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Il 14 agosto di un anno fa, uno degli emblemi della 'modernità' crollava, trascinando con se 43 persone e travolgendo la vita di centinaia di sfollati e di una regione intera. Un episodio che avrebbe dovuto mettere in discussione la logica perversa che sta facendo marcire l'infrastruttura fisica e sociale del nostro paese. A un anno dal dramma nulla è cambiato, prosegue il disprezzo per la manutenzione, la sicurezza e la tutela dell'ambiente: nessuna revoca delle concessioni ai privati (interessati solo ai profitti) e finanziamenti al 'nuovo', dove corruzione, speculazione e interessi particolari possono fare i loro porci comodi. In Italia metà delle concessioni autostradali fanno riferimento a società collegate alla famiglia Benetton, che non sono un modello di imprenditoria ma emblemi di sfruttamento umano e ambientale.

Per commemorare le vittime, il 14 agosto, si è tenuto un presidio davanti alla sede di Edizione srl a Treviso, la holding dei famosi imprenditori veneti per denunciare storie di sfruttamento in Italia e all'estero: dal decentramento produttivo alle delocalizzazioni, con le quali si sono sfruttate migliaia di lavoratrici e lavoratori, causato centinaia di morti per mancanza di misure di sicurezza nelle loro fabbriche; dall'occupazione delle terre ancestrali del popolo Mapuche in Argentina alla persecuzione di chi si oppone a questa rapina; dai profitti enormi che hanno ottenuto attraverso concessioni su autostrade, porti e aeroporti e a quelli che faranno con le Olimpiadi invernali di Milano e Cortina del 2026.

Non meno responsabile è la classe politica che da decenni non solo permette, ma sostiene tutto questo e continua a farlo. Vuote e meschine le parole «non smetteremo mai di invocare giustizia», pronunciate dal primo ministro Conte durante la commemorazione delle istituzioni, perchè nulla è stato fatto, per cambiare un sistema che mette i profitti davanti alla vita umana, da chi avendone la responsabilità e il potere ha mancato di farlo.

L'architettura tende ad essere una materializzazione dell'ordine dominante, che usa lo spazio costruito per controllare e inculcare le sue regole, comportamenti e idee, attraverso la complicità (conscia o inconscia) dei progettisti che si conformano ai canoni, icone e strategie spaziali dei potenti.

Qui il video della lezione «Weaponised Architecture: Towards a Revolutionary Practice of the Discipline» tenuta da Léopold Lambert, l'editore di The Funambulist, una rivista bimestrale dedicata alle prospettive spaziali su lotte anticoloniali, antirazziste e femministe. Qui il link al sito dell'autore "Weaponised architecture" dove si possono vedere anche architetture disobbedienti.
Esemplificante del ruolo dell'architettura come strumento fondamentale di repressione si veda il video «Israel: The architecture of violence» di Ana Naomi de Sousa in cui Eyal Weizman spiega il ruolo chiave dell'architettura nell'occupazione israeliana della Palestina e nell'evoluzione della guerra urbana.

internazionale.it, 7 gen 2018. Il grande processo contro l’industria petrolifera mondiale, che coinvolge anche l’Eni, va avanti senza suscitare clamori, sebbene stia rivelando una vera e propria “industria della corruzione” a scapito dei cittadini nigeriani. Un altro scempio di “aiutiamoli a casa loro”. (i.b)

Noto come “caso OPL 245”, dal nome della concessione petrolifera acquisita da Eni e Shell nel 2011 dalla Nigeria, questo è il più grande processo per corruzione internazionale in cui sia mai stata coinvolta l’industria petrolifera mondiale. Esso riguarda lo sfruttamento del più grande giacimento offshore di petrolio presente in Africa.
Per tutti i soggetti coinvolti, Eni e Shell incluse, l’accusa è quella di aver sottratto oltre un miliardo di dollari dalle casse dello stato nigeriano. Questa cifra, anziché essere usata per pagare la concessione per lo sfruttamento del giacimento di petrolio al largo della Nigeria, è finita nelle tasche di politici e imprenditori nigeriani e mediatori vari. Il danno a discapito delle casse dello stato nigeriano è enorme.
Mentre ai nigeriani venivano sottratti soldi equivalenti al bilancio del ministero dell’istruzione per l’anno 2018, in un’operazione che coinvolge la più grande multinazionale italiana (in parte di proprietà dello stato) il governo italiano invocava di volerli “aiutare in patria”.
Speriamo che l’epoca in cui in Africa erano permessi ogni tipo di sfruttamento, prevaricazione e truffa sia arrivata alla fine. Fermare definitivamente queste rapine sarebbe il primo e forse uno dei più validi aiuti che l'Italia e l'Europa potrebbero dare all'Africa.
Qui il recente resoconto di Marina Forti per Internazionale, e precedenti articoli ripresi da eddyburg: “Caso OPL 245/ENI, al via il processo del secolo”, e “Tangenti e petrolio, la Nigeria contro l’Eni”. (i.b)

dinamopress.it, 18 ottobre 2018. Storie di ordinaria 'valorizzazione': sradicamento di alberi, rimozione del mercato popolare e delle attività sociali di quartiere. Uno spazio pubblico ceduto agli interessi del Mercato. Ma gli abitanti non ci stanno e resistono. (i.b.)


Sta succedendo qualcosa di importante in questi giorni nel centro di Marsiglia. Giovedì 11 ottobre alcune centinaia di persone hanno difeso per ore la centralissima piazza della Plaine, un posto pieno di vita, alberi e spazio: una rarità nelle città iper-regolamentate degli anni ’10. A chi tiene “le mani sulla città”, a quelli che impongono piani di rinnovazione urbana che altro non sono che appropriazione di spazi comuni o pubblici, la vita – le vite – della Plaine danno fastidio. Nei loro piani il mercato, frequentatissimo, popolare e a buon prezzo, deve diventare un “marché provençal”, come se per la spesa di tutti i giorni ci fosse bisogno di lavanda in sacchettini e saponi…; lo spazio aperto deve ridursi in favore dei de-hors dei bar e ad ogni metro quadro deve essere imposta una funzione pensata da qualcuno che mai metterà piede in quella piazza. Da anni, ormai, un’assemblea di quartiere, assieme agli ambulanti del mercato, studia i piani degli aménageurs, autocostruisce arredo urbano, organizza festival… da qualche mese, ciclicamente i camion degli ambulanti bloccano i punti nevralgici della città. In risposta: la distruzione delle costruzioni in legno, l’abbandono della piazza, che da qualche mese è letteralmente al buio, senza alcun lampione in funzione, qualche incontro stringato e infine l’escalation dell’ultima settimana.

Foto di Patxi Beltzaiz – contre-faits
«Che ci possiamo fare noi, se oggi tutti gli avvenimenti della vita pubblica si discutono nei giornali, mentre un tempo, nella Roma antica o in Grecia, si potevano apprendere direttamente dalla bocca dei banditori, alle terme, sotto i portici o sulle piazze? Che possiamo farci se i mercanti abbandonano sempre più le piazze per rinchiudersi in costruzioni utilitarie, ma inestetiche, o se spariscono per essere sostituiti dalla vendita a domicilio? Le feste popolari, i cortei di carnevale, le processioni religiose e le rappresentazioni teatrali all’aperto non saranno presto niente più che un ricordo. Con il passare dei secoli la vita popolare si è ritirata lentamente dalle piazze pubbliche, che hanno così perduto una grande parte della loro importanza. È per questo motivo che la maggior parte delle persone ignora completamente come dovrebbe essere fatta una bella piazza».
Camillo Sitte
Foto di Patxi Beltzaiz – contre-faits
MARSIGLIA: IL VOLO NERO DEI CORVI SU LA PLAINE
di Alèssi Dell'Umbria
traduzione di Giacomo Maria Salerno per DINAMOpress

Ci siamo… giovedì 11 ottobre, appena finito il mercato de La Plaine, la sbirraglia è arrivata, assieme ai camion caricati di tubi in calcestruzzo. Obiettivo, impedire l’accesso alla piazza in vista dei lavori. Mobilitati dall’appello di un’assemblea, una cinquantina di coraggiosi e coraggiose hanno bloccato il primo camion… i CRS e la BAC gasano e manganellano, la gente tiene botta, da tutto attorno arrivano i rinforzi e alla fine saranno diverse centinaia di persone che sfideranno la mafia municipale e le sue truppe. Quel giorno i blocchi di cemento vengono rimossi al suono dei tamburelli…

La Plaine, come indica il suo nome, è una spianata: un plan, in occitano… Lo Plan de San Miquèu, diventato la Plaine Saint-Michel… poi, negli anni ’20, piazza Jean Jaurés, ma i marsigliesi continuano a chiamarla la Plaine. Il termine designa, aldilà del piazzale vero e proprio, tutto il quartiere circostante. Per lungo tempo quella piazza è stata la sede del mercato all’ingrosso, da mezzanotte all’alba…il mercato al dettaglio, che proseguiva fino al pomeriggio, è sopravvissuto allo spostamento dell’ingrosso del 1972, ma rischia di non sopravvivere a Jean-Claude Gaudin (l’attuale sindaco di Marsiglia, ndr) e alla sua cricca di faccendieri.

Non torneremo indietro fino alla bella primavera del 1871, quando i Comunardi marsigliesi accampati alla Pleine la difesero strenuamente dall’attacco delle truppe di Versailles, ma giusto di una trentina d’anni…

Nel 1986 muore Gaston Defferre (già sindaco di Marsiglia nel 1944, e poi dal 1953 fino alla sua morte ndr). Fu una delle cose migliori che potessero succedere alla nostra città. Il suo successore, Robert Vigouroux, non brillava di certo, ma aveva almeno il vantaggio di essere un po’ fraca, come si dice qui… scriveva poesie nel tempo libero, e qualche volta l’avevamo visto in giro ubriaco, il che era già un bel cambiamento rispetto a quel calvinista col culo stretto che mandava Marsiglia a letto sul finire del giorno. Ci diede un poco di tregua. Dal trasferimento del mercato all’ingrosso la Plaine si era assopita, tenevano banco solo gli spacciatori di polvere – il grande affare degli anni ’80… i bar vivacchiavano dal ’72, la Plaine era piena di magazzini vuoti, in breve la piazza non domandava che di essere occupata: per quattro soldi si poteva aprire un café-concert… così i colleghi hanno investito i luoghi… bisognava saperci fare per gestire un locale frequentato dalla gioventù marsigliese più irrequieta. Tifosi dell’Olympique Marseille, redskins, bande dei Quartieri Nord, piccoli teppisti locali, writers e motociclisti… fu l’epoca in cui si strinse una bella complicità tra la generazione del rock’n roll e quella del raggamuffin e dell’hip hop…una collaborazione ed emulazione reciproca, giocata dentro un sentimento di appartenenza condivisa, che ci riconciliava finalmente con la nostra città. I sopravvissuti degli anni ’80 e la nuova generazione si ritrovavano quindi alla Plaine, vibrando assieme sugli stessi ritmi. Nel frattempo gli spacciatori di eroina se n’erano andati, troppa gente in piazza…

La Maison hantée, il Degust’, il bar de la Plaine, il Balthazar, il May-Be Blues, l’Intermédiaire e tanti altri… in seguito, aprirono diversi spazi di associazioni, Marseille Trop Puissant, club di tifosi antirazzisti, il Tipi, che si occupava dei malati di Aids di cui non si curava nessuno in città, l’ostai dau Paìs Marselhés, che difendeva e promuoveva la bella lingua occitana, e altri ancora… e tra tutte queste tribù nacquero dei legami di mutuo aiuto e di amicizia che non si sono mai rotti.

Non è che ci abbiano davvero mai lasciati in pace in quegli anni, le guardie e i CIQ [1] non ci hanno mai davvero mollati, ma almeno l’amministrazione non veniva a romperci le palle con dei progetti di lifting. Poi nel 1995 la cricca di Jean-Claude Gaudin prende in mano la città, fine di un intermezzo assai relativo. Destra cattolica con una mentalità da bottegai inaciditi… rientrava di sicuro nei loro piani tutta questa vita. Questo ci venne spiegato attraverso delle campagne stampa a ripetizione su “l’insicurezza alla Plaine”: il quartiere era ben lontano dall’essere quel covo di assassini che veniva descritto in quegli articoli. Di tanto in tanto un tizio si faceva ammazzare, come succedeva in qualsiasi altro quartiere, ma questi erano problemi che non ci riguardavano e che interessavano giusto i giornalisti. Per il resto, il CIQ passava il suo tempo a lamentarsi dei rumori notturni, della sporcizia prodotta dal mercato, dei ragazzini che giocavano a pallone in piazza, insomma, di tutto ciò che viveva. Per questo piccolo comitato il quartiere doveva essere residenziale e la piazza si riduceva a una semplice appendice funzionale; per noi era esattamente il contrario, la piazza non era semplicemente uno spazio in mezzo agli edifici, viveva anzi di una vita propria, che eccedeva i limiti geografici del quartiere.

La Plaine è un quartiere un po’ complicato. Sulla piazza stessa e lungo l’adiacente boulevard Chave ci sono degli edifici borghesi, un tempo occupati dai commercianti del mercato all’ingrosso, mentre degli edifici molto più modesti occupano le stradine adiacenti, un tempo occupati dai facchini e dagli altri ambulanti del mercato in questione. La maggior parte della gente che abita nel quartiere ha casa in quelle stradine; quelli che ce l’hanno sulla piazza tendenzialmente non abitano affatto il quartiere. Ci risiedono, ma non lo abitano. Al contrario, molti di quelli che lo abitano risiedono altrove, nei quartieri vicini o anche più lontano. Molti di questi residenti della piazza o del boulevard vorrebbero farci sloggiare e, visto che hanno la tendenza a votare per la cricca di Gaudin, sono loro a essere ascoltati dalle parti del comune (al giorno d’oggi, la gente non vota dove vive, vota dove dorme…).

Tutto questo per dire che il problema lo vedevamo arrivare da lontano.

In maggio, otto telecamere appena installate furono distrutte, in pieno giorno e senza che la polizia potesse prendere nessuno dei vandali… La punizione: nel 2013, ci dispiegano un cordone di polizia impressionante attorno al nostro Carnevale, ma ci vuole di più per impressionarci. Così l’anno seguente ci attaccano al calare della sera, e la danza attorno al falò si trasforma in una sommossa. L’assemblea si mobilita, e alla Plaine vengono organizzate diverse iniziative di solidarietà con gli imputati per i fatti di quella notte e per affermare che non ci faremo cacciare. Risultato: nel marzo del 2015 il Carnevale del quartiere attira il quadruplo della gente! È allora che iniziano a circolare queste voci su un “progetto di riqualificazione” della Plaine elaborato dalla Soleam (Société Locale d’Aménagement de l’Aire Métropolitaine– Società Locale di pianificazione dell’area metropolitana), nel quadro dell’operazione Grand centre ville.

Durante l’estate, una fuga di notizie ci permette di avere i quattro progetti in lizza, che ancora non sono stati resi pubblici. Allora capiamo che questa volta si tratta di un’operazione globale, destinata a risanare tutto il quartiere. Il mercato sarà rimpiazzato da qualche stand “di alta gamma” che occuperebbe una superficie molto ridotta, e le vie di circolazione sui lati saranno rimpiazzate da un’unica strada proprio in mezzo alla piazza. Questa configurazione permetterebbe l’installazione dei grandi plateatici sul modello di quanto già messo alla prova al Vecchio Porto: questo renderebbe allo stesso tempo impossibili tutte le varie attività alle quali si dedica la gente in totale spontaneità e gratuità. Cosa che è tra l’altro rivendicata da un consigliere comunale, l’avvocato d’affari Yves Moraine, che dichiara a proposito del progetto: “Niente di meglio che il privato per occuparsi dello spazio pubblico”.

A questo punto ce la giocano sulla “partecipazione pubblica” ed assoldano allo scopo un gruppo di consulenti parigini, Respublica (!), cominciamo bene… Vengono organizzate due riunioni, nell’autunno 2015, nel palazzo delle Belle Arti, poco più giù della Plaine, capacità massima della sala duecento persone – per una concertazione su un progetto che riguarda non solo migliaia di abitanti e centinaia di lavoratori ambulanti, ma anche altre migliaia di persone che, venendo da altri settori di Marsiglia e della periferia, convergono sulla piazza nei fine settimana. Una concertazione in bianco in cui non apprezziamo troppo di farci prendere in giro, così la buttiamo in caciara e piantiamo un casino. I consulenti parigini vengono presi alla sprovvista e sono pure un po’ in preda al panico…tra urla e invettive varie la gente dalla provenienza più disparata viene a difendere il quartiere contro questo progetto pretenzioso, i materiali stampati vengono rispediti indietro sotto forma di aerei di carta…Gérard Chenoz, il presidente di Soleam, dirà che se avesse saputo che sarebbe andata a finire così avrebbe saltato direttamente la “partecipazione”…nel rispondere alle critiche, finirà per dire semplicemente: “Siamo stati eletti, facciamo quello che vogliamo”.

Tra gli eletti marsigliesi l’arroganza sopra le righe da piccolo mafioso se la batte sempre con l’ignoranza beata del notabile di provincia. E come in ogni racket, arrivano all’intimidazione. Aggressivi non appena si osa opporgli qualche argomento, sempre pronti all’invettiva in pubblico [2]. E dovremo ancora sentire il presidente dichiarare, al consiglio municipale dell’8 ottobre dove il destino della Plaine è stato liquidato in esattamente due minuti: “Se mi si vogliono fare delle osservazioni ne terrò conto, ve l’ho detto, ma da quelli che sono stati eletti… ma le lezioni da chi non è stato eletto…che si facciano prima eleggere al suffragio universale e dopo ne riparliamo” [3].

Durante l’anno 2016, i quattro uffici di urbanisti e architetti continuano a lavorare ai rispettivi progetti. Le indicazioni che Soleam ha fornito loro precisano bene che ci sono delle “invarianti”. Questi elementi che non sarà possibile rimettere in discussione sono da un lato la diminuzione drastica dello spazio riservato agli ambulanti del mercato dopo il cantiere, nell’ottica di un «aumento del livello e della qualità del mercato», e dall’altro il fatto che “gli arredi urbani dovranno essere pensati in maniera da impedire ogni uso deviante dello spazio”. A partire da qui, non c’è effettivamente nulla di cui discutere… Gli “usi devianti”: l’espressione non è priva di un certo fascino per qualificare le partite di calcio tra ragazzini, le grigliate di sardine dei fannulloni il primo maggio, il nostro carnevale selvaggio, i banchetti di quartiere, i pomeriggi passati a prendere il sole e le serate a bere birre sulle panchine assaporando il passare del tempo… tutte cose che si fanno da sempre e senza che fosse mai necessario chiedere un’autorizzazione. Questa espressione caratterizza precisamente uno spazio pubblico che si trasforma in uno spazio comune.

Il modello del progetto, infine, ha confermato i nostri presentimenti. Compreso lo sradicamento di un centinaio di alberi, che verrebbero rimpiazzati da piccoli arbusti in vaso – e dire che un architetto paesaggista è stato pagato per questo! I tigli della Plaine, che erano sopravvissuti all’incompetenza del servizio stradale, non sopravviveranno alla Soleam. In futuro, chi vorrà proteggersi dai raggi del sole non troverà ombra che sotto gli ombrelloni dei plateatici dei bar, di cui gli eletti locali auspicano tanto l’installazione… bisognerà pagare, insomma, per perdere un po’ il fresco. Irresistibilmente ci ritornano in mente i versi di Victor Gelu…nel 1839, il grande poeta della plebe marsigliese scrisse una canzone diventata famosa, “Leis aubres dau cors”. Il Corso, che non si chiamava ancora Belsunce, era a quei tempi il luogo di ritrovo dei lavoratori a giornata, e quelli che restavano senza impiego passavano il giorno là, all’ombra degli olmi. Il comune decise così, con un pretesto ridicolo, di far tagliare tutti gli alberi, e Gelu si fece interprete del popolo minuto del Corso in quella sua canzone virulenta, dove l’abbattimento degli alberi è denunciato come una vera e propria misura di polizia contro questa plebe dalla forte inclinazione alle barricate [4].

Nel 2015, il progetto Euroméditerranée era già bello che avanzato, nelle banlieues Nord. Molti quartieri sono oggi scomparsi sotto le colate di cemento. Si è quindi deciso che i tempi fossero maturi per tornare verso il centro e portare a termine la grande pulizia. Il progetto della Soleam segue chiaramente la strategia dello shock, con l’annuncio di un cantiere della durata di due anni e mezzo (considerato come vanno le cose a Marsiglia, possiamo facilmente prevedere almeno un anno di più…). Due anni e mezzo durante i quali la maggior parte dei bar e dei negozi di prossimità della Plaine saranno falliti, dato che sarà impossibile andarci… Il Comune ha del resto già annunciato che metterà un’opzione di acquisto in modo sistematico su tutti i locali resi vacanti del quartiere, al fine di installarvi delle attività di suo piacimento, come i concept stores che sono sorti in rue d’Aubagne negli ultimi tempi… Il costo globale di 11 milioni annunciato all’inizio nel frattempo è già salito a 20 milioni – mentre Gaudin annunciava con piglio regale 5 milioni per sistemare le scuole, che in tutti i quartieri poveri cadono letteralmente a pezzi…

Nel frattempo, il consigliere locale con responsabilità sul mercato, Marie-Louise Lota, non cessa di moltiplicare le provocazioni nei confronti degli ambulanti del mercato, e di riversare tutto il suo odio borghese per la vile moltitudine. «Sono alla fine della mia vita politica, ma prima di lasciare ripulirò la Plaine» – fu la sua prima dichiarazione sull’argomento nel 2015. «Si vende soprattutto della merda qui», è stato il leitmotiv degli ultimi tre anni, puntellato da un «voi fate venire qui una popolazione indesiderabile» e con la conclusione dell’ottobre 2018: «il mercato della Plaine è finito». Si sussurra che lei stessa sarebbe proprietaria di uno stabile nei pressi immediati della Plaine, in quel V° municipio dove i prezzi della proprietà immobiliare stanno schizzando subito dopo l’annuncio dei lavori…. Tra gli interessi privati appena dissimulati e il disprezzo di classe apertamente esibito, gli ambulanti vengono condannati senza appello.

Da centocinquant’anni questa città è governata contro la gente che la abita. Ne porta i segni nelle distruzioni che ha subito, come altrettante cicatrici di questa violenza sociale. Ma fino agli anni ’60 e ’70 il Porto e le fabbriche erano a pieno regime, e volente o nolente la borghesia doveva adattarsi a questa plebe rumorosa. È a partire dagli anni ’80 che questa diventa semplicemente ingombrante. È l’epoca in cui il comune e la camera di commercio alzano la voce contro il contrabbando… e così l’angolo di tiro si precisa: il commercio dei prodotti d’oltremare è colato a picco, si dovrà quindi fare commercio della città stessa! La conversione prende un po’ di tempo, ma al volgere del millennio era già bella che partita: progetto Euroméditerranée, incremento inaudito dei valori fondiari (un semplice “recupero”, dicono al Comune…), arrivo del TGV e, per coronare l’operazione, MP2013 Capitale Europea della Cultura. E così bisogna un po’ smussare e allisciare tutta questa vita, non lasciar sussistere della città reale che quella giusta dose di esotismo sufficiente a far vendere il prodotto.

La valorizzazione opera allo stesso modo in cui mantiene l’ordine – come uno shopping mall in cui tutto lo spazio è pensato di modo che nessuna attività che non sia l’acquisto di merci sia possibile. Si prende in carico di disciplinare un corpo vivo e sempre sfuggente, refrattario alla nozione stessa di “popolazione”. Per fare di questa città una merce globale da vendere al dettaglio pezzo dopo pezzo, una messa a norma s’impone. E la Plaine è un pezzo bello grosso, e fintanto che esisterà quel suo mercato così popolare, con i suoi rumori e i suoi odori, fintanto che esisteranno quegli “usi devianti” della piazza, sarà difficile valorizzare il quartiere. A questo stadio, poco importa che il mercato generi esso stesso del valore se allo stesso tempo abbassa il valore del settore immobiliare ed impedisce uno sfruttamento più vantaggioso del sito. La nozione di “valorizzazione”, di “messa in valore”, che ricorre così spesso nelle parole dei consiglieri comunali e dei pianificatori, va presa qui in senso pieno. Per una volta, parlano apertamente di cash [5].

Nel momento in cui ciò che costituiva l’essenziale di quello che è una città si ritrova frammentato e polverizzato nello spazio informe di una suburbia senza fine, il centro storico non ha che la funzione di rappresentare la città, di mettere in scena una certa immagine dell’urbanità, che genera essa stessa la valorizzazione mercantile. Di cosa è costruito oggigiorno il centro delle città europee? Di quartieri residenziali attraversati da arterie pedonali, con le loro boutiques in franchising e le loro piazze colonizzate dai plateatici dei bar e dei ristoranti, che devono rendere concreta «l’immagine dell’unificazione felice della società nel segno del consumo». E questo mentre il grosso della plebe si vede indirizzata per altri canali verso i centri commerciali e i multisala della periferia. Per la cricca di Gaudin, la Plaine aveva chiaramente il torto di non corrispondere a questo schema.

Al mercato della Plaine si vendeva letteralmente di tutto. Stoffe di ogni tipo, articoli di drogheria, frutta e verdura, camicie e scarpe, pentole e rasoi usa e getta, insomma tutto ciò che di solito i poveri comprano nei supermercati… solo che venduto all’aria aperta e da rivenditori indipendenti. Ci si possono anche trovare degli affari… quando ero ragazzino, mia madre comprava già vestiti dai gitani della Plaine, che proponevano bluse e giacconi a prezzi che schiacciavano ogni concorrenza. E poi interi carichi di camion (che ovviamente non si vedevano in pubblico), lo smaltimento di interi stock, le rimanenze di vecchi lotti, della roba sequestrata alla dogana… Da tempo i commerci alimentari di rue Longue des Capucines, giù a Noailles, hanno funzionato su questo modello. Insomma, il segmento finale dei cicli di produzione e circolazione delle merci…

Tutti questi ambulanti, lavoratori indipendenti e contenti di esserlo, compongono un bel campione della famosa “Marsiglia popolare”… tutte le origini si incrociano, gitani (siano essi catalani o andalusi), arabi e berberi, ebrei e armeni, italiani e persino dei contadini provenzali che vengono a smerciare le loro verdure qui, senza dimenticare quel nigeriano che ha scritto una lettera aperta al prefetto… non ci si arricchisce vendendo la propria roba al mercato, piuttosto ci si guadagna da vivere, niente più. Bisogna scaricare alle 6 del mattino, tenere botta tutta la mattina e ricaricare tutto all’una del pomeriggio. Uno dei rari mestieri che si esercitano ancora all’aria aperta. Alcuni tra gli ambulanti occupano uno spiazzo da quattro generazioni, altri sono giornalieri e vivono nella precarietà, ma tutti condividono la stessa volontà di restare là, su quel piazzale.

Per allisciarseli, la Soleam ha fatto di tutto. Inizialmente ha annunciato che i lavori si sarebbero svolti in tre tranches successive, cosa che avrebbe permesso di mantenere un certo numero di banchetti per gli ambulanti e lasciato un po’ di spazio alle altre attività. Due o tre hanno provato a fare i furbi, facendo scivolare delle buste nelle tasche giuste per essere certi di ritrovarsi tra i fortunati, ma si sono ritrovati davanti all’incazzatura degli altri, che gli hanno dato una bella lavata di capo. La Lota ne ha approfittato per decretare, in piena estate, che visto che c’erano state delle minacce i lavori si sarebbero svolti in un’unica tranche, e che quindi se ne sarebbero dovuti andare subito tutti quanti – cosa che era chiaramente la decisione iniziale. Qualche politico non ha nemmeno esitato a giocare la carta della divisione etnica. Un giovane ambulante gitano ha risposto: «Noi gitani rimaniamo con i neri e con gli arabi!».

La sera, Gaudin esige pubblicamente che il prefetto invii la polizia a sgomberare i due blocchi… l’indomani, davanti all’inazione del prefetto e alla continuazione dei blocchi del traffico, fa sapere che riceverà gli ambulanti il lunedì seguente. Ci andiamo in tanti per dare un po’ di sostegno, e ci dicono che il cantiere si svolgerà in tranches e che 40 ambulanti potranno quindi restare. Si tratta di meno della metà di quanto previsto inizialmente, e gli ambulanti protestano, minacciando di bloccare la piazza… alla fine, non oterranno che dieci giorni, spostando la data dell’ultimo mercato dal 29 settembre a giovedì 11 ottobre. E di nuovo, con una svolta che non meraviglia nessuno, scopriamo che alla fine non ci sarà che una sola ed unica tranche di lavori, che tutta la Plaine sarà occupata dal cantiere e tutti gli ambulanti se ne dovranno andare…

La loro richiesta, di fronte al rullo compressore della Soleam, era almeno di non essere separati e dispersi. Finiranno invece per essere ricompensati per il blocco stradale con la divisione in due gruppi, uno alla Joliette e l’altro al Prado, e dovranno aspettare il 26 ottobre per poter ricominciare a lavorare: nel frattempo disoccupazione senza indennizzo. Hanno deciso di farsi chiamare, in questi due nuovi posti, “Mercato della Plaine in esilio”. Potranno tornare alla Plaine dopo tre anni? Questo non dipende che da noi… la lotta sarà lunga e complicata, e sappiamo che dopo essere entrati in forza la Soleam e il comune punteranno allo stallo. Sta a noi dare prova d’intelligenza strategica; quando non siamo i più forti, bisogna essere i più svegli.

Il cantiere è dunque ufficialmente cominciato. Venerdì scorso, le guardie sono arrivate alle prime luci dell’alba, e si sono messe a circondare la piazza con dei jersey di cemento. Per il giorno dopo, l’assemblea della Plaine ha indetto una manifestazione con partenza da Cours Julien, non lontano da lì. Circa un migliaio di persone sono sfilate per le arterie del centro durante tutto il pomeriggio per esprimere la loro opposizione al cantiere della Soleam. Alla fine del pomeriggio, mentre il corteo risaliva verso la Plaine, la BAC e i CRS che lo tallonavano hanno caricato, soffocando la piazza con il gas (vendetta per la porta dell’ufficio della Soleam che è esplosa sulla Canebière?). A ogni modo, dai primi giorni all’appello ha risposto una grossa mobilitazione, e tanta gente del quartiere improvvisamente messa di fronte all’evidenza ci ha raggiunto. Malgrado la ventina di mezzi dei CRS che circondano costantemente la Plaine da venerdì, e che costituiranno il nostro ambiente quotidiano almeno per i prossimi tre anni.

E ci annunciano che degli operai verranno ad abbattere gli alberi martedì 16 ottobre…

FÒRA SOLEAM, GARDAREM LA PLANA !!!

AGGIORNAMENTI
a cura di Cecilia Paradiso

Dopo la giornata di giovedì scorso, in cui la polizia è venuta a posizionare dei blocchi di cemento per ostruire gli accessi alla piazza e in cui la gente è riuscita, dopo diverse ore e sotto una pioggia di lacrimogeni, a rimuoverli, le iniziative si sono susseguite: c’è stata una colazione in piazza venerdì, una manifestazione sabato, un’assemblea l’altro ieri ed infine, ieri, l’inizio dei lavori. Sabato, almeno 3-400 persone hanno percorso le strade del centro città, passando per quei quartieri popolari che, come la Plaine, sono sotto il tiro spietato della riqualificazione: Noailles, les Réformés. Si è arrivati fino a quelli investiti dal rullo compressore più o meno recentemente, testimoni diretti di quanto la pace possa essere terrificante: Belsunce, Rue de la République. Sabato, come ieri, gas lacrimogeni, cariche di dispersione e arresti. Sono stati emessi dei fogli di via dal quartiere e gli avvocati hanno riferito dell’intenzione manifestata dal giudice di infliggere pene esemplari. Ciò nonostante, le persone non lasciano la piazza e ricompaiono dalle vie laterali, quando l’assurdo dispiegamento di forze si ritira. Regolarmente, i blocchi di cemento vengono rimossi, le barriere abbattute, i materiali da cantiere prendono fuoco. Ieri, sotto la pioggia, al rumore delle motoseghe, l’amarezza e lo sdegno erano palpabili. Pare che siano stati tagliati anche alberi che non erano tra i condannati: senza danni colaterali, che guerra sarebbe! Una persona, un abitante del quartiere, ha centrato appieno la violenza di questa maniera di procedere, della volontà di concretizzare progetti a loro modo totalitari: «una volta finito con gli alberi, i prossimi da abbatere saremo noi!». Nel frattempo, gli operai continuavano nel lavoro, dietro un cordone di CRS bardati di tutto punto. Tra loro, più di uno mostrava un sorrisetto sadico: oggi, finalmente, vedevano degli occhi gonfi di lacrime. Il dispiegamento enorme di forze di polizia, in tutta questa faccenda, sta proprio lì, tra l’osceno e il ridicolo. Alcuni episodi sono stati particolarmente eloquenti, nella loro ironia. Come quando, sabato, all’annuncio di un possibile inizio delle cariche, è spuntato un pallone. Inevitabilmente, ad un certo punto il pallone è finito dietro il cordone di antisomossa e duecento persone hanno iniziato a gridare «rendez-nous le ballon, rendez-nous le ballon»: l’assurdità dell’impedire, manu militari, la “normale” vita di uno spazio storicamente fatto proprio da una molteplicità di persone era tale che ce l’hanno ripassata, la palla. Quando ci si ricorda che tutta questa assurdità costerà 20 milioni euro, in una città problematica come Marsiglia, gira la testa. Ieri una decina di persone sono salite sugli alberi, impedendone l’abbattimento. I pompieri le hanno fatte scendere, verbalizzando delle multe. L’intenzione è quella di tornare oggi, mentre per sabato è stata indetta una manifestazione più ampia, “pour des ville populaires”. Partirà dal Vieux Port ed è annunciata in stile carnevalesco, in riferimento dal carnevale indipendente attorno al quale si è organizzata una buona parte della resistenza della Plaine.

Note

[1] Comités d’Intérêt de Quartier , Comitati di interesse di quartiere, organo di collegamento tra la piccola borghesia e il comune, creati da Defferre. In centro città, molto schierati a destra.
[2] Nel 2000, quando contestavamo (di già!) una delle loro operazioni sulla piazza, il presidente del IV/V municipio, sotto la cui amministrazione dipendeva allora la Plaine, Bruno Gilles, dichiarerà in una riunione pubblica: “Mr. Dell’Umbria è un agente elettorale del PS”… LOL!
[3] Questa municipalità, sia detto en passant, è stata eletta nel 2014 da esattamente 96813 schede elettorali. Vale a dire il 10% della popolazione marsigliese).

[4] http://www.ostau.net/libraria/edicions/gelu/

[5] è in effetti l’unico elemento del loro linguaggio che sia davvero chiaro. Per il resto, bisogna leggere la presentazione del progetto di Soleam: «Con la sua risistemazione, piazza Jean Jaurès si trasforma in una grande piazza mediterranea, polivalente, pedonale e accessibile». Un simile aplomb nell’invertire il significato delle parole toglie il respiro – il che è d’altronde il loro scopo

Per seguire gli eventi
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Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Qui il link alla nostra copertina dedicata al La Plaine.

Foto di Patxi Beltzaiz – contre-faits

il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2018. L'ex ministro che incarna perfettamente il "sistema Veneto": grandi opere e profitti privati pagati da noi tutti. (m.p.r.)

Sul blog di Paolo Costa campeggia una bella citazione di Jorge Luis Borges: “A quel tempo, cercavo i tramonti, i sobborghi e l’infelicità; ora, i mattini, il centro e la serenità”. La serenità di Costa non è letteraria ma ha solide radici nel cemento, nel ferro e in tutto quello che sa di costruzione e Grandi opere.

Se negli ultimi giorni è finito sotto i riflettori per la sua presidenza della Spea Engineering, società del gruppo Atlantia, cioè Autostrade per l’Italia, incaricata della progettazione, monitoraggio e manutenzione delle infrastrutture stradali, è in virtù non solo di un curriculum ma di una strutturale dedizione alle Grandi opere.

Nel 1996 diventa ministro dei Lavori pubblici nel primo governo Prodi dopo le dimissioni di Antonio Di Pietro raggiunto dall’avviso di garanzia della Procura di Brescia. Da lì inizia una carriera politica che fa impallidire quella accademica. Costa, classe 1943, era Rettore dell’Università di Venezia, Ca’ Foscari, poi vicepresidente dell’Università delle Nazioni Unite a Tokyo. Ma con Romano Prodi, ai Lavori pubblici, diventa il “padre” della privatizzazione di Autostrade, quella della proroga ventennale della concessione (contestata dalla Corte dei Conti ma poi avallata dalla Commissione europea) e degli aumenti tariffari automatici.

Solo che il governo Prodi cade, Costa lascia e nel giro di un anno segue l’ex premier nell’avventura politica dell’Asinello, la lista che il fondatore dell’Ulivo promuove per fare concorrenza alla sinistra. Viene eletto e rimarrà nel Parlamento europeo per dieci anni, fino al 2009 dove va a presiedere la commissione Trasporti partecipando alle decisioni fondamentali sulle grandi reti di trasporto europeo a partire dal Corridoio 5, quello che fa rima con Tav: “Una grande occasione offerta al nostro Paese”.

Nel frattempo, siamo nel 2000, la sua carriera compie ancora un salto, con l’elezione a sindaco di Venezia. Batte un concorrente di peso del centrodestra, Renato Brunetta, e inaugura una gestione di centrosinistra che ha tra le prime misure la vendita delle azioni nell’autostrada Brescia-Padova. Come è accaduto con la Società Autostrade, l’obiettivo è quello di fare cassa.

Da sindaco e da presidente della commissione Trasporti europea sponsorizza anche il Ponte sullo Stretto, inserito nella lista delle 30 opere prioritarie della rete transeuropea (Ten). Ma per uno che ha già quel curriculum alle spalle, l’operazione più succulenta si chiama Mose. La sua richiesta di una soluzione “per l’acqua alta” a Venezia viene accolta dal governo Berlusconi con le improbabili bocche meccaniche dal dubbio funzionamento. In compenso funzionano le mazzette e la vicenda si conclude con condanne in primo grado (tra cui il ministro di Berlusconi, Altero Matteoli) e qualche prescrizione (a salvarsi sarà un successore di Costa, Giorgio Orsoni che viene prosciolto nonostante avesse chiesto il patteggiamento).

Avendo avviato il Mose, Costa viene ovviamente premiato. Guarda caso dall’ex ministro del governo Berlusconi, Altero Matteoli, che lo insedia a presidente dell’Autorità portuale di Venezia. A esultare per la scelta sarà il suo ex avversario alla guida della città, nonché berlusconiano di ferro, Renato Brunetta: “Era la scelta migliore possibile”.

Da presidente del porto si contraddistingue per proposte incisive a proposito delle grandi navi che solcano le acque antistanti piazza San Marco: “’La mia proposta è quella di realizzare una sorta di senso unico”. E quando Celentano, che si batte contro lo scempio dei transatlantici in Laguna protesta, lui risponde serafico: “Come penso che qualcuno troverebbe da ridire se fossi io a commentare le tonalità delle canzoni di Celentano, così mi permetto di suggerirgli di non commentare temi che forse non conosce a fondo”.

Su costruzioni e Grandi opere, in realtà, destra e sinistra cantano insieme e quando da sindaco di Venezia deve promuovere il Mose e a capo del governo c’è Silvio Berlusconi, invoca “lo spirito di leale collaborazione tra poteri”. Ricambiato dagli avversari.

Lo scorso anno, l’attuale sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, berlusconiano indipendente, lo coopta nel Consiglio generale della Fondazione Venezia, la struttura di potere di derivazione bancaria che ha azioni di Intesa San Paolo, della Cassa Depositi e Prestiti e di Veneto Banca. Come direbbe Borges, “i mattini, il centro e la serenità”.

il manifesto, 22 agosto 2018. «Disastro di Genova. La logica capitalistica è quella della remuneratività a breve degli investimenti». (m.p.r.)

Mi è parso strano, in questi giorni, che quasi nessuno si sia ricordato del disastro del Vajont (9 ottobre 1963; 1.910 morti). Anche quella era una meraviglia dell’italica genialità dell’ingegneria del cemento armato: la diga più alta del mondo, inaugurata pochi anni prima. Anche allora la società privata che la gestiva (la Sade) – e con lei tutte le autorità statali e le principali fonti di informazione – preferì ignorare gli allarmi pur di non interrompere la produzione e deprezzare i propri capitali. Ma potremmo citare centinaia di altri casi di tragedie provocate dal collasso di infrastrutture e impianti produttivi industriali.

Per non andare lontano da Genova pensiamo all’incendio della petroliera Haven (11 aprile 1991, 5 morti) e alla ThyssenKrupp (5 dicembre 2007; 5 morti). Certo, per ogni evento ci sono colpe soggettive rilevanti (anche se quasi mai davvero perseguite), ma c’è anche una logica comune che sottende il modus operandi di investitori, proprietari, gestori, autorità regolative e, più in generale, il pensiero moderno di sviluppo, progresso e prosperità. Pensiamoci per un istante.

E’ stato detto da un allievo dell’ing. Morandi, progettista del viadotto Polcevera, (intervista al docente Sylos Labini dell’Università La Sapienza, Il ponte Morandi è arte, il manifesto, 17 agosto) che il ponte è stato costruito in cemento armato tenendo conto «anche al rapporto costi-benefici (…). L’acciaio per l’economia italiana del periodo era proibitivo, i costi non avrebbero reso possibile la costruzione dei ponti». Ho letto e ascoltato basito che opere pubbliche come quelle in questione sono programmate per un tempo di vita predefinito di 50-60 anni. Ho pensato agli acquedotti romani e al ponte di Rialto e ho capito i differenti modi di concepire le attività umane delle diverse civiltà.

Ma pure ammettendo che la nostra civiltà super-accelerata, iperconsumistica e priva di senso del limite sia la più moderna e desiderata possibile, perché i suoi progettisti e i loro committenti e finanziatori non programmano anche le manutenzioni e il fine ciclo dell’opera preferendo invece spremere il limone fino a bucare la scorza? Mi è stato detto che per una grande impresa risarcire i danni di disastri è spesso più economico che modificare i propri piani produttivi. Non a caso uno dei motori di questo “sviluppo” sono le società di assicurazione. La logica che guida l’economia capitalistica è stata sempre quella della remuneratività a breve degli investimenti. Peccato che questi “utili” siano stati garantite ai Benetton e agli altri “capitani coraggiosi” dell’imprenditoria italiana dalle generose privatizzazioni e svendita del demanio dello Stato avviate dai governi dell’era iperliberista.

Permettetemi una antipatica autocitazione (Liberazione, 15 giugno 2006), quando Rifondazione Comunista tentò di bloccare le proroghe concesse dal ministro Di Pietro alle concessioni autostradali: «È del tutto evidente che le autostrade costituiscono un bene-servizio monopolistico naturale. Nessuno è libero di scegliere quale autostrada percorrere. Non è possibile creare alcuna concorrenza tra beni o servizi unici. Affidare a privati la loro gestione significa regalare una rendita di posizione. Per “controllarla” servirebbero regole, autorità di vigilanza, controlli… costosi, mai efficaci e, soprattutto, assolutamente inutili, solo se la loro proprietà rientrasse in uno schema di regole pubbliciste. È tempo di fare un bilancio “laico” delle privatizzazioni. È tempo di riproporre la ri-pubblicizzazione della proprietà di quei beni e di qui servizi che per ragioni di accessibilità universale garantita (quali l’acqua e l’energia) o per ragioni banalmente materiali, quali la scarsità e il posizionamento dei suoli, non potranno mai essere merce scambiabile in mercati davvero aperti e liberi…».

il manifesto, 19 agosto 2018. Lucida analisi delle devastanti conseguenze territoriali che hanno gli interessi legati al cemento e all'automobile, alla base delle politiche pubbliche e la necessità di cambiare radicalmente rotta. (a.b.)

Ai sostenitori senza se e senza ma delle Grandi opere, che nel crollo del ponte Morandi vedono solo l’occasione per recriminare la mancata realizzazione della Gronda, passaggio complementare e non alternativo al ponte crollato, va ricordato che anche quel ponte è (era) una «Grande opera»: dannosa per l’ambiente e per le comunità tra cui sorge e pericolosa per la vita e la salute di tutti. L’idea di piantare dei pilastri di 90 metri in mezzo a edifici abitati da centinaia di persone e di farvi passare sopra milioni di veicoli era e resta demenziale; come lo era e resta la sopraelevata che ha cancellato e devastato uno dei fronte-mare più belli e pregiati (forse il più bello e pregiato) del mondo: non a vantaggio di Genova, ma per fluidificare il traffico del turismo automobilistico delle Riviera di Levante, così come il ponte Morandi serviva a quello della Riviera di Ponente, negli anni “gloriosi” (?) della moltiplicazione delle automobili. Con la conseguenza che quei nastri di asfalto sono stati presi in ostaggio dal trasporto merci su gomma, per il quale non erano stati pensati, lasciando languire la ferrovia, tanto che la linea Genova-Ventimiglia (principale collegamento tra Italia e Francia e, se vogliamo, con Spagna e Portogallo; altro che Torino-Lione!) è ancor oggi a binario unico.

Un’invasione di campo, quella dei Tir, moltiplicata dalla successiva produzione just-in-time che li ha trasformati in magazzini semoventi, cosa impossibile se le autostrade non fossero state messe a loro completa disposizione e la ferrovia avesse mantenuto il primato che le spetta.

Da almeno 30 anni si sa che il cemento armato, specie se sottoposto a forti sollecitazioni come il passaggio di milioni di Tir ed esposto alla pioggia, al gelo, ai veleni delle emissioni, al sale antigelo, non dura più di cinquant’anni o poco più; e forse anche meno; ma nessuno, e meno che mai i fautori della Gronda, avevano programmato una data certa per la demolizione di quel ponte che oggi richiede anche la demolizione delle case sottostanti. E oggi si scopre che i ponti autostradali nelle stesse condizioni pre-crollo sono almeno 10mila in Italia; e altrettanti in Francia, Germania e in qualsiasi altro paese. Perché la grande “esplosione” automobilistica del miracolo economico, che doveva aprire le porte al futuro, al futuro proprio non guardava: né in Italia, paese orograficamente disadatto a quel mezzo, né in paesi ad esso più consoni.

Chiunque abbia anche solo ristrutturato il bagno di casa sa che costruire è (relativamente) facile; demolire è più complicato, rimuovere (le macerie) è difficilissimo; anche se forse non sa che smaltirle è devastante, soprattutto in Italia dove scarseggiano gli impianti di recupero e mancano le leggi per promuovere l’utilizzo dei materiali di risulta. Così, del futuro di tutti quei manufatti stradali non ci si è mai occupati, nonostante che oggi, “cadendo dalle nuvole”, si scopra che la loro demolizione e sostituzione rientra nell’ordinaria, perché necessaria, manutenzione.

No. Il futuro del ponte Morandi non era la sua demolizione; era la Gronda: 70 e più chilometri di gallerie e viadotti (in cemento armato) lungo le alture di Genova: un’opera devastante in uno dei territori più fragili della penisola, come dimostrano gli smottamenti e le alluvioni sempre più gravi che ormai colpiscono la città quasi ogni anno. E cinque miliardi, ma probabilmente molti di più, regalati ai Benetton con l’aumento delle tariffe autostradali in tutta Italia invece di destinare quelle e altre risorse al risanamento di un territorio ormai vicino al tracollo; il tutto per liberare il ponte, se fosse rimasto in piedi, da non più del 20 per cento del suo traffico…

Non c’è esempio che spieghi meglio quanto le risorse destinate alle Grandi opere inutili e dannose siano sottratte al riassetto idrogeologico del territorio e alla manutenzione di ciò che già c’è, abbandonandolo a un degrado incontrollato: lo stesso vale per il Tav (Torino Lione, ma anche Genova-Tortona), il Mose; la Brebemi (che vuol dire Brescia-Bergamo-Milano, ma che stranamente non passa per Bergamo) le autostrade in costruzione in Lombardia e Veneto; il ponte sullo stretto (altro che ponte Morandi!) che ha già divorato più di 500 milioni; un gasdotto che attraversa territori in preda a eventi sismici quasi permanenti invece di ricostruire quei paesi crollati per incuria e puntare all’abbandono dei fossili. E così via. Con altrettante opportunità di creare lavoro finalmente utile.

E giù a dare del “troglodita”, del nemico del progresso, dell’oscurantista medioevale a chi, in nome della salvaguardia del territorio, della convivenza sociale, della necessità di mettere in sicurezza, e possibilmente di valorizzare, l’esistente, si oppone alle tante Grandi opere inutili e devastanti promuovendo l’unica vera modernità possibile, che è la cura e la manutenzione del proprio territorio, che è anche difesa di tutto il paese e dell’intero pianeta: da restituire alla cura di chi vi abita, vi lavora e lo conosce a fondo. Si discute di queste cose prigionieri di un eterno presente, senza passato né futuro, come se tutto dovesse continuare allo stesso modo; mentre si sa – o si dovrebbe sapere – che tra non più di due o tre decenni, se vorremo sopravvivere ai cambiamenti climatici che incombono, saremo costretti, volenti o nolenti, a cambiare radicalmente stili di vita, modi di coltivare la terra e di nutrirci, uso dei suoli, modalità di trasporto. Con tanti saluti sia al ponte Morandi, da non ricostruire, che alla Gronda, da non realizzare.

il manifesto, il Fatto Quotidiano, 19 e 17 agosto 2018. Articoli di Andrea Fabozzi e Peter Gomez. Autostrade non si scusa per il crollo del ponte. La sua strategia è quella di attendere i tempi della giustizia, forte di un contratto capestro, in parte ancora secretato. (m.p.r.)

il manifesto, 19 agosto 2018
AUTOSTRADE RISPONDE A CONTE

RESPONSABILITÀ DA PROVARE
di Andrea Fabozzi
«Genova. Per la decadenza della convenzione parte la battaglia legale, l'amministratore Castellucci può attendere i "tempi della giustizia" che il presidente del Consiglio ha detto di non voler aspettare. Il governo stanzia altri 28,5 milioni per l'emergenza. Il ministro Toninelli si prende altri otto giorni per informare il parlamento»

Per un governo che parla tanto, una controparte che misura le parole. Autostrade rifiuta di scusarsi per il crollo del ponte, lo fa solo per «essere apparsa distante» dopo, e si prepara a una lunga battaglia legale. La decadenza della concessione è più lontana di quanto Salvini, Di Maio e Conte sperano e raccontano. La lettera che il ministero delle infrastrutture ha spedito ad Autostrade, al di là dei toni drammatici imposti dalle dimensioni della tragedia, non è altro che l’attivazione della procedura, lunga ed eventuale, prevista dalla convenzione di concessione. La firma in calce alla lettera è quella del direttore del servizio di vigilanza sulle concessionarie autostradali, Vincenzo Cinelli. Il quale, fin dal decreto di nomina che è giusto di un anno fa, ha tra i suoi compiti quello di «vigilare sull’adozione da parte dei concessionari dei provvedimenti necessari ai fini della sicurezza».

La strategia di Autostrade, che ha messo in campo tre studi legali (civile, penale e amministrativo) e un consulente per la comunicazione, è chiaramente quella di affidarsi alle verifiche e ai tempi della giustizia. Cioè all’inchiesta penale già partita dove il governo ha detto di volersi costituire parte civile, quando però potrebbe essere tra gli indagati viste le responsabilità ministeriali. «È nostro interesse che la giustizia faccia il suo corso», ha affermato l’ad Castellucci che è sicuramente nella condizione – al contrario di quanto dichiarato dal premier Conte – di poter aspettare i tempi della giustizia. Se il presidente del Consiglio – da curriculum «esperto di diritto contrattuale» – ha spiegato ai colleghi di governo che la revoca può essere ottenuta anche fuori dalla convenzione, e quindi senza la clausola capestro che prevede l’obbligo per lo stato di indennizzare Autostrade per miliardi, del suo ottimismo c’è appena una traccia nella lettera ufficiale. Un inciso in cui il ministero «si fa riserva di esperire tutte le iniziative di tutela apprestate dall’ordinamento giuridico».

L’ipotesi allo studio è che, malgrado la convenzione, possa essere fatto valere l’articolo 1453 del codice civile che disciplina la risoluzione dei contratti per inadempimento (tra gli inadempimenti di Autostrade c’è, oltre a quello da dimostrare di avere tutta la responsabilità del crollo, quello certo di non garantire più il transito). Una causa civile però ha tempi molto più lunghi di quella penale. Ed è alternativa alla costituzione in giudizio come parte civile nel processo penale. Ben attento (e ben consigliato) a non concedere spazi sul versante dell’ammissione delle colpe, l’ad Castellucci ieri ha tenuto a precisare che il mezzo miliardo circa che Autostrade mette a disposizione è «totalmente indipendente da quello che verrà accertato». Malgrado Di Maio abbia subito detto che «lo stato non accetta elemosina», la disponibilità a costruire un altro ponte in acciaio (in otto mesi!) è precisamente quello che alla società è stato chiesto nella lettera del ministero, dove si parla di «iniziative di risarcimento anche in forma specifica».

Il governo intanto ha deciso di stanziare altri 28,5 milioni, prelevati dal fondo per le emergenze nazionali, per le prime necessità legate alla viabilità e all’accoglienza degli sfollati. Lo ha fatto al termine dei funerali di stato, in una riunione lampo del consiglio dei ministri in prefettura a Genova che era stata esclusa appena ieri da Di Maio. Ma che si è resa necessaria su pressione del presidente della regione Toti, visto che i 5 milioni del primo stanziamento erano del tutto insufficienti.
Anche il presidente della camera Fico ha convocato una riunione dei capigruppo a Genova, assai informale perché si sono riuniti i rappresentati dei partiti presenti in città. L’obiettivo era quello, richiesto da giorni dalle opposizioni, di portare il governo a riferire in parlamento oltre che sui social. Parzialmente centrato, visto che il ministro Toninelli ha respinto la richiesta di Pd, LeU, Fratelli d’Italia e Forza Italia di presentarsi subito alla camera, preferendo in questo caso prendersi più tempo «per l’istruttoria». È immaginabile che avrà bisogno di buoni argomenti per rispondere alle domande sulle responsabilità della vigilanza ministeriale, e così riferirà alle commissioni riunite il 27 agosto. E poi all’aula, ma a settembre.



il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2018
AUTOSTRADE, UN CONTRATTO CAPESTRO

E LE OSCENE ACROBAZIE DEI MEDIA PER NASCONDERE IL COGNOME BENETTON
di Peter Gomez

C’è qualcosa di osceno nella protervia con cui Autostrade per l’Italia, davanti ai cadaveri, cita contratti e penali. L’idea che una società, miracolata da una concessione statale priva di senso economico e sociale, ricordi che in base ai documenti firmati avrebbe diritto a 20 miliardi di euro anche se venisse provata la sua responsabilità per i morti di Genova è un fatto che scuote le coscienze. Un accordo del genere (oltretutto in parte coperto da segreto di Stato) è un contratto capestro. Chiunque coltivi ancora in sé un minimo senso di giustizia può facilmente capire quale sia la truffa di quella concessione ultra decennale prolungata in tutta fretta.

Secondo il contratto anche in caso di accordo rescisso per colpa grave alla società controllata dalla famiglia Benetton spettano per anni versamenti miliardari. Non abbiamo idea del perché politici di diverso colore nel tempo abbiano accettato tutto questo. Sappiamo però che un accordo del genere autorizza le ipotesi peggiori. Che esulano dalla semplice incapacità e inettitudine di tanti governanti protagonisti dell’affare. Più volte in passato noi e altri giornalisti, a partire dai colleghi di Report, abbiamo denunciato e raccontato lo scandalo di queste concessioni. Ma quelle storie e notizie scomparivano presto dai media. Troppo potenti e ricchi i concessionari dello Stato, troppo importanti gli investimenti pubblicitari dei Benetton, perché editori e direttori ricordassero quale era il loro dovere.

Ora, dopo ridicoli tentativi di occultare la verità prendendosela con i No gronda (contrari a un’opera che quando sarà ultimata non porterà alla chiusura del ponte), la morte e la distruzione si occupano purtroppo di rimettere a posto le cose. Dal 2015 chi lavorava sotto il ponte era costretto a ripararsi dalla caduta di pezzi di ferro con delle reti. Le segnalazioni ad Autostrade erano rimaste senza seguito. E solo pochi mesi fa, con procedura d’urgenza, era stata indetta una gara per le riparazioni di piloni e tiranti. Questo basta per far comprendere che a Genova chi poteva e doveva intervenire non ha voluto farlo per tempo.

Ma non è tutto. Perché, mentre si scava ancora tra le macerie, Autostrade e i suoi azionisti comunicano che in 5 mesi sono in grado di rifare il ponte. Dimostrando che dietro alle loro passate scelte c’era solo la volontà di moltiplicare utili già scandalosamente alti.

Noi non sappiamo come finirà questa storia. Sappiamo però che se vogliono avere ancora diritto di cittadinanza in questo Paese ex ministri, ex premier, ex sottosegretari protagonisti dell’affare e la famiglia Benetton devono presentarsi agli italiani per chiedere con umiltà perdono. Spetta invece al Parlamento il compito di trovare la strada legislativa e di diritto per annullare quella clausola sui soldi da versare ad Autostrade, in tutta evidenza vessatoria per i contribuenti. Sperando che questa volta i servi dei concessionari di Stato presenti in gran numero alla Camera e al Senato trovino la dignità di tacere. E che invece la stampa italiana ancora oggi impegnata in surreali acrobazie per non mettere nei titoli il cognome Benetton, trovi finalmente il coraggio di parlare.

il manifesto, il Fatto Quotidiano, la Repubblica, 18 agosto 2018. Articoli di Andrea Fabozzi, Stefano Feltri, Paolo Griseri. L'avvio dell'iter di revoca e il processo che ha portato alla privatizzazione. Con riferimenti. (m.p.r.)



il manifesto
IL GOVERNO
REVOCA DELLA CONCESSIONE MALGRADO I CODICILLI
di Andrea Fabozzi

«Strage di Genova. Il vicepremier Di Maio attacca «azzeccagarbugli e professoroni» che avvertono sui rischi del mancato rispetto delle procedure contro Autostrade per l'Italia, con il pericolo che lo stato debba pagare un indennizzo: «I 39 morti sono una giusta causa». Ma parte «formalmente» la lettera che avvia l'iter della decadenza»

Un’offensiva mediatica a 5 Stelle. Di fronte alle difficoltà della procedura di revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia, annunciata come cosa fatta il giorno dopo la strage di Genova e poi riportata tra le cose da fare, il governo riempie di annunci la vigilia dei funerali di stato. Ma cancella il consiglio dei ministri straordinario che avrebbe dovuto tenersi oggi a Genova per i primi provvedimenti.

In una gara interna all’esecutivo, il ministro delle infrastrutture e trasporti Toninelli brucia di qualche minuto il presidente del Consiglio, e alle 19.30 annuncia su facebook: «Ho una notizia importantissima da darvi». È la stessa già data con una nota stampa la sera prima, giovedì. La «comunicazione formale ad Autostrade per l’Italia chiedendo di far pervenire entro 15 giorni dalla data odierna una dettagliata relazione». L’avvio cioè della procedura di revoca come prevista dalla convenzione del 2007. Una lettera che solo ieri, informa subito dopo il presidente del Consiglio Conte, anche lui su facebook, è stata «formalmente inviata».

Anche i tempi sono indicati nella convenzione, e sono più lunghi di quelli che nel frattempo Salvini ha dato durante un comizio: «Alcune settimane, forse qualche mese». I mesi saranno cinque o sei. A meno che «il fatto non costituisca reato», e forse su questo inciso dell’articolo 7 lettera d) della convenzione che il governo intende far leva. Serve però una sentenza, servono «i tempi della giustizia». L’avvocato Giuseppe Conte, che ha detto di non poterli aspettare, scrive dunque che «il disastro è un fatto oggettivo e inoppugnabile e l’onere di prevenirlo era in capo al concessionario». Di Maio traduce: «La giusta causa per la revoca – scrive ai parlamentari M5S – non è da rintracciare in codicilli o commi da azzeccagarbugli, la giusta causa sono i 39 morti. E ogni volta che qualcuno come Consob o qualche professorone ci dirà che dobbiamo stare attenti ai mercati e agli iter burocratici, rispondetegli che se vogliono possono andarlo a dire alle famiglie delle vittime».

È evidente l’inseguimento nei toni alla comunicazione di Salvini. Nella sostanza il rispetto dell’iter burocratico è una garanzia che la procedura di revoca possa andare a buon segno. Evitando che si trasformi in un boomerang per lo stato, costretto a pagare penali. E non è da trascurare l’avvertimento dell’amministrativista Clarich, che ieri sul Sole 24 ore ricordava che la giustizia contabile può agire contro gli amministratori pubblici nel caso di danni all’erario. Ragionamenti da «professorone», secondo il lessico che Di Maio copia in questo caso a Renzi.

L’aggiotaggio invece non è un capriccio della Consob ma un reato previsto dal codice penale. Ieri in borsa la quotazione di Atlantia ha fatto ancora una volta su e giù al ritmo delle dichiarazioni dei ministri, chiudendo con un piccolo rimbalzo (+5,6%) dopo il tonfo di giovedì (-22%). Prima però degli annunci serali di Toninelli, Conte e Di Maio. Annunci accompagnati da impegni per i prossimi mesi, anzitutto «desecretare tutti i contratti dei concessionari autostradali», Di Maio lo ripete da tre giorni; di segreto ci sono alcuni allegati. Conte promette che sarà rafforzato il servizio ispettivo del ministero dei trasporti, impegno sacrosanto ma contraddittorio per chi ha già dato tutta la responsabilità dei mancati controlli ad Autostrade. Conte deve però constatare che «purtroppo arriviamo al governo un po’ tardi» e i contratti non si possono rivedere. «Man mano che scadono imposteremo queste operazioni sulla base di nuovi principi», peccato però che i principali contratti scadranno nel 2030, 2042 e 2050. Poi assicura che «d’ora in avanti tutti i concessionari saranno vincolati a reinvestire buona parte degli utili nell’ammodernamento delle infrastrutture». Sacrosanto, ma non è chiaro come.

Poi è Di Maio, non Conte, a scrivere che «se servirà» il Consiglio dei ministri (non oggi) farà un decreto legge speciale per Genova e la Liguria. Il vicepremier aggiunge un nuovo attacco al Pd anche se, non avendo trovato le prove, non insiste sui finanziamenti di Benetton al partito. «Molti dei personaggi politici che hanno permesso tutto questo oggi o lavorano per Autostrade per l’Italia o sono loro consulenti». Fa un solo nome «uno su tutti, Enrico Letta è passato per il cda delle autostrade spagnole comprate dai Benetton». Ieri lo aveva scritto questo giornale, alla disperata ricerca di appigli per le accuse del vicepremier, trascurando di precisare che Letta si è dimesso a maggio dal cda di Abertis.
L’operazione Atlantia-Abertis non è ancora perfezionata e non è escluso che, adesso, per il gruppo italiano sarà più difficile fronteggiare l’indebitamento necessario a concluderla.

il Fatto Quotidiano
COSÌ LA POLITICA HA REGALATO LE AUTOSTRADE AI BENETTON

ECCO CHI È STATO
di Stefano Feltri
«Conflitti d’interessi e veloci cambi di casacca da arbitro a giocatore: questa non è affatto una storia imprenditoriale, anche perché nessuno ha rischiato un euro. 25 anni dopo»




Ancora in questi giorni qualcuno prova a spacciare quella di Autostrade per l’Italia come una storia economica, perfino imprenditoriale. Non è così, è una vicenda tutta politica, anzi, di un establishment ristretto che ha avuto tutti i ruoli nella vicenda. Gian Maria Gros Pietro e Pietro Ciucci sono il presidente e il direttore dell’Iri, la holding pubblica delle partecipazioni, che nel 1999 vendono la quota di controllo delle Autostrade di Stato alla società della famiglia Benetton. Pochi anni dopo li ritroviamo come presidente delle Autostrade privatizzate (Gros Pietro) e presidente dell’Anas (Ciucci), cioè della società pubblica che affida le strade in concessione ai privati. Enrico Letta era sottosegretario nel governo Prodi che nel 2006 – su iniziativa del ministro Antonio Di Pietro – bloccò la fusione tra Autostrade e la spagnola Abertis, oggi è nel consiglio di amministrazione di Abertis, entrato un attimo prima che ripartisse, nel 2017, il progetto di fusione.

Con la parziale eccezione del governo Monti, ogni esecutivo degli ultimi 25 anni ha fatto di tutto per consegnare a una famiglia – nota per il suo abbigliamento democratico e per le campagne fotografiche di Oliviero Toscani – la più grande rendita pubblica, quella della gestione di autostrade costruite con fondi pubblici. Dalla cessione di Autostrade l’Iri incassa 7 miliardi circa. Nel 2002 i Benetton salgono dal 30 a oltre il 60 per cento: si indebitano per 7 miliardi che poi scaricano subito sulla società, fondendo il veicolo finanziario con Autostrade. Tradotto: non gli costa un euro. I Benetton non hanno mai fatto aumenti di capitale, non hanno mai immesso risorse fresche nell’azienda e questo rende difficile classificarli come imprenditori. Eppure il valore è cresciuto. Nonostante il titolo sia sceso del 22 per cento dopo il disastro di Genova, oggi Atlantia (il gruppo che contiene Autostrade) vale in Borsa ancora 15 miliardi, il doppio di quello che lo Stato incassò 25 anni fa.

La spiegazione si trova in un libro che ha avuto una circolazione semiclandestina, I signori delle autostrade (Il Mulino), dell’economista Giorgio Ragazzi, collaboratore del Fatto. Scrive Ragazzi: “Ripensando alla privatizzazione, si può immaginare perché fosse stato difficile trovare investitori disposti a pagare un prezzo elevato per la Autostrade, gli investitori, soprattutto quelli esteri, percepivano il rischio che lo Stato avrebbe potuto essere poco accondiscendente in futuro, nella determinazione delle tariffe”. Quel rischio i Benetton lo hanno disinnescato in modi che sarebbero stati impossibili per un investitore straniero. Hanno presidiato quell’intreccio di scambi ricambiati che è stato nobilitato dall’etichetta di “capitalismo di relazione”.

La prova è a disposizione di tutti: controllate quanti giornali hanno scritto del più grave incidente stradale della storia d’Italia, 40 persone muoiono per un bus che finisce fuori strada vicino ad Avellino. Finiscono a processo con varie accuse tra cui l’omicidio colposo plurimo vari dirigenti di Autostrade, incluso l’amministratore delegato di Atlantia Giovanni Castellucci. I grandi giornali ignorano la vicenda, ci sono più articoli sulle dichiarazioni di rito dei politici dopo la strage che di cronaca giudiziaria sul processo.

Le Autostrade hanno finanziato per anni i politici, poi sono passate a metodi più indiretti, dal sostegno a varie iniziative politiche o editoriali (non mancano mai come sponsor a iniziative sulla sicurezza o festival editoriali: i soldi sono graditi a tutti). Il loro soft power ottiene come risultato una sorta di mimetismo: nessuno sovrappone le campagne dei Benetton (l’ultima sui migranti) al capitalismo della rendita di cui sono protagonisti; il responsabile delle relazioni istituzionali Francesco Delzio fa l’editorialista di Avvenire dove spesso denuncia lo strapotere delle lobby, le associazioni dei consumatori invece di protestare per i rincari sono coinvolte dall’azienda in una “Consulta per la Sicurezza e la Qualità del Servizio” così vengono sedate. E da 25 anni, come ricostruiamo qui accanto, Atlantia e i Benetton ottengono rincari e leggi su misura senza che (quasi) nessuno protesti. Salassi accolti come calamità naturali. Almeno fino ai 38 morti di Genova.

la Repubblica
BLITZ, PRESSIONI E FAVORI

PER CONQUISTARE LE AUTOSTRADE
di Paolo Griseri
«I vent’anni di relazioni pericolose tra governi, partiti e grandi gruppi, da Benetton a Gavio, che hanno garantito alti guadagni ai concessionari»

Una lunga storia di blitz e pressioni, con un obiettivo principale: ridurre al minimo i bandi di gara. In sostanza trasferire il più possibile dal pubblico al privato il monopolio sulle autostrade che lo Stato aveva realizzato e gestito in proprio fino al 1999. In quasi vent'anni il sistema delle concessioni ha finito per rovesciare il rapporto fisiologico tra il proprietario di un'opera e chi ottiene il diritto allo sfruttamento. Con il secondo in grado (non sempre ma spesso) di dettare legge. Come se l’inquilino imponesse le sue condizioni al padrone di casa.

Tutto inizia con la privatizzazione della società Autostrade. Decisa da Romano Prodi quando guidava l’Iri e messa a punto dallo stesso Prodi come presidente del Consiglio. Nel ‘98 a Prodi succede D’Alema e tocca a lui gestire la fase finale e decisiva dell’operazione. Nel 99 l’Iri mette finalmene in vendita Autostrade. Il 70 per cento andrà sul mercato e il 30 per cento finirà ad un’azionista forte. Quale? Sul tavolo del consiglio di amministrazione del 22 ottobre arriva una sola offerta, quella dei Benetton e di un gruppo di veicoli finanziari che costituiscono la cordata. Il governo D’Alema dà il via libera definitivo. Benetton paga 5.000 miliardi di lire (circa 2,5 miliardi di euro) mentre altri 8 mila miliardi verranno dalla collocazione in Borsa del 56 per cento della società. All’epoca l’operazione viene giudicata positivamente dal governo. Si voleva evitare che una delle principali infrastrutture del Paese finisse in mani straniere. A quel momento l’unica offerta alternativa era quella di un gruppo australiano che si ritirò alla vigilia del consiglio di amministrazione decisivo.
Vinse così la logica della tutela dell’italianità della società, una logica che ha spesso trovato estimatori sia a destra che a sinistra e che tanti guai ha creato all’economia italiana (come dimostra la vicenda Alitalia). Anche in questo caso una parte della sinistra plaude ai capitani coraggiosi. Benetton si sarebbe presto ripagato dei 2,5 miliardi investiti nel ‘99: nei 12 anni successivi Autostrade ha realizzato utili complessivi per 7,7 miliardi restituendo all’azionista forte l’investimento iniziale.
Nel 2003 la politica deve di nuovo intervenire. Si tratta di autorizzare la fusione delle diverse società della cordata Benetton. Per evitare che il bilancio di quella che incassava i pedaggi non fosse allineato con il bilancio di chi si era indebitato per rilevare Autostrade. Operazione che i concessionari preferirebbero avvenisse con un semplice decreto interministeriale, così come prevedeva la legge. Il ministro dell’Economia dell’epoca, Giulio Tremonti, si oppose a questa strada perché, si disse allora, quella fusione non poteva essere considerata un’operazione di routine. Il governo Berlusconi fu così costretto dal suo ministro dell’Economia ad inserire un emendamento nella legge Finanziaria approvata in zona Cesarini il 24 dicembre 2003.
Ma il vero scontro con i signori del casello comincia alla fine del 2014. Quando Maurizio Lupi, ministro dei Trasporti del governo Renzi, inserisce un emendamento all’articolo 5 dello Sblocca Italia che consente alle società di prorogare le concessioni al 2038. Mantenendo il business senza partecipare a gare. Se ne avvantaggia, oltre a Benetton, anche il gruppo Gavio, che controlla il 20 per cento della rete autostradale italiana. La battaglia che la mossa di Lupi scatena ha strascichi ancora oggi. Dopo la tragedia di Genova Di Maio ha accusato il governo Renzi per quella mossa favorevole ai concessionari. Ma proprio il Pd nel 2016, approvando il nuovo codice degli appalti aveva proposto e approvato con i 5 stelle l’abolizione della norma. E aveva cercato di introdurre l’obbligo per le società concessionarie di mettere a gara l’80 per cento dei lavori di manutenzione riservando alle aziende satellite in house solo il 20 per cento. Un dimezzamento rispetto al 40 per cento assegnato prima alle aziende dei concessionari. È la rivolta.
I signori delle autostrade scatenano i sindacati e minacciano migliaia di licenziamenti. Una pressione fortissima. Stefano Esposito, Pd, relatore del codice appalti al Senato, ricorda così: «C’era un clima molto pesante. Una sera sulla terrazza dell’Hotel Cesari, nel cuore di Roma, incontrai Giovanni Castellucci. L’ad di Autostrade fu molto sgradevole e arrogante. Ma non fu l’unico. I sindacati credettero alla minaccia dei concessionari e organizzarono manifestazioni di piazza con cartelli che si scagliavano contro la mia persona. Alla fine, dopo mesi di battaglie, anche dentro il Pd ci fu chi preferì cedere e tornammo alla ripartizione degli appalti 60/40».
Una sconfitta. I signori del casello avevano vinto e hanno continuato a farlo fino al dramma di Genova. Se è vero che né Graziano Delrio, né Danilo Toninelli sono riusciti a pubblicare sul sito del ministero gli allegati finanziari delle concessioni. Perché i politici passano in fretta, il tempo di una legislatura. Chi deve realizzare un’autostrada, invece, resta per decenni. E, soprattutto, deve andare d’accordo con tutti e con tutti fare accordi.

Riferimenti


Ricordiamo un articolo del 2016 ripreso da eddyburg.it "Benetton, nelle carte segretate l’autostrada dalle uova d’oro" su come le concessioni autostradali siano sono state fonte inesauribile di trasferimento di ricchezza dai contribuenti alle società private.


Il 2017 è stato l'anno più luttuoso per l'attivismo in difesa dell'ambiente e della terra di comunità locali contro le espulsioni e lo sfruttamento delle grandi corporazioni, gruppi paramilitari e governi. Sono almeno 207 gli attivisti uccisi l'anno scorso, nella maggior parte associabili alle lotte contro l'agribusiness del caffè, olio di palma e piantagioni di banane. Non solo in Colombia, Filippine e Brazile, ma in tutto il mondo, è sempre più pericoloso mettersi contro i poteri dell'economia globale.

Fonte: Nell'immagine Maria do Socorro, che lotta contro la fabbrica di alluminio - la Hydro Alluminio di proprietà norvegese - ritenuta responsabile dell'avvelenamento dell'acqua di Barcarena, in Brazile. La foto è di Thom Pierce (Guardian, Global Witness) ed è tratta dal rapporto «At what cost» a cura di Global Witness, un' ente che conduce inchieste, ricerche e campagne sulla relazione tra distruzione ambientale da una parte e conflitti, corruzioni e affari dall'altra. (i.b.)

Place. 13 giugno 2018. Lungo il confine tra USA e Mexico vivono due dozzine di tribù di indiani d'America. Il muro di Trump, oltre a non essere la risposta all'immigrazione, è un attacco ai diritti e sovranità di questi popoli, a cui è impedito l'accesso alla loro terra ancestrale. (i.b.)

AMERICAN INDIANS FEAR US-MEXICO
BORDER WALL WILL DESTROY ANCIENT CULTURE

Ellen Wulfhorst

EL PASO, Texas - To the Ysleta del Sur Pueblo Indians, the water of the Rio Grande that divides the United States and Mexico sanctifies religious rites and purifies their hunts.
Indian communities living miles away use the river to send messages to fellow tribes downstream, tribal chief Jose Sierra told the Thomson Reuters Foundation.

"They go to the river and talk to the river, and the river sends it down," said Sierra, a barrel-chested man with long, greying hair and thick turquoise bracelets at his wrists.

"They put messages in the river that come to us through the water."

But now tribal leaders fear a proposed border wall as envisioned by U.S. President Donald Trump will sever access to the river, spoiling traditions and ruining ancient culture.
The Ysleta and more than two dozen American Indian tribes - designated by U.S. law as sovereign nations governing themselves - live along the 1,900 mile (3,060 km) border with Mexico, with some vowing to fight the wall to defend tribal culture.

Rene Lopez, a member of the Ysleta Traditional Council, said if the chief asked tribal members to knock down the wall, "we'll do it. That's how deeply it means to us."

For while Trump and his supporters say a security wall is necessary to stop drug smuggling and illegal immigrants from Mexico, Indian leaders say otherwise.

"Back off, Trump. Let us be," said Sierra, whose ancestors settled in Texas in 1682 after being forced out of New Mexico during violent conflicts with Spanish settlers.
But experts say the likelihood of stopping the wall with claims of Indian sovereignty or freedom of religion is unlikely, even though for some its impact could be dramatic.

Cut off from land

The Tohono O'odham people in southern Arizona live on a reservation that straddles the border and would be cut in two.

"It would be just devastating," said Verlon Jose, vice chairman of the Tohono O'odham, told the Foundation.
"Walls are not the answer to the issues that we face ... Walls have never solved problems, whether that's in terms of immigration, in terms of militarization."



Border security could be boosted with more hi-tech tower systems that provide long-range surveillance, tracking and detection and by immigration reform allowing more migrants to work temporarily in the United States without having to sneak in, Jose said.

Native people globally have been blocked from sacred grounds, burial places and ancestral migration routes by borders and walls, said Christopher McLeod, director of the California-based Sacred Land Film Project who has documented sacred sites.

A study by U.S. geographer Reece Jones from the University of Hawaii found that in 1990 there were 15 border walls in the world — but now there are almost 70.

"When people are cut off from their land, from their sacred lands and their ceremonies, then the culture dies. Their spiritual vitality is weakened," McLeod told the Foundation.
"A border and a wall are not just symbols. They're very physical insults."

Many Ysleta, a tribe of about 4,200 members, live in low mudbrick houses on a dusty west Texas reservation, already rankled at needing the U.S. government's permission to visit the river.

Fencing guarded by U.S. Border Patrol agents divides Ysleta land from Mexico and from the river bed, and agents must unlock secured gates to let tribal members through. The fencing dates back to a previous U.S. border security effort in 2006.

"We've been doing that for 350 years, and now they want us to ask for permission? It's like you asking permission to go to church," said Sierra.
But arguments of religious and cultural freedom are not likely to hold much weight against the wall, said Gerald Torres, an expert on federal Indian law and a professor at Cornell Law School in Ithaca, New York.

Legal rights

A 1988 Supreme Court ruling allowed the U.S. Forest Service to build a paved road on land that had historically been used by American Indians for religious rituals, Torres said.

The ruling said the government could not operate if it had to "satisfy every citizen's religious needs and desires."
"Tribes' interest in religious ceremonies can't be used to stop the federal government from pursuing its objectives," Torres told the Thomson Reuters Foundation.

Some advocates have argued that Indian tribal rights under the 2007 United Nations Declaration on the Rights of Indigenous Peoples would be violated.

Members of other border-area tribes - such as the Cocopah, the Fort Mojave and the Pasqua Yaqui in Arizona and the Kickapoo who run a casino in Eagle Pass, Texas - have also spoken out against the wall.

Even the Carrizo/Comecrudo tribe, which has neither a reservation nor official recognition, says it would be harmed.

Carrizo/Comecrudo members lived at the river centuries ago before they were dispersed by war and forced migration, Tribal Chairman Juan Mancias told the Foundation.

"We have songs we sing to that river," said Mancias, who lives 200 miles northeast of the river in Floresville, Texas.

"With the border wall, they're disrespecting who we are."

About 700 miles of fencing and wall exist, built as part of the 2006 Secure Fence Act under former President George W. Bush.

But so far no funding for the entire wall is in place. A measure by Congress two months ago provided $1.6 billion for six months work on the wall. Trump asked for $25 billion.

The Trump administration has waived two laws concerning American Indians so it can build part of the wall in California.

One law protects the rights of tribes to human remains, sacred burial objects and other historic items, and the other law protects their religious and cultural practices.
Javier Loera, who holds the title of Ysleta War Captain, said the river has sustained his people for centuries.

"The river is like the veins of our mother earth. Sever those veins, and it's catastrophic", he told the Thomson Reuters Foundation.

[Funding for this story was provided by the International Women's Media Foundation].


Tratto dal sito qui raggiungibile.


10 giugno 2018. Il padiglione di Israele alla Biennale di Architettura non solo solleva indignazione per l'arrogante e propagandistico occultamento dello spazio negato ai palestinesi, ma anche per il consenso che la Biennale sembra esprimere. (i.b.)

«Free space» è il titolo quest'anno per la 16° mostra internazionale di architettura La Biennale di Venezia. Nell'intenzione dei curatori spetta all'architettura progettare lo spazio libero e gratuito, lo spazio della condivisione e della socialità. Essa è «espressione della volontà d'accoglienza» - scrive il direttore Paolo Baratta - «progetto ispirato da generosità (…) la quale non può essere solo auspicata (..) ma promossa». Bellissime parole che incoraggiano il visitatore alla riflessione e all'esplorazione dei singoli padiglioni.

Grande è stata la mia sorpresa entrando nel padiglione di Israele. Gli architetti israeliani propongono come esempi di condivisione le città occupate dal loro esercito. Sogno o son desta?

Gli esempi di questa «splendida condivisione» si riferiscono tutti a città palestinesi: Al -Kalili (Hebron), Betlemme, Gerusalemme est. Ma perché non condividiamo Tel Aviv o Haifa dove ai Palestinesi è negato l'accesso? - mi domando - Sono forse entrata nel padiglione palestinese?
No, mi trovo nel padiglione di uno stato colonialista che considera sua proprietà un paese che non gli appartiene.

Al piano terra una zelante guardasala mi spiega che a Hebron la moschea che custodisce le tombe degli antichi Patriarchi, grazie all'occupazione israeliana del 1967, è ora usufruibile dai fedeli di entrambe le religioni. Ma che bella notizia! Peccato che Hebron sia l'esempio più spaventoso di apartheid sistematico. La moschea è divisa in due con un vetro antiproiettile da quando nel 1994 un ebreo falciò a colpi di mitragliatrice 29 mussulmani in preghiera e ne ferì 300; per accedervi i mussulmani devono sottoporsi a perquisizione e controlli da parte dei militari israeliani, mentre i coloni occupanti vanno a pregare con il mitra a tracolla. Le strade centrali dell'antica e bella città palestinese con case e negozi sono chiuse e vietate ai suoi 200mila abitanti per permettere a 800 ebrei di raggiungere la loro fetta di tempio. Nel centro della città ci sono più di 60 check-point e ogni giorno un palestinese viene ucciso, anche se nessuno lo scrive sui giornali.

Salendo al piano superiore scopriamo cosa è successo là dove sorgeva la Tomba di Rachele presso la città palestinese di Betlemme. Un santuario venerato da tutte e tre le religioni «negli ultimi tempi è stato drasticamente trasformato» scrive la didascalia. Certo: qualcuno gli ha costruito attorno un muro alto 8 metri, ha incorporato i terreni palestinesi circostanti, ha tagliato le strade di accesso e vietato l'ingresso ai non ebrei: «il sito mostra come il paesaggio divenga mezzo di scambio tra il territorio e gli eventi che lo modellano» ci spiegano gli architetti. Parole vuote per nascondere la violazione del diritto. Il muro dell'apartheid lungo 800 km, in costruzione dal 2002, è dichiarato illegale dall'ONU.

Sulla strada per la Tomba di Rachele. Foto di Gili Merin.
[presa dal dépliant del padiglione]

Un altro paradigma affascinante di free space è illustrato dal caso del quartiere arabo di Al-Buraq, raso al suolo in una sola notte nel giugno del 1967 per permettere agli ebrei di accalcarsi numerosi sotto il Muro del Pianto. Non che prima fosse inagibile tale muro, ma serviva più spazio. «Una tabula rasa aperta all'interpretazione» così scrive il testo sotto la foto di una ruspa che demolisce case palestinesi. Ed ora sotto il Muro del Pianto c'è così tanto spazio (a percorrerlo sembra un parcheggio) che da 50 anni si discute che farne senza sapersi decidere: tali incertezze riflettono – scrive il depliant del padiglione – «il conflitto per la definizione del carattere e dell'identità nazionale nello stato di Israele post-1967».

Demolizione del quartiere dei Mugrabi. Giugno 1967. Foto di David Rubinger.
[presa dal dépliant del padiglione]

La mostra prosegue con altri edificanti esempi del genere, tutti comunque incentrati sui luoghi di culto; la propaganda nazionalista israeliana preferisce presentare la guerra contro i palestinesi come una guerra di religione e tace dell'esproprio di terra, risorse idriche e sbocchi commerciali ai danni del popolo autoctono. Tace delle demolizioni di case e quartieri arabi, tace della costruzione di migliaia di alloggi per soli ebrei su terreno palestinese. Abbiamo provato a sollevare qualche dubbio con la vigile guardasala ma lei, in tutta tranquillità, ci ha risposto: «la Palestina non esiste: che problema c'è?». Insomma i lavori esposti nel padiglione di Israele sono un'offesa all'intelligenza dei visitatori, nonché un insulto all'istituzione stessa de La Biennale.

Un'istituzione culturale che si professa libera, aperta e all'avanguardia, che si offre come laboratorio di idee innovatrici e democratiche, e che invita artisti ed architetti a porre le proprie opere al servizio del benessere dell'umanità, non dovrebbe accettare nei suoi spazi opere di pura propaganda.

La Biennale non può permettere che le sue proposte progettuali siano svilite e degradate a tal segno. La stessa onestà intellettuale di tutti gli architetti che vi hanno esposto i propri progetti viene compromessa dalla presenza del Padiglione israeliano poiché i visitatori si domandano se tante belle parole e intenti non siano che una presa in giro.

«In Statu Quo» è il titolo del lavoro esposto nel padiglione: la politica dello status quo è quella che permette al governo israeliano di mantenere da decenni una delle più brutali occupazioni che la storia ricordi senza rendere conto a nessuno dei suoi crimini. Infatti come sottotitolo a «In Statu Quo» troviamo la definizione «Structures of Negotiation», quando è palese a tutti che le negoziazioni sono ferme da decenni e che questa situazione di stallo giova solo a Israele che espande sempre più i suoi confini in terra palestinese. In calce al titolo, i curatori citano Giulio Cesare, l'autore della frase latina che in italiano si legge: «nello stato in cui le cose erano prima della guerra». Ma di quale guerra stiamo parlano? La Grande Guerra che vide crollare l'impero ottomanno? Oppure quella del 1948 dopo la proclamazione dello stato di Israele, o quella del 1967 che ha prodotto l'invasione della Cisgiordania? O forse di quella permanente che sconvolge la Palestina da quando ha preso forma il progetto di insediamento coloniale ebraico? Da quale status vogliamo partire per ricostruire la pace?

Il titolo più adatto per questo padiglione sarebbe «Structure of negation» - strutture della negazione -negazione sistematica dei diritti del popolo autoctono, negazione anche del nome stesso di Palestina.
«In Statu Quo» non è solo un'offesa, ma una vergogna per La Biennale, per Venezia e per tutte le persone che confidano nella giustizia.

The submarine, 18 Aprile 2018. E' la logica dell'espulsione che spinge forzosamente lavoratori e abitanti fuori dal sistema. E' un processo globale, sistemico ed endemico che caratterizza questa fase del neoliberalismo. (i.b.)

Quelli dell’Amazzonia sono fiumi che hanno visto molte cose che oggi, purtroppo, stentiamo a ricordare. Il sangue che le loro acque hanno portato via non è l’unica memoria che rischia di scomparire. Nei giornali di tutto il mondo la foresta amazzonica è spesso utilizzata come hashtag per parlare di problemi su scala internazionale (#disboscamento, #clima, #biodiversità), ma le sue storie difficilmente riescono a oltrepassarne i confini.

La diga devia l'80% del flusso producendo enormi aree asciutte.
È passato appena un mese da quando “o deslocamento” di alcuni individui della tribù Mebêngôkre (Kayapó) ha avuto luogo, l’ultimo di una serie di spostamenti forzati cominciati nel 2012 e previsti in un rapporto del 2009 dell’EIA (Estudo de Impacto Ambiental). L’esodo di questo popolo indigeno della regione amazzonica del Mato Grosso non è il solo.
La diga ora devia circa l'80% del flusso nel serbatoio principale, attraverso un canale e in un serbatoio secondario.

Diverse tribù autoctone sono state confinate per continuare la realizzazione del complesso idroelettrico di Kararaô (oggi Belo Monte Dam) e della miniera a cielo aperto (Belo Sun), sul fiume Xingu, nonostante le numerose protestee petizioni, iniziate nel 1989 col famoso gesto dell’indigena Tuìra che mise la lama del suo macete sul volto di Jose Antonio Muniz, presidente di Eletronorte, azienda elettrica fondatrice del progetto.

Come gli uomini anche gli animali trovano le loro difficoltà — guardando il fiume non si vede l’orizzonte, ma tra le onde tre delfini rosa cavalcano controcorrente. Li chiamano boto e, secondo una leggenda che qui tutti amano raccontare, sono i seduttori delle giovani fanciulle. Purtroppo per questi animali c’è il rischio estinzione a causa delle costruzioni delle dighe: mentre sono impegnati a risalire il rio si trovano di fronte una barriera, e dal momento che non possono continuare si altera il corso dei loro cicli vitali.

L’impianto di Belo Monte sarà terminato nel 2019, la sua costruzione ha già coinvolto un totale di 400 mila ettari di foresta, dove vivono molte specie animali e vegetali, oltre che diverse comunità locali e indigene. Il progetto dell’impianto idroelettrico rischia di essere al centro dell’ennesimo disastro ambientale che colpisce non solo il Mato Grosso, ma anche il vicino Parà, danneggiando soprattutto Altamira, il comune più esteso del Brasile (160 000 km²), con una superficie poco più grande della Grecia.

Il complesso di Belo Monte sarà uno dei più grandi al mondo grazie all’autorizzazione da parte del FUNAI e dall’IBAMA, gli enti brasiliani che tutelano rispettivamente gli indigeni e l’ambiente.

Non è la prima volta che si violano le leggi che garantiscono i diritti delle tribù indigene per favorire la costruzione di mega-progetti appartenenti alla “green” economy. In Rondonia – nel nord ovest del Brasile – si trova Porto Velho, una città che in pochi decenni è cresciuta fino a contare 430 mila abitanti, incrementando la richiesta di energia elettrica. All’inizio degli anni 2000 si è discusso sul suo fabbisogno energetico e si è optato per una centrale che sfruttasse la potenza dell’acqua del Rio Madeira, l’affluente più grande del Rio delle Amazzoni.

La proposta è stata avanzata dell’IIRSA (Iniciativa para la Integraciòn de la Infraestructura Regional Sudamericana), realtà che più volte si è trovata al centro di inchieste sui piani di sviluppo. Prima della costruzione delle dighe gli abitanti dei piccoli villaggi si sono opposti con la campagna “Viva o Rio Madeira Vivo,” promosso dall’Institudo Madeira Vivo, ponendo attenzione sui danni ambientali che si sarebbero potuti verificare. Tuttavia l’IBAMA — l’Istituto Brasiliano dell’Ambiente e delle risorse Ambientali — nel 2006 ha approvato il progetto dell’IIRSA.

Con un’opera d’ingegneria, a cui ha partecipato, oltre che Eletronorte, anche l’impresa di costruzioni Norberto, sono state realizzate due lunghe dighe (Jirau e Santo Antônio) che attraversano il fiume provocando, come previsto, danni ambientali e umani. Nel 2014 una parte del fiume ha inondato strade, distruggendo case e raccolti — i ribeirinhos della comunità di San Sebastião, che si trova dall’altra parte del fiume rispetto a Porto Velho, sono dovuti fuggire all’interno della foresta trovando riparo in punti dove l’acqua non è arrivata. Si sono salvati, ma hanno perso barche, campi, case e tutto ciò che esse contenevano. A distanza di quattro anni il governo, così come la centrale, non ha mai indennizzato gli abitanti. Il villaggio, da 137 nuclei familiari, è passato a sole 13 famiglie.

La maggior parte di loro non vuole parlare di ciò che è successo, nei loro volti lo sconforto è un segno indelebile. Camminando per la via principale, fatta da una passerella di legno che costeggia il rio, molte case sono in stato d’abbandono, così come il centro culturale, la scuola e la chiesa. Una famiglia che alleva galline e pappagalli ci mostra il livello raggiunto dall’acqua durante l’inondazione — lo si intuisce guardando le pareti esterne di ogni casa, dove il colore naturale della tinta cambia. Questo perché per mesi le case sono rimaste parzialmente sotto il livello dell’acqua.

Una donna assieme al fratello e alla figlia ci portano da alcuni parenti che abitano lì vicino in mezzo alla finestra. Due uomini sono sulla riva di alcuni piccoli laghi che si sono formati con l’inondazione nella speranza di catturare qualche pesce. La bimba raccoglie delle lunghe piume di un uccello nero e bianco per fare degli orecchini, mentre la madre si ferma a raccogliere dei frutti da portare ai genitori. I due anziani hanno perso molti alberi da frutto nella loro proprietà, alcuni sono marciti altri invece sono circondati da grandi pozzanghere d’acqua.

Dopo l’accaduto, queste persone sono rimaste perché è qui che si trovano le loro radici, la loro storia, la loro vita. Per questo che hanno deciso di ricominciare, nonostante siano consapevoli che da un momento all’altro potrebbero assistere ad un’altra grave inondazione.

La centrale idroelettrica del Rio Madeira, inoltre, ha espropriato alle tribù Karitiana e Karipuna una grossa fetta del territorio che utilizzavano per le coltivazioni di sussistenza e per la pesca. Una parte della comunità indigena ha deciso di abitare nella foresta più profonda, mentre un’altra parte è stata costretta a spostarsi in una zona limitrofa di Porto Velho, nella Casa do Indio, in quanto alcuni di loro studiano o hanno un piccolo lavoro in città. Come per gli abitanti di San Sebastião, anche gli indigeni vivono in condizioni precarie e a stento riescono a costruirsi una nuova vita. Il FUNAI (Fondazione Nazionale dell’Indio) – che in Brasile si occupa delle politiche riguardanti i popoli indigeni – ha promesso loro una sistemazione più dignitosa, ma a distanza di anni ancora non si è visto un cambiamento.

A marzo del 2018 Adriano e André Karipuna sono scesi a Brasilia per rivendicare le terre della loro comunità, mentre i Karitiana hanno eletto a gennaio di quest’anno come portavoce un indio di 23 anni. Il giovane si chiama Cledson Pitana e con grandi sacrifici economici familiari sta portando a termine gli studi universitari per poter aiutare il suo popolo. “Il nostro più grande problema è il fatto che molti di noi non hanno studiato o non hanno la possibilità economica per farlo,” ci racconta Pitana. “Nessuno di noi vorrebbe stare qui in città, ma lo dobbiamo fare perché non esistono mezzi che collegano Porto Velho al nostro villaggio e noi non abbiamo macchine. Così siamo costretti a vivere qui, col nostro artigianato, in abitazioni che a stento chiamiamo case. All’esterno noi non contiamo nulla perché non abbiamo un titolo di studio, ma stiamo cercando di integrare le nostre conoscenze con quelle imposte dalla società predominante, forse così un giorno ci accetteranno, e a quel punto si potrà parlare allo stesso livello.”

Gli indigeni sono una ricchezza antropologica, non solo per il valore della loro cultura, ma anche per alcune conoscenze che altre società hanno perso nel tempo in nome dello sviluppo, così come il senso di comunità soppresso dall’individualismo. Un tesoro che è continuamente sottovalutato dai molti cittadini brasiliani, che vedono gli indigeni come delle sanguisughe che vivono sulle spalle del governo e delle associazioni. Camminando per gli edifici semi distrutti delle due comunità indigene ed entrando nelle loro case vuote la realtà però sembra un’altra, peggiore di quella riscontrata nelle favelas sparse in questo enorme paese. Nella Casa do Indio gli abitanti sono stati abbandonati, senza acqua e luce, in un luogo pieno di cani, gatti e macachi infestati di pulci con cui i ragazzini stanno a contatto. Le stanze non si possono chiamare tali, arredate con oggetti abbandonati, qualche pentola ferruginosa e dei sacchi bianchi sgualciti che si usano per conservare il riso.

In un sottotetto un gruppo di indios è impegnato a cucire orecchini e intagliare la punta legnosa di alcune frecce che venderanno al mercato dell’artigianato vicino alla vecchia stazione porto-velhense di una ferrovia fantasma. Nella stradina affianco, un’india cammina con un uomo. La si vede spesso perché tra tutte è quella più riconoscibile: indossa degli short attillati e ha i capelli tinti di un giallo aranciato. È sempre in compagnia di uomini diversi, ma nessuno degli altri indigeni accenna a lei.

Poco distante un indio raccoglie la radice di una pianta e sorridendo ci dice di succhiarla. Ha un sapore aspro e dopo qualche minuto la bocca inizia a formicolare, perdendo sensibilità. La usano come antidolorifico, ogni pianta che coltivano ha un suo valore, spiega l’uomo, ma le parole si perdono tra il rumore assordante delle cicale. Sfregando le loro ali se ne stanno annidiate sulla corteccia di enormi alberi appartenenti a quella che una volta era una terra piena di vita.

Articolo tratto dalla pagina qui accessibile.

Re:Common, 16 Febbraio. In piena campagna elettorale è stato concesso il prestito al gasdotto TAP, che il governo italiano appoggia nonostante le proteste dei territori. La sicurezza energetica non c'entra nulla, interessi politici e economici manovrano il progetto. (i.b) con riferimenti

Ieri si è svolto a Baku il quarto incontro dell’Advisory Council per il Corridoio Sud del gas. Presenti i rappresentanti dei governi interessati (per l’Italia, il sottosegretario del ministero dello Sviluppo economico Ivan Scalfarotto), ma anche il vice presidente della Commissione europea Maroš Šefčovič, che negli ultimi mesi non ha perso occasione per spendersi a favore del mega gasdotto “di priorità europea”. Lo ha fatto anche cercando di accelerare la difficile discussione interna alla Banca Europea degli Investimenti (BEI) in merito al prestito da 1,5 miliardi di euro richiesto da TAP Ag per la tratta finale del corridoio, il gasdotto TAP. E’ stato proprio Šefčovič a scrivere al presidente della Bei lo scorso luglio, assieme al Commissario per l’energia Miguel Arias Cañete, ricordando l’urgente necessità di capitali del consorzio costruttore, a cui anche la Bei era chiamata a fare fronte.

E così alla fine la Bei ha concesso il prestito, ma non senza un significativo “aiuto” da parte della Commissione europea. Per portare il suo risultato a Baku, lo scorso dicembre la Commissione ha infatti deciso di garantire la copertura del rischio sul prestito della BEI tramite il Fondo europeo per gli investimenti strategici – EFSI (link).
Chissà quanto gli stessi Šefčovič e Cañete si saranno spesi per questo. Il dato di fatto è che sebbene sia la Bei ad aver concesso il prestito, sarà la Commissione europea a farsi carico del rischio, sempre con risorse pubbliche quindi.

Al netto della retorica sulla sicurezza energetica, a cui oramai non crede più nessuno, e delle dichiarazioni di intenti uscite ieri da Baku, orientate a rassicurare gli investitori – in primis i colossi della finanza privata, ovvero le grandi banche, ma anche i fondi investimento, i fondi pensione, e i gestori di capitali che potrebbero fare la differenza e dare la spinta necessaria alla costruzione – la verità è un’altra. Ovvero che senza una garanzia pubblica la sostenibilità economica del gasdotto rimane una chimera. E che a Baku le vere discussioni sono avvenute ovviamente a lato dell’incontro ufficiale.

La Baronessa Emma Nicholson, inviato della premier inglese Theresa May in materia commerciale per Iraq, Azerbaigian e Turkmenistan, non ha fatto mistero della fruttuosa cena d’affari a cui ha partecipato con il British Business Group of Azerbaijan (link).

Anche l’inviata della presidenza americana, Sue Saarnio, ha voluto comunicare che il sostegno statunitense al corridoio viene a lato di altre questioni ben più spinose, che hanno ovviamente a che fare con il conflitto in Siria e il sostegno alla NATO della Turchia. Equilibri complessi in cui l’Azerbaigian ha saputo destreggiarsi rimanendo con un piede in due scarpe, come del resto la Turchia, tra Stati Uniti e Russia, e ora Iran (link).

Curiosa anche la dichiarazione circolata dal rappresentante del governo italiano, il sottosegretario allo sviluppo economico Ivan Scalfarotto, che ha confermato il sostegno italiano al progetto indipendentemente dalle prossime elezioni. Forse per dire che non è Renzi il padrino di questo gasdotto? O per confermare la mano pesante contro le proteste sul territorio, che certamente hanno preoccupato Baku e anche la Commissione europea, e che non ha colore politico (link).

Un messaggio che ci fa riflettere molto, su cosa sia davvero importante: ascoltare le voci informate di chi dice no, chiedendosi perché, o andare avanti a prescindere, quasi che l’obiettivo ultimo del governo sia l’opera in se, e il sistema di relazioni collegato, molto più dei presunti benefici promessi dalla stessa?

Che la questione sia spinosa, e che il Corridoio sud e le sue relazioni siano sempre più tossiche, ce lo conferma l’attacco lanciato ieri dal governo dell’Azerbaigian alla rete di giornalismo investigativo OCCRP, il motore della mega inchiesta conosciuta come Azerbaijani Laundromat (di cui abbiamo parlato qui e qui).

Al centro dello scandalo, che ha portato alle dimissioni di diversi deputati a livello europeo, oltre che a un’inchiesta interna al Consiglio D’Europa e a un grande scompiglio nelle segreterie di partiti, governi e istituzioni, c’è l’ex deputato italiano Luca Volontè, sotto processo per corruzione e riciclaggio da qualche mese, dopo che nel giugno 2016 la stampa aveva fatto trapelare la sua indagine per avere ricevuto delle presunte mazzette dall’Azerbaigian.

Come riportato dal Corriere della Sera il 14 febbraio, il tribunale di Milano ha assolto Luca Volontè dall’accusa di riciclaggio. La notizia è stata ripresa brevemente anche da Il Sole 24 ore, ma di fatto è passata sotto traccia nel grande circo mediatico che segue l’attuale campagna elettorale. Non è passata inosservata invece per il governo dell’Azerbaigian, il primo a commentarla con diverse uscite stampa di alti esponenti del governo e con una non troppo velata minaccia di querela alla rete di giornalismo investigativo OCCRP, accusata di avere veicolato una campagna diffamatoria contro il paese del Caspio. Quello che il governo azero ha dimenticato di dire, e che invece si legge sul Corriere, è che il processo di Luca Volontè per corruzione internazionale continua. Forse è proprio questo il vero “problema”.

Ripreso dal sito Re:Common, qui raggiungibile.


riferimenti
Sono pubblicati su eddyburg altri articoli sulla TAP: uno scritto per eddyburg sulla scelta del GAS come fonte energetica su cui investire; un reportage sulle proteste; e un'intervista a Tomaso Montanari.

Re:Common, 6 marzo 2018. Alla sbarra degli imputati le multinazionali Eni e Shell, accusate di corruzione internazionale legata all’acquisizione del maxi-giacimento di petrolio offshore in Nigeria da loro acquisito nel 2011 (i.b)
Ieri si è aperto a Milano il processo per il caso OPL 245, che vede alla sbarra degli imputati le multinazionali Eni e Shell, i loro top manager come l’attuale ad della società italiana Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni e alcuni intermediari.

Come ormai è noto, l’accusa per tutti i soggetti coinvolti nella vicenda è di corruzione internazionale legata all’acquisizione del maxi-giacimento di petrolio offshore in Nigeria. Tecnicamente la mazzetta pagata per acquisire il blocco OPL 245 ammonterebbe a 1,1 miliardi di dollari, un fiume di denaro dispersosi in vari rivoli destinati a politici nigeriani ma, ipotizzano i magistrati milanesi, anche ad alti dirigenti del Cane a Sei Zampe. Nessuna compagnia delle dimensioni della Shell è mai andata a processo per un caso di corruzione di queste dimensioni.

Secondo Lanre Suraiu, presidente dell’organizzazione nigeriana Human and Environmental Development Agenda, “il processo milanese è un chiaro segnale per l’industria del petrolio che in Nigeria non si possono condurre affari come accaduto in passato e che è arrivato il momento per fare giustizia su un caso così importante come l’OPL 245”.

La genesi del procedimento milanese parte dalla denuncia presentata nell’autunno del 2013 da Re:Common, dalle organizzazioni inglesi Global Witness e The Corner House, e dall’attivista anti-corruzione nigeriano Dotun Oloko. In seguito alle denunce dei gruppi, sono stati aperti dei procedimenti legali in Nigeria e negli Stati Uniti. Sul caso stanno indagando anche magistrati olandesi.

Shell, Eni e i loro dirigenti hanno sempre negato tutte le accuse.

Antonio Tricarico di Re: Common, ha dichiarato: “Questo caso annuncia l’avvento dell’età della responsabilità, un mondo in cui anche le più potenti corporation non potranno più nascondere i propri errori ed evitare la giustizia”.

Per anni, la Shell ha affermato che per l’acquisizione del blocco OPL 245 aveva pagato solo il governo nigeriano. Ma dopo le indagini congiunte di Global Witness e Finance Uncovered, la società anglo-olandese ha confessato di aver trattato con l’ex ministro del petrolio Dan Etete, già condannato per riciclaggio di denaro. Etete aveva assegnato il blocco petrolifero OPL 245 alla sua società di proprietà, Malabu, mentre prestava servizio come ministro.

La prossima udienza è in programma il 14 maggio. A causa del lavoro eccessivo della decima sezione penale del tribunale e per evitare ritardi troppo lunghi il procedimento è stato infatti trasferito alla settima sezione.

L'articolo è stato preso dal sito di Re:Common, qui raggiungibile.

il manifesto, 6 marzo 2018. Ecco come le organizzazioni criminali in Veneto sono entrate nel tessuto economico attraverso un rapporto di convergenza di interessi con il mondo delle professioni e dell’impresa». (m.p.r.)

Gianni Belloni e Antonio Vesco, Come pesci nell'acqua, Donzelli, € 28

La mitologica locomotiva del Nord Est è deragliata anche perché la propaganda accademica o confindustriale non poteva eclissare il binario morto: le mafie in giacca, cravatta, colletto inamidato e valigetta 24 ore.

Se lo scenario si poteva intuire già nell’altro secolo, oggi la «distrazione» istituzionale viene certificata nell’ultima relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosi Bindi: «Le organizzazioni criminali in Veneto hanno approfittato di un’insufficiente attività di prevenzione e contrasto per mimetizzarsi nel tessuto economico attraverso un rapporto di convergenza di interessi con il mondo delle professioni e dell’impresa». Di più. Edilizia e sanità pesantemente infiltrate sono servite a finanziare la nuova frontiera della holding mafiosa: «La grande distribuzione commerciale, i settori dei rifiuti, delle energie rinnovabili, del turismo e delle scommesse e sale gioco, i servizi sociali e dell’accoglienza dei migranti».

Gianni Belloni (già coordinatore dell’Osservatorio ambiente e legalità di Venezia) e Antonio Vesco (dottore di ricerca in Antropologia all’Università di Siena e Paris I Sorbonne) documentano l’inquietante geografia di un territorio infestato dall’altra faccia del «modello di sviluppo». Come pesci nell’acqua. Mafie, impresa e politica in Veneto () è la spietata radiografia della peste mafiosa che la politica – non solo leghista – rimuove proprio mentre l’economia continua a riprodurre contagi.

È un originale, profondo, insindacabile saggio che misura, grazie al metro delle mafie, il tessuto sociale dell’ipocrisia insieme alla trama che ai buchi neri della pubblica amministrazione alterna il ricamo del business senza più regole. Belloni e Vesco hanno studiato gli squali dentro l’acquario, quanto le maree che li favoriscono. Fuor di metafora, affiorano i circuiti protetti e la rete «imprenditoriale» che azzerano il libero mercato, il controllo di legalità, l’interesse pubblico.
Come pesci nell’acqua sviluppa alcuni casi eclatanti con l’aggiunta di una sintomatica «diagnosi differenziale» del Veneto. A Verona ricostruisce il quadro dell’«altra ’ndrangheta» connessa con gli amministratori della giunta Tosi, come acclarato già da Report. A Padova, analizza l’inchiesta su Francesco Manzo che spicca perfino nell’operazione del centro direzionale di Interporto, rimasto uno scheletro: maxi-sequestro patrimoniale deciso dalla Dia di Venezia, ma revocato dal Tribunale di Padova… Poi c’è il «caso Pitarresi» che dalla provincia di Treviso conduce in Sicilia, sulla scia soprattutto dei permessi di soggiorno falsi: «Gli inquirenti calcolano che nell’arco di cinque anni, abbia maneggiato e, comunque, avuto la disponibilità di circa 15 milioni di euro».

Arriverà, invece, a sfiorare i due miliardi il giro d’affari con ramificazioni venete scoperto nell’operazione «Gambling» della Procura di Reggio Calabria. Infine, le inchieste Aspide e Catapano: secondo Belloni e Vesco, «svelano il ruolo cruciale svolto da professionisti, consulenti finanziari e procacciatori d’affari in genere nel supportare direttamente le attività delle due società. Un caso esemplare è quello del notaio Luca Arnone, di Lendinara». Come pesci nell’acqua non fa che nutrire la tesi con cui l’economista Stefano Solari dell’Università di Padova descrive il «compattamento delle reti a fronte della crescente incertezza dei mercati», in cui si annida il malaffare.

E alla fine del saggio arriva puntuale la conferma «indiretta». Attraverso lo scandalo Mose, che ruota intorno al Consorzio Venezia Nuova concessionario unico di 5 miliardi d’appalti. È il sistema politico bipartisan che diventa contraltare del vorticoso giro di soldi, fatture, assunzioni, sponsorizzazioni. Come si poteva facilmente immaginare fin dagli esordi, il Consorzio di Mazzacurati & Baita ha trasformato la laguna nella nuova Tangentopoli senza limiti. Uno degli investigatori sorride ironico durante l’intervista con Belloni e Vesco: «Era un sistema così ben congegnato che non ci poteva più entrare nemmeno un’acciuga».

È la «Mafia di Venezia» denunciata, da sempre, da chi non ha piegato la testa. È lo specchio istituzionale della presenza criminale a Nord Est. È il punto di non ritorno, quando un’impresa come Mantovani fattura in funzione del Mose, la politica (dal «doge» Galan fino ai sindaci Pd) diventa intermediazione e perfino l’ex patriarca ciellino contabilizza senza remore.

Sull'argomento vedi su eddyburg anche l'articolo di Filippomaria Pontani, da "il Fatto Quotidiano"

NENAnews, 3 marzo 2018. Un'intervista su tre robusti nodi, tra loro connessi, nel pettine della ricerca di equità, giustizia, democrazia: la condizione femminile, la Palestina oggi, il potere dell'Accademia

«Un’intervista con l’antropologa Ruba Salih, ospite ieri della rassegna "Femminile Palestinese» curata da Maria Rosaria Greco, su decolonizzazione e libertà accademica. "Il meccanismo attraverso cui una cultura giustifica la violenza gli permette di autoescludersi da essa»

A settant’anni anni dalla Nakba e la fondazione dello Stato di Israele il popolo palestinese vive da rifugiato, apolide e disperso. Dentro la Palestina storica la colonizzazione israeliana prosegue incessante, supera le frontiere ed entra nel linguaggio, la produzione del sapere, la narrativa internazionale.

Il processo di «memoricidio», come l’ha definito lo storico israeliano Ilan Pappe, ha permesso a Israele di radicare nell’immaginario collettivo miti che non hanno riscontro storico, un’idea di Israele che plasma una storia e forgia un linguaggio, quelli del vincitore.

Ne abbiamo discusso con Ruba Salih, antropologa italo-palestinese e docente alla Soas dell’Università di Londra. Con Pappe è stata all’Università di Salerno ieri per discutere di «Decolonizzazione e libertà accademica», evento della rassegna Femminile Palestinese curata da Maria Rosaria Greco.

Cosa significa decolonizzare l’accademia?

Gli effetti del processo coloniale del secolo scorso, la cui espressione attuale è l’occupazione israeliana, rimbalzano nel mondo accademico, non esistendo una produzione del sapere isolata dagli avvenimenti politici esterni. Si vede nei programmi, le politiche delle università, i testi spesso distorti in quanto riproduttori di canoni coloniali. La decolonizzazione si realizza in primo luogo individuando i legami che la produzione del sapere ha con l’apparato economico, militare e politico responsabile dei processi neocoloniali.

In secondo luogo svelando i modi in cui l’università riproduce una politica economica non neutrale ma basata su rapporti di potere: attraverso corporation e investimenti in paesi in cui tali processi sono in atto e attraverso l’ammissione di studenti di una certa classe o etnia, decidendo a priori chi diventerà élite e chi ne sarà escluso. In terzo luogo agendo sulla cultura politica quotidiana, ripensando la performatività dell’insegnamento e le modalità di rapporto con persone che non hanno la stessa tradizione pedagogica o epistemologica.

Infine, decolonizzando il sapere: analizzare come i paradigmi neocoloniali sono riproposti nella letteratura, ancora improntata sul sapere bianco, maschile, di upper class, che rappresenta culture e popoli diversi come soggetti chiusi e statici, oggetti di ricerca estranei alla loro dimensione politica e culturale. Una forma di feticismo.

In Italia sono stati cancellati eventi, anche da università, incentrati sulla Palestina. Lei è stata protagonista di un simile atto di censura. Cosa è successo?

A novembre avevo organizzato un evento con Omar Barghouti all’Università di Cambridge. L’ateneo lo ha cancellato e io sono stata accusata di non essere neutrale. Un attacco gravissimo, che prelude alla messa in discussione della mia capacità di insegnamento, e al mondo accademico in sé perché la censura è giunta nel quadro di Prevent, la legge britannica anti-terrorismo e anti-radicalizzazione. La sua oscura implementazione ha trasformato le università in luoghi di sospetto dove la libertà di espressione si è assottigliata.

E Prevent ha un capitolo dedicato alla questione palestinese, etichettata come area di radicalismo. Professori e studenti si sono mobilitati: sono state raccolte firme e il caso è stato reso pubblico. Cambridge è stata accusata di violazione della libertà di espressione e di insegnamento. E alla fine si è scusata, dicendo di aver ceduto alle pressioni di quelle che ha definito lobby. In Inghilterra sono fortissime, gruppi con la missione di limitare le espressioni di solidarietà con la Palestina.

Intervengono con diverse strategie: l’ambasciatore israeliano fa il giro delle università come ospite; attivisti pro-israeliani intervengono sistematicamente nei dibattiti per ridicolizzare la discussione, accusare di antisemitismo o filmare i presenti, compiendo violenza psicologica. Si difendono parlando di libertà di parola, che però non vale in senso positivo visto che ci impediscono di esercitare la nostra. Promuovono un’idea asettica e neo-liberal della neutralità, che si applica solo ad alcuni ambiti.

In un suo saggio su islamismo e femminismo parla della necessità di superare «l’approccio etnocentrico con cui molta parte del pensiero femminista occidentale ha per lungo tempo guardato ad altre esperienze di emancipazione, soprattutto nel mondo islamico». Siamo fermi alla visione coloniale del secolo scorso, paternalismo e superiorità intellettuale?

Oggi non esiste nemmeno più l’approccio paternalistico verso le donne dei paesi colonizzati, quella missione «civilizzatrice» che il colonizzatore si attribuiva. Si è andati oltre gerarchizzando l’umanità. Con la rinascita di movimenti neofascisti non c’è più bisogno di produrre un discorso legittimizzante: l’altro non esiste in quanto essere umano. Macerata ha palesato l’approccio suprematista che cancella il discorso culturale con cui il colonialismo si legittimava. Scompare anche la «curiosità» che mosse i colonizzatori, una conoscenza mirante al controllo in senso foucaultiano. Oggi l’interesse alla conoscenza non c’è perché una parte di umanità va esclusa ai fini dello sviluppo generale. Su questo ha un ruolo anche l’accademia dove riemergono pericolose riabilitazioni di rappresentazioni coloniali, che nella pratica pesano su studenti di una certa provenienza, sottoposti a draconiane misure di controllo.

Rientra in tale contesto anche il superficiale approccio all’Islam, etichettato come religione di oppressione femminile?

Si è fermi all’idea coloniale della donna come priva di volontà e capacità di decidere per sé. Il discorso è simbolico e politico: sui corpi delle donne si costruisce il senso della nazione e si misurano i suoi confini rispetto alle altre. La questione in Occidente non attiene alla donna in sé, ma alla necessità di giustificare l’enorme violenza che le società occidentali esercitano sulle donne.

Pensiamo alle due giovani uccise in Italia con quasi identiche modalità, Pamela a Macerata e Jessica a Milano: nel primo caso un paese si è mobilitato fino a un attentato terroristico quasi legittimato; sul secondo è calato il silenzio, seppur si tratti di identica violenza esercitata da un uomo. Il meccanismo attraverso cui una cultura giustifica la violenza gli permette di autoescludersi da quella violenza, riproponendo l’idea che il male sia altrove.

Domani, a Salerno, prenderà parte alla rassegna «Femminile palestinese», che racconta la Palestina attraverso le voci delle donne…

Il movimento delle donne in Palestina è vecchio di cento anni, inserito in una società tradizionale dove coestistono movimenti femministi, religiosi, comitati popolari, dove la resistenza è quotidiana. In Palestina dove c’è politica ci sono le donne, come ci sono nella produzione culturale e artistica di cui spesso hanno influenzato se non modificato la narrativa (penso a scrittrici come Sahar Khalifeh o poetesse come Fadwa Tuqan). Eppure per lungo tempo l’occupazione israeliana ha guardato alle donne palestinesi come soggetti fragili e quindi oggetto di minore violenza diretta. Non per umanità ma per una struttura mentale coloniale che guarda alla società palestinese come retrograda e patriarcale.

Oggi il cambiamento è dirompente: se nella Prima Intifada c’è stata una sospensione dei ruoli di genere, perché le donne partecipavano alle diverse forme di disobbedienza civile e alla costruzione della società esattamente come gli uomini, oggi le donne – lo dimostra Ahed Tamimi – hanno ripreso un ruolo su tutti i livelli, anche quello fisico, ponendo i loro corpi contro l’occupazione. È una presenza che parla agli uomini palestinesi ma anche all’occupazione, un doppio processo di de-mascolinizzazione.

Da giorni le università britanniche sono in sciopero. Quali le ragioni?

È il più grande sciopero della storia accademica britannica contro il progetto di far dipendere le pensioni dall’andamento del mercato: si profila un dimezzamento della pensione. Ciò significa che chi non viene da famiglie benestanti sarà escluso dal mondo accademico. È un attacco generalizzato alla cultura, giustificato con la bugia del deficit. Ma se gli studenti pagano in media 9mila sterline l’anno, gli atenei licenziano, ristrutturano e non reinvestono in borse di studio o programmi educativi. Al contrario raddoppiano gli stipendi dei manager e investono nel settore immobiliare. Nulla di nuovo nel panorama del neoliberismo. Di nuovo c’è il mix tra delegittimazione degli accademici e guerra dei ricchi ai poveri.

L'articolo è tratto da NENAnews, ed è raggiungibile qui

la Nuova Venezia, 26 febbraio 2018. Anche la Biennale Architettura si presta a raccontare spavaldamente la magnificenza di un progetto che già si sa che non funzionerà, che ha compromesso la Laguna e che è lo scandalo più grande d'Europa, con postilla

Il Mose in mostra alla Biennale Architettura del prossimo maggio. L'iniziativa sarà promossa dal Provveditorato alle opere Pubbliche del Triveneto con il Consorzio Venezia Nuova e sarà realizzata dallo Iuav. A essere esposti saranno infatti i progetti realizzati sul piano architettonico e paesaggistico dall'università guidata dal professor Alberto Ferlenga per "migliorare" e mitigare l'aspetto delle dighe mobili alle bocche di porto. Un incarico ricevuto dallo Iuav nel 2004 dal Consorzio Venezia Nuova d'intesa con la Soprintendenza veneziana e il Comitato di settore dei Beni Culturali, ma realizzato solo in parte, come spiega lo stesso Ferlenga.

«La parte architettonica del progetto è stata effettivamente realizzata» commenta il rettore «mentre quella paesaggistica in buona parte ancora no, anche perché non interamente finanziata. Ma in mostra si vedranno entrambe per volontà del Consorzio e del Provveditorato alle opere pubbliche che ci hanno proposto l'iniziativa, che verrà realizzata all'interno degli spazi espositivi di Thetis, appunto in occasione della prossima Biennale Architettura. Gli stessi commissari del Consorzio non conoscevano la parte di mitigazione del progetto, ed è parso interessante mostrarla in dettaglio, secondo i progetti elaborati da me e dagli architetti Carlo Magnani, Alberto Cecchetto e Aldo Aymonino. L'obiettivo era ed è quello di fare del Mose almeno in alcune sue parti, anche una struttura fruibile dalla collettività, dandole appunto anche una dignità paesaggistica».
Inevitabile che la mostra possa portare con sé anche qualche polemica, legata anche ai problemi che sta incontrando la conclusione della realizzazione del Mose. Tra gli interventi progettuali previsti dall'Iuav per il «miglioramento» paesaggistico del Mose, una collinetta con gli alberi per mitigare l'impatto della nuova isola del bacàn. Percorsi pedonali per ammirare la laguna. E una nuova penisola interrata per «coprire» il porto-rifugio ricavato a ridosso dell'Oasi di Ca' Roman. In particolare l'architetto Magnani si è occupato di ridisegnare i profili di costa della bocca di Lido e di risistemare il progetto. L'isola artificiale davanti al bacàn è stata un po' rimpicciolita e rimodellata agli angoli. L'edificio che dovrà ospitare la regia delle paratoie e le centrali elettriche in parte interrato e spostato verso la parte sud.
Lo scopo per i progettisti, è quello di inserire nell'ambiente le opere, non certo di «abbellire» soltanto i cantieri. La nuova isola, che dovrà fare da fulcro alle due schiere di paratoie (venti più venti) ancorate alle possenti spalle delle dighe di Lido e di Punta Sabbioni, sarà alta tre metri e mezzo sul lato est, verso il mare. Scenderà progressivamente verso ovest, per essere in qualche modo «integrata» nell'ambiente preesistente con alberi e verde. Un ambiente nel frattempo profondamente modificato. E' stato infatti scavato, dietro l'isola, anche il nuovo canale navigabile che in qualche modo, assicurano gli esperti, ha già modificato correnti e velocità dell'acqua.
Tra le opere di mitigazione, previsti, i percorsi per raggiungere i moli dalla spiaggia. E i posti barca che saranno ricavati nel nuovo porto rifugio verso Punta Sabbioni e verso il Lido. La bocca di Malamocco, la più compromessa dal punto di vista degli scavi e degli interventi «pesanti» con le palancole e la grande conca di navigazione, è stata affidata all'architetto Alberto Cecchetto. La proposta prevede di recuperare la passeggiata verso il faro Rocchetta. Le spalle in cemento del Mose dovrebbero essere contornate da nuovi fari stilizzati e postazioni. A Chioggia il progetto di «mitigazione» è firmato dallo studio Aymonino-Ferlenga. Qui il porto rifugio verso Ca' Roman è stato in pratica raddoppiato. Con un interramento verso la laguna che dovrà servire da «filtro» ambientale. Un'area verde per mitigare anche l'impatto visivo del pietrame. Anche qui sono previste passeggiate, posti barca, capanni per la vista della laguna, posti di ristoro.

postilla

Sull'assoluta inutilità del Mose ai fini per i quali sarebbe stato finalizzato, sui danni che l'avvio della sua realizzazione ha già iniziato a provocare, sulla vasta e profonda azione di corruzione che ha esercitato alla società veneziana abbiamo già pubblicato numerosi articoli e documenti, fin dall'inizio della sua presentazione. Ma non immaginavamo allora la dimensione del danno che la sciagurata iniziativa del ministro Franco Nicolazzi, e dalla banda dei suoi manovratori, avrebbero provocato. Per il passato rinviamo agli articoli anteriori al 2013, nella cartella MoSE del vecchio eddyburg. Tra gli articoli più recenti segnaliamo quelli di Alberto Vitucci, di Armando Danella, di Paola Somma, di Paolo Cacciari, E leggete soprattutto l'Eddytoriale n. 174, per comprendere l'oceano di corruzione che le spese dei contribuenti hanno inconsapevolmente alimentato

La Stampa, 7 febbraio 2018. Un gigantesco scandalo sembra aprirsi nell'area grigia nella quali si celano i legami tra ENI e magistratura. L'epicentro è il petrolio nigeriano
«Tra i 15 agli arresti c’è Longo, ex procuratore di Siracusa. Indagati Bigotti, coinvolto in Consip, e l’ex giudice Virgilio»
Avvocati di grido, magistrati, giornalisti, aziende. Un meccanismo perfetto, che si è inceppato solo ieri, quando in cinque sono finiti in carcere e altri dieci ai domiciliari, con ordinanze delle procure di Roma e Messina eseguite dalla Guardia di finanza. Piero Amara, Giuseppe Calafiore (ieri ancora a Dubai) e Fabrizio Centofanti sono tutti avvocati, alla guida di studi prestigiosi; Giancarlo Longo è il magistrato, ex pm di Siracusa e ora al tribunale di Ischia dopo un trasferimento disciplinare; Giuseppe Guastella è il giornalista che scrive per il periodico locale di Siracusa, “Diario”; le aziende, piccole e grandi, beneficiano dell’attività degli indagati, in grado di ottenere benefici fiscali e anche di fare uscire dalle inchieste i clienti degli avvocati.

Tra gli indagati c’è un ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio (accusato di aver aggiustato una ventina di sentenze), che avrebbe scampato l’arresto solo perché in pensione. Proprio a Virgilio deve la sua «fortuna» il gruppo Sti, riconducibile all’imprenditore Ezio Bigotti (finito ai domiciliari). Bigotti, legato al senatore di Ala Denis Verdini, è tra le 21 persone che rischiano il processo nell’inchiesta Consip, quella dove sono indagati tra gli altri il ministro dello Sport Luca Lotti e Tiziano Renzi, papà dell’ex premier e attuale segretario Pd. Secondo le ipotesi dei magistrati romani, Virgilio avrebbe «aggiustato» tre sentenze per favorire proprio Bigotti, e una di queste è proprio una gara da 388 milioni bandita dalla Centrale acquisti della pubblica amministrazione.

L’imbarazzo dei magistrati

L’inchiesta è partita nel settembre 2016 da un esposto presentato da 8 degli 11 sostituti della procura di Siracusa che scrivono ai pm di Messina, al ministro della Giustizia, alla Corte di Cassazione, alla procura generale di Catania: «È con profondo imbarazzo - è l’inizio dell’esposto - che i sottoscritti sostituti procuratori rappresentano di aver osservato fatti e situazioni tali da ingenerare grave preoccupazione per le sorti dell’amministrazione della giustizia».

Il pm in carcere

Stando all’inchiesta della procura di Messina, Giancarlo Longo per anni avrebbe «svenduto la funzione giudiziale», in cambio di soldi e viaggi, per favorire i clienti dei due avvocati siracusani Amara e Calafiore, con la creazione di fascicoli “specchio”, che il pm «si autoassegnava al solo scopo di monitorare ulteriori fascicoli di indagine assegnati ad altri colleghi»; ma anche con fascicoli “minaccia”, in cui «finivano per essere iscritti soggetti “ostili” agli interessi dei clienti di Calafiore»; e infine col metodo dei fascicoli “sponda”, tenuti in vita per «creare una legittimazione formale al conferimento di consulenze, il cui reale scopo era quello di servire gli interessi dei clienti di Calafiore a Amara».

In questo contesto, Longo avrebbe aperto un’inchiesta su un presunto complotto contro l’Eni e il suo ad Claudio Descalzi, dopo un presunto esposto anonimo in cui si chiamava in causa il banchiere di Carige Gabriele Volpi. Secondo i pm messinesi, questa “inchiesta” serviva a Longo per accedere agli atti e depistare un’altra indagine: quella sull’Eni e gli affari in Nigeria, avviata dalla procura di Milano che ieri ha fatto perquisire gli uffici di un alto dirigente indagato, Massimo Mantovani, sospetto «depistatore» con Amara, uno dei difensori dell’Eni. Temendo di essere intercettato, Longo cercava nel suo ufficio microspie: quando ne scova una chiede la bonifica ai tecnici della procura. L’avvocato di Longo, Candido Bonaventura, dice che «Longo offrirà alla valutazione del gip trancianti elementi a propria difesa».

L’indagine di Roma

L’indagine che coinvolge il magistrato Virgilio, nasce dall’analisi dei flussi finanziari delle società di Centofanti. I pm individuano 751 mila euro in Svizzera riconducibile a Virgilio. Denaro che il magistrato non ha dichiarato, poi finito su una società maltese legata agli avvocati Amara e Calafiore, che avevano proposto a Virgilio di investire garantendolo con una loro fidejussione. L’investimento riguardava una società dell’imprenditore Andrea Bacci (non indagato nel procedimento), ex socio di Tiziano Renzi. Nella stessa inchiesta, risultano indagati anche il consigliere di Stato Nicola Russo, l’ex presidente della giustizia siciliana, Raffaele De Lipsis e l’ex direttore del Consiglio di Stato, Antonio Serrao.

La fuga di notizie

L’inchiesta ha rischiato di essere stoppata da pesanti anomalie. Ad esempio, l’imprenditore Giuseppe Calafiore è partito per Dubai sottraendosi all’arresto in seguito a una soffiata. A Siracusa, poi, si sapeva con netto anticipo che Roma avrebbe fatto delle intercettazioni. E ancora: indagando su un magistrato del Consiglio di Stato e su uno della Corte dei Conti, gli investigatori hanno scoperto che erano stati avvertiti delle intercettazioni dall’avvocato Amara. Un dipendente del Mef, infine, avvertì l’imprenditore Ezio Bigotti di una richiesta avanzata dall’Antitrust per la sua società in corsa per appalti Consip. Lo stesso funzionario si era attivato per far sapere a Bigotti dell’esistenza di un’indagine penale avviata dalla procura di Roma.

Altre informazioni e commenti qui su la Stampa

casadellacultura.it, 19 gennaio 2018. Recensione al nuovo rapporto Ecomafia, che annualmente riporta i reati ambientali accertati e le connivenza tra illeciti ambientali, mafia e politica. L'efficacia punitiva migliora, ma con la prevenzione c'è ancora molto da fare.
Puntuale come ogni anno è stato pubblicato dalle Edizioni Ambiente il rapporto Ecomafia 2017. Le storie e i numeri della criminalità ambientale, curato dall'Osservatorio nazionale ambiente e legalità di Legambiente.

Italo Calvino, profeticamente, in alcuni suoi racconti fulminanti degli anni Settanta del secolo scorso, ci aveva avvertito della doppia minaccia che incombeva sulle città moderne: l'inquinamento ambientale che esse, soprattutto, alimentavano e l'inquinamento etico e criminale che lo stesso poteva portare con sé. Leonia è, tra le fantastiche Città invisibili immaginate da Calvino, quella che rappresenta paradossalmente e plasticamente la retroazione autodistruttiva dell'inquinamento ambientale: Leonia è il parossismo del consumo "usa e getta", ogni mattina si rinnova e butta gli scarti fuori da sé, finché la montagna di rifiuti che la circonda le franano addosso seppellendola.
Nella Nuvola di smog è invece all'opera l'intreccio, insidioso quanto ben mimetizzato, tra inquinamento, corruzione, criminalità. Il protagonista è un giovane giornalista, mosso da ingenuo entusiasmo per il compito che gli viene assegnato da un facoltoso mecenate di dirigere una rivista "La purificazione", organo dell'Epauci, Ente per la Purificazione dell'Atmosfera Urbana dei Centri Industriali. Il suo impegno è autentico e, si illude, anche teoricamente produttivo, finché un giorno sale su di una collina nei dintorni e vede, stupefatto, la sua città avvolta da una nuvola di smog. Allarmato contatta il suo mecenate che, indaffarato, gli chiede di passare presso il suo ufficio: la direzione di un grande stabilimento irto di ciminiere fiammeggianti di fumi, dove il volenteroso giornalista scopre inorridito "l'ala nera come inchiostro che invadeva tutto il cielo".

Il rapporto Ecomafia, dunque, ha il merito di tentare una descrizione dettagliata ed anche una quantificazione del fenomeno di questo intreccio tra criminalità e devastazione ambientale. È d'obbligo precisare che, sia nel titolo che nel testo, il termine "mafia" è usato in modo estensivo, sta per criminalità e non si limita ai reati contemplati dall'articolo 416 bis del codice penale come criminalità organizzata di stampo mafioso. Questa distinzione ha sicuramente un rilievo importante nei tribunali, meno per identificare quell'intreccio perverso che precipita nei cosiddetti "ecoreati". La particolare propensione criminale in campo ambientale nel nostro Paese ha peraltro diverse cause che occorre rammentare: pesa il fatto che la nostra sorprendente scalata nella graduatoria dei principali Paesi industriali del mondo, fino al quinto posto, avvenuta nel secondo dopoguerra, ha goduto del vantaggio competitivo di disporre a titolo gratuito delle risorse ambientali (suolo, acqua, aria); da qui è discesa una strutturale inadeguatezza delle normative di tutela, fino al recente Sblocca Italia; va ricordato, a titolo d'esempio, che il reato ambientale è stato inserito nel codice penale solo nel 2015; in ogni caso la struttura istituzionale dei controlli, in particolare il sistema Ispra e Arpa, è molto carente e, spesso, condizionata dalla politica; infine, a questo quadro oggettivamente critico va associato il retaggio del tradizionale costume degli italiani, il diffuso "familismo amorale" che si traduce nel disinteresse per ciò che è al di fuori del perimetro della famiglia e della propria dimora e proprietà, la disponibilità corruttiva in nome del particulare e la conseguente noncuranza per l'ambiente naturale e per la casa comune, l'oikos, appunto.

Non possono quindi stupirci più di tanto i dati del rapporto predisposto da Legambiente. Nel 2016 i reati ambientali accertati delle forze dell'ordine e dalla Capitaneria di porto hanno toccato il ragguardevole numero di 25.889, pari a una media di 71 al giorno, circa 3 ogni ora. A questi corrispondono 225 arresti, 28.818 denunce e 7.277 sequestri. Il fatturato delle ecomafie è valutato attorno a 13 miliardi, in netta diminuzione rispetto ai 22 miliardi del 2014, a testimoniare una sempre maggiore efficacia dell'azione investigativa e repressiva. Vengono inoltre evidenziati il fenomeno della corruzione, che continua a dilagare in tutta la Penisola con ben 76 inchieste in cui le attività illecite in campo ambientale si sono intrecciate con vicende corruttive, la questione dell'abusivismo edilizio con 17mila nuovi immobili abusivi nel 2016, il ciclo illegale dei rifiuti in crescita con 5.722 reati contestati (+ 12%), il fronte incendi segnato da 4.635 roghi che hanno mandato in fumo 27mila ettari. Per quanto riguarda la distribuzione geografica le quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso si confermano ancora ai primi posti nella classifica per numero di illeciti ambientali: in vetta la Campania con 3.728 illeciti, davanti a Sicilia (3.084), Puglia (2.339) e Calabria (2.303). La Liguria resta la prima regione del Nord, il Lazio quella del Centro. Su scala provinciale, quella di Napoli è stabilmente la più colpita con 1.361 infrazioni, seguita da Salerno (963), Roma (820), Cosenza (816) e Palermo (811). Il rapporto 2017, comunque, segnala un trend positivo, sia per la diminuzione del numero dei reati, sia per la maggior efficacia delle sanzioni, che potrebbe essere ascrivibile ai primi effetti dell'introduzione delle legge che punisce i reati ambientali. Questi, infatti, mentre erano 29.293 nel 2014, sono scesi a 27.745 nel 2015 e a 25.889 nel 2016. Cresce, invece, il numero degli arresti 225 (contro i 188 del 2015), di denunce 28.818 (a fronte delle 24.623 della precedente edizione di Ecomafia) e di sequestri 7.277 (nel 2015 erano stati 7.055).

Nella parte finale del testo, Legambiente indica opportunamente gli ulteriori interventi necessari a rendere ancor più incisiva l'azione repressiva. Alcune riflessioni, tuttavia, si possono aggiungere. Indubbiamente colpire i responsabili di reati ambientali è importante, anche agli effetti preventivi: forse si comincia a percepire che non sempre si può farla franca. Ma occorre ricordare che l'azione penale arriva sempre a posteriori, quando il disastro è stato compiuto e spesso, per le caratteristiche intrinseche dell'inquinamento ambientale, gli effetti nefasti sono irreversibili. Non solo. L'azione penale incontra difficoltà oggettive: molto spesso gli effetti sull'ambiente e sulla salute dei cittadini indotti dall'inquinamento si scoprono molti anni dopo l'evento che li ha provocati e dunque la prescrizione è spesso in agguato. D'altro canto, in particolare per i danni alla salute, dimostrare il nesso di causalità, che nel penale ad oggi è di tipo individuale, risulta estremamente difficile. Va inoltre considerata la difficoltà strutturale del sistema giustizia nel nostro Paese, che dopo la stagione eccezionale di "Mani pulite" e del maxiprocesso alla Mafia, sembra regredire nell'alveo rassicurante di una grande cautela nei confronti del potere, economico e politico. Sembra, insomma riemergere la logica, appunto, di un "Sistema", nell'accezione che la storia del nostro Paese ha ampiamente sperimentato e da cui tuttora è attraversato: la "chiesa istituzione", il regime fascista, la "democrazia bloccata" del secondo dopoguerra, la mafia, la corruzione politica…

Ogni "sistema" per perseguire i propri fini ha bisogno di "vittime sacrificali" che vanno accettate in nome di interessi superiori. E per questo è del tutto illusorio e impensabile che un simile "sistema" sia in grado di autogiudicarsi ed autocondannarsi in modo radicale: le vittime dell'inquisizione di ieri e della pedofilia ecclesiastica di oggi attendono ancora giustizia; i criminali fascisti, sfuggiti ad un tribunale "altro" come quello di Norimberga, hanno goduto di un "salutare" colpo di spugna; le stragi per "bloccare" la democrazia restano in gran parte impunite; oggi sembra "impossibile" estirpare le mafie e la corruzione politica. Paradossalmente, tra l'altro, è proprio "l'intermediazione della vittima" che rende forte il "Sistema" (J.-P. Dupui, Per un catastrofismo illuminato, 2011). Cosicché, la mancata giustizia viene "compensata" celebrando le vittime, monumentalizzandole. Nei casi dei grandi ecoreati in gran parte impuniti (per tutti, il caso dell'amianto) il "sistema" è il capitalismo industriale italiano, così come si è costruito nel corso del Novecento. Una sorta di "supersistema", perché animato dalla "superideologia" dello sviluppo (Pier Paolo Poggio), comune a tutte le ideologie novecentesche (liberaldemocratica, fascista, comunista). La legittimazione di quell'immane scempio compiuto in Italia tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, opera ancora in profondità, è un dato strutturale dell'industrializzazione italiana ancora oggi. Perché il "supersistema" in versione italiana, in generale, salvo poche eccezioni, rimane un gigante con i piedi di argilla, ancora oggi dipendente dalle quelle condizioni che ne determinarono le fortune nel secondo dopoguerra: bassi salari; energia importata a basso costo grazie all'Eni di Mattei; imitazione creativa delle innovazioni altrui senza dover sviluppare in proprio costose strutture di ricerca; risorse ambientali concesse a titolo gratuito e senza alcun vincolo. Nella congiuntura attuale e nel contesto di una globalizzazione senza regole, emerge con ogni evidenza la sua strutturale fragilità: quelle condizioni di un tempo si incontrano oggi molto più vantaggiose in tante regioni del mondo, mentre l'energia fossile non ce la regala più nessuno. E l'Italia manifatturiera, in molti settori, arranca, inevitabilmente.

Dunque, può il nostro "supersistema", in queste condizioni di grande difficoltà, fare i conti con i disastri ambientali che ne hanno determinato le fortune? No, anzi, il "supersistema" chiede alla politica, se possibile, un ulteriore balzo in avanti nell'illusione che si possano ricreare oggi le condizioni di un nuovo "miracolo economico", "riagganciandoci", finalmente, alla mitica "crescita". La ricetta è semplice: mortificare ancor più il sindacato e i diritti dei lavoratori per deprimerne le pretese salariali; rilanciare la ricerca di idrocarburi sul territorio nazionale e nei nostri mari in spregio alla loro naturale fragilità; destinare le poche risorse pubbliche, non all'unica grande opera necessaria di manutenzione e risanamento del territorio disastrato del Paese, ma a benefici fiscali per le imprese distribuiti a pioggia, dunque qualitativamente inefficaci; "sbloccare" grandi opere inutili, rimuovendo per l'ennesima volta l'intralcio dei vincoli ambientali (Sblocca Italia).

La mancata giustizia per i disastri ambientali del passato è quindi coerente con la cultura e la politica attuali, sostanzialmente dominate dalla logica totalitaria del "supersistema". Si tratta della versione italiana di una sorta di "oscurantismo progressista. Un oscurantismo di cui il 'negazionismo' degli assassini della memoria dei campi non era altro che un segno premonitore", e che consiste nel "non prendere in conto i danni di un progresso tecnico crescente, senza limiti e senza alcun freno" (P. Virilio, L'università del disastro, 2008). A quasi 80 anni dalla Shoah, in particolare noi italiani ci ritroviamo ancora con molti conti in sospeso per le nostre responsabilità in quella catastrofe. Sconfiggere il "negazionismo" del "supersistema" è dunque un'impresa improba e di lunga lena. Ed è un'impresa che non può essere, a mio parere, delegata alla magistratura. Un cambio di mentalità e la prevenzione sono fondamentali e possono camminare solo su due gambe. Da un canto la mobilitazione partecipata e consapevole delle popolazioni sul territorio per contrastarne il degrado e per salvaguardane la bellezza e l'integrità. E bisogna constatare che, a questo livello, si registra una nuova effervescenza, fioriscono a migliaia i comitati, i gruppi spontanei, le associazioni di cittadini attenti a quello che accade nei loro territori. Insomma, sembra che quel tradizionale costume italico "menefreghista" cominci ad essere scalfito, in parte superato, in particolare tra i giovani. Dall'altro, però è imprescindibile che si determini negli indirizzi del governo della cosa pubblica, dal livello centrale a quello locale, quella svolta paradigmatica, quella conversione ecologica dell'economia e della società che non è più rinviabile e in cui il nostro Paese mostra ritardi inaccettabili, anche rispetto al resto dell'Europa. E qui le cose non vanno bene.

È impressionante come, anche di fronte ad allarmi sempre più evidenti, come la spaventosa siccità della scorsa estate, si reagisca solo con interventi emergenziali, senza por mano a un progetto strategico di fuoriuscita, già ora tecnicamente possibile, dalla civiltà termoindustriale basata sui combustibili fossili per avviarci verso la civiltà solare. Insomma, come a proposito della corruzione, anche dell'ambiente non devono occuparsi solo le Procure, ma innanzitutto una politica profondamente rinnovata, emancipata dalla subalternità al "supersitema" e dal giogo degli interessi immediati, in certi casi persino personali, e capace di riconquistare il proprio ruolo di guida lungimirante della comunità.

Tratto dal sito della casa della cultura: casadellacultura.it

«Le armi sono fatte per essere usate e finiscono spesso, prima o dopo, su un campo di battaglia». come sa chi ha imparato che il ventre dal quale strisciano fuori le guerre è (e rimane) il capitalismo. Corriere della Sera, 3 giugno 2017 con riferimenti

Possiamo naturalmente sperare che le armi vendute dal presidente Trump all’Arabia Saudita per 110 miliardi di dollari (350 miliardi nel corso del prossimo decennio) non vengano usate. Ma se usciranno dagli arsenali, il bersaglio sarà verosimilmente l’Iran. Non potremo proclamarci sorpresi, quindi, se l’Iran, nei prossimi mesi, rafforzerà il suo programma missilistico con nuovi esperimenti. E non potremo sorprenderci se la Cina, dopo la consegna alla Corea del Sud di un nuovo sistema antimissilistico americano chiamato Thaad, farà altrettanto.

Conosciamo il gioco e sappiamo che ciascuno di questi Paesi attribuisce sempre a un altro, senza arrossire, il suo desiderio di nuove armi, più precise e letali. Sappiamo anche che certe forniture possono avere persino qualche ricaduta positiva. Quella di Trump alla Arabia Saudita, per esempio, potrebbe convincere i sauditi a smetterla di chiudere gli occhi di fronte alle sanguinose operazioni dell’islamismo sunnita, fra cui in particolare quelle dell’Isis; o addirittura aprire la strada all’avvento di un nuovo clima fra Israele e i palestinesi. Ma le armi sono fatte per essere usate e finiscono spesso, prima o dopo, su un campo di battaglia. L’America ne vende molte. Può essere considerata, almeno in parte, corresponsabile di questi conflitti? Per rispondere a una tale domanda può essere utile rileggere il discorso televisivo alla nazione con cui il generale Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate durante la Seconda guerra mondiale e presidente degli Stati Uniti dal gennaio 1953, si congedò dal potere nel dicembre 1961.

Eisenhower esordì ricordando che sino alla Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti non avevano ancora una grande industria militare. Da allora, tuttavia, quella industria era andata progressivamente crescendo sino a impiegare tre milioni e mezzo di uomini e donne. Era necessaria alla sicurezza del Paese, ma stava creando quello che il presidente americano definì un «complesso militare-industriale», vale a dire una concentrazione di interessi che avrebbe potuto avere una influenza determinante sulla politica nazionale. Mai previsione è stata altrettanto giusta e altrettanto negletta. L’industria militare americana è un grande datore di lavoro, fondamentale per la vita di zone che non hanno altre attività produttive. Il suo rapporto con la pubblica amministrazione e con il Congresso è diventato sempre più intimo. Non è raro assistere al caso di ufficiali a riposo che vengono impiegati dalle ditte con cui, quando vestivano l’uniforme, hanno avuto rapporti di committenza.

Gli Stati Uniti hanno perduto, politicamente, la guerra irachena del 2003. Ma non l’hanno perduta economicamente le grandi imprese dell’Intendenza che viaggiavano al seguito delle forze armate. Il caso di Halliburton è esemplare. La grande multinazionale texana, di cui il vice-presidente Dick Cheney era stato presidente e amministratore delegato, vinse un contratto di 7 miliardi di dollari, alla fine di una gara in cui fu la sola concorrente, per i servizi logistici delle forze d’occupazione americane.

Ancora più potente l’industria militare è diventata da quando le sue ricerche per armi sempre più moderne e «intelligenti» hanno prodotto innovazioni tecnologiche sempre più utili e vantaggiose. Paradossalmente molti grandi progressi tecnologici degli ultimi decenni (fra cui Internet) nascono là dove si fabbricano armi e si preparano guerre.

Esiste ormai negli Stati Uniti un legame fra industria delle armi, economia nazionale e tecnologia del futuro che rende le guerre, in alcuni ambienti, utili e desiderabili. Barack Obama cercò di rompere questo circolo vizioso affidando a un segretario della Difesa, Robert Gates, il compito di ridurre drasticamente il bilancio militare degli Stati Uniti. Non sarà questa, verosimilmente, la politica di Donald Trump.

Riferimenti
Per il lettore giovane, e per quello smemorato, può essere utile leggere e riflettere su Guerra alla guerra: Brecht e Fortini, tratto da L'ospite ingrato, Rivista online del Centro Interdipartimentale di Ricerca Franco Fortini

«A più di 60 anni dalla nascita del club Bilderberg e circa 40 dalla Commissione Trilaterale, non sono più necessari segretezza e silenzio intorno a questa cupola di potere: si è riusciti, a costituire un popolo complice che sostiene e difende l’élite dominante. il Fatto Quotidiano online, blog Gianluca Ferrara, 3 giugno 2017 (c.m.c.)

Nel totale occultamento dei mass media nostrani è cominciato a Chantilly, in Virginia, l’incontro annuale del gruppo Bilderberg. Fino al 4 giugno questa cupola composta da banchieri, manager, politici, militari e giornalisti discuteranno su come perseverare con quel sistema neoliberista che permette a 8 persone di possedere una ricchezza pari a 426 miliardi di dollari, una somma equivalente a quella che hanno 3,6 miliardi di persone.

Il gruppo Bilderberg, annualmente raduna, in lussuosi alberghi a porte chiuse, il gotha della plutocrazia mondiale. Il nome del club deriva dal nome dell’hotel de Bilderberg a Oosterbeek, nei Paesi Bassi dove si tenne nel 1954 la prima riunione.

Tra i 130 partecipanti di Chantilly saranno presenti il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, David Cohen ex vicedirettore della Cia, José Manuel Barroso presidente della Goldman Sachs e Christine Lagarde direttore del Fondo Monetario Internazionale. In nostra “rappresentanza” oltre al solito John Elkann ci saranno Lilli Gruber e Beppe Severgnini. Ovviamente nulla potranno riferire perché, proprio come accade con la Mafia e la Massoneria, è vietatissimo far uscire notizie; viene da domandarsi cosa ci vadano a fare dei giornalisti se poi non possono svolgere quello che dovrebbe essere il loro compito e cioè informare i cittadini. Perché i maggiori organi di “informazione” non reputano sia importante dare la notizia che gli uomini più potenti del mondo si incontreranno per alcuni giorni tutti insieme e a porte chiuse?

In questi incontri vengono stabilite le nostre sorti, quel che resta del nostro futuro di cittadini. Verranno spartite quelle poche ossa rimaste di ciò che un tempo erano gli Stati. Si pensi che le multinazionali hanno più potere degli Stati, delle prime 100 entità economiche, 67 sono multinazionali e 33 governi. Oggi questa élite transnazionale gestisce ogni aspetto delle nostra struttura sociale, controlla i mass media, l’industria agroalimentare, la stampa della moneta e purtroppo, dramma dei nostri tempi, anche la politica.

Gli incappucciati 2.0 del gruppo Bilderberg, in nome del dogma neoliberista che ha come unico fine privatizzare e liberalizzare, anche quest’anno ratificherà quel progetto sociale che causa la morte dai 30 ai 50 milioni di persone per fame. Eppure basterebbero soltanto 40 miliardi di dollari per porre fine a questo sterminio, ma i signori del Bilderberg non si incontrano per salvare vite ma proteggere e aumentare ricchezze. Ciò giustifica i circa 1800 miliardi di dollari che si investono annualmente in armamenti.

A mio avviso il vero dramma è che a più di 60 anni dalla nascita del club Bilderberg e circa 40 dalla Commissione trlaterale, non sono più necessari segretezza e silenzio intorno a questa cupola di potere. Questo perché si è riuscito, ed è tipico delle dittature, a costituire un popolo complice che sostiene e difende l’élite dominante. La vera sfida è liberare i più da questa ipnosi collettiva e riprenderci le chiavi del nostro futuro.

«Una volta bastava sterminarli ma oggi, per togliere di mezzo le popolazioni che vivono nei territori necessari all’avanzata del “progresso”, certi mezzi non usano più». comune-info.net, 17 maggio 2017 (p.d.)

Si può misurare quanto vale la vita di un popolo indigeno o contadino? O quanto vale la sua morte? Le imprese che vogliono sfruttare i loro territori e alle quali molesta la presenza di queste comunità, pensano di sì. Per questo hanno inventato il concetto di “compensazione della biodiversità” (biodiversity offsets). Così, un’impresa mineraria o idroelettrica, una edile, enormi piantagioni di monocolture di alberi, o qualsiasi altra mega-imprenditorialità che implica la devastazione di un territorio, potrebbe “compensare” la distruzione, presumibilmente conservando la biodiversità da un’altra parte. Quelle che stanno maggiormente utilizzando questo perverso concetto sono le miniere; altre, però, come la Cemex [1], non sono da meno.
La proposta che viene discussa al senato [messicano] su una Legge generale della biodiversità, della senatrice Ninfa Salinas del PVEM, sebbene non nomini espressamente questa modalità, la facilita attraverso le lacune e le nuove norme che stabilisce e soprattutto, attraverso l’assenza di riconoscimento, che predomina nella proposta, del ruolo essenziale, storico e attuale, delle comunità indigene e contadine nella cura e nella crescita della biodiversità.
Il concetto di “compensazione della biodiversità” è una miniera d’oro per le imprese, perché permette di aumentare i loro profitti e di apparire come imprese “verdi”. Primo: guadagnano con l’attività contaminante che installano e per uscirne impuni dalla devastazione causata. Secondo: si appropriano o vanno a gestire un’area di biodiversità in un’altra zona, con la quale possono ottenere profitti aggiuntivi sia per l’emergente mercato secondario di “buoni di compensazione della biodiversità”, come per la vendita di servizi ambientali, mercati di carbonio, o per contratti che potrebbero siglare con il fine di brevettare elementi della biodiversità, come piante, insetti o microrganismi che si trovano su quel “fondo”, così come dice la suddetta proposta di legge.
Per facilitare l’operazione, parte della strategia delle imprese è denigrare i popoli che vivono lì, ai quali viene mossa l’accusa che, se l’impresa non se ne fosse occupata, avrebbero devastato il loro territorio: per cui, trasferendoli altrove, si stanno prendendo cura della biodiversità.
L’allontanamento dal territorio, come sanno bene tutti i popoli che lo hanno subito, è una sentenza di morte per le comunità, le loro culture, i loro modi di vivere e lavorare. Quando vengono reinsediati, li spostano in zone che non conoscono, che non sono fertili e dove non possono praticare le loro tradizionali forme di sostentamento. Un esempio di “compensazione della biodiversità”, presentato dalla miniera Rio Tinto come modello, è il caso di una miniera in Madagascar, a partire dalla quale hanno reinsediato altrove una comunità. Non li hanno mai informati che non potevano accedere al bosco e che il luogo che gli veniva assegnato per seminare erano dune di sabbia. Il Movimiento Mundial de Bosques [WRM World Rainforest Movement] era lì e ha pubblicato un rapporto su quanto era realmente successo, che dimostra il significato di questo tipo di “compensazione”. Un modello, certo, ma di come operano le multinazionali.
Queste “compensazioni” partono dalle stesse premesse teoriche dei mercati di carbonio, i pagamenti per servizi ambientali e il concetto di “emissioni nette zero” nel cambiamento climatico. L’assunto di base è che le emissioni di gas, l’inquinamento e la devastazione, possono essere “compensate”. Non si tratta di fermare la devastazione e l’inquinamento ambientale né la distruzione della biodiversità, bensì di fare una contabilità corretta: se il danno prodotto si compensa presumibilmente da un’altra parte, la somma darà zero. Questo è inutile al fine di frenare il cambiamento climatico, aver cura della biodiversità e meno ancora per i popoli trasferiti o per quelli che non possono più bere l’acqua del loro fiume, quelli che perdono il loro bosco, la loro terra e il loro sostentamento. Però, quantificare la distruzione, consente di emettere buoni e crediti negoziabili.
Nel caso del cambiamento climatico, questa operazione elude realtà molto gravi. Non esiste alcuna prova che i mercati di carbonio abbiano migliorato il cambiamento climatico, però ci sono prove dei profitti di quelli che commerciano con le emissioni. In ogni caso, non resta più “spazio climatico” per continuare con le emissioni, perché l’eccesso di gas con effetto serra di alcuni paesi è stato talmente grande che non c’è la possibilità di “compensare” per continuare ad emettere gas; l’unica vera soluzione è ridurre le emissioni. Nel caso della biodiversità, il progetto è assurdo perché la diversità biologica e quella culturale sono processi locali, co-evolutivi e di lunga storia: non si può distruggere uno spazio e pensare che “conservarne” un altro lo compenserà, ancora meno che si possa sradicare una comunità dal suo territorio.
Nel contesto della COP 13 del Convegno della Biodiversità che si è tenuto nel 2016 a Cancún, questa modalità di “compensazione” è stato un argomento entusiasmante nell’ambito del Foro de Negocios y Biodiversidad [ Business and Biodiversity Forum], con imprese di tutto il mondo. Integra anche la prospettiva della Alianza Mexicana de Biodiversidad y Negocios, costituita poco prima della COP13, composta da imprese messicane e multinazionali come Bimbo, Cemex, Grupo México, Nestlé, Basf, Syngenta, Walmart, Banorte, CitiBanamex, Proteak, BioPappel, Televisa, Masisa, Canaco Cdmx, insieme a istituzioni e ONG come Cespedes, Pronatura, The Nature Conservancy, Rainforest Alliance, Conservación Internacional México, Reforestamos México, Fondo Mexicano para la Conservación de la Naturaleza, Biofin, Cemda, COBI e Ecovalores, molte delle quali hanno avuto un ruolo chiave nella mercificazione della biodiversità.
È importante conoscere e non permettere che vengano portate avanti queste nuove trappole che giustificano la distruzione della biodiversità e nuovi attacchi alle comunità contadine e indigene, che sono i suoi veri custodi.

Articolo pubblicato su La Jornada con il titolo Destrucción neta de biodiversidad

[1] Multinazionale messicana del cemento

Due testimonianze della miopia e della sudditanza della politica italiana di fronte ai poteri forti di un mondo ottuso. Articoli di Daniele Matini e Francesco Musolino. il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2017 (p.d.)

LO SCALO LOW-COST CHE

AI BENETTON NON CONVIANE

di Daniele Martini
C'è un progetto alternativo per il potenziamento dell’aeroporto di Fiumicino che costa quattro volte meno di quello preparato dalla società AdR-Aeroporti di Roma della famiglia Benetton che gestisce lo scalo: 5 miliardi di euro invece di 20. È un piano efficace e dettagliato per dotare la capitale di una struttura più capiente ed efficiente dell’attuale in vista degli aumenti di traffico sperati, circa 10 milioni di passeggeri in più dal 2021 rispetto ai 40 attuali.

Rispetto al piano ufficiale, quello alternativo ha anche il merito di non intaccare le zone pregiate della Riserva statale del litorale romano riperimetrata appena tre anni fa con vincoli più stringenti grazie a un decreto del ministero dell’Ambiente dopo 7 anni di trattative che hanno coinvolto i comuni di Roma e Fiumicino. Infine quel piano non stravolge il reticolo di canali di irrigazione delle campagne della zona così come prevede invece il progetto ufficiale. Il piano alternativo è stato elaborato per l’agguerrito Comitato “Fuoripista” di Fiumicino da tecnici di primo livello ed è una roba seria. Ma resta al palo.
Procede invece come un treno l’altro progetto, quello dei Benetton nonostante sia un concentrato di difetti. A partire dai costi, circa tre volte superiori a quelli del Ponte sullo Stretto, tanto per avere un punto di riferimento noto. E nonostante i danni sicuri e irreversibili che infierirebbero su un ambiente prezioso e supertutelato di cui utilizzerebbe un’area enorme, 1.300 ettari circa per far posto a una quarta e quinta pista, terminal, piazzole, alberghi, negozi. Superfici, guarda un po’ i casi della vita, in gran parte di proprietà dei Benetton che verrebbero espropriate a peso d’oro facendo più che felici i Benetton stessi.
Gli imprenditori veneti si atteggiano come benefattori anche a Fiumicino, investitori illuminati in grado di risolvere i problemi della collettività togliendo le castagne dal fuoco a uno Stato che fa la figura di un mendicante con il cappello in mano. Per l’aeroporto di Roma lo Stato non ha i soldi per il potenziamento, mentre i Benetton quei quattrini ce li hanno, in parte cash e in parte sanno come farseli dare. Il paradosso è che una bella fetta di quei liquidi entra a fiumi ogni giorno nelle casse della società aeroportuale grazie proprio allo Stato e al suo buon cuore.
Il regalo ha una data e un donatore certi: vigilia di Natale del 2012, ultimo giorno di vita del governo presieduto da Mario Monti. Alla chetichella fu concesso allora ad Aeroporti di Roma di aumentare di colpo e in modo consistente le tariffe, circa 10 euro a biglietto aereo, soldi pagati dagli ignari viaggiatori. In cambio i Benetton si impegnavano a investire per lo sviluppo dello scalo. Il raddoppio che propongono è proprio strettamente collegato a quel patto e, a prima vista, sembrerebbe quindi giusto che venisse rispettato. Solo che si tratta di un’intesa truccata, perché il raddoppio è inutilmente eccessivo, costoso e pure dannoso per l’ambiente.
Ai Benetton però piace tanto per almeno due motivi. Primo: serve per ricevere dallo Stato un’altra montagna di quattrini con gli espropri dei terreni. E poi perché per costruire piste, terminal e alberghi i Benetton, presumibilmente, utilizzerebbero le ditte di casa, dalla Spea alla Pavimental, guadagnandoci di nuovo.
Il piano alternativo del Comitato “Fuoripista” è come il classico granello di sabbia che può bloccare un ingranaggio gigantesco. È per questo che la sola esistenza di quel progetto crea imbarazzi a non finire a tutti gli interlocutori a cui è stato presentato, dai dirigenti del ministero delle Infrastrutture agli stessi manager di Adr. I quali non se la sentono di liquidarlo come si trattasse di un opuscoletto di propaganda, ma non sono neanche nella condizione di poterlo ricevere per quel che è: un contributo gratuito per lo sviluppo a basso costo dell’aeroporto. Gli affari sono sempre affari. Negli incontri al ministero e nella sede di Adr a Fiumicino, i rappresentanti del Comitato “Fuoripista” hanno incassato un’attenzione tutt’altro che di circostanza, ma senza concessioni.
Dirigenti ministeriali e tecnici aeroportuali hanno consigliato di trasmettere il piano alternativo per Fiumicino all’Enav, l’ente nazionale per il controllo del traffico aereo. Forse l’avranno pure fatto per scaricare ad altri la patata bollente, ma il passaggio all’Enav è comunque davvero necessario. Il progetto alternativo costa molto meno dell’altro perché si basa su due capisaldi: un migliore utilizzo degli spazi aeroportuali attuali e un diverso scaglionamento dei decolli e degli atterraggi. E siccome è proprio questa la materia di cui si occupa l’Enav, ovvio che intervenga per dire la sua.
L’incontro tra il Comitato e l’ente di assistenza al volo c’è stato nella prima settimana di maggio ed è sembrato la fotocopia degli altri. L’Enav ha comunque messo al lavoro i suoi tecnici per esaminare il progetto nei dettagli. In attesa di queste valutazioni, logica vorrebbe che per precauzione non venisse messo il turbo al piano di raddoppio dei Benetton. E invece sembra che i dirigenti di Adr siano presi da una fretta irrefrenabile. E con essi l’Enac, l’ente dell’aviazione civile, in teoria controllore anche di Adr. Dopo che i tecnici dell’aeroporto avevano aggiunto una serie di modifiche al gigantesco progetto originario con robette tipo un nuovo tracciato della pista quattro e la costruzione di un troncone autostradale dell’A12 a Nord di Roma, Enac ha deciso di saltare il passaggio della Valutazione Ambientale Strategica (Vas), obbligatorio per opere di quelle dimensioni.
Il 30 marzo l’ente dell’aviazione diretto da Vito Riggio si è rivolto direttamente alla Commissione Via (Valutazione impatto ambientale) del ministero dell’Ambiente. E sempre sull’onda della fretta ha deciso pure di non aspettare neanche le valutazioni che il Consiglio di Stato è in procinto di consegnare al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, perché possa esprimersi sulla faccenda fondamentale del perimetro della Riserva statale. E già che c’era l’Enac ha fatto finta di non sapere che su quel perimetro un parere autorevole e vincolante già c’è: quello del ministero dell’Ambiente, contrario a qualsiasi modifica delle aree della Riserva, compresa la cosiddetta zona 1. Proprio quella dove si espanderebbe l’aeroporto in versione Benetton e sulla quale non si può costruire non una pista o un terminal, ma nemmeno un capanno.


G7, CITTA' IN OSTAGGIO

CON ELIPORTO PRIVATO
PER DONALD TRUMP
di Francesco Musolino
Donald Trump l’ha preteso e noi non abbiamo saputo dirgli di no. Il 26 maggio atterrerà a Sigonella con il suo Air Force One per poi ripartire con un elicottero alla volta di Taormina, toccando terra su una pista tutta sua. Evidentemente per un vertice di capi di Stato e di governo di due giorni non era sufficiente un solo eliporto. È ciò che sta accadendo a Taormina, dove si terrà il prossimo G7 (26 e 27 maggio), con i militari al lavoro per spianare entrambe le aree: una nei pressi della piscina comunale, l’altra nel cosiddetto “piano porto”. Ma una volta atterrato nel suo eliporto, ve lo immaginate Trump sfrecciare lungo vicoli e stradine con l’inevitabile corteo di auto superblindate?
In questa situazione di assoluta incertezza, come sempre in Sicilia, si va avanti giorno dopo giorno. Più sperando nella Provvidenza divina che nella programmazione dei lavori. Accogliere i leader di Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Usa dovrebbe essere un’occasione di riscatto; intanto è diventata una corsa contro il tempo.
E se gli albergatori sono gli unici a fregarsi le mani, i timori sulla sicurezza sono molti. Gli occhi sono rivolti ai Giardini Naxos, dove il 27 maggio si terrà un corteo di protesta internazionale, il “Contro G7” per paura di eventuali scontri con le forze dell’ordine. Il sindaco di Taormina, Eligio Giardina, dribbla le polemiche e garantisce che tutto andrà per il

meglio. Ma gli scongiuri non servono, visto che Taormina è uno dei pochissimi Comuni siciliani ancora sprovvisto di un piano di protezione civile (“fermo in fase di bozza al 2013, mentre si starebbe procedendo ad aggiornarlo d’ufficio”), con i tecnici comunali “travolti dal G7”e nessuna segnaletica sul territorio che indichi vie di fuga e aree di attesa.

Ma prima di annunciare il G7 a Taormina forse sarebbe stato sensato informarsi sullo stato delle infrastrutture e sulla mole dei lavori da attuare. Certo non basteranno i 35 mila euro promessi - e non ancora versati - dal governatore siciliano Rosario Crocetta come generoso contributo. E intanto il tempo passa e Taormina è un cantiere fra strade da bitumare, militari che presidiano le vie con le mitragliette in bella vista e una lunga lista di disagi inflitti agli incolpevoli turisti disorientati.
Chissà, magari speravano di poter respirare l’atmosfera che stregò Truman Capote e Tennessee Williams, invece devono fare i conti con squadre di operai che scoperchiano i tombini per potenziare la fibra ottica. E gli abitanti di Taormina e Castelmola (il comune di mille anime sovrastante) che non hanno già previsto un weekend fuoriporta, dovranno munirsi di un pass per la circolazione pedonale nel centro storico. Per due giorni la città verrà blindata e consegnata ai componenti delle delegazioni internazionali (circa 1.500 persone), cui si sommeranno i reporter accreditati e le oltre 10 mila unità preposte alla sicurezza, fra polizia ed esercito. Uno stato d’assedio costoso e imposto dall’alto per soddisfare le esigenze di sicurezza. Il G7 a Taormina, fortemente voluto da Matteo Renzi, rischia d’essere una dimostrazione di lassismo Made in Italy.
A poco più di due settimane dall’appuntamento alcuni cantieri verranno chiusi in extremis, altri riceveranno un’agibilità solo provvisoria, come il PalaCongressi (cui sono stati assegnati 806 mila euro per “lavori di manutenzione ordinaria” con consegna il 15 maggio). Ma se era noto sin dal luglio 2016 che la sede prescelta sarebbe stata Taormina, perché si è atteso sino al 3 aprile per l’avvio di questo cantiere? Inoltre, a causa di un improvviso aumento dei costi è definitivamente saltato il previsto “ampliamento di videosorveglianza territoriale” ovvero l’installazione di un circuito di 700 telecamere di sicurezza dislocate fra Messina, Taormina e Catania, permettendo un ampio monitoraggio delle aree (doveva occuparsene Leonardo-Finmeccanica). Pazienza, ne dovremo fare a meno.
Taormina con due sole vie d’accesso che risalgono la collina sino a 204 metri d’altitudine, verrà chiusa ermeticamente e pochi sanno che l’A18, la Messina-Catania, è considerata la peggiore autostrada non solo siciliana ma italiana, con ampi tratti in cui si procede a doppio senso su un’unica carreggiata a causa della frana del 4 ottobre 2015(!).
Disagi su disagi protratti nel tempo con buona pace di pendolari e turisti. A questo punto è lecito porre una domanda: in base a quali criteri oggettivi, Taormina è stata scelta come sede del G7? Forse per il panorama e il profumo di zagara?
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