Non è aumentando la “moneta urbanistica” (i metri cubi edificabili), magari con la conferma di atti illegittimi della Giunta Alemanno, che si rigenerano la periferie, ma eliminando la stretta creditizia. La Repubblica, ed. Roma, 20 settembre 2013
ASSESSORE Caudo, i costruttori di Roma chiedono al Comune regole certe e tempi brevi per ottenere le concessioni. Anche perché, dicono, senza certezze le banche non aprono le borse...
«Con le associazioni dei costruttori, fin dall’insediamento, abbiamo aperto un tavolo operativo. Concordo con il presidente Bianchi, quando indica la rigenerazione urbana come un’opportunità anche per gli imprenditori. Delle sue argomentazioni mi sembra centrale quella dell’accesso al credito che è questione di rilevanza strategica».
Come risolvere il problema?
«Intanto diciamo che è un problema comune, perché la difficoltà di accesso al credito per le imprese ha fatto lievitare nei nostri uffici le giacenze dei permessi a costruire, già pronti ma non ritirati. I cantieri non aprono e le imprese sono in difficoltà. In difficoltà è anche il Comune che vede diminuire l’incasso degli oneri di urbanizzazione. Erano circa cento milioni di euro l’anno, prima della crisi, oggi siamo intorno ai 41 milioni di euro. E questo è un problema di risorse per le politiche sociali e i servizi ».
Perché i permessi non vengono ritirati?
«Per la mancanza di risorse economiche. Ad oggi abbiamo circa 700 permessi di costruzione non ritirati. Dall’aprile di quest’anno sono aumentati di ben 200».
Come sbloccare la situazione?
«Va sbloccata insieme: il Comune, le imprese, il sistema economico della città da una parte e il sistema creditizio dall’altro. Riporto qui quanto è emerso negli incontri che ho organizzato in proposito con gli istituti di credito.
Qual è la soluzione?
«Le banche sarebbero disposte ad aumentare la loro disponibilità al credito verso le imprese a fronte di una maggiore presenza anche di garanzie del sistema regionale ».
Come ci si può muovere?
«Proponiamo un patto civico tra Comune e imprese per rendere credibile nei confronti del sistema creditizio le proposte progettuali. L’obiettivo potrebbe essere di ridurre del 20% le giacenze entro l’anno. Oggi le difficoltà di finanziamento spingono le imprese a ricorrere a quella che viene definita la “moneta urbanistica”».
Ossia?
Le quantità edificabili sono utilizzate come garanzia ma il ricorso alla sola “moneta urbanistica” deforma il sistema economico e costruisce una città poco vivibile ».
In concreto?
«Riconosciamo l’esigenza di poter utilizzare queste garanzie ma dobbiamo anche riportare il ragionamento alla qualità dei quartieri che si realizzano, che non è solo misurabile in metri cubi. Per questo il patto che proponiamo è “civico”, perché aiuta le imprese e rende gli interventi urbanistici più sostenibili sotto il profilo sociale e ambientale».
Riferimenti
A proposito degli atti illeggittimi della maggioranza Alemanno vedi l’articolo di Giuseppe Paglino e la documentazione sul sito carteinregola
L’ignobile schifezza delle “compensazioni“ difesa da un accordo bipartisan nella maggioranza consiliare che dice di sostenere Ignazio Marino mentre difende il lascito del devastatore Alemanno. Poi dichiarano di voler contrastare il consumo di suolo e difendere la legalità. Il Fatto quotidiano online, 17 settembre 2013
Cancellare e ritirare tutti gli atti dell’amministrazione Alemanno che aggravano il consumo di nuovo suolo agricolo”. Questa la promessa fatta in campagna elettorale dal candidato sindaco di Roma del centrosinistra, Ignazio Marino. “La città – recitava ancora il programma elettorale ‘Roma è vita’ – deve sapere con assoluta chiarezza che quel modello di sviluppo urbano è definitivamente concluso”. Ed effettivamente uno dei primi provvedimenti dell’ex senatore Pd, indossata la fascia tricolore, è stato – insieme alla discussa pedonalizzazione dei Fori imperiali – proprio quello di cancellare una delle scelte urbanistiche più contestate all’amministrazione Alemanno: il bando per il reperimento di aree agricole per la realizzazione di alloggi per l’housing sociale.
Nonostante l’impegno preso da Marino con i propri elettori, l’Agro romano potrebbe però essere ugualmente coperto da una nuova colata di cemento. Si dice infatti “allibito” il comitato cittadino Carte in regola, dopo la denuncia su Facebook del consigliere comunale del M5S, Daniele Frongia. Le commissioni congiunte Urbanistica e Patrimonio, entrambe presiedute da due esponenti del Pd (Antonio Stampete e Pierpaolo Pedetti), “si sono espresse in modo bipartisan (Pd-Pdl), con il solo voto contrario di Frongia e l’assenza dei consiglieri di Sel e Lista Marchini, a favore della immediata pubblicazione” di una delle delibere più contestate, tra quelle approvate in tutta fretta nell’ultima seduta di Consiglio comunale targato Alemanno lo scorso 10 aprile. E’ la 69/2012, con la quale vengono riconosciute all’Ater, Azienda territoriale per l’edilizia residenziale, e a numerosi proprietari privati di aree situate a Casal Giudeo compensazioni edificatorie. Per un totale di 1,3 milioni di metri cubi.
“Una delibera con forti dubbi di illegittimità” denuncia il comitato Carte in regola. Perché quei terreni nel 2003, con l’adozione del nuovo piano regolatore generale, vennero modificati da zona edificabile (secondo quanto prevedeva il P.R.G del 1965) a zona agricola con valenza ambientale. Nel merito si è espresso anche il Tar che, nei mesi scorsi, ha respinto il ricorso di un privato, confermando l’argomentazione formulata nel 2006 dal Comune di Roma, in risposta alle osservazioni presentate dallo stesso richiedente (“l’area in oggetto costituisce parte integrante del sistema ambientale”). E dunque: “Non tutte le volumetrie legittimamente soppresse per una scelta di riduzione delle quantità edilizie da parte dell’Amministrazione sviluppata nelle ultime tre Varianti, possono essere “compensate” senza vanificare le scelte urbanistiche dell’Ente locale – si legge nella sentenza del Tar del Lazio del novembre 2012 – (…) E’ necessario tener conto del perseguimento degli obiettivi di interesse pubblico o generale, fra i quali assume essenziale rilievo la riduzione delle volumetrie generali, cardine del NPRG”. Perciò “se venisse confermata – paventa il comitato Carte in regola – la delibera costituirebbe un precedente in grado di innestare un “effetto domino” devastante, perché autorizzerebbe tutti gli esclusi dalle “compensazioni” derivanti dalla Variante delle Certezze e previste dal PRG a pretendere dal Comune lo stesso trattamento”.
All’inizio di questa storia non c’è, come tutti abbiamo immaginato, un grande intellettuale quale Giulio Carlo Argan. Non c’è una dotta discussione sul rapporto fra Antichità e Modernità. C’è più banalmente (ma quanto più felicemente) un ricordo giovanile, una passeggiata con una ragazza americana, di origini caraibiche, in visita estiva a Roma, un giro nei Fori (per farla meravigliare, per farla innamorare?), che finisce con una osservazione di lei, pratica come pratico è spesso lo spirito americano: “Ma che vi è venuto in mente di fare una strada proprio sul Foro?”
Decenni dopo Ignazio Marino, divenuto Sindaco, prova a rispondere a quel rimprovero. Se siete stati irritati o compiaciuti dalla scelta di bloccare al traffico l’area intorno al Colosseo, tenetevi pronti ad altre emozioni forti. La pedonalizzazione è infatti solo l’inizio di un progetto che “nel corso di questo mandato” avvierà nuovi scavi che porteranno alla luce i Fori più antichi che giacciono coperti dal grande viale che va dal Colosseo a Piazza Venezia. Il risultato finale sarà non solo l’ampliamento dell’area archeologica, ma uno stravolgimento totale dell’attuale volto della Capitale: come conseguenza di questi scavi, infatti, via del Fori Imperiali, la strada così fortemente voluta da Mussolini, e oggi così fortemente parte della identità della città, scomparirà, verrà smantellata. “Forse ne resterà una sezione, magari per pedoni e biciclette”, dice serafico senza giri di parole il neo-sindaco di Roma in questa intervista.
Sindaco Marino, cosa risponde a chi le rimprovera che Roma ha altre priorità di quelle da lei scelte, che le periferie sono più importanti della pedonalizzazione dei Fori?
Ho fatto in realtà molti giri di periferie. Dedico a queste visite un giorno alla settimana. Sono stato ad Ostia a San Basilio…
Sempre in bicicletta?
La bicicletta piace molto, ho scoperto. Perché la gente può fermarti facilmente, mette le mani sul manubrio e ti tiene bloccato fino a che non ha finito di parlare… In ogni caso, I primi 50 nuovi mezzi di trasporto pubblico li abbiamo tutti dati alle periferie.
Come le è venuta l’idea di pedonalizzare i Fori? È stato un progetto accarezzato a lungo o una decisione presa all’improvviso, in fretta, come un po’ è apparso?
La vera storia in realtà non ha nulla a che fare con l’essere sindaco. Nel 1988, avevo appena finito I miei studi a Pittsburgh, venni a Roma come ogni anno, per l’estate. In America avevo conosciuto un medico, Velma Skandersberg , una afroamericana di origini caraibiche, e la invitai a venire in Italia. La portai ai Fori, ricordo. La portai in giro, per farle sentire tutta la magia di essere in questi luoghi , “Ecco qui ha camminato Giulio Cesare, e Cicerone parlò in questo esatto posto”. Poi usciamo dagli scavi, arriviamo sulla strada e lei esclama: “Ma come vi è venuto in mente di costruire una strada proprio fuori da qui”. Fu lei a farmi scoprire per prima l’incongruenza di questa situazione….
Insomma, dobbiamo le sue decisioni a Velma e non, come si pensa, ad Argan.
Beh, in quegli anni ero più familiare con i libri di chirurgia che con il dibattito storico politico. La discussione sui Fori in effetti è antica, viene impostata nel 1887 da Guido Baccelli, che fu il primo a imporre il problema del parco archeologico…. Da adulto ne ho letto poi molto. Ma lei mi ha chiesto cosa c’è all’origine delle mie idee.
Altri ricordi di gioventù che dobbiamo conoscere per capire il futuro della città?
Ce n’è di sicuro un altro, che mi ha sostenuto nel prendere le mie decisioni attuali da sindaco. Ricordo che nel 1973, cito un anno a caso, io come tutti i romani andavo a Piazza del Popolo e parcheggiavo la macchina. Quella Piazza meravigliosa era una enorme distesa di vetture, e a nessuno sembrava strano. Oggi è zona pedonale. Come è avvenuto il passaggio, con quali disaccordi? Sono certo che c’è stata una discussione, che qualcuno ha preso la decisione di cambiare la destinazione d’uso della Piazza, che i commercianti avranno protestato. Ma se oggi io come sindaco volessi proporre il contrario, cioè di riaprire il parcheggio a piazza del Popolo, sono sicuro che sarei inseguito con i bastoni! È mia convinzione che tra venti anni sarà avvenuto lo stesso cambio culturale nei cittadini in merito ai Fori.
La prima settimana è passata alla fine senza grandi tensioni. Ma certo non finisce qui. Lei infatti fin dall’inizio ha fatto riferimento a un progetto più grande. In risposta, il sindaco, come pare faccia spesso, si alza e ci invita a uscire con lui sull’"affaccio”. L’affaccio è un esile balconcino aggrappato a una parete laterale a caduta libera dell’edificio del Campidoglio. La base del balcone è strettissima, non più di tre persone vi stanno dritte e affiancate, e la combinazione di strapiombo e monumenti romani, archi, colonne, Via Sacra e Senato, provoca uno smarrimento fra panico e bellezza. Tutti i sindaci che hanno guidato il Campidoglio hanno amato questo affaccio. L’accesso al modesto balcone senza nessuna pretesa artistica sul più imponente memoriale della Storia è infatti forse il vero simbolo del potere che deve gestire chi guida la città di Roma. Tutti i sindaci, dunque, usano la cortesia di offrire questa vista almeno una volta agli ospiti. Ma Ignazio Marino invece di guardare in basso ai celebri monumenti, è rivolto a sinistra, verso la strada dei Fori Imperiali, che limita e divide le antichità. Punta con il braccio verso la base del viale.
“Guardi lì sotto, vede, vede? Lì sotto ci sono altri reperti, i fori più antichi… anzi, vede? Lì sotto c’è la maggior parte del Foro”.
Guarda, insiste, e sorride. Secondo statistiche storiche, gli scavi del periodo mussoliniano vennero in gran parte ricoperti per costruire proprio la nuova strada imperiale fra Colosseo e Piazza Venezia. Dal punto di vista archeologico, le cifre sono paradossali. Nota l’urbanista Italo Insolera che “la banchina di calcestruzzo seppellì nuovamente, e sotto ben più dura scorza, parte di quanto era stato scavato”. I Fori infatti coprivano 80 mila metri quadri. Ne furono scavati 76 mila e riseppelliti 64 mila, circa l’84 per cento. “I ruderi lasciati in mostra sono indubbiamente importanti, ma rappresentano solo il 15 per cento di quanto gli imperatori costruirono”.
L’altro risultato controverso è di tipo percettivo. Osserva Antonio Cederna: “Oltre ad aver spaccato in due l’unità della zona archeologica (…) i Fori imperiali sulla sinistra di chi va verso il Colosseo sono stati sprofondati in catini (…) mentre i monumenti sulla destra presentano tutti al passeggero il didietro”.Le conseguenze della osservazione del Sindaco sono dunque piuttosto chiare.
Il suo prossimo passo è dunque liberare questa parte del Foro dalla “copertura” della strada?
Sì. Intendiamo farlo.
Come lo faremo è da vedere. Ci sono varie metodologie possibili. Per questo il primo passo da fare è organizzare un grande confronto internazionale sulle metodologie di scavo. Io certo non sono un esperto. C’è chi dice che il modo migliore è “sbancare” tutto e riportare alla luce i vecchi Fori, e chi dice che invece va scavato ma valorizzando tutte le stratificazioni. Un metodo che nel mio linguaggio da chirurgo descriverei simile a una tac.
Ripetiamo, tanto per essere certi di quello che lei vuole fare: la pedonalizzazione dell’area dei Fori imperiali è l’inizio di un progetto che porterà, in ogni caso, qualunque sarà la metodologia scelta, a nuovi scavi?
Sì, e tra 25 o 30 anni, grazie a questi scavi ci sarà al centro di Roma una situazione urbanistica completamente nuova.
Possiamo dire dunque che secondo questo progetto Via dei Fori Imperiali scomparirà? Che sarà diciamo “espiantata”?
Si alla fine scomparirà. Immagino che ne rimarrà solo una parte, una sezione centrale, magari per biciclette e pedoni, magari per un tram… magari terremo le mappe dell’Impero. Questo risultato finale lo vedremo. Senza volerle sembrare un folle, mi immagino un’unica area che unisca i Fori Traiani ai Fori Imperiali…
...e che continui fino all’Appia?
Certamente. Riunificando un’area archeologica che ora è divisa.
Lei capisce che cancellare via dei Fori Imperiali, per non parlare poi delle altre strade, le porterà fino a sotto questo balcone manifestazioni furibonde. Non ultime quelle di quel nutrito gruppo di nostalgici fascisti per cui quella via è un simbolo importantissimo?
Capisco che questo nuovo schema possa far paura. Ma pensiamo ad altri esempi nel mondo. A Williamsburg, la capitale coloniale della Virginia, è stata mantenuta l’intera città, anche se gli edifici nella maggioranza dei casi erano fatti solo di legno. E a Londra a Parigi ci sono monumenti forse del valore del Colosseo che sarebbero ridotti a fare da rotonda spartitraffico?
Quanto riflesso antifascista c’è in questa sua idea di cancellare via dei Fori Imperiali, simbolo del potere Mussoliniano?
Io sono un antifascista. Ma al di là delle mie convinzioni personali non c’è nulla di antifascista in questa decisione. Tant’è che sarà un comitato internazionale a decidere, come dicevo, se e come fare gli scavi sotto quella strada.
E quanto c’è invece di odio anti-automobile?
Io non lo chiamo odio, preferisco parlare di intolleranza. Ma sicuramente c’è. Cosa pensare del fatto che a Roma ogni 1000 abitanti ci sono 980 auto, che a Roma si muovono ogni giorno si muovono 600mila persone, di cui il 60 per cento fa meno di 5 chilometri? È un assurdo. Il traffico deve essere diminuito. È una priorità anche medica.
Lei sostiene che tutto questo progetto porterà a Roma un numero maggiore di turisti. Ma perché i turisti dovrebbero essere più attratti da un Foro senza il Viale? Che differenza fa per loro?
Perché l’area sarà bellissima. Io penso che porteremo il doppio di turisti che vengono oggi . Puntiamo a superare i 20 milioni annui.
Può darci un calendario per l’attuazione di questo progetto? Tanto per poter misurare in futuro il suo impegno?
Vedrete. Avverrà tutto nel corso di questo mandato.
Vedremo, Sindaco.
La stagione degli accordi di programma progettati dai privati e dove l'amministrazione mette un "timbro" è chiusa. Sugli accordi con i privati ci sarà una regia forte dell'amministrazione capitolina e una tutela altrettanto forte dell'interesse pubblico. Per l'urbanistica romana si apre una nuova stagione all'insegna della "qualità" a tutto campo: qualità architettonica, cioè sul singolo manufatto, qualità urbanistica, che armonizzi gli interventi a livello di quartiere, qualità di gestione amministrativa dell'intero processo, per monitorare l'intervento dopo la convenzione in modo da prevenire contenziosi. Inoltre i privati possono dire addio agli ambiti di riserva: le aree verdi dell'agro romano non si toccano, saranno cancellate.
In compenso il Comune troverà le aree - ma anche i fabbricati da trasformare - per realizzare le case che servono. A partire dalle fasce più basse della popolazione. La Capitale ha bisogno subito di almeno 3mila alloggi per altrettante famiglie povere. Lo strumento principe della trasformazione urbana sarà il Print, cioè lo strumento previsto dal piano regolatore, ma rimasto sostanzialmente inutilizzato. Basti pensare che su 162 programmi integrati, solo uno, quello di Pietralata, è arrivato a maturazione. Le regole saranno riviste. Ci sarà anche una "manovrina" urbanistica, necessaria per risolvere la questione delle cosiddette "aree bianche", cioè le perimetrazioni che sono sfuggite, per errori o imprecisioni, alla zonizzazione di dettaglio del Prg. Non si tratta di poca cosa: sono state censite 228 di queste "aree bianche", di ampiezza variabile tra i 2.000 mq (per l'80%) fino ad arrivare a 5.000 mq. In definitiva si tratta di riassegnare funzioni a un'estensione di circa 480mila metri quadrati di territorio. Contestualmente, la manovrina urbanistica servirà anche a riaggiornare le funzioni dei servizi, dopo la scadenza dei vincoli fissati dal Prg. Ma oltre a governare l'urbanistica della Capitale, la sfida che il nuovo assessore ha preso di petto fin dal primo giorno di insediamento è quella di saltare sul treno dei fondi europei. Non è un caso che appena insediato come assessore all'Urbanistica, Giovanni Caudo, ha dedicato il primo atto amministrativo a spronare i suoi uffici a lavorare sulle proposte sulle quali chiedere le risorse 2014-2020 a valere sui fondi Fesr. L'altro obiettivo è quello di strappare risorse per la rigenerazione urbana anche dal Pon, dove Roma è in competizione con altre 12 città metropolitane (Torino, Milano, Genova, Bologna, Venezia, Firenze, Napoli, Bari, Messina-Reggio Calabria, Catania, Palermo, Cagliari).
Per dedicarsi interamente al governo dell'urbanistica romana, Giovanni Caudo ha pensato bene di sospendere la sua attività di docente interrompendo per ora i suoi corsi di Urbanistica alla Terza università di Roma. In questa articolata intervista "programmatica" rilasciata a «Edilizia e Territorio», Giovanni Caudo, tratteggia le linee guida del suo mandato nella nuova giunta guidata da Ignazio Marino. E comunica subito quali saranno i grandi progetti simbolo sui quali si misurerà la capacità del nuovo sindaco di Roma di migliorare la Capitale. I cinque macro-obiettivi che entrano nelle priorità dell'agenzia urbanistica sono l'asse Tiburtina-Pietralata; l'asse Roma-Fiumicino; gli ambiti del Tevere e dell'Aniene a Nordest; lo sviluppo urbano tra Roma e il mare; la valorizzazione delle aree archeologiche dell'Appia Antica e dei Fori. Questi nuovi "landmark" urbanistici della giunta Marino, sui quali cercherà di catalizzare i fondi europei per le politiche urbane, prendono il posto degli obiettivi della scorsa amministrazione Alemanno, tra cui la maxi demolizione di Tor Bella Monaca o la riqualificazione del waterfront di Ostia o la trasformazione della vecchia Fiera di Roma. II messaggio forte che Caudo vuole lanciare è che il prodotto finale sul territorio, sia esso il singolo edificio, sia esso l'assetto urbano a dimensione di quartiere, risponderà sempre a principi di qualità, architettonica e urbana. Per questo, quando possibile, si utilizzerà lo strumento del concorso di progettazione. Il sigillo di "qualità" di questo processo sta in una "certificazione" che sarà anche la garanzia che consentirà l'utilizzo delle risorse comunitarie. La struttura interna chiamata a governare questo processo sarà potenziata, con la creazione di unità operative, che Caudo sta selezionando, «a partire dalle risorse interne», sia pescando tra i 459 dipendenti dell'assessorato all'Urbanistica, sia tra i 676 impiegati della Spa capitolina Risorse per Roma.
Assessore, nel suo ruolo di docente universitario ha dedicato una particolare attenzione ad approfondire il tema casa. Secondo lei, esiste un'emergenza casa nella Capitale?
Certo che c'è un'emergenza. La casa è un'emergenza reale. In cima alla lista di chi chiede un alloggio popolare ci sono 3mila richieste di altrettante famiglie che hanno raggiunto il massimo del punteggio. Serve una risposta immediata, serve un piano straordinario di 3mila alloggi di edilizia sovvenzionata per dare una casa a queste famiglie. Sicuramente va affrontato anche il tema del disagio abitativo per quanti non riescono ad avere accesso né alla casa economica e nemmeno a quella del mercato libero.
Per rispondere a questa esigenza era stato varato il fondo dei fondi finalizzato all'housing sociale gestito dalla Sgr della Cassa depositi e prestiti. È un modello che funziona secondo lei?
A distanza di qualche anno dall'avvio dell'iniziativa i risultati sono deludenti, se confrontati con le aspettative. Ma la strada non può che essere un incontro tra privati e un investitore "paziente", di lungo periodo. Al modello del fondo dei fondi però manca qualcosa. Non è stato messo bene a punto.
Cosa manca?
Non abbiamo sviluppato la figura del gestore sociale, che in Italia manca e che invece nelle esperienze positive di altri Paesi assicura l'utilità sociale. La cosa che più si avvicina in Italia a una figura di questo genere è la cooperativa a proprietà indivisa.
Come si può garantire la qualità progettuale degli interventi di social housing?
Bisogna verificare tre condizioni: il suolo si deve comprare a basso costo, le risorse economiche non devono avere carattere speculativo e la gestione non deve gravare sul canone, altrimenti si rischia di non conseguire l'obiettivo. Per questo ultimo punto fondamentale è la qualità del progetto. Sempre all'estero, i piani di manutenzione ordinaria e straordinaria vengono fissati a monte, solo a quel punto la qualità del progetto è più garantita.
A Roma le aree ci sono? Non serve attingere alle aree di riserva?
Gli ambiti di riserva saranno cancellati. Le aree pubbliche esistono. E un patrimonio enorme. Immobili pubblici, aree ed edifici, localizzati spesso nelle aree già urbanizzate e dotate di infrastrutture di trasporto possono costituire un importante fattore in mano al soggetto pubblico per governare i processi di trasformazione urbana e per coinvolgere in questi processi i privati. All'interno di questa strategia si possono reperire le aree per l'edilizia sociale.
Quale ruolo deve avere il pubblico nella trasformazione della città? Azioni concrete da cui partire?
Per anni il rapporto pubblico-privato ha scontato una carenza della regia pubblica. Ci sono centinaia di contenziosi aperti tra il Comune e i privati che scaturiscono da un mancato controllo qualitativo della convenzione e della sua attuazione. Il nostro dipartimento ha un grande potenziale. La riorganizzazione della struttura a cui sto lavorando punta ad assicurare la qualità di questa fase del processo amministrativo. Anche perché da questi processi dipendono risorse importanti per l'economia della Capitale. Questo dipartimento immette nel sistema economico 420 milioni di euro, 200 milioni in moneta e 220 milioni di opere, cui si aggiungono 320 milioni di euro di opere a scomputo. Da permessi di costruire il Comune ricava 60 milioni di euro. E un importante ingranaggio per l'economia locale, anche se nell'ultimo anno i valori si sono dimezzati, e sono anzi aumentati i casi di imprese che restituiscono i permessi.
E secondo lei quale deve essere il rapporto del pubblico con i privati?
Abbiamo visto interventi scritti dai privati e accettati dall'amministrazione senza pensarci più di tanto. E sono fallite, vedi le ex Torri delle Finanze all'Eur (che dovevano lasciare il posto a un complesso residenziale di lusso promosso da Fintecna, ndf). Abbiamo davanti i ruderi della finanza ad alta intensità speculativa - come l'edificio tra Viale Giustiniano Imperatore e viale Cristoforo Colombo oppure il complesso per uffici a piazza dei Navigatori (entrambi promossi da Acqua Marcia, ndf) - che la città non può permettersi. Vogliamo invertire questa tendenza e dare certezza sia alle imprese, sia all'amministrazione. L'80% delle trasformazioni urbane lo realizziamo già oggi insieme ai privati, questo rapporto non può essere gestito in modo così approssimato come negli anni passati. Vogliamo dare certezze alle piccole e medie imprese che ci sarà una Pa che controllerà il rapporto pubblico-privato, che vigileremo sui tempi e le procedure. E questo approccio cercheremo di farlo permeare in tutte le iniziative, grandi e piccole.
Servirà una riorganizzazione interna?
Assolutamente sì. E una priorità. Risorse per Roma oggi conta 676 dipendenti (mentre nel 2008 erano 198) e le risorse interne all'assessorato sono 459. Riorganizzare il dipartimento non è mai stato oggetto di investimento, aree operative non sono strutturate secondo precisi obiettivi. La struttura che ho trovato riflette una pianificazione di vecchia maniera. Sto formando un unità operativa che verifichi il controllo della qualità, una che si preoccupi di farla permeare in tutte le iniziative, individuando di volta in volta gli strumenti più adatti. Una mia priorità è la certificazione, non solo degli edifici ma dei quartieri, con l'obiettivo di intercettare i finanziamenti europei per la rigenerazione urbana.
Cosa intende per certificazione?
Dobbiamo alzare l'asticella delle aspettative. Deve essere un obiettivo condiviso dalla Pa, costruttori, progettisti. Una mission del pubblico e del privato. In questo contesto promuoveremo anche dei concorsi di architettura e per temi urbanistici. In particolare ai giovani, forse ai giovani architetti romani potremo chiedere idee sperimentali per una nuova idea di trasformazione urbana.
Concorsi. Ha già qualche idea per qualche tema?
Nel Progetto Urbano Flaminio che intendiamo riprendere, dove si colloca anche l'intervento sulle Caserme di via Guido Reni, e dove il sindaco Ignazio Marino vuole realizzare il Museo della Scienza a pochi passi dal Maxxi, in quel caso lo strumento giusto è quello del concorso di progettazione internazionale.
E per i giovani?
Se immaginiamo un nuovo modello di Print, potremo costruire tanti spazi pubblici dove oggi manca un disegno urbano. Paesi come Olanda e Spagna fanno lavorare anche i loro giovani professionisti in questi contesti. Perché non possiamo fare altrettanto?
La precedente giunta ha lavorato per far decollare progetti ambiziosi, annunci che per ora non hanno avuto fortuna. Secondo lei, quali grandi progetti prioritari per Roma?
Non credo che Roma oggi abbia bisogno di progetti che lasciano il segno, dovremo governare bene le aree in cui è già in atto una trasformazione. Penso al quadrante Est dove c'è la nuova stazione Tiburtina che oggettivamente oggi non funziona, dove salirà la nuova sede di Bnp Paribas e si sta costruendo un nuovo insediamento in via della Lega Lombarda.
Si riferisce all'area di Pietralata?
Insieme 1 comprensorio di Pietralata e all'adiacente Print, si configura uno dei più grandi interventi di trasformazione urbana in Europa. Sarà interessante monitorare il processo di valorizzazione anche del tessuto minuto. Ci sono ampi lotti ancora disponibili. Il tutto collocandoci anche in un contesto di città metropolitana.
Come contate di affrontare l'operazione dell'ex Fiera di Roma, uno dei progetti che Alemanno ha ereditato dalla giunta precedente?
A breve incontrerò gli uffici della Fiera che si occupano del progetto per discuterne. Ma la vera questione non è tanto la vecchia fiera da trasformare, bensì il piano industriale della nuova Fiera. Cioè capire come vuole crescere e posizionarsi in un circuito internazionale e di come vuole aumentare la sua capacità attrattiva, valorizzando l'asse Roma-Fiumicino. Se invece la valorizzazione immobiliare è solo vista in funzione di ripianare i debiti della nuova Fiera, la questione è malposta.
Che ne pensa della trasformazione di Tor Bella Monaca?
Sono sempre stato contrario alla soluzione Alemanno. A Roma ci sono altri 113 quartieri come Tor Bella Monaca dove vivono 500mila abitanti, servono azioni meno eclatanti ma che siano più utili alla città, a tutta la città. Intendiamo tenere insieme la città, lavorare su più fronti, creando occasioni anche per chi vuole fare impresa.
Avete già incontrato i rappresentanti dei costruttori?
Sì. I costruttori dell'Acer hanno capito e condiviso il messaggio della nuova amministrazione. L'impresa potrà svolgere la propria azione e all'amministrazione spetta una regia pubblica della trasformazione urbana per affermare il principio che la città è pubblica.
Ha ancora senso parlare di centralità, il simbolo della città policentrica?
Buona parte delle centralità è stata pianificata. Ci sono alcune grandi aree di privati da pianificare.
Le principali sono Romanina e Acilia Madonnetta.
Su Acilia Madonnetta abbiamo attivato un'unità operativa che si occupa dell'area tra Ostia e il mare, che è una sorta di "città che non c'è". Una città che oggi non ha una maglia strutturale ma che potenzialmente vale molto anche per la presenza della pineta, di Ostia Antica, della rete dell'abitato: si tratta di un'area con 220mila abitanti. Va pensata in questo contesto complessivo.
E Romanina? Il proprietario Scarpellini ha proposto una versione molto densificata per sostenere i costi delle opere pubbliche.
Per noi la memoria di giunta sulla base della quale è stato modificato il dimensionamento non ha rilevanza. Ripartiremo da quanto prevede il piano vigente.
Intendete riaprire il cantiere urbanistico rimettendo in discussione le scelte del Piano regolatore?
Il Prg va attuato e chiuso. C'è nel frattempo una serie di pronunciamenti sulle compensazioni che stiamo valutando e che vanno governati.
In passato è stato fatto largo ricorso allo strumento dell'accordo di programma. Continuerete a fare accordi di programma per iniziative private?
Ci aggiungeremo una "U". La "U" di utilità sociale.
Il suo primo atto è stata una memoria di giunta sull'Agenda urbana nazionale, per intercettare i fondi europei.
Il tema è fondamentale e urgente. E per questo che ho subito dato impulso agli uffici per lavorare su cinque aree strategiche di riferimento per la città, in modo da definire piani di fattibilità e progetti da inserire nei piano operativo nazionale - lavorando con il ministro Trigilia - e nel piano operativo regionale del Lazio 2014-2020. Il tutto per arrivare all'Agenda urbana che permetta alle città di essere coinvolte nelle strategie di sviluppo finanziate con i fondi Fesr. Per l'Italia significa attingere a circa due miliardi di risorse complessive per lo sviluppo urbano sostenibile, e di cui Roma può legittimamente aspirare a conquistare una parte consistente.
È difficile progettare la qualità?
Non è difficile ma bisogna superare abitudini consolidate. Ci vuole veramente poco per includere nei progetti elementi innovativi tesi al risparmio energetico, all'efficienza, alla qualità architettonica. E non ci vuole molto, basta un 2% in più per fare di una cosa tradizionale una cosa migliore in grado di essere finanziabile con risorse Ue.
Più in generale, come vi muoverete per completare l'attuazione del Prg?
A ottobre promuoveremo una Conferenza urbanistica per recuperare la tradizione romana ma anche con l'obiettivo di avvicinare le esigenze della città alle azioni dell'urbanistica. Per noi sarà un'occasione di ascolto. Il Comune sarà promotore. Abbiamo incaricato l'Inarch di fare da regista. Ragioneremo su parole chiave, parte da qui la nostra sfida.
Continuerà a insegnare?
No, ho deciso di prendere un periodo di aspettativa. Ma per non perdere il contatto con gli studenti cercherò di fare un corso opzionale, ritagliando uno spazio nella giornata di sabato.
Roma non ha un Urban Center. Lei pensa che questo spazio serva alla città? Lo realizzerete?
La Conferenza urbanistica potrebbe essere il primo passo ma io non credo che per comunicare l'urbanistica alla città serva solo l'Urban Center. Ci sono tanti modi possibili per interloquire con la città. Comincerò inserendo sul sito dell'assessorato uno spazio per contattare l'assessore, la cosa più banale ma che oggi non c'è.
Il progetto Campidoglio2 andrà avanti?
Premetto che non rientra fra le mie competenze. Detto questo, credo che vadano valutati costi e convenienza. Dal mio punto di vista posso dire che il nostro dipartimento si organizza in cinque sedi distinte, per tre di queste paghiamo un affitto a Eur Spa di oltre quattro milioni. Manteniamo Eur Spa.
Un intervento sul “progetto Fori che leggiamo come una sollecitazione al Sindaco Marino ad andare avanti sulla strada iniziata, e non come una critica al primo passo nella direzione giusta (dopo gli anni di Rutelli, Veltroni e Alemanno).
In alcune capitali europee, quando si è messo mano a grandi trasformazioni urbanistiche si è fatto riferimento alla “scienza urbana”, a come intervenire su quelle specifiche parti che, trasformandosi, avrebbero modificato l’intera città. Non come quando si è intervenuto con edifici spettacolo per creare “città evento”; quelle dove l’architettura è “il prodotto dell'incontro tra la scala mobile e l'aria condizionata, concepito in un’incubatrice di cartongesso” (Koolhaas), ma con progetti a larga scala in aree centrali. Solo qualche esempio nella seconda metà del novecento: Les Halles di Parigi, la terza sistemazione del centro di Mosca, la Berlino ovest riprogrammata “centralmente” prima dell’unificazione. Luoghi che, pur facendo oggi parte dell’immaginario complessivo di quelle città, non reggono il confronto con il “Progetto Fori”. A Parigi l’area non è estesa, a Mosca non ci sono reperti archeologici, a Berlino il programma della trasformazione faceva riferimento, sostanzialmente, all’espansione ottocentesca della città.
Il “Progetto Fori” parla con due parole precise: area archeologica e disegno urbano. Viene da lontano, visto che i primi a scavare nell’area dei Fori furono gli archeologi di Pio VII e che i lavori proseguirono sia sotto l’amministrazione napoleonica che con il nuovo governo italiano. Fu solo però nel 1978 - quando la via dell’Impero (oggi Fori imperiali) era stata tracciata da tempo (1932) e sembrava non dispiacere neppure troppo alla Repubblica che l’usava (usa) come location per la propria esibizione muscolare in occasione del 2 giugno e collettore del sempre crescente traffico automobilistico - che l’allora Soprintendente archeologico Adriano La Regina pose in modo esatto i termini della questione urbana. “Nel giro di pochi decenni perderemo tutta la documentazione della storia dell’arte romana”, scrisse. Presentando una serie di rilevamenti e studi che dimostravano come, proprio in quell’area, si concentrasse un’altissima concentrazione di smog tale da determinare la corrosione dei marmi, lanciò così il progetto in tutto il suo significato complessivo: “Il problema fondamentale non è tanto quello dei fondi per il restauro dei monumenti, perché ciò che costerà enormemente sono gli interventi di riorganizzazione della città”.
Da allora non è vero che, come dice il neo sindaco Marino, in 36 anni non si è fatto nulla. Si è fatto, invece, troppo e troppo poco. Troppo perché si è redatto un Piano regolatore di “offerta” verso il mercato, invasivo e sovradimensionato; troppo poco perché, così facendo, si è sancita la rinuncia definitiva alla pianificazione, saldando di fatto anche questo ultimo strumento a quanto si era andato facendo per tutto il novecento. È il Piano Regolatore di Veltroni ad aver condannato il Progetto Fori. Non perché non lo comprenda, ma perché ha scelto di non intervenire su quella che, scritta da Adriano La Regina come “riorganizzazione della città”, andava letta come “idea di città”.
Il Progetto Fori metteva in discussione su scala urbana, con l’assetto viario della città, il muoversi e l’abitare. Raccogliendo l’invito del Sindaco Argan, «o i monumenti o l’automobile», non lanciava anatemi o crociate ideologiche contro le macchine, ma proponeva di allontanare da questo “tesoro”, non scoperto, ma ritrovato, le funzioni che, svolgendosi all’intorno, le attirano.
Non dovette sembrare troppo poco ai molti che iniziarono a lavorare intorno questo tema per almeno un decennio (Cederna, Benevolo, Nicolini, la medesima Soprintendenza Archeologica) per lo smantellamento graduale dell’ex via dell’Impero e l’esplorazione archeologica, per riportare in luce le antiche piazze imperiali, creare il parco unitario Fori Imperiali-Foro Romano. Non solo una straordinaria campagna di scavo, ma la convinzione progettuale di ridefinire ampliandolo il centro storico con la conseguente mission di «arricchire Roma e i romani di un incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo, per tacere del contributo che lo scavo stratigrafico darà alla conoscenza della storia della città; e con il riassetto ambientale della zona tra il Colosseo e le mura aureliane”e giungere alla “creazione del gran parco dell’Appia Antica, prosecuzione extra - moenia del parco archeologico centrale» (A. Cederna e altri: Interventi per la riqualificazione di Roma Capitale della Repubblica.Camera dei Deputati. X legislatura aprile 1989).
Non mettendo mai in cantiere questo progetto, Roma non si è costruita come metropoli. Rinunciando a far coincidere l’idea di metropoli con la realizzazione di un grande progetto identitario, all’interno del quale ripensare le forme stesse della metropoli, non ha fatto da argine proprio alle più devastanti forme metropolitane che, da allora, hanno iniziato a propagarsi nella città. Ad iniziare dall’arrendersi, senza alcuna condizione, a quei fenomeni della rendita immobiliare che il piano regolatore non sa contenere, che anzi a volte incoraggia, e che hanno trasformato l’intero territorio comunale in merce, ingoiato come è da una strategia di comando che taglia servizi, ogni assistenza, nega diritti, interviene direttamente sulla vita di ognuno di noi dragando denaro (facendo cassa) dall’annientamento della città pubblica.
Oggi quel progetto si riduce ad una soluzione “viabilistica” che toglie al traffico, ma non pedonalizza, una manciata di metri di strada. Come se bastasse evocare il ricordo di un’idea di città per realizzarla.
Intorno alla chiusura odierna si sono scatenate già molte polemiche. Ma chi si lamenta prevedendo assalti automobilistici all’intorno e chi chiede radicalità nell’intervento, pensando che il neo sindaco in realtà abbia solo dato un segnale mediatico, sembra non comprendere che riparlare del Progetto Fori nei termini (e con le medesime polemiche) di come si è iniziato a fare oltre tre decenni fa significa non chiedersi come rendere attuale l’idea del parco archeologico al tempo della crisi, in una città che ha attentato a tutte le scelte che avrebbero dovuto accompagnare questo progetto.
Lo SDO, il sistema che avrebbe dovuto liberare il centro dal peso delle funzioni pesanti, è diventato poca cosa: striminziti scampoli di funzioni pesanti; le centralità veltroniane che avrebbero dovuto fare altrettanto sono diventate (e diventeranno) ricettacolo dell’invenduto residenziale; altre funzioni continuano a sommarsi in centro senza alcun controllo o dove meglio gli aggrada (Porte di Roma, Eur Castellaccio…). Si può ancora parlare di un progetto possibile?
Si potrà farlo, abbandonando i tatticismi e le furbizie (questo mezzo può passare, questo no…) e le dichiarazioni ad effetto del tipo di quelle che hanno costruito la festa/evento della notte tra sabato 3 e domenica 4 agosto (ora troviamo i fondi, serve intercettare un grande manager, siamo solo all’inizio, per ora iniziamo con “la banda dei vigili che accompagnerà le autorità”….). Si potrà farlo considerando questo progetto come un restauro a scala urbana.
Come ogni restauro, anche il Progetto Fori deve avere delle ragioni “certe"" da cui iniziare. In questo caso la ragione non può essere che l’obbligo di farlo. Nell’inventare questo ritorno al futuro non c’è solo il “liberare” un suolo. È l’occasione per ricostruire le condizioni originarie del paesaggio. Nel rendere leggibili le relazioni tra i manufatti, si costruisce la nuova topografia. Nel continuare lo scavo del Foro della Pace, nel tirar via da sotto la strada il tempio, si fa dell’aggregazione dei Fori il cardine della trasformazione urbana, la grande piazza “riconoscibile” del mondo. Non si parla dell’eliminazione di una strada; né del risarcimento al piccone demolitore di Mussolini. È il tentativo di resistere al declino delle città imposte dal liberismo. Si crea uno straordinario spazio pubblico.
È un progetto a riconoscere che non è solo un decreto ministeriale, una delibera comunale, una categoria urbanistica, una consuetudine a definire i confini del centro. È un progetto a definire che di questo dovrà far parte come un’area viva lo spazio sistema che da piazza Venezia si spinge verso il Colosseo, il Circo Massimo, si attacca alle mura per spingersi verso il cuneo verde dell’Appia; luoghi tutti, oggi, isolati nella loro splendida solitudine. Che scavare vuol dire conquistare e raccordare tra loro la quota archeologica del Foro della Pace ( +17mt), attraverso la creazione di un museo, con quella del Colosseo (+23mt). Che conoscere la stratificazione storica è capire la modalità che la città si è data per costruirsi nel tempo, che non ci sono classifiche di importanza; che intrecciando tra loro il Foro della Pace e quello di Traiano si libera un grande quadrato a ridosso del tessuto rinascimentale che ancora esiste. Ritrovare quello che è esistito e quello che si è costruito sul costruito. Scoprire, come è accaduto in questi giorni, che insieme al ritrovamento di un gigantesca colonna di 15 metri in granito si è rinvenuto anche un cantiere di spoliazione dei marmi del secolo XII e, scendendo con lo scavo, un impianto di produzione di metalli del secolo IX.
Serve denaro e servono finanziamenti appropriati, certo. Bisognerà programmarli e i soldi non ci sono, e allora? Allora si potrà fare, facendo una scelta mai fatta a Roma: legare tra loro gli interessi scientifici, quelli urbani e quelli sociali. Si potrà fare pensando proprio alla realizzazione, da subito, del Progetto Fori come alla risposta dei cittadini al processo di espropriazione da parte del mondo economico finanziario che, operando offshore anche rispetto alle forme di rappresentanza, vogliono continuare a strangolare Roma. Si potrà fare con un atto d’indirizzo preciso: non riconoscere il debito immane di Roma Capitale, che si frappone alla realizzazione di questo progetto.
È nel debito che s’annida il nostro impoverimento, la precarizzazione del lavoro, è il debito a non farci vedere vie d’uscita, a legarci al quotidiano, a dire che dobbiamo guardare ai soldi dei privati e assistere impotenti al fatto che in cambio dobbiamo cedergli pezzi, sempre più pregiati, del patrimonio pubblico.
Non riconoscere il debito prodotto dalle banche del mondo e dai loro titoli, e destinare piuttosto al Progetto Fori quella massa monetaria, avrà anche il significato di coinvolgere il mondo in un progetto che non potrà vedere impegnati soltanto noi. La vasta opera di restauro a scala urbana vorrà dire operare sulle singole aree per giungere alla definizione del dettaglio e permettere di “vedere” i manufatti riportati alla luce. Un lavoro lungo, imponente, un progetto in continua evoluzione che non va avanti in base ai flussi di finanziamento, ma con l’intelligenza di inventare, scavo dopo scavo e con la partecipazione di tutti, l’idea di città dove vogliamo vivere.
Da sabato le superfetazioni stradali ai Fori romani saranno chiusieal traffico Il sindaco: «Passeremo da 1.200 veicoli all’ora a 40». Per festeggiare l’evento una lunga notte di festa tra spettacoli, performance e cultura. La Stampa, 29 luglio 2013, con postilla
Il parco archeologico più grande del pianeta e un Colosseo liberato dalla morsa delle auto. Era il sogno di Antonio Cederna. E non solo. I Fori imperiali pedonalizzati, primo atto del sindaco di Roma Ignazio Marino, li volevano anche due suoi illustri predecessori, Ernesto Nathan e Luigi Petroselli. Dopo decenni e decenni di dibattiti e di tentativi, sabato tre agosto alle 5.30 scatterà la pedonalizzazione: via le auto private e una festa notturna, la Notte dei Fori, per celebrare quella che per romani e non solo sarà una vera rivoluzione. Di viabilità ma anche di prospettiva, di visione della città.
«Mi ritengo fortunato per poter dare avvio a qualcosa sulla quale si riflette da moltissimi anni - sottolinea Marino in una conferenza stampa con l’assessore alla cultura Flavia Barca- a chi protesta chiedo: può il Colosseo essere una rotatoria?». E Marino non vuole fermarsi qui. «Andremo avanti e nei tempi più brevi possibili arriveremo ad una pedonalizzazione completa. Sarà una passeggiata nella storia», spiega. E snocciola i numeri del sondaggio lanciato per capire il gradimento dell’iniziativa senz’altro coraggiosa. «Abbiamo provveduto a chiudere il sondaggio che abbiamo lanciato il 25 luglio. Il 75% si è detto favorevole alla pedonalizzazione – dice - A rispondere in tutto sono state 24 mila persone e di queste la maggior parte è tra i 40 e i 49 anni. Più del 40% ha dichiarato di transitare abitualmente con il proprio mezzo sui Fori e oltre il 50% è consapevole delle conseguenze della pedonalizzazione». Lo stesso Marino su twitter racconta: «Da giovane parcheggiavo anche io a Piazza del Popolo, ora chi si sognerebbe di farlo?».
Insomma, sembra dirci il sindaco, le cattive abitudini, come quella di scorazzare con l’auto sotto il naso del Colosseo, si abbandonano subito. «Vogliamo restituire il Colosseo non solo ai romani ma a tutto il pianeta», chiosa e già sogna non solo la chiusura totale al traffico ma come valorizzare il patrimonio storico-archeologico. La pedonalizzazione, fa notare il sindaco di Roma, «è solo l’inizio di un percorso che dovrà portare a competizioni internazionali per scegliere qual è la strategia migliore per proseguire gli scavi archeologici. Sotto questa striscia di asfalto che divide in due il Foro romano dai Fori imperiali ci sono il Foro di Cesare, di Augusto, di Nerva e Traiano. Credo che abbiamo la responsabilità non di possederli, ma di valorizzarli». «Dobbiamo aprire un dibattito internazionale sulle scelte da compiere - aggiunge Marino - se ad esempio riportare alla luce i resti o utilizzare strategie differenti che mettano in risalto la stratificazione architettonica dei secoli». Per ora tutto è pronto per dire addio al traffico privato. E per festeggiare l’inaugurazione della pedonalizzazione sabato 3 agosto arriva la “Notte dei Fori”, una specie di Notte bianca in miniatura all’ombra del Colosseo, con acrobati, artisti di strada, musica, teatro ma anche danzatori, video e foto proiettati sui monumenti e un funambulo che camminerà su un filo teso sopra le rovine romane. La serata sarà dedicata a Renato Nicolini, l’ideatore dell’Estate Romana scomparso l’anno scorso, e per ricordarlo i lampioni su via dei Fori spegneranno le loro luci e gli spettacoli si fermeranno poco prima della mezzanotte. Poi la festa ricomincerà. E i romani da quella notte inizieranno ad abituarsi a guardare i Fori e il Colosseo da un’altra prospettiva. Che non sarà quella dei finestrini delle loro auto.
Finalmente si comincia. Eliminare lo smog, il frastuono e l’ingombro del traffico è un primo passo significativo per realizzare «il parco archeologico più grande del pianeta», e per restituire ai cittadini romani la dignità della loro storia e agli abitanti attuali e futuri del pianeta una patrimonio che è di tutti . Ma oltre alla morsa del traffico c’è quella del cemento. Si dovrà affrontareil problema di liberare quello che sarà il parco archelogico dallo stradone militare (non è forse in contrasto, almeno ideale, con l'articolo 11 della Costituzione?) che ne ha interrotto la continuità. Bisognerà allora rivolgersi a tecnici delle demolizioni e per operare una rimozione della superfetazione. Poi, più (e invece) di concorsi internazionali occorrerà costituire un pool di archeologi che esplorino e analizzino i differenti strati della storia del sito e saggiamente suggeriscano al decisore come restituire alla conoscenza e alla meditazione di tutti ciò che la storia ha lì accumulato. E magari includendo nel numero dei decisori anche il sovrano, il popolo. Il quale, come testimoniano i risultati del referendum organizzato dal sindaco, sembra interessato al miglior uso del patrimonio avito.
"Ce n'est qu'un debut"... La posta in gioco non è un migliore sistemazione del traffico, né solo la tutela fisica del beni culturali, ma la costruzione di una Roma che abbia nel valore suo immenso patrimonio storico la ragione della sua vita e il criterio ordinatore dei suoi spazi. Il manifesto, 26 luglio 2013
Fra pochi giorni i Fori Imperiali chiuderanno al traffico. Merito del neosindaco Marino e di decenni di battaglie ambientaliste e urbanistiche. Dopo gli sventramenti e le deportazioni mussoliniane, negli ultimi decenni erano diventati una pista automobilistica. Ora si riparte, a patto che non si discuta solo di fermate dei bus o dei taxisti ma di come rendere l'area il baricentro di un rilancio culturale di Roma. Anche estendendo l'area pedonale
È una di quelle circostanze in cui non si riesce a essere del tutto soddisfatti, ma neanche completamente delusi. Tra qualche giorno, a Roma, verrà chiuso al transito automobilistico il tratto finale di Via dei Fori imperiali, quello contiguo al Colosseo. È appena un ritocco, ma finalmente si materializza una trasformazione urbana attesa da decenni, s'infrange un cronico e patetico indugio. Si procede tuttavia al minimo attrito, come fossimo ai preliminari: è un gesto appena accennato e poco più o forse niente più. Un evento comunque rilevante, obbligatoriamente storico (considerando il contesto millenario). Evoca una grande suggestione e agirà sull'immaginario culturale collettivo. Se ne parlerà in tutto il mondo: speriamo più dell'abdicazione di re Alberto del Belgio o della nascita dell'erede al trono d'Inghilterra.
Allora, dopo decenni d'inguardabile ignavia, d'inerzia politica e di miseria culturale, ci si avvia a salvaguardare uno degli ambiti archeologici più importanti nel lungo cammino della storia. Un intervento che un meschino provincialismo aveva a lungo rabbiosamente impedito, ma che finalmente prova a schiudersi nel concreto, sia pure tra rattrappite timidezze. Merito del nuovo sindaco di Roma, Ignazio Marino, ma merito soprattutto di una battaglia urbanistica e ambientale durata mezzo secolo, avviata da intellettuali come Antonio Cederna e Italo Insolera, raccolta da amministratori come Luigi Petroselli e Renato Nicolini e coltivata dai tantissimi che in città hanno continuato a ritenerla cruciale e indispensabile.
Bene, si comincia. Ma si comincia davvero a proiettare questa città ingrigita e impigrita verso una dimensione contemporanea, a darle nuovo slancio e imprimere una spinta vitale? Oppure, alla fine, tutto si ridurrà a un corridoio di quattrocento metri riservato a bus e taxi, con contorno di biciclette e palloncini? Del resto, se ci si limita a interdire l'accesso automobilistico privato, a disegnare le corsie per i mezzi pubblici, a rivedere qualche senso unico, rimodulare qualche semaforo, è difficile pensare che vada diversamente. Dal tono delle polemiche in corso, che tendono a ridurre il tutto a una questione di disciplina del traffico, di vigili urbani da impiegare, di aree e transiti per lo scarico merci, l'impressione è che l'intervento sia non solo esiguo nelle proporzioni, ma anche d'incerta qualità. Un'impressione peraltro confermata dalla preoccupata ritrosia dell'amministrazione comunale, quasi fosse dubbiosa o addirittura ignara del valore e l'entità delle sue stesse scelte politiche.
Per ripristinare quanto meno il senso storico dell'intervento che, seppure in una logica da minimo sindacale, il Campidoglio si accinge a realizzare, proviamo a ricostruire l'impianto generale in cui si colloca e le ragioni politiche che lo rendono necessario.
La Via dei Fori viene inaugurata all'alba degli anni trenta da Mussolini in persona, dopo aver completamente polverizzato i quartieri medievali che sorgevano ai bordi della Suburra (gli stessi già inceneriti da Nerone) e deportato nelle borgate migliaia di persone. Così riassume l'intervento Italo Insolera in Roma moderna: «Il più colossale sventramento nella vecchia Roma è indubbiamente quello attuato per mettere in luce i ruderi dei Fori imperiali demolendo tutte le case (tra cui alcune di valore) tra Piazza Venezia e la Velia, la collina dietro la Basilica di Massenzio che fu tagliata per completare il tracciato rettilineo di Via dell'Impero. I ruderi rimessi in luce - continua Insolera - furono subito seppelliti sotto una soletta di calcestruzzo su cui passano le strade: così si è rotta per sempre e volutamente l'unità della zona archeologica, l'unità cioè dei Fori imperiali che gli imperatori avevano attuato proprio come ampliamento dell'antico Foro repubblicano».
Sventrare nel cuore del centro corrisponde a una malintesa e grossolana esigenza di monumentalizzare e "liberare" gli antichi Fori, eliminando come fossero scorie architettoniche (oltreché sociali) quei tessuti urbani che la storia aveva lasciato crescere intorno a essi. «Quella città - la definisce Ludovico Quaroni nelle sue splendide Lezioni romane - di casette e di ortiche, di ruderi e di miseria polverosa, di luce e di nuvole». L'intento del regime è quello di collegare, in un impeto di idealismo urbanistico, le antiche vestigia imperiali con le velleità imperialiste del fascismo.
Al di là delle riserve ideologiche e di un residuale e stucchevole romanismo, il risultato è sostanzialmente un goffo e ridondante asse urbanistico, che avrebbe dovuto congiungere il moderno (l'Altare della patria) con l'antico (il Colosseo), ma che in pratica diventa uno stradone grigio che né riesce a comporre una prospettiva decente, né a far respirare come meriterebbe il sedime archeologico. Con il tempo (e il traffico) Via dei Fori imperiali ha finito per diventare una pista automobilistica, il Colosseo un ciambellone assediato e Piazza Venezia una rotatoria puzzolente.
C'è da dire che il tentativo mussoliniano, per quanto tardivamente, raccoglie un modello politico autoritario, esplicitamente connotato da un'ideologia aggressiva e persecutoria. Figlio di quell'urbanistica autoritaria e militaresca a cavallo tra l'ottocento e il novecento il cui obiettivo era ripulire le città dai grovigli edilizi disordinati che davano rifugio alle classi povere e spesso ribelli. E infatti lo sventramento dei Fori era stato previsto fin dal piano regolatore del 1883, confermato in quello del 1909 e infine realizzato in conformità con quello del 1931. Insomma, per affermarsi, il nuovo deve divorare il vecchio, costi quel che costi. Un metodo distruttivo e azzerante.
Invece, l'antico non è un peso da eliminare ma un bene da accarezzare e coccolare. E lo si custodisce al meglio non negandolo o nascondendolo, ma esaltandone la qualità formale e la suggestione immateriale. Dunque, per imporsi, il nuovo deve accettare, accogliere il vecchio. Non cannibalizzarlo, semmai strumentalizzarlo, con sensibilità estetica e intelligenza progettuale. In questo quadro, il centro storico di Roma è in sé un magnifico orizzonte, una scintillante stratificazione culturale, che in fondo necessita di sole politiche nutritive: manutentive e valorizzanti. E dunque non solo conservazione e salvaguardia ma anche rinnovamento e sviluppo.
E dove, se non nel comprensorio degli antichi Fori, si può realizzare tutto ciò? La restituzione alla città della funzione baricentrica di quell'area: non più politica ed economica, ma culturale e ambientale. Si tratterebbe dunque di pedonalizzare integralmente la Via dei Fori e la Via dei Cerchi e riconnettere il Colosseo con il Circo Massimo, l'Arco di Costantino e la Via Sacra, i Fori e i Mercati traianei, il Palatino e il Campidoglio. Disselciando l'asfalto e riesumando i tesori sotterranei scampati al piccone fascista, e così riconsegnando l'intero sedime allo sguardo e al transito umani. Ci si troverebbe di fronte a un incanto, in uno dei paesaggi più affascinanti al mondo: quanto e più di Pompei, come nella Valle dei re, nell'Acropoli di Atene, sulle alture di Machu Picchu, sotto la Piramide di Tulum.
Così si può rilanciare Roma, tentando di farle riacquisire quel prestigio di capitale internazionale della cultura. Una città che si è stancata d'indossare quell'invecchiata grisaglia marroncina e affumicata, e che perciò desidera cambiarsi d'abito e infine misurarsi più lieve e convinta con la sua storia millenaria. Una storia che afferma il primato assoluto della cultura e della natura non per una nobile nostalgia ma come impronta contemporanea, restituendo la città al sole e al vento, alle luci e alle ombre, al suono delle parole, al piacere dello sguardo.
Dovrebbe essere questo l'impatto dell'operazione Fori. Ritrovarsi invece a ragionare su dove passano le macchine, se di qua o di là, o dove mettiamo la fermata dell'autobus, o se i noleggiatori sono equiparabili ai tassisti, o se i centurioni possono continuare a lavorare, o dove sistemiamo i camion-bar, se insomma è così che si affronta e si programma questa pedonalizzazione, beh, il timore è che tutto finisca in una spolveratina o poco più.
Non basta aver allontanato Alemanno, né appare particolarmente efficace affidarsi alle tecniche cognitivo-comportamentali in un fine settimana a Tivoli. Roma può tornare a respirare e sorridere solo se si abbandonano le mezze misure e la gestionalità piccola piccola. C'è bisogno di coraggio culturale, di una visione alta, di una strategia finalmente ariosa e slanciata. C'è bisogno di radicalità nelle scelte, quella radicalità che oggi appare come la più ragionevole delle politiche.
Marino: «È il primo atto per realizzare il parco archeologico più grande del mondo». Un Parco che cambia la città e la rende migliore per tutti. Sulle periferie sta intanto già lavorando da un paio di decenni, l'assessore all'urbanistica: forse perciò Marino lo ha scelto, pensando alle periferie prima ancora che al centro. Il manifesto, 9 luglio 2013
Una giornata impegnativa quella di ieri per Ignazio Marino e la sua squadra, iniziata la mattina con la "maxi-giunta" di regione Lazio e Roma Capitale riunite, presieduta dal sindaco e dal governatore Nicola Zingaretti e terminata con una lunga conferenza stampa per illustrare il progetto di pedonalizzazione dei Fori Imperiali.La maxi-giunta ha inaugurato un modello di governo nuovo e integrato degli enti locali, favorito dalla grande sintonia tra la giunta Zingaretti e il nuovo governo di Roma.
Diversi i temi affrontati, in primo piano i debiti della Regione Lazio con Roma Capitale, su cui Zingaretti si è impegnato con cifre chiare, ma anche lo sviluppo economico, i servizi sociali, le discariche e lo sviluppo urbanistico e la casa, tema caldo a cui i movimenti per il diritto all'abitare, da mesi in agitazione con manifestazioni e occupazioni, chiedono agli enti locali di rispondere in maniera concreta coordinando sforzi e competenze. Alla fine dell'incontro la formalizzazione: gli incontri congiunti si ripeteranno e ogni assessore lavorerà con il suo omologo gomito a gomito.
Nel pomeriggio dopo una decisiva conferenza dei servizi, Marino con l'assessore alla Cultura Flavia Barca e l'assessore ai Trasporti Guido Improta, ha presentato il piano per la pedonalizzazione dei Fori Imperiali dopo gli annunci e le polemiche. Un atto fortemente voluto da Marino che assieme ai prevedibili "no", ha incassato appelli entusiasti di molti intellettuali e le reazioni favorevoli dei cittadini del centro storico, delle associazioni ambientaliste e di quelle dei ciclisti.
E' proprio il sindaco ad illustrare l'operazione che prenderà il via alla fine del mese con il divieto di traffico per i Fori ai mezzi privati, una nuova legislazione per i bus turistici e le conseguenti modifiche al trasporto pubblico e al traffico. La secondo fase prenderà il via a fine 2013 con il raddoppio del marciapiede, una pista ciclabile e l'allargamento della Ztl. Tra dieci giorni, poi, «partiranno i lavori per il restauro del Colosseo da parta della Tod's di Della Valle, con la cessione immediata delle aree adiacenti dal comune di Roma alla sovraintendenza», assieme a una «operazione di decoro antiabusivismo nel centro storico» che evidentemente non può mai mancare nell'agenda di ogni sindaco.
Annuncio spot? Operazione d'immagine? Le decisioni presentate potrebbero essere derubricate a semplici interventi sulla viabilità o alla necessità politica e simbolica del nuovo governo della città di lasciare subito il suo segno sul centro storico. Del rischio è consapevole anche Marino che spiega: «E' solo il primo atto per realizzare il vecchio progetto di Cederna: fare a Roma il più grande parco archeologico del mondo, dai Fori Imperiali all'Appia Antica». Una continuità ideale con le giunte rosse degli anni '80 di Argan e Petroselli, la volontà di dare forma a un progetto ambizioso di cui si parla da decenni ma sempre rimasto nel cassetto. Sui tempi di realizzazione il sindaco non si sbilancia: «Non crediamo nella politica degli annunci, procederemo passo passo informando e confrontandoci con la città».
Interpellato dal manifesto il nuovo assessore all'urbanistica Giovanni Caudo spiega la politica di due tempi: «C'è bisogno prima di tutto di dare un segnale di attenzione al centro storico dopo anni di abbandono da parte dell'amministrazione Alemanno. Questo non risolve i problemi di traffico né la debolezza cronica del trasporto pubblico, ma mostra in maniera concreta una volontà a tutti, ai cittadini e al mondo». La speranza di Caudo è che «si proceda realizzando il sogno di Cederna. Ma questo è molto più difficile, serviranno risorse e la collaborazione di competenze e istituzioni diverse».
All'obiezione che si poteva iniziare dalla periferie, queste sì davvero abbandonate dalla passata amministrazione di centrodestra, per dare un segnale alla città, l'urbanista risponde: «Una cosa non esclude l'altra. Ci stiamo impegnando a censire le proprietà comunali e a lanciare progetti di recupero e messa a valore del patrimonio urbanistico già costruito».
Si potrebbe intitolare questa intervista, pubblicata dal Messaggero l'8 luglio, "l'urbanistica di Luciano Canfora". E metterla poi nell'elenco di stravaganze e sciocchezze detto "stupidario". Noi invece la prendiamo sul serio, e nella postilla spieghiamo perchè.
«È molto più importante occuparsi delleperiferie romane che delle zone pedonali nel pieno centro». Non usa mezzitermini Luciano Canfora, illustre storico e saggista italiano, profondoconoscitore della cultura classica, ordinario di Filologia greca e latinapresso l'Università di Bari, che interviene a gamba tesa sul progetto dipedonalizzazione di via dei Fori Imperiali.
Professor Canfora, cosa pensa del piano lanciato dal sindaco Ignazio Marino?
«Il mio pensiero si articola per punti: sette, tanti quanti sono i colli diRoma. Punto primo, mi sembra più opportuno che ci si occupi delle periferie diRoma piuttosto che di pedonalizzazioni del centro. E soprattutto un sindaco,presumibilmente di sinistra, dovrebbe avere una tale sensibilità. Punto secondo,i problemi del traffico non si risolvono con iniziative estetizzanti, cioè cheinseguono la bellezza. Così come non si risolvono con iniziative estemporaneeche rischiano di fare impazzire la circolazione stradale con conseguenzeimprevedibili. Punto terzo».
Non ha fiducia nel piano traffico proposto dal Campidoglio?
«Infatti. Punto quarto, bisogna occuparsi forse dei tempi di percorrenza di chiva al lavoro usando un mezzo proprio, anziché creare difficoltà supplementaririspetto alle moltissime esistenti già, in una città come Roma».
In molti l’hanno definito un provvedimento demagogico o ideologico.
«Non mi piacciono questi termini. Direi più uno spot elettorale. Punto quinto,già ci bastano le bizze di Renzi col Ponte Vecchio a Firenze, non vorremmoquelle di Marino sui Fori Imperiali. Mi sembra tanto il desiderio di lasciareun segno nei secoli a venire».
Lei ama parlare con molta schiettezza, liquidando i giri di parole.
«Preferisco essere d’accordo con Lucrezio: usare poche parole per dire moltecose».
Il suo sesto punto?
«Se l’obiettivo esibito, o meglio ostentato, dal piano di Ignazio Marino èquello di salvaguardare il Colosseo dall’inquinamento da smog dovuto altraffico, il fatto stesso di far passare gli autobus nella corsia preferenzialedimostra che il problema non viene affatto risolto».
Molti studiosi, come Eugenio La Rocca, Cesare De Seta e Francesco Buranelli,hanno richiamato l’attenzione sui rischi per il Colle Oppio e il suo patrimonioarcheologico.
«Ecco il punto settimo, un sindaco dovrebbe conoscere profondamente la città dicui diventa sindaco».
Pensa che Marino non la conosca?
«Temo di no. Prima sembra sia stato tanto in America. D’altronde la suabiografia non è ancora compresa nella Treccani. Ma quando andava in televisionee pontificava tanto sulle università, faceva solo confronti con l’Americaraccontando delle sue esperienze. Il mio è un sommesso pensiero, ma un sindacodeve poter vantare una profonda conoscenza sociale della città. È una legittimaipotesi: gli amici di Marino possono dire che è una malignità, ma è unaconstatazione di fatto».
E se le chiedessimo una considerazione su via dei Fori Imperiali, lontano datermini ideologici (che non le piacciono), ma almeno storici? Andrea Giardinariconosce piena dignità di monumento a questa strada.
«Sono d’accordo con Andrea Giardina, persona seria. Via dei Fori Imperiali nondeve essere toccata. Analogamente dovremmo disfare i grandi boulevard di Parigiche furono fatti costruire da Napoleone III. L’intervento di Mussolini equivalealla stessa operazione urbanistica compiuta a Parigi, fa parte della storiaurbanistica di Roma. Dire che si debba sbancare la strada mi pare un segno diinfantilismo. La storia ha preso questa forma, non si può infierire sullastoria. Roma è una metropoli, non un giocattolo. Quando si fece lacommemorazione dei primi 50 anni dell’Unità d’Italia, nel 1911, fu costruito ilVittoriano, una mostruosità. È come dire, abbattiamo l’Altare della patria eportiamo il Campidoglio alla forma che aveva prima. Demenziale».
Luigi Petroselli fu il grande sindaco, che ebbe il merito storico di avviare la trasformazione di Roma utilizzando il progetto fortemente voluto da Antonio Cederna. Il migliore augurio che possiamo fare al nuovo sindaco Ignazio Marino e ai suoi collaboratori è di portare a compimento quell'impresa. Articoli di Vittorio Emiliani e Jolanda Bufalini, l'Unità 6 luglio 2013
Roma rinasce dai Fori
di Vittorio Emiliani
L’invocazione, dell’allora sindaco di Roma, il grande storico dell’arte Giulio Carlo Argan, «o le automobili o i monumenti», risale al 1978. L’inquinamento aveva raggiunto livelli così alti da mettere in pericolo i marmi romani. Nasce allora l’idea dagli studi di Leonardo Benevolo, dalle denunce di Antonio Cederna di chiudere al traffico tutta l’area dei Fori. In seguito ci fu la proposta di un grande Parco urbano ed extra-urbano, dal Campidoglio all’Appia Antica, ai Castelli, su cui Cederna lavorerà alla Camera, in Campidoglio, al Parco dell’Appia, fino alla morte, nel 96.
Con felice e coraggiosa intuizione il neo-sindaco Ignazio Marino imprime alla politica capitolina, degradata e svilita nel quinquennio di Alemanno, una svolta netta, ripropone quell’idea antiveggente, assieme alla sua Giunta e al I° Municipio, per invertire la rotta, per rimediare ad uno dei peggiori disastri dell’urbanistica-spettacolo di Mussolini: Via dell’Impero. Che spacca in due l’area dei Fori diventando un autostrada urbana con vista sui monumenti (magari sul loro didietro) e riversa insensatamente una marea di veicoli su piazza Venezia, sul centro storico. Siamo tanto abituati a questo melodrammatico stradone che però consentiva al duce di vedere il Colosseo da Palazzo Venezia da averne dimenticato l’origine e la funzione. Magnificare la nuova romanità del fascismo picconando a tutta forza quanto si opponeva alla cavalcata inaugurale del Capo, con tanto di pennacchio, nel decennale della Marcia su Roma. Basti ricordare il prodigio che tale opera rappresentò, scrive all’epoca il pur colto Giuseppe Bottai, infatti, nel termine ristretto di soli sette mesi, si sono demoliti ben 5500 vani d’abitazione, si sono scavati e asportati 300.000 metri cubi di terreno, di cui la sesta parte, circa, costituita da roccia e da vecchi calcestruzzi romani.
In realtà ci ha spiegato uno storico e urbanista della statura di Italo Insolera in Roma moderna fu sbriciolata l’edilizia medioevale e completamente distrutto il quartiere costruito all’inizio della Controriforma, furono atterrate due chiese, cancellate almeno dodici vie e tranciata, abbassata la collina della Velia, fra Colle Oppio ed Esquilino, uno dei Sette Colli dell Urbs più antica. Tant’è: gli abitanti di quelle malfamate casupole erano come i loro simili della Spina di Borgo proletari e sovversivi da deportare nella nuova borgata di Primavalle. Un annientamento. Già sperimentato in periodo umbertino e replicato ossessivamente da Mussolini all’Augusteo e altrove. Facendo oltre tutto di una città policentrica (San Pietro, San Giovanni in Laterano, Quirinale, ecc.) come osserva uno degli studiosi più acuti, Mario Sanfilippo, nelle Tre città di Roma (Laterza) una metropoli nevroticamente monocentrica attorno alla ingestibile piazza Venezia.
Ma torniamo al grido di Argan, ripreso dal soprintendente Adriano La Regina. Luigi Petroselli, che nel 1979 subentra al dimissionario, stremato Argan, ha già un saldo rapporto con gli intellettuali più avanzati e pone mano alle prime misure concrete: lo smantellamento della via che separa Foro e Campidoglio e la creazione dell area pedonale fra Colosseo e Arco di Costantino. Così si ricostituisce la continuità Colosseo-Via Sacra-Clivo Capitolino, mentre Colosseo e Arco di Settimio Severo vengono salvati da veleni e scosse del traffico. Nell’81 un ministro dei Beni Culturali, spesso dimenticato, il repubblicano Oddo Biasini, vara la legge speciale n. 92 con cui si assegnano 168 miliardi in cinque anni alla Soprintendenza di Roma per lavori di restauro. Il Messaggero da me diretto (lasciatemelo ricordare) dove scrivono Vezio De Lucia e Italo Insolera sostiene senza riserve il progetto del grande Parco. Sul Corriere della Sera (14 marzo 81) 220 intellettuali e dirigenti del Ministero firmano un appello per il Parco stesso (a favore del quale si esprimerà nell 82 anche il ministro Enzo Scotti).
Purtroppo, prima che finisca l’81, muore all’improvviso Petroselli, sindaco coraggioso e deciso. Cambia l’assessore al Centro Storico, con Carlo Aymonino al posto di Vittoria Calzolari autrice del piano di assetto dell Appia. La spinta si affievolisce. Il cantiere aperto nel Foro di Nerva non procede.
Alcuni intellettuali di sinistra esprimono dubbi di sostanza sullo straordinario parco urbano-metropolitano da piazza Venezia ai piedi dei Castelli (per il quale Cederna presenterà poi un disegno di legge). Nell’83 il ministro Nicola Vernola ha rovesciato l assenso del predecessore Scotti. La leva fondamentale assieme allo SDO della riqualificazione ambientale e urbanistica di Roma, della sua stessa immagine finisce in archivio. Tanto più dopo l’avvento, nell’85, di amministrazioni a guida Dc, fragili e spente.
Ignazio Marino, il marziano, ne fa ora, dopo 35 anni, un autentico cavallo di battaglia per coniugare felicemente antico e moderno, per ridare dignità e decoro ad una capitale degradata e imbruttita, invasa ovunque da auto, furgoni, pullman. Ed è proprio sull intera città antica, sugli usi distorti ai quali è stata piegata una volta espulsi i residenti (ridotti ad appena 85.000) che si dovrà esercitare il nuovo fervore, la nuova attenzione culturale suscitata dalla proposta, chiara e netta, del nuovo sindaco della capitale. Con misure graduali e però risolute, fondate su studi e piani del più alto livello. Come Roma merita.
Lunedì si riunirà la conferenza dei servizi con le soprintendenze per studiare tutti i passi. Soprattutto per non creare una zona archeologica di serie A, e una di serie B. Spiega Daniel Modigliani ex direttore del Prg di Roma: «il centro archeologico monumentale non è solo l’area dei Fori, ma è individuato nel piano regolatore come area da tutelare e comprende anche Colle Oppio con le Terme di Traiano, le Terme di Tito e la Domus Aurea».
Lo studio della riduzione del traffico che entrerà in vigore a fine mese è iniziato su input delle soprintendenze archeologiche, quando è partito il cantiere della metro C e c’erano preoccupazioni per le vibrazioni intorno al Colosseo. Il sindaco Marino che, in campagna elettorale accusava Alemanno di lasciare nel cassetto gli stessi studi dei suoi tecnici, ha colto l’occasione al volo per rilanciare l’idea di Antonio Cederna: «Il progetto attuale vuole rendere orgoglioso il nostro Paese nei confronti del mondo. Stiamo parlando del più grande parco archeologico della terra. È solo l’inizio: il progetto si completerà quando avremo realizzato il parco archeologico dell’Appia antica». Il presidente della Regione, Nicola Zingaretti, apprezza il coraggio del sindaco: «È una grande occasione per dare all’Italia una spinta alla crescita ripartendo dalla cultura, un simbolo di una nuova fase che andrà vissuta come una sfida». Se si creeranno problemi nel traffico, aggiunge Zingaretti, «li affronteremo».
In piazza, ai cittadini, l’assessore Guido Improta spiega: «Ci sarà il coinvolgimento di più assessori, non è tanto un progetto trasportistico ma un progetto che mette al centro della scena mondiale la valorizzazione di un’area archeologica che tutto il mondo ci invidia». Le criticità nel traffico «si supereranno con un’analisi molto attenta dei flussi fatta dall’Agenzia per la mobilità, e anche grazie ad una responsabilità nuova e condivisa da parte dei cittadini».
A proposito del Parco dei Fori vedi su eddyburg la cartella Appia antica>Pagine di storia
Si tratta di una vecchia, ottima idea. Di più: si tratta di una necessità. Già nel 1979 il sindaco, comunista, e storico dell'arte Giulio Carlo Argan diceva: «O le automobili, o i monumenti», e il grande Antonio Cederna rilanciava, scrivendo sul «Corriere della sera», che era ormai tempo di rimediare allo scempio di Via dei Fori Imperiali, realizzata dal Fascismo per «far vedere il Colosseo da Piazza Venezia, allora scambiata per ombelico del mondo».
Come Italia Nostra, Legambiente e molte altre associazioni ricordano, oggi quelle ragioni si sono moltiplicate: anche solo i lavori della Metro C, per esempio, impongono di diminuire lo stress subìto dai monumenti, e di ridare visibilità a questi ultimi, allentando la morsa del traffico e aumentando lo spazio per i visitatori.
Tutto bene dunque? Sì, purché l'annuncio clamoroso di Marino sia la parte emersa e mediatica di un progetto di città, e non un gesto fine a se stesso e isolato. Induce a qualche timore l'entusiastica citazione del modello Firenze da parte del neosindaco di Roma. Se chiedete a un fiorentino cosa ha fatto, di concreto, l'amministrazione di Matteo Renzi, questi risponderà – ormai con più di un filo di ironia – che ha pedonalizzato Piazza del Duomo: che è in effetti l'unico vero cambiamento che si può accreditare all'ex rottamatore. Ma a guardar bene non è per nulla un successo: si tratta dell'ennesimo passo verso la musealizzazione e la turisticizzazione di Firenze. Un altro passo verso il disastro di Venezia, insomma. La pedonalizzazione, infatti, è stata fatta dall'oggi al domani, ed è stata concepita non come una misura urbanistica, ma solo come un provvedimento stradale. E il risultato è che la piazza appartiene ancor meno ai cittadini (che non riescono a raggiungerla con mezzi pubblici), e che le attività commerciali sono sempre più da luna park. Così, oggi Piazza del Duomo non è più una piazza, se per piazza si intende uno spazio pubblico animato dalla vita civile.
Ecco, la speranza è che Marino non segua il modello Renzi, ma ne costruisca uno suo: all'altezza del suo ambizioso, e bel programma di governo. Cominciando dalla squadra di governo: laddove Renzi si è circondato di mezze figure che non rischiassero di fargli ombra, si spera che Marino scelga invece delle vere competenze. Potrebbe, per esempio, avere un ruolo importante l'archeologa Rita Paris, appena eletta con Marino in Consiglio Comunale, che ha combattuto con efficacia l'abusivismo sull'Appia, e dirige il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. È molto significativo che la Paris abbia sposato con entusiasmo l'idea di prolungare fino almeno al Colosseo la linea 8 del tram: solo con un servizio pubblico (possibilmente ecocompatibile come il tram) i Fori potranno tornare ad essere parte della città.
Perché è questo il punto vero. Occorre un progetto didattico che restituisca una leggibilità archeologica e storica ai Fori per chi li vede per la prima (e magari unica) volta nella vita, e occorre certo ripulirli dalla umiliante presenza terzomondista dei camion-bar e dei penosi personaggi in costume da gladiatore o centurione. Ma occorre soprattutto reintegrare i Fori nella città, rigettando radicalmente la visione fascista o cinematografica che ce li ha consegnati come retorico sfondo di parate, eventi o spettacoli vari.
È dunque vitale che chiudere i Fori voglia dire, in realtà, aprirli. Aprirli alle gite domenicali dei romani in bicicletta, alle passeggiate delle famiglie, ad un tempo liberato che renda consapevoli i cittadini della storia straordinaria della loro città. E soprattutto che aumenti la qualità della loro vita. L'errore cruciale della cosiddetta 'valorizzazione' dei centri storici delle città d'arte italiane è quello che li vuole infiocchettare e trasformare in tante San Gimignano o Alberobello. Il destinatario elettivo di queste operazione di make up è sempre e solo il turista, nuovo signore delle nostre città. Ai cittadini, invece, tocca vivere in periferie inguardabili a cui nessuno ha il coraggio di por mano. Per non ripetere questo errore Marino deve avere molto coraggio, e deve riprendere in seria considerazione l'idea che l'Italia Nostra di Cederna avanzò negli anni settanta: quella di realizzare una 'spina verde' che trasformi «in vero 'parco archeologico' tutta la zona monumentale che va dall'Appia Antica e attraverso la Via di San Gregorio (già dei Trionfi), Colosseo, Foro Romano e Fori Imperiali arriva praticamente alle soglie di Piazza Venezia». È una scommessa, scriveva Cederna, non sulla salvezza dei Fori, ma sul «riscatto del centro storico di Roma».
Se il chirurgo genovese facesse suo questo progetto, e fosse capace di realizzarlo, lascerebbe davvero il suo nome negli annali della storia romana: altro che Gianni Alemanno, o Matteo Renzi.
«E' dalle trincee comunali che può iniziare la ricostruzione di una forma di partecipazione, la voglia di cambiare le cose». Il manifesto, 9 giugno 2013
Alle conquista di spazi comuni per ottenere che il frutto del lavoro collettivo venga sottratto alla speculazione e restituito alla città. L’Unità on line, dal blog “Città e città”, 9 maggio 2013
“Omnia sunt communia. Con questa programmatica parolad’ordine le ex Fonderie Bastianelli, quartiere san Lorenzo, il 24 aprile sisono coperte di striscioni. Un collettivo di studenti e precari hanno deciso dipresidiare un palazzo da tempo abbandonato a una gigantesca speculazione.
Novità nelle elezioni per il Campidoglio: il teatrino nel Palazzo, la politica in piazza. Il manifesto, 26 marzo 2013
Da alcuni mesi un vasto numero di comitati e di associazioni ambientaliste presidia il consiglio comunale di Roma per scongiurare l’ennesimo diluvio di cemento che si vuole infliggere ad una città sull’orlo del disastro urbanistico. Salviamo il paesaggio, Italia nostra, i comitati no pup, i 5 stelle, Carte in regola e i tanti comitati che in questi anni hanno tentato di affermare un’altra idea di città nell’indifferenza delle politica politicante, insieme agli unici consiglieri che si oppongono allo scempio (Alzetta e Azuni) stanno tentando di bloccare la prepotenza della giunta Alemanno che pur in scadenza e travolta da continui scandali ieri è stato arrestato il fedelissimo Mancini vuole infliggere il colpo definitivo al riscatto della città.
Ma ieri in piazza del Campidoglio e poi in una sala del Carroccio gremita è andata in scena una rilevante novità. Il gruppo Liberare Roma e la confederazione dei comitati metropolitani (co.co.me.ro) hanno dato un appuntamento per sensibilizzare l’opinione pubblica. A provocare l’allarme è stata anche la sconcertante vicenda del dibattito sulle prossime elezioni comunali. Sia l’attuale maggioranza che l’opposizione del Pd stanno accuratamente censurando ogni discussione sui veri problemi della città, ad iniziare dal buco di bilancio che ammonta a 11, 5 miliardi che arrivano a 15 per l’allegra gestione delle aziende comunali. Il governo Monti ha recentemente dichiarato fallita Alessandria per un deficit di 200 milioni: circa 2 mila euro per ciascun abitante. La capitale ne ha circa 6.000 per ogni romano. Il fatto è che la capitale è troppo grande per fallire e così si va avanti nella commedia degli equivoci. Proprio ieri i candidato a sindaco dei 5 stelle ha chiesto accesso agli atti per conoscere l’ammontare del debito in finanza creativa e sembra che esso ammonti a 7 miliardi di euro.
Ma di questo non si parla. Assistiamo soltanto ad una sconcertante passerella di vuoti slogan e di educati endorsement che tentano ancora una volta di addormentare la città. Il debito ha invece origine nel dissennato modello di sviluppo urbanistico che da venti anni è stato imposto alla città: un’espansione inaudita che arricchisce pochi proprietari di aree e impoverisce fino al fallimento un’intera città. Di più, alcuni pseudo comitati che pensano più al cemento che al benessere delle periferie producono incredibili documenti in cui si afferma che questo processo distruttivo non può aver fine perché esistono i «diritti edificatori». Una menzogna inesistente sul piano giuridico di chi cerca soltanto di perpetuare un modello distruttivo di crescita infinita.
Quanto è avvenuto ieri dice però che la misura è colma e chi ha governato la città per 15 anni (centro sinistra) e 5 (centro destra) deve assumersi pubblicamente la responsabilità del fallimento e bloccare per sempre l’espansione urbana. Non è più soltanto un tema urbanistico: ne va della stessa sopravvivenza della rete dei servizi pubblici, ad iniziare da sanità e scuola, e del welfare urbano.
I tanti comitati presenti ieri in Campidoglio vogliono una sola cosa: cambiare l’agenda del futuro della città, aprire una speranza per i giovani che, se possono, se ne vanno all’estero o sono altrimenti condannati a vivere nella più disumana periferia dell’Europa occidentale.
Fra due mesi si voterà a Roma: pubblichiamo, in anteprima per eddyburg, il prologo dell’ultimo volume di Francesco Erbani, Roma, Il tramonto della città pubblica, Laterza 2013, la migliore lettura per un voto più consapevole. (m.p.g.)
Le storie che seguono sono raccontate con la lingua delle inchieste giornalistiche. Il loro fulcro sono le trasformazioni che Roma ha vissuto o subìto negli ultimi decenni. Trasformazioni che hanno investito molte delle sue parti e che sono quasi tutte riconducibili a un vorticoso aumento dell’edificato o, almeno, all’elaborazione di progetti in quella direzione. Quanto poi alla crescita dell’edificato abbia corrisposto un proporzionato incremento degli spazi di comunità e un generale benessere è questione che queste storie vorrebbero accertare. Dietro, accanto, sotto le trasformazioni fisiche si delinea inoltre il progressivo impoverimento della città pubblica, mentre è avanzata l’idea che soltanto l’estendersi di un controllo privato su parti crescenti di essa possa contribuire a diffondere quel generale benessere e a fronteggiare la crisi che si è abbattuta su Roma come su tutto il mondo occidentale.
Proveremo a documentare che cosa è avvenuto e sta avvenendo a Roma usando gli strumenti del cronista, visitando luoghi, intervistando persone, facendo parlare atti e delibere e tentando di capire se quel che accade nella capitale è una vicenda per alcuni aspetti esemplare della condizione urbana oggi in Italia, e non solo. Da tempo studiosi di diverse discipline discutono il tema delle ricadute nello spazio cittadino delle ricette che invocano una progressiva e forse definitiva ritirata del pubblico entro recinti sempre più stretti. Quando urbanisti e sociologi parlano di città pubblica, il riferimento è, storicamente, a quelle parti di città di proprietà pubblica, dove si è realizzata edilizia pubblica, dove risiede un parco pubblico. In fondo, però, tutta la città nel suo insieme è pubblica anche se costituita di tante parti private che, decidendo di condividere uno stesso spazio, realizzano qualcosa di pubblico.
Attraverso le storie che seguono cercheremo di capire se le trasformazioni avvenute o che stanno avvenendo a Roma rispondono a criteri urbanistici corretti, se vanno incontro a bisogni collettivi o se invece sono l’effetto di strategie immobiliari che arrecano profitto a chi costruisce e un utile molto dubbio alla città. Se, cioè, danno lustro e soldi ai privati e scaricano oneri sul pubblico. Percorreremo poi la strada delle decisioni politiche, per appurare quanto le amministrazioni pubbliche abbiano esercitato un governo effettivo delle trasformazioni e quanto, viceversa, si siano piegate a interessi privati, lasciando che venisse consumato suolo pregiato (che pur essendo proprietà di qualcuno assolve comunque a funzioni ecologiche di interesse collettivo, dall’assorbimento di acqua piovana allo stoccaggio del carbonio, alla produzione agricola...) senza che la città ne guadagnasse in termini di qualità urbana e, anzi, vedesse aggravati i propri affanni. Oppure consentendo, persino sollecitando, che parti crescenti di città migrassero dalla mano pubblica o da un uso pubblico al controllo privato (siano edifici o aree libere, mercati rionali o depositi dimessi, suoli o sottosuoli). A Roma si è teorizzata ed esercitata molta contrattazione urbanistica. È finito il tempo, ha sostenuto chi ha governato la città, della cosiddetta urbanistica autoritativa (l’autorità pubblica che tutto decide e tutto pianifica), ogni cosa si negozia. O si scambia. Se c’è bisogno di un’opera pubblica, essendoci sempre meno soldi, questa si paga elargendo concessioni edilizie. Ma molto spesso – quanto spesso si cercherà di capirlo nelle storie che seguono – è il privato che, pur di avere un permesso di costruire, suggerisce al pubblico un’opera da realizzare in cambio di quel permesso.
Interrogheremo poi chi la città ha studiato e studia, nelle università e nei centri di ricerca, per raccogliere analisi e riflessioni. E sonderemo il vasto fronte dei comitati di cittadini, di gruppi e associazioni che producono una mole imponente di indagini sul proprio quartiere e che avviano vertenze per salvaguardare quel che appartiene a una collettività e che invece si vorrebbe alienare a vantaggio di pochi. Le loro azioni vanno dalla semplice cura di uno spazio – un edificio dismesso, un orto, un paesaggio, un giardino – intorno al quale si tessono o si rigenerano relazioni comunitarie che si vorrebbero annientate in una bulimia consumistica, fino ai flash-mob, alle battaglie, alle iniziative legali per non perdere ciò che è proprietà di tutti e tanto più delle generazioni future. In queste fatiche, compiute con energie volontarie e senso del gratuito, colpisce un dato: la controparte è quasi sempre il pubblico che smette di fare il pubblico, sono l’amministrazione e l’ente che si sottraggono al compito di tutelare interessi generali. Il fenomeno è relativamente recente, una quindicina d’anni al massimo, ha dimensioni nazionali e Roma ne è investita, documenta il passaggio dall’indignazione individuale a un sentimento civile. È uno dei tanti segnali che attestano la crisi della rappresentanza politica tradizionale, ed è anche il sintomo di una rinascita democratica, banalmente rubricato ad antipolitica o a episodio Nimby (Not in my backyard). Molti di questi gruppi si affiancano alle associazioni storiche, Italia Nostra, Legambiente, il Wwf, ma sempre più spesso le sostituiscono o le condizionano. Tentano di compiere un salto di scala, riuscendo solo in parte a collegarsi fra loro e mettendo in comune un patrimonio culturale, di passione politica, di competenze e di battaglie ambientaliste. Ma i numeri sono consistenti e ormai formano una massa critica. La dimensione locale e il carattere spontaneo si esprimono in iniziative di documentazione storica sul proprio quartiere, in occasioni di recupero della memoria, in piccole forme di welfare e poi in lavori di progettazione alternativa rispetto alle proposte del Comune o di un Municipio. Ed è evidente in molti dei comitati romani lo slancio a creare coordinamenti, a cercare ciò che di simile esiste in tante vicende dissimili e dunque a passare dalla singola vertenza a un’elaborazione più politica, di cui l’urbanistica rappresenta uno dei cardini.
Roma per molti aspetti è esemplare di una condizione urbana che riguarda altre città del paese, si diceva. Le sue patologie si rintracciano anche altrove, e anche altrove, in proporzioni diverse, queste affliggono la qualità del vivere e l’esistenza materiale delle persone. Quanto, per dirne una, il disegno di Roma è pianificato e quanto invece è affidato al caso per caso? Quanto conta l’idea che la città ha di sé, e quanto invece vale la sommatoria di interessi, a volte conflittuale a volte consensuale? Quanto Roma si sforza di garantire a tutti i suoi residenti il diritto alla città, un’accessibilità che è condizione perché chiunque vi abiti si senta anche cittadino? A Roma, inoltre, è possibile definire la fisionomia esemplare di un potere, quello legato all’edilizia e alla proprietà dei suoli, che è stato il motore secolare dell’economia cittadina, e che tuttora è alimentato più dal propellente della rendita fondiaria che dal profitto d’impresa, ed è intrecciato alla finanza. L’espressione “poteri forti” è adulterata dall’abuso: ma in pochi altri casi, come a Roma, definisce bene un grumo di interessi ampiamente addossato alla politica e all’amministrazione, che agisce come impresa privata, ma non disdegna, anzi, di colonizzare le aziende municipalizzate oppure di tracciare le linee guida delle Grandi opere, chiedendo per sé un perenne regime di deroghe e dunque auspicando Grandi eventi – Olimpiadi, Mondiali di nuoto, Giubilei – e sistemi da Protezione civile. Questi poteri sono in grado, quando andava bene e ora che va male, di condizionare il tenore di vita della città. E anche di proporsi come protagonisti per fissare la direzione di marcia dell’urbanistica. Direzione di marcia che spetterebbe alla politica e all’amministrazione pubblica di dettare, ma la cui formulazione è spesso culturalmente incerta e altrettanto spesso è il prodotto di mediazioni al ribasso, sintomo di una fragilità sia della politica sia dell’amministrazione pubblica che non è solo prerogativa della capitale, ma di altre città e di un paese intero.
Roma sembra essere progredita per parti separate. A pezzi. Per tendenze, ha scritto uno dei massimi studiosi della sua storia urbana, Italo Insolera, scomparso a fine agosto del 2012. Quasi nelle pagine d’esordio del suo Roma moderna, a proposito di come vennero distribuiti i ministeri negli anni immediatamente successivi alla breccia di Porta Pia, Insolera scrive che «il non trasformare nessuna tendenza in un piano, in una legge precisa che modelli la struttura stessa della città, è una caratteristica tipica e costante dell’amministrazione romana. Ogni provvedimento deve sempre lasciare un margine al provvedimento opposto. Qualsiasi iniziativa viene subito svilita nel compromesso: per evitare che si accusi l’amministrazione di favori eventualmente disonesti nei confronti dei proprietari e impresari di una zona; non ci si cura tanto di creare gli strumenti fondiari e tecnici per prevenire da ogni parte possibili corruzioni, ma di distribuirne un po’ dappertutto le premesse».
Le storie che seguono proveranno anche a rispondere a domande che, a Roma, incalzano con la stessa energia con la quale i problemi si aggravano. Non è detto che le risposte si riescano a trovare o che, trovate, sia semplice metterle distesamente in fila. Perché, per esempio, Roma è la città con più macchine e motorini in Europa? In rapporto alla popolazione, ovviamente. Perché a Roma – sono dati elaborati nel 2009, fonte lo stesso Comune di Roma – circolano 978 veicoli a motore ogni 1.000 abitanti, comprendendo fra i 1.000 abitanti anche i ragazzi con meno di 18 e anche di 14 anni, i neonati e gli ultra ottantacinquenni, praticamente una macchina o un motorino ogni abitante? Perché questo accade a Roma, che conta 2 milioni 700 mila abitanti, mentre a Londra i veicoli a motore sono 3 milioni 10 mila e gli abitanti 7 milioni e mezzo, con un rapporto di 398 ogni 1.000? Parigi e Barcellona stanno un po’ peggio di Londra, ma nella capitale francese il rapporto è di 415 su 1.000, e nel capoluogo catalano di 621 su 1.000. Perché? Non è conveniente introdurre un racconto sparando cifre. E neanche ponendo domande. Ma quelle cifre e quelle domande contengono un problema. Più macchine ci sono in giro, meno si va in giro. La ragion d’essere di una macchina sta nel facilitare la mobilità. Ma troppe macchine sono l’antitesi della mobilità. E la mobilità è il presupposto dell’accessibilità, che a sua volta consente di esercitare degnamente il diritto alla città. Inoltre troppe macchine inquinano insopportabilmente l’aria. Se parcheggiate ostacolano la viabilità, se parcheggiate male la ostruiscono in un crescendo di illegalità che la Polizia municipale ha rinunciato a perseguire. Troppe macchine sono causa di incidenti, anche mortali (un altro po’ di numeri: 19.960 gli incidenti a Roma ogni anno, 23.210 a Londra, con una popolazione quasi tre volte superiore; 201 i morti a Roma, 222 a Londra). Se questi sono solo alcuni dei problemi e altri li vedremo in seguito, diventa ancora più incisivo domandarsi perché tutto ciò accada. Perché questi dati crescono costantemente nel tempo e non si vedono indicazioni che vadano in senso contrario. E perché il problema traffico viene affidato a una gestione emergenziale, che con tutta evidenza ha prodotto assai poco e che, dopo sette anni di proroghe, il governo Monti nel gennaio 2013 ha nuovamente prorogato con il consenso di centrodestra e centrosinistra.
Alle domande sul numero di macchine che circolano a Roma, se ne incrociano altre, apparentemente disomogenee, ma che pure dimorano nello stesso spazio e hanno a che fare con il modo in cui questo spazio si organizza. A Roma si sono costruite nel primo decennio del Duemila moltissime case. 8.598 alloggi nel 2003, 11.056 nel 2004, 14.889 nel 2005, 8.433 nel 2006 e 8.919 nel 2007. In cinque anni si sono completati quasi 52 mila alloggi, 10 mila ogni anno in media: Roma ha avuto un tasso di crescita dello stock edilizio dell’1,4 per cento, il doppio di quello di Milano (+0,7). Ci sono ragioni demografiche, di riorganizzazione dei nuclei familiari, ragioni produttive che giustifichino questi incrementi, che hanno poi rallentato il proprio ritmo, fin quasi ad arrestarlo fra la fine del decennio e l’inizio di quello successivo? E perché ancora tante persone non trovano una casa che possano permettersi e un numero sempre crescente di queste persone va a vivere fuori Roma, in provincia o addirittura in altre province e persino oltre i confini della regione, al punto che qualcuno, in onore a questi paradossi, sostiene che Roma cresca a Orte (sono 163 mila i romani che tra il 2003 e il 2010 hanno lasciato la città e si sono trasferiti nei comuni della provincia)?
Chi conosce non solo Roma, ma la letteratura su Roma, sa che il disagio abitativo non è un problema di oggi o dell’ultimo decennio. È uno degli aspetti strutturali di uno scadente diritto alla città. Si è scritto – è ormai acquisito – che una certa quota di fabbisogno inevaso è sempre funzionale al mantenimento di un livello accettabile dei prezzi delle case – accettabile per chi quelle case costruisce. Si è scritto che più case si costruiscono, più ce ne vorrebbero; lo si è scritto per Roma, ma anche per l’Italia intera. Quanta gente, fin dall’alba del Novecento, si è ammassata in baracche addossate alle Mura Aureliane? E poi si è costruita una casa in mattoncini di tufo senza intonaco lungo le vie consolari? E in quanti hanno popolato i borghetti fino a tutti gli anni Settanta del secolo scorso? Insolera e poi Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta, autori di Borgate di Roma, fra i più illustri esponenti di quella letteratura sulla capitale prima richiamata, hanno calcolato che alla fine degli anni Settanta erano fra 800 e 830 mila i romani che vivevano in case abusive, costruite senza alcuna licenza, poi in qualche modo rientrate nella legalità. Una città come Palermo. Altre stime parlano di 10 mila ettari abusivi, poco meno del 20 per cento di tutto l’attuale edificato a Roma. Nel 1997, quando l’amministrazione Rutelli approva un importante documento urbanistico, la Variante di salvaguardia, gli insediamenti abusivi conteggiati a partire dal Piano regolatore del 1962 ammontavano a 204.
Le pagine su Roma, le immagini di Roma, sono piene di case che si tirano su e di gente che cerca casa. Ma perché si costruiscono o si progettano ancora oggi tante case se 250 mila restano a vario titolo vuote (secondo una stima di Legambiente; erano comunque 193 mila al censimento del 2001)? Perché a pochi mesi dalla chiusura della legislatura in Consiglio comunale l’amministrazione di Gianni Alemanno cercava di far approvare in tutta fretta 64 delibere, molte in variante al Piano regolatore approvato nel 2008 e tutte proponenti ulteriori espansioni edilizie per un totale stimato fra i venti e i trenta milioni di metri cubi? Perché si progettano bretelle autostradali, raddoppi di aeroporti, perché le società di calcio cittadine, appartenenti a potenti famiglie di costruttori o a fondi immobiliari esteri, immaginano nuovi stadi che costituiranno la piccola parte di insediamenti contenenti centri commerciali, alberghi e, ancora, case? E poi: le domande sulle macchine e quelle sulle case si tengono insieme, si incrociano in qualche punto del discorso? Forse perché quelle case le si va a sistemare fuori dalla città già edificata, che pure conserva molti spazi vuoti, essendo bassissima la sua densità abitativa? Forse perché, nonostante tante dichiarazioni solenni e formalmente codificate, i nuovi insediamenti sorgono lontano o lontanissimo da una fermata di metropolitana, di tram e persino di autobus?
E perché, come effetto non secondario, di questa frammentazione abitativa, si decide di sacrificare porzioni di campagna romana, “l’erme contrade” che Giacomo Leopardi racconta nella Ginestra e che irrorano la facoltà immaginativa di Montaigne, Montesquieu, Charles de Brosses, Goethe e che ancora nel Novecento offrono materiali a Ennio Flaiano, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini? Con la cultura non si mangia, disse un ministro della Repubblica, e tanto meno con la letteratura, ma con quel che l’agricoltura produce sì: e allora perché si lascia che quelle case, in gran numero restate invendute, minaccino le migliaia di aziende che l’agricoltura insistono a praticarla (Roma è ancora il comune o uno dei comuni più agricoli d’Italia) coltivando carciofi, innestando vigneti, allevando pecore e confezionando formaggi?
Le domande diventano perentorie. E, come in una struttura frattale, ne producono altre, che poi vanno a raggrupparsi. Fino a formare accorpamenti e gerarchie. E domande capofila, del tipo: chi decide che tutto ciò accada? Chi decide perché si costruisce, che cosa, per chi, come e dove? Chi stabilisce che un edificio, un’area di proprietà pubblica, un mercato rionale, con la scusa di ridurre il debito, finiscano in mano a un privato che ne fa quel che vuole ignorando ciò di cui ha bisogno la parte di città in cui quell’edificio, quell’area e quel mercato risiedono? Quali sono i soggetti, le forze, le aggregazioni sociali, economiche e politiche che definiscono gli assetti della città? E quanto costa ai cittadini romani, e non solo ai cittadini romani, una Roma così fatta, che ha un debito di oltre 9 miliardi, scarsissima liquidità, un bilancio sempre a rischio di censure dalla Corte dei Conti e che, per evitare l’indecenza, dichiara per acquisite anche le entrate presunte, come le multe?
Quanto spazio i temi urbanistici occupano nel dibattito politico? È possibile, per esempio, fare anche minimamente un raffronto con le polemiche aspre, le divisioni profonde, appassionate e culturalmente motivate che si agitarono negli anni Cinquanta, quando si scriveva il Piano regolatore della città? Che durata hanno i fenomeni che oggi investono Roma? Quand’è che Roma ha cominciato a farsi del male? Forse quando compì il vertiginoso salto da misero borgo papalino a capitale del Regno? Oppure quando il cardinale de Mérode acquistò i terreni sui quali avrebbe fatto costruire via Nazionale? Quando furono distrutte Villa Ludovisi e decine di altre ville patrizie sostituite da lottizzazioni? Quando fu stravolto il Piano regolatore del sindaco Ernesto Nathan? Quando furono inventate le borgate? La caccia alle origini del malessere di Roma è stata condotta e prosegue in sede storiografica con risultati a volte ottimi. Ma non è questa la sede per spingersi così lontano. Qui si può fissare, non tanto arbitrariamente, un punto nella storia secolare di Roma. Quel punto è l’articolo che Antonio Cederna pubblica su Il Mondo il 15 marzo 1955 e che il direttore del settimanale, Mario Pannunzio, intitola La macchia d’olio. Come una goccia d’olio che cade da un recipiente produce su una superficie una macchia la quale si espande in modo irregolare e si dilata in ogni direzione, così la città di Roma è cresciuta fin dagli anni successivi al 1870 allargandosi in tutti i punti cardinali e seguendo non la linea di marcia dettata da una corretta pianificazione, ma le forze di trascinamento delle proprietà fondiarie – la speculazione edilizia – le quali, chi a est, chi a ovest, chi a sud e chi a nord, spingono la città sui loro terreni.
Dal 1951, comunque, mescolando interventi di edilizia pubblica e privata, in proporzioni a tutto vantaggio di quest’ultima, la città si espande a un ritmo che non ha eguali nella propria storia. Vediamo qualche dato. Il Piano regolatore del 1931 dimensiona l’edificato di Roma, per i futuri 25 anni, in 14 mila ettari. Non è la fotografia dell’esistente, sono previsioni. Se anche le dessimo per acquisite nei decenni successivi, e non lo sono, queste previsioni fissano la città costruita entro un decimo del territorio comunale (che allora comprendeva anche Fiumicino). Va da sé che nei 14 mila ettari non sono compresi i numerosi “nuclei edilizi”, così li chiamavano, sparsi già allora nella campagna. Roma ha impiegato 2.500 anni per arrivare a quelle dimensioni. La grandissima parte dell’incremento avviene dopo Porta Pia e accompagna un ritmo di crescita demografica altrettanto imponente: 240 mila gli abitanti nel 1870, 691 mila nel 1921 (quasi triplicati), 1 milione 8 mila nel 1931, 1 milione 415 mila nel 1941, 1 milione 651 mila nel 1951. In ottant’anni la popolazione aumenta di 6,7 volte.
Nel 2010, stando alle previsioni del Piano regolatore approvato nel 2008, l’area urbanizzata raggiunge i 60 mila ettari. In sessant’anni la superficie del costruito è aumentata di 4,5 volte (sempre che sia corretto il dimensionamento a 14 mila ettari fra 1931 e 1951). E la popolazione? Il censimento del 2011 indica che i romani residenti sono 2 milioni 760 mila, 1 milione e 100 mila più del 1951 (grosso modo 0,7 volte), ma appena 210 mila più del 2001 e praticamente gli stessi del 1991 e del 1971. Da quarant’anni, con lievi oscillazioni, Roma è demograficamente stabilizzata. Inoltre, a conferma di quanto si diceva prima, a proposito di Roma che cresce a Orte, mentre dal 2001 al 2011 la capitale conta un +8,4 per cento di residenti, la provincia di Roma si ingrossa di un +13,3. C’è dunque sproporzione fra il ritmo di crescita dei romani e quello di Roma, considerando anche l’aumento del numero delle famiglie e segnalando che l’incremento di residenti è soprattutto prodotto dagli immigrati. Le case invendute sono uno degli effetti di queste sproporzioni. Sono contemporaneamente il prodotto di un boom edilizio e il referto di una crisi drammatica.
Il costruito è tanto, troppo, ed è andato per ogni dove anche dopo l’inizio del millennio. Perché? È frutto di intenzioni speculative o di un disegno, di un’idea della città? E qual è il vantaggio che resta alla città e ai romani, vantaggio in termini di benessere economico e di benessere e basta? Quando Cederna coglie con la metafora della macchia d’olio la forma che prende la crescita di Roma, quella crescita è in atto già da decenni. L’articolo su Il Mondo viene riprodotto in I vandali in casa, pubblicato da Laterza nel 1956. L’espressione “macchia d’olio” diventa proverbiale. Il libro di Cederna può leggerlo chiunque abbia responsabilità amministrative da allora in poi: lo hanno letto? Ne hanno tratto qualche istruzione per mettere mano al governo della città? Roma che si espande come si espande una macchia d’olio è una città che si fa del male o del bene? Nessun sistema di trasporto supporta in modo minimamente adeguato questo sviluppo e se fosse adeguato sarebbe insopportabile finanziariamente, una condizione già in atto se si osservano i disastrosi bilanci dell’Atac e il debito che affligge il Comune. Nascono quartieri inospitali che hanno scarsi punti di raccordo fra loro e con il centro della città. Roma è una metropoli che esclude. La letteratura su questi fenomeni è abbondante. Riprendiamo Roma moderna, laddove Insolera fa il resoconto delle ville distrutte dopo il 1870. Molte di queste ville, annota, si sarebbero salvate se solo si fossero applicate le prescrizioni contenute nel Piano regolatore del 1883. «Ma i Piani regolatori a Roma sembrano essere sempre esistiti per dividere le opere in due categorie: quelle dentro al Piano e quelle fuori. Realizzabili poi tutte quante, indifferentemente e quasi sempre prima e più facilmente quelle fuori».
Alla vigilia della formazione del nuovo governo è utile riflettere su alcuni discutibili, e a volte addirittura perversi, episodi dell'urbanistica della vecchia sinistra. Il PRG di Roma è una buona occasione per farlo. L'Unità, 18 marzo 2013, con postilla
Mentre impazza il toto-nomi per il Campidoglio, il libro di un vecchio leone dell'urbanistica, quello di Giuseppe Campos Venuti, Amministrare l'Urbanistica Oggi (remake del titolo di un fortunato volume degli anni '60. edizione INU), dà l'opportunità di parlare di Roma, delle trasformazioni dagli anni 80, del dilagare del cemento oltre il Raccordo, fino a far sparire, in molti casi, la cesura fra città e campagna, consumo di suolo e scarsità di servizi. Di parlare anche dei contrasti che, dopo una stagione felice, hanno segnato, con l'arrivo di Alemanno in Campidoglio, la sconfitta di una stagione di progettualità che proiettava Roma nel firmamento delle capitali europee e anche di amministrazione «forte». Basti un dato: nel 1994 Berlusconi annunciò il condono ma a Roma gli abusi scesero (in contro tendenza rispetto al paese) da 300 al mese nel 1994 a 50 al mese nel 1997. Sconfitta tutta politica o sconfitta di quello che per anni è stato chiamato «modello Roma»?
Giuseppe Campos Venuti ha lavorato al Prg di Roma dal 1993 al 2003 (Rutelli Veltroni) ma, al momento della approvazione, tolse la firma, pur confermando stima e fiducia nel sindaco. L'esperienza romana è stata dice «un insuccesso», aggiungendo un riformistico «per ora». L'ossessione della lunga attività di urbanista di Campos Venuti è il contrasto alla rendita: «Si deve a un regime immobiliare completamente dominato dalla rendita urbana» se in Italia si è passati da 47 milioni di stanze negli anni 60 ai 111 milioni attuali, senza risolvere il bisogno di abitazioni sociali, «forzando il reddito delle famiglie all'acquisto della casa, spingendo la finanza verso il settore immobiliare».
Il piano regolatore approvato in consiglio comunale nel 2003 mantiene molte delle caratteristiche originali: cura del ferro, salvaguardia ambientale per il 69% del territorio, 18.000 ettari vincolati a verde, dimensione metropolitana, riduzione drastica delle previsioni del 1962 da un milione di stanze a 350.000. Queste ultime, ricorda Campos, sono una quantità residua difficilmente eliminabile, che il comune propose di distribuire in parte nelle nuove centralità (un quarto a terziario e servizi) in parte trasferendole vicino alle stazioni, per favorire la mobilità su ferro. Operazione che riesce con la nuova stazione Tiburtina (vi lavorò Alfio Marchini). Dov'è, allora, la sconfitta? Nella posizione, scrive l’urbanista, di Rifondazione comunista, alleata del centro sinistra al Campidoglio e alla Regione. Saltò a livello nazionale e regionale la proposta di una nuova legge urbanistica che affidava al Prg una funzione programmatica, condensando quella prescrittiva in 5 anni.
Rifondazione resta legata allo strumento dell'esproprio che si fa, ormai, a prezzi di mercato, impossibili per le vuote casse delle amministrazioni comunali. Non piace al Prc nemmeno la compensazione perequativa che chiede ai costruttori la quota gratuita di verde e servizi. Un maxi-emendamento che Walter Veltroni concorda, in cambio dell’approvazione del Prg, spinge Campos al gesto di rottura: «Cancellava 40.000 stanze direzionali nelle nuove centralità, eliminava le aree di riserva in prossimità del ferro, riduceva 1700 ettari di acquisizioni compensative gratuite quadruplicando le aree da espropriare a prezzi irraggiungibili». La tesi di Campos Venuti è che lo scontro ideologico dei «massimalisti» è andato a tutto vantaggio della «proprietà fondiaria».
Ancor prima si era consumato un altro scontro, al tempo della giunta Rutelli, l’urbanista e l'assessore all'urbanistica Domenico Cecchini da una parte, l'assessore alla mobilità e vicesindaco Walter Tocci dall’altra. Fu Goffredo Bettini a tagliare il nodo, sostenendo gli urbanisti.
Nel libro scritto da Tocci con Italo Insolera e Daniela Morandi, Avanti c'è posto. Storie e progetti del trasporto pubblico a Roma (Donzelli 2008), c'è un paragrafo che si intitola «modestia rivoluzionaria» mentre Campos preferisce orgogliosamente la definizione di «riformista». Ma Tocci non è un massimalista, da assessore alla mobilità scopre il paradosso romano: «A Roma il problema del traffico non esiste». La Prenestina o la Cassia si bloccano tutte le mattine ma «i flussi non sono impossibili, 1000 auto l'ora». Il traffico è un problema a Londra, con un numero di abitanti 3 o 4 volte superiore, mentre a Roma è «una patologia urbanistica». «Se avessimo gestito in modo diverso l'esodo di 600.000 romani nell’hinterland in cerca di migliori condizioni abitative, non ci sarebbe l'ingorgo delle consolari». Il dissenso di Tocci sul Prg si espresse sulle 20 centralità previste dal Prg, «sono troppe, non possono centralizzare alcunché».
Scrive in un documento del 2001, prima di lasciare il mandato: «Se non si modificano le regole della trasformazione urbanistica, nessuna politica della mobilità può risolvere il problema». Le cubature ereditate dal Prg del 1962, sostiene «andavano concentrate dove sono le stazioni di trasporto, soprattutto quelle interne, per riportare le residenze nella città consolidata». La preoccupazione è verso le periferie fuori del Gra, la parte più sofferente della città, che non vota più a sinistra. Walter Tocci pubblica un biglietto di Insolera del 1995, che suona autocritica per l’assessore alla mobilità: «Bisognava rilanciare il tram sulla Prenestina, razionalizzare Centocelle, attaccarci la Togliatti: lì c'è l'utenza, lì è facile, lì ci sono i voti ... La tua scelta è stata opposta: buona fortuna!».
Postilla
Campos Venuti trascura un elemento importante della recente storia, urbanistica di Roma che è ben documentata nelle pagine di eddyburg (vedi in calce). Ciò che sta alla radice della critica al prg Rutelli-Veltroni, il cui padre è stato Campos, è la critica della scelta nefasta di quel piano di considerare diritti acquisiti, quindi non eliminabili se non pagando pesanti indennizzi, le previsioni edificatorie del piano precedentemente vigente. Campos coniò per l’occasione una espressione, all’apparenza indiscutibile, che voleva significare appunto la tesi dell’irreversibilità delle destinazioni urbanistiche: l’espressione “diritti edificatori”, allora de tutto assente nello jure italiano.
«Il grandioso progetto Petroselli-Cederna di un parco dai Fori ai Castelli è tuttora un’idea-forza se la si sa riproporre assieme alla tutela attiva del centro storico». L'Unità, 11 marzo 2013
A Roma si voterà, per il Campidoglio, il 26 maggio. Gli ultimi risultati elettorali – ottimi per il successo finale di Nicola Zingaretti – hanno visto molto vicini, nel Comune di Roma, Pd e M5s. Si andrà al ballottaggio fra i loro candidati? In tal caso, i voti del declinante centrodestra confluiranno sul candidato 5 Stelle? Qualunque sia l’esito del primo turno, credo che fra i temi che più coinvolgono l’elettorato giovanile e popolare vi siano l’ulteriore avanzata del cemento nell’Agro romano a danno dell’ambiente naturale, ma anche dell’agricoltura, spesso di qualità, che vi si pratica, di altri possibili posti di lavoro, produttivi e stabili. La superficie urbanizzata copre già 55.000 ettari. Contro i 6.000 del 1951: + 816 %, mentre i residenti sono cresciuti del 58 % e molti “emigrano” fuori Comune.
Il grandioso progetto Petroselli-Cederna di un parco archeologico-agricolo-naturalistico dai Fori ai Castelli è tuttora un’idea-forza se la si sa riproporre assieme alla tutela attiva del centro storico (sempre più mortificato da un intensivo uso “bottegaio”), al recupero e al riuso corretto di tante zone dismesse, della precaria edilizia anni ’40-’50 semi-periferica e periferica, di almeno 150.000 alloggi realmente vuoti, invenduti o sfitti. Per proporre tutto ciò e non altro cemento, ci vogliono le mani (e le teste) libere da rapporti coi maggiori costruttori-immobiliaristi-proprietari che tanto hanno deciso delle sorti dell’area metropolitana di Roma, incatenandola all’idea vecchia e statica di uno sviluppo edilizio senza limiti quale “motore” di sviluppo. Col risultato di sottrarre capitali ad altre e più dinamiche attività, di far retrocedere Roma da primo a terzo Comune agricolo d’Italia, dopo Foggia e Cerignola, di creare nuove periferie tanto ricche di centri commerciali quanto povere di centri culturali, di servizi sociali e civili. Per non parlare dei tentativi di Alemanno di “ristrutturare” Tor Bellamonaca, dando ai costruttori premi tali da peggiorare l’esistente.
L’ultima “trovata” riguarda il centro storico, addirittura la regale via Giulia e il Lungotevere che fronteggia il Gianicolo e Sant’Onofrio. Alemanno ha insistito, pervicacemente, nel progetto di un mega-parcheggio sotto l’area fra il Liceo Visconti e la Moretta. Puntualmente le ruspe hanno incontrato importanti resti romani, le rimesse degli aurighi del Circo Massimo. Tutto incagliato ? No, perché la società privata Cam ha avanzato l’estrosa proposta di realizzare lì sotto, in project financing, un museo degli aurighi medesimi (ecco il fine pubblico che giustifica i mezzi privati). Da assegnare, s’intende, a loro per 45 anni, assieme al parking sotterraneo.
Parere preliminare della Soprintendenza archeologica? Sbalorditivo ma vero: favorevole. Sopra al parcheggio-museo la bellezza di 40.000 metri cubi divisi in cinque fabbricati, albergo e ristorante, uno “urban center”, attività commerciali, ecc. Sottraendo al Liceo Visconti l’area sportiva all’aperto esistente e oggetto, nel 2010, cioè ieri, di una convenzione col Comune per riqualificarla. Si costruisce verso via Giulia, ma anche su via Bravaria, fronte sul Lungotevere. Parere preliminare del direttore generale per il Lazio dei beni culturali, Federica Galloni? Sbalorditivo ma vero: favorevole. Del resto, è la stessa che ha lasciato infilare senza fare una piega una Pizzeria dentro la medioevale Torre Sanguigna (zona Navona). Pareri preliminari favorevoli di tutti i Dipartimenti comunali. Ma ora, di fronte a vibrate proteste, Alemanno e la CAM (che, dice, ha speso molto…), al posto del ristorante, propone appartamenti di lusso e un laboratorio di arte contemporanea, la dove il progetto dello svizzero Roger Diener, votato dai residenti, prevedeva un parco. Quindi, sono sempre migliaia di metri cubi in una delle zone più pregiate di Roma antica. La pratica dovrà andare in Regione dove, per fortuna, non c’è più Renata Polverini. Ma intanto ci si prova. A Roma e in tutta Italia. A volte, anche da parte di giunte di centrosinistra, minacciando l’integrità di splendidi centri storici nei quali bisogna invece far rientrare abitanti di ogni ceto sociale, laboratori artigiani, la vita vera e vissuta.
Servi degli interessi degli affaristi urbani, promotori della mercificazione della città e distruttori del patrimonio culturale operano nelle amministrazioni di moltissime città italiane, alimentando il disgusto per la “politica”. Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2013
La più bella delle strade dell’antichità (l'Appia, regina viarum) fu a stento salvata dal grande Antonio Cederna, in una battaglia contro il cemento culminata vent'anni fa con la creazione del Parco. Oggi la partita si gioca sulla regina delle strade dell'età moderna, quella Via Giulia che corre parallela al Tevere nel cuore di Roma, un’“utopia urbanistica del ’500”. In qualunque paese una strada immaginata e voluta da un papa come Giulio II Della Rovere (quello che commissionò a Michelangelo gli affreschi della volta della Cappella Sistina, per intenderci), e progettata e costruita, nei secoli, da architetti come Bramante, Michelangelo e Borromini sarebbe considerata un testo prezioso come la Divina Commedia o il Furioso, essendo in più una cosa viva e traboccante di esseri umani: e dunque sarebbe sacra e intoccabile.
E invece no. Alcuni anni fa il Comune di Roma ha deciso di “riempire” il vuoto che fu creato alla metà di Via Giulia dai dissennati sventramenti fascisti. Ma invece di farlo nel più ovvio e civile dei modi (e cioè con un discreto e funzionalissimo parco pubblico), si è pensato bene di realizzare un cosiddetto “urban center” da 1.900 metri quadrati, un auditorium, un albergo con ristorante di lusso e 28 appartamenti, non meno esclusivi, contenuti in un cubo di cemento di quattro piani destinato a deturpare per sempre la strada di papa Giulio. Senza contare i parcheggi (circa 350 posti auto, su tre livelli), che non potranno essere tutti sotterranei a causa del ritrovamento delle stalle dei gladiatori di età augustea, e che dunque deborderanno anche nelle vie contigue. La notizia incredibile è che le soprintendenze hanno detto di sì a questo scempio. E l'hanno fatto nonostante che il 20 febbraio Italia Nostra di Roma sia arrivata a compiere l'inaudito (ma sacrosanto) passo di diffidare il tramontante ministro Lorenzo Ornaghi dal “concedere qualsiasi parere favorevole al rilascio dell’autorizzazione”, perché il progetto attuale è “un inaccettabile baratto tra affari e tutela delle aree storiche ed archeologiche”. Le pressioni erano così forti che si è tirato diritto nonostante che l'integerrimo funzionario della Soprintendenza architettonica di Roma a cui è stato ordinato di predisporre il parere favorevole si sia categoricamente rifiutato di controfirmare quello stesso parere. Siamo ridotti al punto in cui chi dovrebbe difendere il bene comune è costretto all'obiezione di coscienza. E non è un caso isolato. A Padova il sindaco Zanonato non recede dal progetto di costruire un auditorium e due grattacieli che, oltre a cambiare l'aspetto della città affogandola in ulteriore cemento, rischiano di alterare la circolazione delle acque sotterranee e conseguentemente di far crollare la Cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto. A Milano solo la perseveranza di una parte di Italia Nostra ha ottenuto finalmente che un tribunale disponesse nuovi e accurati studi che dicano se è possibile aprire piazza Sant'Ambrogio (con le sue tombe di varia epoca) per trasformarla nel coperchio di un gigantesco parcheggio interrato. In una L’Aquila ancora distrutta si è proposto di scavare un centro commerciale sotto la piazza del Duomo. E a Firenze una partecipata del Comune governata da uno dei più stretti sodali di Matteo Renzi (la Firenze Parcheggi) pensa di sventrare Piazza del Carmine per realizzare un parcheggio sotterraneo che rischia di “gentrificare” il quartiere ancora popolare dell'Oltrarno (cioè di espellerne i cittadini residenti), e di mettere a rischio gli affreschi di Masaccio nella Cappella Brancacci che si affaccia sulla piazza.
Un unico filo lega questi episodi, in male e in bene: da una parte un’oscura decadenza intellettuale spinge le amministrazioni comunali a cannibalizzare e distruggere i luoghi più belli e importanti delle loro stesse città, dall'altra si creano e si consolidano reti e comitati di cittadini che studiano, manifestano, si espongono per difendere i luoghi che danno forma e senso alla loro vita quotidiana. Nell'analisi del voto che due settimane fa ha (forse felicemente) sconquassato la geografia politica italiana non ci si può limitare ad un'analisi nazionale: è anche il tradimento della politica locale, dei poteri che dovrebbero essere vicini ai cittadini, a motivare un violento desiderio di fare tabula rasa. Perché è evidente che quando i cittadini di Via Giulia traditi dal Comune e dalle soprintendenze andranno a votare, vorranno affermare con forza che il potere pubblico deve realizzare i progetti e i desideri dei cittadini stessi, e non curare gli interessi già fortissimi del mercato e della speculazione immobiliare. È questa non è antipolitica, è Politica con la “p” maiuscola. Cioè, letteralmente, arte di costruire armonicamente le città, e dunque il Paese.
Prosegue imperterrito, nel sostanziale silenzio della politica di quasi tutti gli schieramenti, il modello di sviluppo che ha al centro indiscusso l'edilizia speculativa coi suoi “valori” del tutto artificiosi. Articoli di Paolo Berdini e Enzo Scandurra, il manifesto 6 marzo 2013
L'ultimo regalo alla speculazione
di Paolo Berdini
L'amministrazione Alemanno sta cercando disperatamente di far approvare dal consiglio comunale di Roma 62 deliberazioni in materia urbanistica. Decine di milioni di metri cubi di cemento che sfigureranno - se approvate - per sempre la città. Contro queste approvazioni è nato un forte movimento di opposizioni da parte di molte associazioni e comitati di quartiere che presiedono da molte settimane il consiglio comunale per scongiurare il disastro. Il clima contrario alle deliberazioni sta crescendo e quanto contenuto in una delle proposte che si vorrebbe imporre alla città ha la possibilità di creare un salutare scandalo, perché dimostra il verminaio che si nasconde dietro allo "sviluppo" di nuovi quartieri e - nel caso particolare - dimostra anche che la popolazione di Roma rischia di pagare a caro prezzo (250 mila metri cubi di cemento, Antonio Cederna avrebbe detto 2 hotel Hilton e mezzo) la crisi che attraversa il Monte dei Paschi di Siena.
La prima pietra
Iniziamo con ordine perché la vicenda inizia alla fine degli anni '80. Il piano regolatore di Roma destinava un'area di 14 ettari localizzata a nord, in via di casal Boccone a servizi privati: i proprietari potevano costruirci uffici privati. Il 4 dicembre 1993 il commissario governativo Aldo Camporota che guidava la città dopo l'azzeramento dovuto a Tangentopoli, autorizza la stipula della convenzione urbanistica. Il giorno successivo sarebbe entrato nei pieni poteri Francesco Rutelli. Non c'era gran fretta e sarebbe stato più giusto lasciare alla nuova amministrazione la decisione sul futuro della città, ma il Commissario straordinario decide diversamente. Il progetto sembra così entrare nella sua fase conclusiva. Nel 2005 viene sottoscritta la convenzione per costruire 220 mila metri cubi: 80 mila per uffici; 90 mila per commercio; 50 mila per un non meglio precisate "case albergo". Il promotore del progetto era la Imco, società che faceva parte attraverso Sinergia del gruppo Ligresti.
Anche il nuovo piano regolatore di Valter Veltroni approvato nel 2008 conferma le cubature previste dalla convenzione del 2005, ma la proprietà non si mette ancora in moto. È una questione decisiva ad impedire l'attuazione: l'area permette infatti di costruire uffici privati e la crisi immobiliare inizia a mietere vittime anche nella pregiata offerta di uffici nel centro di Roma, figuriamoci in quel lembo di estrema periferia circondato da campagna e con un'unica stradina di accesso.
E poi c'è la crisi del gruppo Ligresti che ha forti indebitamenti con il sistema creditizio italiano e in particolare con il Monte dei Paschi di Siena. Nel 2008 subentra nell'operazione immobiliare la Sansedoni srl (67% Fondazione, 21,8% MPS, 11,2% Unieco) che mette in piedi una nuova società e acquista tutto per 110 milioni più il debito pregresso al fine di recuperare il gigantesco credito con Ligresti. Ma la società controllata dal Monte dei Paschi comprende immediatamente che costruire uffici in periferia è un pessimo affare e bisogna ottenere a tutti i costi una variante urbanistica più favorevole alla proprietà. Elaborano un nuovo progetto e iniziano l'assedio al Campidoglio. E, miracolo, il sindaco Alemanno va in soccorso del Monte dei Paschi. Il 9 marzo del 2012 la Giunta comunale da lui presieduta approva la deliberazione n. 33 denominata «Approvazione del Programma di intervento urbanistico residenziale denominato casal Boccone».
Gli uffici scomparsi per incanto
Avete letto bene, si parla di intervento urbanistico residenziale. Gli uffici sono scomparsi come per incanto. La deliberazione di giunta è molto pudica nel merito: afferma soltanto che «la (nuova) proposta progettuale trae origine da un lato dalla diminuzione della domanda riferita all'edilizia privata non residenziale, dall'altro dalla necessità di una sempre più crescente domanda di abitazioni facenti parte di una cosiddetta "edilizia sociale"» L'amministrazione pubblica afferma senza pudore che visto che è diminuita la domanda di uffici privati, si straccia la precedente convenzione del 2005 e se ne stipula un'altra per la felicità della proprietà fondiaria. Le volumetrie ad uffici valevano poco, quasi nulla, quelle residenziali configurano un volume di vendita potenziale vicina ai 400 milioni di euro. Un bel regalo e l'ennesima gigantesca colata di cemento. L'urbanistica non esiste più: è la valorizzazione immobiliare a farla da padrona.
Subito dopo, la deliberazione di giunta n. 33 fa un ulteriore piccolo regalo alla proprietà, così da non fare la parte degli avari. Il regalo, per la verità, non è proprio di Alemanno, ma proviene dal piano regolatore di Veltroni che in un articolo finale delle norme stabilisce che tutte le cubature del vecchio piano si trasformano in superficie edificabile dividendole per un'altezza di 3, 20 metri, e cioè l'altezza di un'abitazione. Ma, come si ricorderà, nella convenzione del 2005 si potevano costruire 90 mila metri cubi di attività commerciali la cui altezza media, si pensi ad un supermercato, è molto di più di 3,20 metri. Insomma, l'articolo 108 delle norme è un meraviglioso regalo fatto ai tanti proprietari di volumetrie non residenziali del vecchio piano regolatore. Così la giunta Alemanno approva la costruzione di circa 69 mila metri cubi di edilizia residenziale. Si costruiranno - se non ci sarà un sussulto di sdegno- circa 250 mila metri cubi di residenze per una popolazione di 2.000 abitanti. Come se non bastassero i 140 mila alloggi vuoti oggi esistenti si da il via ad un altro scempio in aree paesaggisticamente pregiate. Monte dei Paschi diventerà felice: con i mattoni e con il cemento si ripiana il debito. E si può cambiare nome in Monte dei Pascoli di cemento.
Il volo del gabbiano sulla città corrotta
di Enzo Scandurra
Non so quand'è che a Roma, improvvisamente, sono arrivati i gabbiani. Nessuno se lo ricorda più nella città smemorata. Un turista di passaggio per la prima volta in questa città potrebbe, al ritorno nel suo paese, raccontare che a Roma gli uccelli più comuni e frequenti sono proprio loro: i gabbiani. In compenso questi grandi uccelli marini che ormai marcano i territori aerei che sovrastano le discariche, hanno sostituito una ben più nota specie di volatili che annunciavano l'arrivo della primavera romana: le rondini.
Rondini e storni hanno per anni sorvolato incontrastati i cieli romani; le prime sfrecciando ad alta velocità sui cieli della capitale e appollaiandosi nei sottotetti dei palazzi da dove spiccare nuovamente il loro temerario e gioioso volo; i secondi tracciando nel cielo fantastici e geometrici arabeschi alla luce del tramonto, lasciando senza fiato non solo i turisti, ma anche i pigri romani che pure da sempre praticano poco il sentimento dello stupore (anvedi 'oh). Le rondini sono ormai uno spettacolo raro. Come le lucciole di Pierpaolo Pasolini morte con l'avvento della modernità, esse sono diventate una specie in via di estinzione. Non perché minacciate da altre e più aggressive specie di uccelli, piuttosto per i cambiamenti dovuti all'intensificazione dell'attività agricola che ha fatto scomparire siepi, fossi, prati e canneti, luoghi a loro cari dove vivono insetti e altri piccoli animali di cui le rondini si cibavano. Colpa anche dei cambiamenti climatici che hanno modificato le loro traversate, fatto perdere loro l'antico orientamento, e perfino della ristrutturazione di casali agricoli nei cui vecchi tetti le rondini facevano nidi.
Uscito dal portone di casa molto presto una mattina, vidi uno spettacolo impressionante: in mezzo alla strada (una strada poco frequentata da auto) c'era un gabbiano che dritto sulle sue gambe mi guardava fisso. Ai suoi piedi giaceva un piccione morto. Mi sono allora ricordato di una ricerca fatta sul perché malgrado i piccioni siano così numerosi, mai se ne vedono esemplari morti in città. I risultati di quella ricerca sostenevano che i piccioni, quando giunge la loro ora, si sottraggono alla vista cercando luoghi nascosti per non essere attaccati dai predatori. Quel piccione, dunque, steso morto nel bel mezzo della strada, doveva essere stato assalito dal gabbiano che sovrastava sopra di lui con piglio spavaldo, perfino sprezzante della presenza degli umani. Ricordava, quella scena, il celebre film di Hitchcock quando uomini, donne e bambini diventano oggetto di aggressione e vittime innocenti degli uccelli urlanti impazziti. Perché ora i gabbiani non si limitano più a sorvolare i cieli della capitale; sostano nel prato nel bel mezzo di Piazza Venezia, si ergono a sentinelle nei punti più alti dei monumentali ruderi romani, si accampano sull'altare della Patria come in attesa di una loro rivincita, incattiviti dai cambiamenti climatici provocati dalla specie umana.
A me è sembrato un triste presagio: come se questa disgraziata città non fosse solo oggetto di scempio da parte di una amministrazione cialtrona, arrogante e incapace, come se non bastassero le sciagurate avventure urbanistiche che succhiano sangue dal suo corpo già ferito, come se non bastassero i regolari allagamenti di strade e reti fognanti ogni volta che piove, il livello assordante dei rumori del traffico impazzito a tutte le ore, lo sfrecciare pericoloso delle macchine blu sulle corsie riservate ai tram e ai taxi, le deroghe edilizie, i condoni, le compensazioni, le perequazioni, lo sfratto agli immigrati, il riconoscimento di cittadinanza negato ai gay, ai barboni, ai diversi di tutti i generi. Ora alle truppe di occupazione dei professionisti della politica che questa città nemmeno conoscono, vengono in soccorso quelli che un tempo erano nobili pennuti che, bianchi d'innocenza, sorvolavano i mari, come nella poesia di Vincenzo Cardarelli: «Non so dove i gabbiani abbiano il nido/ ove trovino pace./ Io son come loro/ in perpetuo volo./ La vita la sfioro/ com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo/». Anche i nobili gabbiani si sono imbarbariti al contatto con questa città corrotta da una classe dirigente che non si merita; anziché sfiorare l'acqua ora i gabbiani sorvolano discariche in attesa che tutta la città vada in putrefazione.
Nota: visibile sul sito della RAI l'interessante documentario Roma Città Infinita propone un punto di vista se possibile ancora più inquietante
In pieno centro storico, tra Piazza Farnese e le sponde del Tevere un nuovo grande albergo con parcheggio e altre utilities, naturalmente con il passepartout del project financing all’italiana. La Repubblica, ed. Roma, 17 febbraio 2013
PER qualcuno erano solo voci che si rincorrevano tra i vicoli di via Giulia. «Ne avevamo sentito parlare. Non credevano fosse vero. Siamo senza parole: avevamo sostenuto l’idea di realizzare dei parcheggi interrati anche per ridare lustro alla strada e farla tornare vivibile. Non vogliamo creare difficoltà a chi dà lavoro in un momento storico come questo, ci mancherebbe, ma non possiamo neanche accettare l’idea che la zona venga stravolta da un progetto simile. Piani del genere vanno indetti attraverso concorsi internazionali perché si tratta di una zona dove è stato fatto un importante ritrovamento grande archeologico», commenta Viviana Di Capua, presidente dell’associazione Abitanti del centro storico. L’idea che sul lungotevere dei Tebaldi, tra via Giulia, largo Perosi e via Bravaria, nel cuore di Roma, potrebbero esser realizzati un albergo di lusso con annesso ristorante, parcheggio, appartamenti e posti auto, scatena polemiche non solo degli abitanti della zona ma anche di urbanisti, Legambiente e politici. Una rivoluzione nel cuore della città, così come prevede il nuovo project financing dalla società Cam, sbarcato venerdì in conferenza dei servizi: un piano di recupero, in sostituzione di quello per i parcheggi interrati ormai archiviato dopo il ritrovamento di alcuni importanti reperti storici, ovvero le scuderie dell’antica Roma.
Ma a smorzare le polemiche non ci riesce neppure la prevista musealizzazione dei reperti venuti alla luce durante i sondaggi archeologici. «Gli unici lavori ammissibili per me restano quelli di restauro. Del resto il centro è unaporzione minima del territorio urbanistico della città: solo il 5 per cento. Credo fermamente che ci sia bisogno di innovazione e creazione, di qualità architettonica, ma ci sono talmente tanti spazi disponibili fuori dal perimetro storico che non capisco che senso abbia questo progetto», fa notare l’urbanista Vezio De Lucia.
E un “no” «al palazzone di Via Giulia», arriva anche da Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio. «La procedura va fermata subito — aggiunge — è impensabile proporre uno scambio tra la musealizzazione degli importanti reperti rinvenuti e una mega costruzione con funzioni commerciali in un’area così pregiata della città. E poi siamo alle solite: il Comune non impara mai, nonostante le proteste dei cittadini anche stavolta comitati e associazioni si ritrovano il progetto bello e fatto», conclude. Anche per Umberto Croppi, candidato alla poltrona di primo cittadino, «l’idea di realizzare una struttura alberghiera nel varco di via Giulia, senza peraltro aver coinvolto la città e gli addetti ai lavori nel processo di valutazione, è l’ennesimo segnale di decadimento in cui versano le istituzioni. Peraltro di tratta di luogo caratterizzato da due elementi straordinari: la più elegante strada della Roma papale e un ritrovamento archeologico di eccezionale interesse. L’attuale configurazione dell’area non può subire interventi che ne stravolgano le caratteristiche architettoniche. Speriamo ci siano margini per un radicale ravvedimento da parte del Comune e delle soprintendenze».
E un appello al sindaco di «bloccare ‘l'opera monster’ che si vuole realizzare a via Giulia. Il centro va tutelato», arriva anche da Massimiliano Valeriani, consigliere comunale del Pd. Così come fa il suo collega Paolo Masini che aggiunge: «Speriamo che Alemanno intervenga immediatamente per fermare questo scandaloso scempio lottizzatorio».
«La causa principale del debito romano sta piuttosto nel dissennato modello di crescita che ha causato una espansione urbana incontrollata». Il manifesto, 1 dicembre 2012
In attesa di una convincente risposta resta da formulare una proposta. Alemanno è costretto a portare fino in fondo lo scellerato progetto: tra pochi mesi inizia la campagna elettorale amministrativa e dopo l'evidente fallimento della sua amministrazione non può permettersi di scontentare i suoi migliori alleati, i costruttori e gli immobiliaristi romani. L'opposizione - fatta eccezione per Andrea Alzetta e Gemma Azuni - non batte un colpo, prigioniera della mancata riflessione critica sull'approvazione del piano regolatore 2008 che ha provocato il nuovo sacco edilizio.
Non resta allora che venga sottoscritto da chiunque si candiderà alle prossime elezioni un solenne impegno: revocare la delibera che verrà approvata nei prossimi giorni. La città ha bisogno di segnali di discontinuità: non si può continuare a fondare il futuro di Roma sull'espansione urbana mentre ci sono almeno 100 mila alloggi nuovi invenduti che da soli risolverebbero la questione. C'è bisogno di un chiaro ed inequivocabile cambio di rotta e di una nuova idea di città: il modello fin qui dominante ha portato al fallimento economico
Il candidato di sinistra alle elezioni a sindaco della capitale e le sue ragioni contro la chiusura dell’anello autostradale occidentale. Il manifesto, 23 novembre 2012, postilla (f.b.)
La domanda è: meglio ridurre di qualche minuto la percorrenza di traffico merci e viabilità automobilistica, oppure salvaguardare le riserve naturali, i pascoli, i reperti archeologici, i vigneti, insomma il paesaggio e l'agricoltura? Va da sé che, dietro quest'interrogativo ce ne siano altri, più strutturali, più strategici. La nostra economia deve continuare a puntare sul modello «pesante», incardinato nel circuito produzione-distribuzione-consumo, oppure valorizzare uno sviluppo locale "leggero", legato alle coltivazioni di pregio, all'ambiente, alla cultura? Gli investimenti pubblici vanno impiegati per realizzare grandi opere che garantiscono grandi appalti per grandi imprese, oppure è preferibile che salvaguardino il territorio, attraverso sostegni all'agricoltura e finanziamento di progetti culturali, oltreché programmi di risanamento ambientale e manutenzione del suolo?
Aspettate a rispondere. Proviamo a entrare nel merito raccontando una storia che esemplifica con chiarezza i quesiti di cui sopra. Si tratta del raccordo autostradale che dovrebbe collegare l'A12 Roma-Fiumicino Civitavecchia (Genova) con l'A1 Milano-Napoli. Una grande infrastruttura a otto corsie e a pedaggio, decisa e confermata dai vari governi che si sono succeduti dal 2004 in poi, che in sostanza raddoppierebbe il Grande raccordo anulare di Roma nel quadrante sud-ovest/sud-est, consentendo di far risparmiare una manciata di minuti (19 circa) ai mezzi che transitano sul versante tirrenico del paese. L'opera è stata sostanzialmente progettata e attualmente viaggia sui tavoli di quella liturgia farraginosa e dispersiva che si chiama conferenza dei servizi, dove tutti gli enti pubblici investiti dal processo attuativo hanno l'obbligo di esprimersi. E in quest'ambito, a parte qualche perplessità, l'unico parere contrario è stato quello della Provincia di Roma.
Ma il dissenso è molto più vasto e comincia a organizzarsi in comitati e associazioni sempre più combattivi, che organizzano riunioni, assemblee, manifestazioni di protesta. Ad affiancarli, i partiti della sinistra (Verdi, Sel, Federazione della sinistra) e le stesse centrali ambientaliste (Italia nostra, Legambiente, ecc.). Un dissenso che comincia a contagiare le stesse amministrazioni locali: ovviamente non il Comune di Gianni Alemanno né la Regione dell'imbalsamata Renata Polverini, ma tutti i comuni dei Castelli romani e i Municipi romani attraversati dal tracciato autostradale. Per contrastare o anche semplicemente condizionare questa progettazione, è stato costituito qualche giorno fa un coordinamento metropolitano che raccoglie gli enti locali di Frascati, Grottaferrata, Marino, Montecompatri, Ciampino, Gallicano, Zagarolo e Monte Porzio Catone, oltre ai quattro Municipi di bordo, VIII, X, XI, XII.
Quel che si sta profilando è insomma un conflitto territoriale tra una pianificazione infrastrutturale definita strategica e gli interessi (e i bisogni) delle comunità locali. Percorriamo allora la traiettoria autostradale e vediamo più in dettaglio quali siano questi interessi (e bisogni) locali.
Uscendo dalla A12 ci si ritrova subito in un'area delicatissima, quella della Riserva del litorale romano, che è un esile consolidato appena al di sopra (circa due metri) dal livello del mare; fino a qualche decennio lì fa il Tevere scorreva lungo un'ampia ansa, che si decise di ricoprire con enormi quantità di terra di riporto. Attualmente vi operano tre aziende che allevano una pecora assai pregiata, oltreché protetta, la sopravvissana: un animale prezioso perché dal suo latte si ricavano due prodotti tipici, la ricotta e il pecorino romano, entrambi garantiti da una Dop. La nuova autostrada dovrebbe dunque «galleggiare» su una terra spugnosa e spezzare irrimediabilmente un ciclo produttivo d'eccellenza.
Andiamo avanti. Il transito prosegue e incontra la Riserva di Decima Malafede, che è un territorio sostanzialmente incontaminato, un pezzo di agro romano ancora integro. Anche qui, le ricadute ambientali ed economiche sarebbero dannosissime e strazianti.
Si arriva così ai confini del Parco archeologico dell'Appia antica, che è un meraviglioso patrimonio bio-culturale, dove la storia e la natura hanno depositato un paesaggio incantato: quel paesaggio che con i suoi acquedotti romani, le ville patrizie, i boschi e i pascoli ipnotizzò sentimentalmente Wolfgang Goethe. La superficie del parco verrebbe tuttavia risparmiata grazie a un'interminabile galleria che affiorerebbe solo dopo aver superato Ciampino e il suo aeroporto e il quartiere romano di Morena. Peccato che, appena emersa, con uno spericolato svincolo, l'opera si ritroverebbe in un grumo urbano tra i più densi e urbanisticamente compromessi, tra le vie Tuscolana e Anagnina. Come sia possibile districarsi in quel fritto misto urbano, tra borgate ex abusive, piani di zona e capannoni industriali, è davvero un mistero.
Da qui in poi, il progetto prevede una lenta salita a mezza costa sui Colli Albani, transitando per i territori dei diversi comuni che si affacciano sulla capitale, e così squarciando grossolanamente il millenario profilo dei Castelli romani, un paesaggio universalmente consolidato nel nostro immaginario, generazione dopo generazione. Ma il peggio è che nel suo incedere sempre più invasivo, l'autostrada calpesterà e contaminerà i filari della malvasia puntinata, la preziosissima uva che da millenni ci regala uno dei vini più buoni d'Italia: il Frascati, prossimo a ricevere, primo bianco italiano, la Docg. Per la produzione vinicola, una vera e propria catastrofe.
Per concludere, torniamo alla domanda iniziale. È più importante salvaguardare la pecora sopravvissana e il suo pecorino, la malvasia puntinata e il Frascati, l'agro romano e gli antichi acquedotti, i parchi archeologici e le riserve naturali, oppure continuare a consumare la nostra vita tra asfalti, cementi ed emissioni inquinanti, alimentando desideri su merci sempre meno desiderabili e in fondo non più necessarie?
Postilla
È incredibile come la sensibilità collettiva, figuriamoci quella ingegneristica che pare dominante (oltre a quella speculativa) nelle decisioni, subiscano l’automatismo meccanico della chiusura del cerchio. C’è la città col suo nucleo, che si deve espandere perché sua ragion d’essere è la conquista dello spazio, l’ammaestramento della natura ai propri fini, e man mano si espande un po’ come il sasso nello stagno genera inesorabile i suoi anelli stradali. Da generazioni spontaneamente ci immaginiamo così la faccenda, e onestamente ci vuole un po’ di ragionamento per capire l’assurdità del tutto. Noi dentro la natura ci stiamo, e comportarci come il sasso nello stagno è una strategia scema che non ci porta da nessuna parte: prima ragionare, poi agire. Fa quindi benissimo Sandro Medici a dirci fermiamoci a riflettere. Come del resto si fa e si dovrebbe fare ovunque: dalle distorsioni della London Orbital pur attentamente pianificata da Abercrombie a metà ‘900 e ben raccontate da Iain Sinclair, ai meccanicismi nostrani di piccoli orrori come il cosiddetto Terzo Ponte sul Po a Cremona, ai casi di città grandi e piccole che pur di adempiere al rito automatico dell’anello si immaginano rinunciabili, incredibili e costosissime opere sotterranee o a scavalcare ostacoli inenarrabili. Una sfida tecnica al buon senso, si potrebbe quasi sempre dire. Ma in tutto questo bel ragionare logica vuole che esista anche un immancabile rovescio della medaglia, di cui involontariamente anche Medici si fa portatore fin dall’incipit dell’articolo: ha senso contrapporre il buon sapore del pecorino alla puzza degli scarichi? Certo, con argomenti del genere magari nella nostra alba del terzo millennio si trovano più consensi, ma di che consensi si tratta, in fondo? Progettare la nostra vita sulla terra in modo più rispettoso della terra stessa, è un percorso che possiamo affrontare con spirito progressista, oppure no. Non dimentichiamoci per esempio, in certi automatismi di rifiuto della modernità meccanica e devastante, che il profeta italiano del fondamentale Design With Nature di Ian McHarg è tale Gilberto Oneto. Paesaggista di prestigio, ma anche direttore di Studi Padani e reazionario Doc alla Borghezio (f.b.)
La capitale della rendita nella sintetica ma profonda lettura trasversale di un (vero) sociologo, in una prospettiva non banalmente post-urbana. Il manifesto, 21 novembre 2012 (f.b.)
Per me, piemontese sradicato, errabondo e giramondo, che qualcuno ha avuto la poca rispettosa idea di definire il «piemontese errante», Roma è, e da anni resta, a dispetto della mia riluttanza, un segno significativo, un marchio probabilmente indelebile. Roma è per me un segno di contraddizione; oscillo fra romafilia e romafobia. Avverto in me, quando penso a Roma, un'attrazione istintiva e razionalmente irresistibile; nello stesso tempo si fa strada una ripugnanza estrema, ai limiti dell'insofferenza sprezzante. La Roma che mi piace e di cui non potrò più fare a meno è quella che mi ha insegnato a errare stando fermo - la Roma che fa convivere Piazza Vittorio e Monti Parioli, il Rione Monti e Tor Pignattara. Questo è veramente l'impero senza fine, l'accettazione dello straniero e del diverso con una sorta di indifferenza sorniona che è integrazione lenta, ma inesorabile. Chi ci arriva non se ne va più. Come mi accadde di dire all'indimenticabile amico Filippo Bettini, Roma è l'eternità dell'effimero.
Ma c'è una Roma socialmente esclusa che mi angustia. Ed ecco che la mia ardente romafilia vespertina cede alla romafobia di buon mattino, quando, in un autobus stipato, sono un acino in procinto di venire debitamente schiacciato e spremuto prima, molto prima di arrivare a destinazione. Roma non è soltanto una città burocratica e ministeriale. La periferia non è più periferica. Dei suoi due milioni ottocentomila abitanti attuali un terzo abita in periferia. Se si fermasse la periferia, tutta la città sarebbe bloccata. Per anni ho esplorato, battuto palmo a palmo la periferia romana. Al Borghetto Latino, incurante della mia bronchite cronica e del catarro invincibile, ho anche affittato e sono vissuto in una baracca, d'inverno, quando l'umidità non perdona.. È una vergogna per le forze politiche e intellettuali di sinistra che borgate, borghetti e baracche, a Roma, siano ancora il segno di una città ferita, scissa in città e anticittà, centro e periferia, priva di una lucidità condivisa.
Nei nuovi aggregati urbani la contrapposizione centro-periferia non ha più senso. Per la semplice ragione che il centro non potrebbe funzionare senza periferia. Ma a Roma la contrapposizione persiste. Perché Roma non è, come molti ottimi studiosi hanno affermato, la «capitale del capitale». Piacerà o meno, Roma continua ad essere ciò che è stata storicamente: la capitale della rendita. I suoi piani regolatori si sono arresi al blocco edilizio politicamente dominante attraverso a) le deroghe; b) le varianti; c) la tolleranza dell'abusivismo e degli interessi settoriali, in attesa della immancabile sanatoria con condono. Non chiedo molto. Vorrei solo una Roma più sicura e meno rumorosa, capace di dare un posto di lavoro non precario ai suoi giovani, dotata di servizi urbani normali; autobus e metropolitana regolari, se non proprio degni di Parigi o della «subway» di New York; strade passabilmente pulite, proprietari di cani permettendo; un minore livello di corruzione; la manutenzione dei tombini e della rete fognaria ad evitare allagamenti anche in occasione di piogge non eccezionali.
Non sarebbe la rivoluzione, ma solo un grado di poco più alto di civiltà urbana, in un paese che non dovrebbe essere immemore delle grandi lezioni di Leon Battista Alberti e degli altri protagonisti del Rinascimento, artefici della italica città che ha nella piazza il suo cuore propulsivo e garantisce la tranquillità dei cittadini e la loro sicurezza coniugando spazio e convivenza. Va ridata la parola ai cittadini. Troppo spesso gli stagionati professionisti della politica somigliano a truppe di occupazione in un territorio che non conoscono. La loro aria trasognata, quando passano al mattino sulle auto-blu verso i loro uffici ovattati, non è più accettabile. Nella presente fase di transizione, le due grandi categorie storiche, la città monocentrica e la città industriale agglutinante, non sono più sufficienti. Nasce una realtà urbana imprevista. Si può anche parlare di realtà post-urbana.
Lo sviluppo urbano è mosso dalle nuove esigenze di visibilità e di partecipazione di masse umane di recente inurbate (urbanizzazione senza industrializzazione), dal gioco degli interessi socio-economici, dai diritti di proprietà dei suoli, dalla corsa alla privatizzazione del pubblico allo scopo di garantire il parassitismo della rendita fondiaria e la massimizzazione dei profitti per la speculazione edilizia (cfr. in proposito F. Ferrarotti, M. I. Macioti, Periferie da problema a risorsa, Roma Teti, 2009) In questa prospettiva, la lettura puntuale dei Piani regolatori attraverso gli Atti dei Consigli comunali è importante, benché affaticante e noiosa. Storicamente, i Piani regolatori sono stati concepiti come il volano dello sviluppo urbano e della utilizzazione razionale del territorio. Ma la questione del rapporto fra spazio e convivenza resta aperta. Né può dirsi dichiarata nei suoi termini specifici semplicemente prendendo atto del continuum urbano-rurale o di quel fenomeno indicato da un brutto neologismo, già segnalato, come rurbanization (rus e urbs).
Per un esempio recente: il sindaco attuale di Roma - quasi fosse il Nerone redivivo - propone la distruzione di un intero aggregato urbano periferico (Tor Bella Monaca) per procedere quindi alla sua ricostruzione. Massimo Bontempo aveva fatto altrettanto con Corviale. Ma in base a quali idee? Rifacendosi a quali criteri? Su scala mondiale, il problema delle periferie è dato dalla «esclusione sociale». Occorre individuare le modalità e i percorsi dell'integrazione, come effettuare il passaggio dall'esclusione all'inclusione, dalla marginalità alla partecipazione, dalla sudditanza alla cittadinanza in senso pieno. È certo più facile chiamare le ruspe e cacciare i problemi sotto il tappeto. L'ex-presidente francese Sarkozy fa scuola quando definisce gli immigrati delle banlieu, «racailles; zizanies dérisoires»
Purtroppo, è giocoforza constatare che la logica della città industriale sta prevalendo su scala planetaria. Il principio tecnico subordina a sé, alle proprie esigenze, rigidamente scandite, le dimensioni umane e i processi naturali: cultura contro natura, meccanico contro organico, precisione numerica contro approssimazione intuitiva. Peccato che la tecnica sia una perfezione priva di scopo. Adottare il principio tecnico come principio-guida significa trasformare i valori strumentali in valori finali: un equivoco dalle conseguenze catastrofiche. Occorre, oggi, un nuovo profilo del costruire in cui la precisione tecnica sia subordinata alle esigenze umane. Urbanisti e architetti non progettano nel vuoto sociale. Bisogna imparare a costruire senza violentare la natura o snaturare il territorio, sfigurare il paesaggio. In questo senso è ancora significativa la lezione di Adriano Olivetti.
Porre il problema di un nuovo profilo del costruire comporta immediatamente una domanda che suona provocatoria, ma che ne è in realtà la conseguenza logica: c'è un'alternativa ai grattacieli? Un'alternativa al grattacielo c'è, cresce quotidianamente sotto i nostri occhi. È il nuovo aggregato urbano policentrico. Centro e periferia sono ormai categorie concettuali obsolete. Per questo occorre un patto di collaborazione, quanto meno di non belligeranza, con la Natura. L'iniziativa più rivoluzionaria, nelle condizione odierne, è in realtà un ritorno: la riscoperta del modo di costruire mediterraneo, un riorientamento del costruire che passi dall'interesse per il meccanico all'attenzione per l'organico, un mutamento profondo rispetto a un mondo in cui sono considerati reali e validi soltanto corpi fisici e misurazioni meccaniche, verso un mondo nel quale esigenze, emanazioni, aspirazioni umane abbiano importanza, siano prese in considerazione, godano di una priorità nel progetto urbanistico e architettonico.
Oggi, il calcolo scientifico della costruzione appare ancora legato a una logica di invasione e vittoriosa trasformazione dell'ambiente. Si autodefinisce e si autovaluta in metri cubi e in cementificazione. Questa impostazione predatoria va rovesciata con un nuovo stile del costruire, fondato su un concetto di natura non nemica, bensì collaboratrice. La nuova architettura si inserisce nell'ambiente senza violentarlo, indovina i passaggi e le vie da rispettare per dar loro aria e luce, non soffoca e non blocca, bensì apre, rischiara, vivifica.
Su Roma e i suoi problemi di sviluppo mi piace ricordare alcuni miei libri: Roma da capitale a periferia, Roma-Bari, Laterza 1970, Vite di baraccati, Napoli, Liguori, 1974; Roma, madre matrigna, Roma-Bari, Laterza, 1991; La città come fenomeno di classe, Milano, F.Angeli 1975; Vite di periferia, Milano Mondadori, 1981; Spazio e convivenza, Roma Armando 2009; Il senso del luogo, Roma, Armando, 2009.
Di seguito riportiamo l’editoriale e un’intervista ad Elena Besussi dell’inchiesta, consultabile, con altri articoli e video, all’indirizzo: http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/10/29/news/roma_in_vendita-45511244/
L'Atac vende i preziosi vecchi depositi, ma tra i cittadini è rivolta anticemento
L'azienda del trasporto pubblico della capitale vuole far cassa liberandosi di edifici di archeologia industriale situati in zone centrali e semicentrali. Nasceranno nuovi palazzi in una città affamata di verde? Per vedere come si vendono pezzi di città, bisogna andare a Roma, in piazza Bainsizza, piazza Ragusa e via Alessandro Severo. Quartiere Prati, quartiere Tuscolano, quartiere Ostiense. Tre zone della città storica, molto abitate, tanto trafficate. Qui l'Atac, l'azienda del trasporto pubblico, possiede depositi da anni in disuso. Non sa che farsene e dato che affoga nei debiti (210 milioni nel 2011 oltre a 179 di deficit) ha pensato di venderli. Ma prima di venderli e soprattutto per incassare tanti quattrini non basta un annuncio sul giornale. Occorre una complessa procedura avviata già nel 2004 e proseguita negli anni. Si chiama valorizzazione: quei depositi vanno arricchiti di previsioni edificatorie che, grazie anche a varianti urbanistiche approvate dal Comune, li rendano attraenti, altrimenti nessuno li compra. Sono edifici sorti nei primi decenni del secolo passato, archeologia industriale di pregio, delicate architetture. Devono però diventare piccoli quartieri, palazzi alti anche sette, otto piani, molto commercio, parcheggi, e, se avanzano spazio e soldi, qualche servizio. Cambieranno forma e sostanza. Se era proprio di questo che il tessuto urbano circostante aveva bisogno è un altro discorso.
All'Atac speravano che l'affare scorresse liscio come l'olio. E invece si sono organizzati comitati di cittadini, alcuni depositi sono stati occupati, presidenti di Municipi (le ex circoscrizioni) si sono opposti. E non poche contestazioni hanno fatto leva sulle storie giudiziarie in cui è impelagato il vertice dell'azienda e che attestano l'allegra e familistica gestione dell'Atac (49 assunzioni sospette su 850 avvenute nel solo 2009 - la moglie di un assessore, la cubista, il figlio del caposcorta di Gianni Alemanno... - per le quali sono indagati l'ex amministratore delegato, Adalberto Bertucci e altri dirigenti. E inoltre quattro amministratori delegati cambiati in cinque anni. Superminini di stipendio assicurati a discrezione. Un parco di autobus invecchiato. Una diffusa impopolarità del servizio, nonostante, a causa della crisi, siano più che raddoppiate, fra 2011 e 2012, le tessere di abbonamento annuale.
La vendita dei depositi Atac è un affare da parecchie centinaia di milioni. Riguarda 15 aree edificate e non (depositi, ex rimesse, sottostazioni elettriche, uffici). Tranne un paio, sono tutte in zone centrali o semicentrali (oltre quelle già citate: Portonaccio, Trastevere, Garbatella, Nomentana, Ardeatina) per un totale di 165 mila metri quadrati. Su di esse verranno edificati 540 mila metri cubi. Stando ai calcoli, su ogni metro quadrato di suolo ci saranno 1,08 metri quadrati di costruzione, vale a dire una densità molto alta. Sorgeranno insediamenti massicci, che si svilupperanno anche in altezza, sorpassando gli indici di edificabilità previsti dal Piano regolatore approvato nel 2008 (0,5 metri quadrati su ogni metro quadrato), considerati già abbastanza generosi.
La vendita dei depositi, sulla quale il Dipartimento di studi urbani della Facoltà di Architettura di Roma 3 ha avviato uno studio e organizzato una mostra (curata da Giovanni Caudo, Lorenzo Caiazza, Sofia Sebastianelli e Francesca Romana Stabile), sta dentro una vicenda più ampia: la progressiva dismissione del patrimonio immobiliare pubblico per fronteggiare la montagna del debito. Una vicenda a scala europea. In Italia se ne parla da un decennio almeno, quando Giulio Tremonti inventò la Patrimonio s. p. a., ma sempre a corrente alternata e con successi scadenti. La legge finanziaria del 2008 - governo Berlusconi - ne fece un perno concettuale. E si avviarono una serie di procedure. Intanto partiva il progetto federalista che fra tante altre cose prevedeva il trasferimento ai Comuni di beni dello Stato con il fine, appunto, di essere valorizzati e venduti. Con il governo Monti la questione è stata rilanciata. E il Comune di Roma ha stilato una nutrita lista delle proprietà che vuol mettere in vendita.
L'obiettivo primario, sostiene chi è favorevole alla cessione, è quello di incassare danaro fresco. D'altronde, si aggiunge, vanno sul mercato beni che non hanno più una funzione e la cui manutenzione, da sola, è già un onere insopportabile per aziende o amministrazioni pubbliche vicine al collasso finanziario. Il problema, si sente però ribattere, è più serio quando si cedono pezzi di città, che cambiano la loro destinazione: vengono calcolati gli effetti urbanistici, per esempio, di un sovraccarico di residenza in quartieri già affollati? Sono prese in considerazione le accresciute esigenze di trasporto pubblico? E perché non si procede in altra direzione, utilizzando alcuni di questi luoghi dismessi, invece che per farci appartamenti a caro prezzo o centri commerciali, per offrire ai quartieri in cui essi sorgono le attrezzature, i servizi di cui c'è bisogno (verde, biblioteche, presidi sanitari), sedi di associazioni o anche abitazioni a costi contenuti?
Il dibattito è acceso. Ma gli uffici dell'Atac, azienda pubblica che agisce con logiche da immobiliaristi, vanno avanti con il loro piano. Una parte consistente degli interventi riguarda i tre depositi di piazza Bainsizza, piazza Ragusa e San Paolo. In questi ultimi due gli indici di edificabilità sono ancora più alti della media cittadina (2,05 metri quadrati di costruzioni su ogni metro quadrato, nel primo caso, 1,85 nel secondo). Il deposito di San Paolo è stato costruito nel 1928. Serviva come ricovero dei tram e le foto dell'Archivio storico dell'Atac, esposte alla mostra dell'università, lo ritraggono non molto lontano dalla basilica di San Paolo, in mezzo ad allevamenti di mucche. Fu un avamposto urbanistico. Lì intorno sorsero le prime case di tranvieri e nei decenni crebbe un quartiere, che oggi è affollato di enormi palazzi. L'edificio è stato inserito nella Carta della Qualità allegata al Piano regolatore di Roma, considerato dunque meritevole di tutela, rappresentativo dell'architettura industriale del Novecento. Lo stesso Piano regolatore lo classifica poi come "servizio pubblico di livello urbano", attribuendogli come destinazione quella di ospitare attrezzature utili al quartiere. Nel progetto dell'Atac, che nel frattempo ha concesso all'Ama, l'azienda dei rifiuti, di parcheggiarvi file di cassonetti, sono invece previste costruzioni per 18 mila metri quadrati (la superficie complessiva dell'area non supera i 10 mila). Che per metà sono appartamenti in cui abiteranno 240 persone. L'altra metà sono negozi e non meglio identificati servizi.
Una procedura simile è adottata per piazza Ragusa e piazza Bainsizza. Il primo deposito è di poco successivo a quello di San Paolo. "Rilevante" viene giudicato il suo interesse architettonico nella Carta della Qualità del Piano regolatore. Si programmano costruzioni per 20 mila metri quadrati. 180 persone andranno negli appartamenti che occuperanno il 30 per cento dell'area. Il 70 è destinato a commercio e servizi. Il deposito di piazza Bainsizza venne realizzato nel 1920 e anche intorno ad esso crebbe il quartiere delle Vittorie, allora prevalentemente riempito di villini, poi sostituiti da alti edifici. Fu un grande sforzo della società dei trasporti, che allora si chiamava Atm e che un decennio prima era stata costituita come azienda municipalizzata - azienda pubblica in concorrenza con i privati - per volontà del sindaco Ernesto Nathan e dell'assessore Giovanni Montemartini. Roma cresceva dove la trascinavano le rotaie dei tram, come non avrebbe più fatto in seguito, quando il trasporto pubblico fu costretto a tener dietro alla città che andava in tutte le direzioni. E i depositi dell'Atm, poi diventata Atac, testimoniano questa stagione mai più ripetuta della capitale. L'edificio è vincolato dalla Soprintendenza e, come quello di San Paolo, figura nella Carta della Qualità. Qui, dove ora stazionano i camioncini dell'Ama, si costruiranno superfici per oltre 15 mila metri quadrati, il 60 per cento degli edifici saranno appartamenti in cui abiteranno 240 persone. Il resto saranno negozi. Verrà salvata la sede del Dipartimento di salute mentale che occupa una parte dell'ex deposito, ma tutto il resto sarà stravolto, dicono gli esponenti di un comitato di cittadini che, sostenuti dal Municipio XVII (che ha votato contro il piano dell'Atac), hanno prodotto una progettazione alternativa, che prevede spazi pubblici per il quartiere, "un quartiere affamato di verde e con un grande fabbisogno di servizi che si troverà un insediamento che quel fabbisogno lo aggraverà".
"La crisi economica è un grimaldello per togliere spazio al settore pubblico"
Elena Besussi insegna Plan Making all'University College London. Da anni segue le vicende nel Regno Unito dove, dice, si seguono principi diversi da quelli in voga in Italia.ROMA - Come ci si comporta in altri paesi quando c'è da trasformare parti di città? Elena Besussi insegna Plan Making all'University College London. Da anni segue queste vicende in Gran Bretagna dove, dice, si seguono principi apparentemente diversi da quelli in voga in Italia. "Nel Regno Unito mancano piani urbanistici vincolanti come in Italia in termini di quantità del costruito e di destinazioni. Il piano c'è ma agisce da guida e nel caso di proposte di trasformazione che divergano dalle indicazioni di piano, l'amministrazione pubblica locale può decidere caso per caso quali benefici e quali svantaggi porta la proposta in sé. Il piano fornisce obiettivi generali, ma quello che si realizza è esito di negoziazioni tra privato e pubblico".
Ma nel negoziato chi esercita più forza, il pubblico o il privato?
"Dipende dai casi. A Clay Farm, periferia di Cambridge, l'amministrazione locale si è rifiutata di accettare la richiesta dell'operatore privato di ridurre drasticamente la quota di residenza pubblica adducendo a giustificazione che il crollo del mercato immobiliare avvenuto nel frattempo avrebbe ridotto il margine di profitti, rendendo l'intervento irrealizzabile. Il privato ha fatto ricorso, ma la sentenza è stata a favore dell'amministrazione di Cambridge. In essa c'era scritto che non si possono scaricare sul pubblico i rischi di investimento del privato".
Quindi le istanze pubbliche prevalgono?
"Non è detto. Alcuni provvedimenti introdotti dal governo conservatore di Cameron indeboliscono la capacità di negoziazione del pubblico. Si preferisce la fattibilità sulla qualità o sostenibilità di un progetto, dove per fattibilità s'intende il vantaggio economico dell'operatore privato, anche a scapito della realizzazione di quelle componenti sociali di un intervento che sono viste, in questa logica, solo come costi. Rimane sempre la discrezionalità ma in un momento di crisi, con previsioni di profitto ridotte, l'ago della bilancia non è a favore di residenza pubblica o infrastrutture sociali. Fino al 2010 esisteva un'unità governativa dedicata all'elaborazione di politiche per la gestione del patrimonio immobiliare pubblico. Oggi non esiste più".
La crisi penalizza soprattutto la città pubblica.
"L'esito di queste vicende non è sempre scontato. Nell'area di Elephant and Castle, ex-quartiere di residenza pubblica ora dismessa, l'amministrazione locale di Southwark, uno dei 33 boroughs (quartieri) di Londra, ha rinunciato a negoziare con il privato che ha acquisito l'area per costruire alloggi da affittare a canone sociale. La preferenza è andata verso infrastrutture sociali capaci di giustificare il prezzo a cui dovranno essere vendute unità residenziali e commerciali: verde protetto e modelli di spazio pubblico che favoriscono le attività di consumo (negozi, ristoranti, impianti sportivi) piuttosto che attività di socializzazione".
Cambia qualcosa se il proprietario dei suoli è pubblico o privato?
"Non molto. A volte il settore pubblico agisce come operatore immobiliare attraverso società private o a gestione privata. Nella riqualificazione di Kings Cross (nel borough di Camden), per esempio, in cui si stanno costruendo 750 mila metri quadri su 30 ettari dismessi dalla ferrovia, il proprietario è una società del Ministero dei Trasporti, ma è l'operatore immobiliare e gli investitori che rappresenta ad aver deciso cosa e come si realizza. La maggior parte delle aree ad uso pubblico sono diventate di proprietà privata. L'amministrazione si giustifica dicendo che così ottiene spazi pubblici di qualità a costo zero, ma la logica è che le infrastrutture sociali sono considerate un lusso ingiustificato. Ma c'è un altro motivo che diminuisce le differenze fra pubblico e privato".
Quale?
"È l'imposizione del ministero del Tesoro di regole sulla valutazione e vendita del patrimonio pubblico. Questo deve essere dismesso al valore massimo di mercato. In caso contrario, l'ente pubblico proprietario dovrà fare fronte al mancato guadagno con tagli di bilancio".
In tutta Europa si sta andando verso un sistema in cui è sempre più al privato che spetta di decidere che cosa costruire, come, dove e per chi? Oppure esistono paesi in cui prevale il punto di vista del pubblico?
"Dal mio punto di osservazione, il governo pubblico locale non è sempre il migliore alleato della città pubblica. Però anche quando si devono ridurre le spese in infrastrutture o servizi sociali, si possono fare delle scelte a favore di una città per tutti piuttosto che per pochi: a Clays Farm si è difesa la residenza sociale mentre a Elephant and Castle si eliminano pioppi secolari per far posto a un parco che sta dentro le logiche immobiliari del privato. La crisi economica è il grimaldello per avvalorare la tesi che un settore pubblico più ridotto porti benefici sociali. In Grecia, come a Roma, come a Kings Cross. Non vedo paese europeo, dove la riduzione della spesa pubblica da sola abbia dato questi risultati".