regione Ile-de-France); e la Métropole di Aix-Marseille Provence che a partire dal gennaio 2016 si sostituirà alle sei associazioni intercomunali esistenti sul territorio. La legge autorizza il passaggio volontario al governo metropolitano delle altre 10 Communautés Urbaines (Tolosa, Lille, Bordeaux, Nantes, Strasburgo, Rennes, Rouen, Grenoble, Montpellier e Brest). I tempi sono in questo caso flessibili ma, per sollecitarne l’istituzione, a legge approvata François Hollande ha immediatamente sottolineato che le dotazioni finanziarie erogate dallo Stato avrebbero potuto “variare in funzione dell’impegno delle amministrazione locali”. Risultato: tutte le potenziali Métropoles si sono rapidamente adeguate e hanno avviato il percorso istituzionale previsto dalla legge.

Da sottolineare poi che tutte le Métropoles sono istituzioni locali a fiscalità propria: una riforma federalista con la quale la nostra legge sulle CM non ha alcun elemento in comune.

La istituzione dei governi metropolitani non è che un passaggio (anche se certamente importante) di una più ampia riforma delle amministrazioni locali che ha già ridimensionato il numero delle Regioni[3] e che, sempre nel 2015, ha ridisegnato la struttura amministrativa del paese attraverso la Legge n. 991 del 7 agosto 2015 “portant nouvelle organisation territoriale de la République” (NOTRe): una legge che razionalizza e semplifica un sistema plurilivello, troppo articolato e frammentato, reso inefficiente dalle molteplici sovrapposizioni di competenze e divoratore di risorse pubbliche, che i francesi definiscono icasticamente "millefeuille territorial”.

Le competenze attribuite al neonato governo metropolitano lionese sono amplissime, e gli sono state obbligatoriamente trasferite (così come per tutte le istituende Métropoles) sia dal basso che dall’alto. Si aggiungono infatti a quelle già esercitate dalla Communauté urbaine de Lyon, ulteriori competenze precedentemente in capo ai comuni. Ma, soprattutto, a Lione si anticipa la riforma complessiva prevista dalla legge NOTRe: sul suo territorio essa esercita oggi anche le competenze spettanti al Département du Rhône, fra le quali quella fondamentale dei servizi alla persona. In questo modo, il governo metropolitano ha aumentato il numero di dipendenti (7.500) e portato il suo budget a 3,5 miliardi di euro. Insomma, Lione ha fatto di nuovo da apripista alle altre agglomerazioni urbane, e ha oggi a disposizione poteri e strumenti rilevanti per perseguire i suoi obiettivi ambiziosi e, come vedremo, non solo retorici: migliorare il ‘posizionamento competitivo’ di Lione; rendere più efficace e comprensibile l’azione pubblica; rispondere ai bisogni dei cittadini.

Quali sono oggi le competenze esclusive di Lyon Métropole? Ne faccio solo l’elenco. A quelle precedentemente in capo alla Communauté Urbaine (pianificazione territoriale, ambiente, politica abitativa, sviluppo sostenibile ed energia, trasporti e mobilità, sviluppo economico, relazioni internazionali, gestione dei rifiuti, gestione delle risorse idriche, strade, turismo e agricoltura), si aggiungono quelle precedentemente in capo al Département du Rhône (inserimento lavorativo, anziani, portatori di handicap, famiglia, istruzione superiore, infanzia, cultura, sport e turismo) e, infine, quelle previste dalla legge MAPAM (creazione e gestione dei servizi per la cultura - musei, teatri, biblioteche,…-, costruzione e gestione delle reti di climatizzazione e delle reti a banda larga ad alta velocità, prevenzione dalle inondazioni, prevenzione della delinquenza e accesso ai diritti, partecipazione alla governance delle stazioni ferroviarie, copilotaggio dei pôles de competitivité, gestione del parco alloggi, costruzione e gestione dei servizi per i veicoli elettrici, servizi antincendio, igiene e salute).

Voglio soffermarmi più in dettaglio sulle competenze di pianificazione territoriale e urbanistica, anche per evidenziarne la distanza siderale dai modesti obiettivi della legge Delrio e dalle iniziative sinora avviate nel contesto lombardo/milanese.

Oltre che del piano di area vasta (SCOT) già di sua competenza, il governo metropolitano diventa l’unico responsabile dei piani di destinazione d’uso dei suoli. Spetta infatti all’Agence d’Urbanisme de la Métropole la elaborazione del PLU (Plan Local d’Urbanisme) dell’intero territorio metropolitano - ovviamente in concertazione con i singoli Comuni-. Un PLU che oggi a Lione si sta trasformando (è in revisione) in PLU-H (Plan Local d’Urbanisme-Habitat), poiché anche tutta la politica abitativa è in capo al Grand Lyon e soggetta alla sua approvazione.

Nel PLU del Grand Lyon sono state introdotte delle modifiche sostanziali ad alcuni articoli delle norme tecniche di attuazione per consentire la messa in opera, sul territorio metropolitano, del dispositivo contenuto all’art.55 della legge urbanistica (SRU) del 2000 dedicato a ridurre l’emergenza e la segregazione abitativa dei soggetti più deboli[4]. In ogni progetto locale destinato nel piano a edilizia residenziale devono essere previsti i “secteurs de mixité sociale”; sono cioè prescritte quote non negoziabili di edilizia economico-popolare. In particolare, devono essere obbligatoriamente realizzate quote di alloggi in affitto articolate in PLAI (Prêt Locatif Aidé d’Intégration: riservato alle persone in situazione di grave precarietà), in PLUS (Prêt Locatif à Usage Social: l’HLM tradizionale) e in PLI (Prêt Locatif Intermédiaire): destinati a famiglie i cui redditi sono più elevati di quelli ordinari dell’HLM ma insufficienti per accedere al mercato privato. L’obiettivo per la metropoli è oggi di raggiungere una quota percentuale del 25% del patrimonio abitativo. E’ l’amministrazione metropolitana che definisce le modalità di intervento sia per gli aménageurs pubblici che per gli operatori privati. Ciò vale in particolare per i grandi progetti di rigenerazione urbana o di riuso di aree dismesse: ricorrendo a seconda dei casi al meccanismo delle ZAC (Zones d'Aménagement Concerté), alla formula del Projet Urbain Partenarial o al Permis d'Aménager attribuito al developer o di iniziativa pubblica.

Per contrastare la doppia velocità urbana, si utilizzano i Contrats urbains de cohésion sociale (CUCS) attraverso i quali i finanziamenti dello Stato vengono concentrati su 63 quartieri difficili appartenenti a 25 Comuni della Métropole. Si tratta di contratti che attivano misure per favorire l’accesso alla istruzione e all’impiego dei gruppi sociali emarginati, promuovere l’accesso ai diritti e alla socialità. I CUCS sono spesso di accompagnamento a progetti di rigenerazione fisica dei quartieri. La Métropole ha infatti un ambizioso programma di “renouvellement urbain” (ricostruzione della città su sé stessa): una prima tranche di finanziamenti su 12 siti ha investito 1,8 miliardi di euro per demolizione, ricostruzione, creazione di servizi e spazi pubblici.

Nei grandi progetti recenti di rigenerazione urbana si stanno realizzando densità molto elevate. Ma si tratta di mera densificazione o di intensificazione? La recente legge ALUR (n. 366 del 24 marzo 2014 “pour l'accès au logement et un urbanisme rénové”), oltre ad affrontare il problema del disagio abitativo e della crisi degli alloggi con l’intento di “favorire l’accesso di tutti a un alloggio accessibile” attraverso una serie di misure molto dettagliate sia cogenti che incentivanti, introduce anche norme per valorizzare la qualità urbana e degli spazi pubblici e, simmetricamente, per la tutela ambientale e il controllo di consumo di suolo agricolo, come esplicitamente statuito dalle Grenelle 2 sull’ambiente[5]. Infatti, contrasta la dispersione urbana attraverso nuovi strumenti di politica fondiaria affidati alle collettività locali, e con il progressivo trasferimento a tutte le associazioni intercomunali (non soltanto le Métropoles quindi) delle competenze, oggi comunali, in materia di elaborazione dei piani urbanistici d’uso dei suolo.

Inoltre, proprio per ottemperare agli imperativi della Grenelle 2, si è costituito volontariamente un innovativo coordinamento partenariale fra tre Agenzie di Pianificazione territorialmente contigue della Regione Rhône Alpes: l’Agence d’urbanisme de la région grenobloise, l’Agence d’urbanisme de la région stéphanoise e, naturalmente, l’Agence d’urbanisme de l’agglomération lyonnaise): “un partenariato su misura, di lungo periodo, dedicato alla coerenza e qualità dei progetti di territorio” che pone al centro la moderazione del consumo di suolo e il contrasto all’urbanizzazione a bassa densità.

Fra i grandi obiettivi strategici del governo metropolitano lionese primeggia dunque la lotta al consumo di suolo e la tutela perenne delle aree agricole e di pregio ambientale. E’ in questo quadro (metropolitano, non comunale) che vanno valutate le densità elevate che si registrano in alcuni nuovi grandi progetti di rigenerazione urbana realizzati o in corso di completamento (il più grande è Lyon Confluence); e anche alla luce di questi nuovi territori a geometria variabile costituiti da reti volontarie finalizzate a combattere lo sprawl insediativo.

Insomma, una mera comparazione con le densità di alcuni progetti milanesi (peraltro spesso orribili, come City Life), completamente affidati a logiche speculative e comunali, rischia a mio avviso di banalizzare il problema. Lyon Confluence può suscitare perplessità: ma soprattutto per alcuni aspetti relativi alla qualità della progettazione architettonica (che ha suscitato perplessità anche in molti “eddyburghiani”…). Ma il criterio della mera comparazione delle densità rischia di oscurare altri aspetti in cui le differenze con i progetti milanesi sono evidentissime: ad esempio per quanto riguarda il mix funzionale realizzato, la elevata offerta di HLM (il 25% della nuova offerta abitativa), la formidabile accessibilità pubblica, la dotazione di servizi di rilevanza locale e sopralocale e, soprattutto, il simmetrico arresto dell’espansione insediativa in aree di cintura metropolitana a elevato valore ambientale e agricolo[6].

Ulteriori elementi differenziano in maniera sostanziale il modello di governo metropolitano all’opera a Lione da quello che si prospetta per le nostre CM. Nel Grand Lyon la fiscalità urbanistica è di competenza metropolitana (dal 2012 si tratta, per le agglomerazioni francesi, di due tasse: “taxe locale d’aménagement” - 1/8 delle entrate ottenute viene riversato ai comuni- e “versement pour sous-densité”). È l’amministrazione metropolitana che definisce gli oneri urbanistici a partire dalle destinazioni d’uso del PLU di area vasta. E ancora, è il Grand Lyon che, su richiesta di molti Comuni (soprattutto i più piccoli), istruisce le procedure relative alle concessioni edilizie. Ad oggi, sono 22 i Comuni che si affidano all’amministrazione metropolitana: in particolare all’ADS (pôle Autorisation du Droit des Sols) che istruisce i dossier, dà supporto tecnico e operativo, suggerisce ai sindaci le decisioni da prendere, lasciando loro la decisione finale e la firma dell’autorizzazione. E questo aspetto non soltanto garantisce probabilmente scelte tecniche più efficaci, ma certamente anche una migliore coerenza con il progetto cha sostanzia il piano urbanistico generale di scala metropolitana.

Non è qui possibile entrare nel merito del sistema di perequazione territoriale introdotto per le associazioni intercomunali francesi all’inizio di questo secolo grazie a una legge votata nel 1999. Si può solo sottolineare che, anche se sono state modificate nel corso del tempo le fonti di prelievo a sostegno della perequazione intercomunale[7], essa continua a trasferire alle Métropoles e a tutte le associazioni volontarie intercomunali mediamente il 40% delle entrate fiscali locali. I comuni ricevono dallo stato una compensazione proporzionale alla rilevanza e numerosità delle competenze trasferite all’ente intercomunale. Si tratta di un modello di grande successo che più volte abbiamo richiamato come buona pratica e del quale non troviamo traccia nella nostra legislazione nazionale (né in molte leggi regionali…tantomeno in quelle della Regione Lombardia). Ma è proprio questo modello di solidarietà fiscale in ambito metropolitano che ha arginato le propensioni autonomistiche e individualistiche delle amministrazioni comunali; che ha consentito di porre un argine alla loro propensione a fare cassa attraverso la “zecca immobiliare” a scapito della tutela del territorio non urbanizzato.

Anche le politiche e gli strumenti messi in campo per la concertazione con gli attori e il coinvolgimento dei cittadini sono potenti ed istituzionalizzati. Li cito soltanto, senza entrare nel merito, poiché scopi e aggiornamento delle attività sono reperibili in internet: il Conseil de développement, la Commission consultative des services publics locaux, la Commission Intercommunale d'Accessibilité e la interessantissima Charte de la Participation Citoyenne già in vigore dal 2003 e approfondita nel 2011 per i Contrat Urbain de Cohésion Sociale relativi ai progetti di riqualificazione urbana.

Quest’anno, per effetto dei tagli alla spesa pubblica effettuati a livello nazionale, dopo un periodo di stabilità Grand Lyon sarà costretto (come già da alcuni anni sta avvenendo nelle altre grandi agglomerazioni urbane francesi) ad aumentare le tasse sulla casa: aumenteranno infatti sia la Taxe Foncière (la tassa che si applica sulla proprietà degli immobili) che la Taxe d’Habitation che è dovuta dal soggetto che abita l’immobile a qualunque titolo. Naturalmente qualsiasi riferimento all’ipotesi di abolizione di IMU e TASI caldeggiata da Matteo Renzi è puramente casuale…

E Milano?

Alla luce di quanto sommariamente evidenziato sull’attività riformatrice del governo francese in materia di legislazione urbanistica e di riforma amministrativa, che dire del modesto esercizio riformatore della legge Delrio e, in particolare, delle vicende esitanti della CM milanese e del disinteresse manifesto dell’amministrazione del capoluogo? Che certamente i nostri ‘policy maker’ nazionali e i nostri amministratori locali poco conoscono, e comunque assai poco si interessano, delle buone pratiche in ambito metropolitano all’opera nelle città europee. Non sono certamente consapevoli che le buone pratiche di concertazione intercomunale hanno funzionato in Francia come un formidabile acceleratore di innovazione economica, sociale e ambientale sia a livello centrale che locale[8].

Ma Milano e la Lombardia sono più che disattente.

Il 29 settembre 2015 è stata approvata dal Consiglio Regionale, con l’inaccettabile astensione del centro-sinistra e con il solo voto contrario dei 5Stelle, la legge 92 che definisce le competenze attribuite alla Città Metropolitana[9]. Si tratta di una legge pessima. E anche se le aspettative erano modeste viste le propensioni mercatistiche di un governo regionale in mano alla Lega e ai suoi sodali, decimati da quotidiane vicende di corruzione, una volta di più si è persa una occasione di pensare al futuro dell’area metropolitana ‘più metropolitana’ d’Italia. Altro che “locomotiva d’Europa”! Uno slogan ormai vecchio di 30 anni che continua ad essere rispolverato da chi amministra la regione e la città, e che dovrebbe essere sostituito da immagini ben più consapevoli e problematiche, poiché Milano e il suo territorio rischiano, come ho argomentato recentemente e in maniera approfondita, un vero e proprio ‘decadimento urbano [10].

Con la legge 92, la Regione accentra tutte le funzioni precedentemente esercitate dalla Provincia di Milano, soprattutto quelle che dovrebbero costituire ambiti fondamentali per la sostenibilità economica, ambientale e sociale del territorio metropolitano: l’agricoltura, la cultura, l’ambiente e l’energia[11]. Inoltre, la Regione si è attribuita un ruolo di controllo (in realtà una vera e propria invasione di campo, una interferenza inaccettabile che impedirà eventuali e auspicabili innovazioni che potrebbero scaturire ‘dal basso’ sul territorio metropolitano): mi riferisco alla decisione di istituire una Conferenza Permanente tra Regione e Città Metropolitana che potrebbe trasformarsi in un meccanismo di controllo occhiuto e probabilmente paralizzante da parte del governo regionale. E ancora: il PTM (il Piano Territoriale Metropolitano: in pratica, il vecchio Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale senza alcuna nuova competenza se non quella relativa al retorico, letterario ed effimero “piano strategico” della durata di 3 anni e aggiornabile ogni anno!) è subordinato al Piano Territoriale Regionale. Insomma, per avviare la Città Metropolitana milanese si rafforza un modello gerarchico e ‘a cannocchiale’ da decenni vituperato a parole dai tanti sostenitori della governance multilivello i quali, però, in occasione della discussione e approvazione di questa legge miserabile, sono stati silenti o distratti[12].

Né la giunta milanese, né il neonato governo metropolitano, né l’opposizione in Regione hanno espresso sostanziali rilievi critici. Men che meno la stampa: neanche quella locale, impegnata a sottolineare quotidianamente, e ossessivamente, i successi di EXPO2015 e del suo Commissario Straordinario Giuseppe Sala (un ulteriore viatico per la sua elezione a sindaco di Milano?).

Meglio continuare a nascondere il vuoto di idee e di lungimiranza della ‘sinistra’ con dichiarazioni trionfalistiche e autoreferenziali…basti dire che, recentemente, partecipando a Milano alla presentazione della Carta dei Valori in vista delle primarie milanesi del 7 febbraio 2016, in una Casa della Cultura completamente deserta se si eccettuano giornalisti e reti televisive, il sindaco Pisapia, evocando il trionfo di EXPO, ha collocato Milano addirittura ai vertici della gerarchia mondiale delle città (sic!).

Tanti auguri alla Città Metropolitana Milanese: ma, visti da Lione, i primi passi sono davvero scoraggianti.

[1] Ho evidenziato le principali criticità della legge Delrio alla scuola di eddyburg del 2013: Gibelli M. C. (2013), Intercomunalità in ambito metropolitano”, eddyburg.it, 13 novembre.
[2] Di grand Lyon fanno parte 59 comuni e 1.281.971 “grand Lyonnais”.
[3] Legge n. 29 del 16 gennaio 2015 “relative à la délimitation des régions, aux élections régionales et départementales et modifiant le calendrier électoral”: le Regioni a partire dal primo gennaio 2016 passeranno da 22 a 13.
[4] La legge urbanistica (Legge 2000-1208 del 13 dicembre “relative à la solidarité et au renouvellement urbains”) all’art. 55 recita: “Si obbligano i comuni di più di 3.500 abitanti (1.500 in Ile-de-France) che facciano parte di una agglomerazione di più di 50.000 abitanti comprendente un comune di più di 1.500 abitanti, a realizzare un numero di alloggi sociali in affitto superiore al 20% del totale del patrimonio abitativo comunale. I comuni dove la quota è inferiore al 20% vengono sottoposti a un prelievo sulle loro risorse fiscali. Questo prelievo è utilizzato per sostenere la costruzione di alloggi”.
[5] Legge n. 788 del 12 luglio 2010 “portant engagement national pour l'environnement “.
[6] Baioni M. (2015)“Lyon Confluence: un quartiere nato due volte”, in eddyburg.it, 28 settembre.

[7] La CET(Contribution Économique Territoriale) dal 2010 ha sostituito la TPU (Taxe Professionnelle Unique); è costituita da quote delle entrate fiscali locali derivanti dalle attività produttive, dalle abitazioni in proprietà e dalle tasse sulle proprietà fondiarie, sia edificate che non edificate.

[8] Si vedano le mie riflessioni a proposito della vicenda milanese pubblicate sul numero monografico di Meridiana dedicato alla Città Metropolitana: Gibelli M. C. (2014), “Milano città metropolitana fra deregolazione e nuova progettualità”, Meridiana, n. 80.

[9] Disposizioni per la valorizzazione del ruolo istituzionale della Città metropolitana di Milano e modifiche alla legge regionale 8 luglio 2015, n. 19 (Riforma del sistema delle autonomie della Regione e disposizioni per il riconoscimento della specificità dei Territori montani in attuazione della legge 7 aprile 2014, n. 56 'Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di comuni'

[10] Gibelli M. C. (2015), “Urban crisis or urban decay? Italian cities facing the effects of a long wave towards privatization of urban policies and planning”, in Eckardt F., Sanchez J. V. (a cura di), City of crisis. The multiple contestation of Southern European Cities, Blelefeld, transcript Verlag.

[11] Proprio mentre all’EXPO2015 si continuano ad agitare questi temi come cruciali per il futuro delle grandi città e del pianeta.

[12]Altrove le cose, viste le premesse legislative della Delrio, non vanno molto meglio, ma quanto meno nella legislazione dell’Emilia Romagna e della Toscana è prevista la ‘possibilità’ di realizzare il piano strutturale metropolitano.

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