«Il grande affare della difesa idrogeologica del Veneto è un Mose in piccolo, anche questo in mano ai soliti noti, poche imprese, quasi sempre le stesse, che si difendono con i denti dai concorrenti e dai curiosi». La Nuova Venezia, 16 dicembre 2015 (m.p.r.)
Il grande affare della difesa idrogeologica del Veneto è un Mose in piccolo, anche questo in mano ai soliti noti, poche imprese, quasi sempre le stesse, che si difendono con i denti dai concorrenti e dai curiosi. Corrono camion, ruspe, soldi e soprusi, un’insalata mista sparsa per la campagna veneta, nella fascia collinare, in montagna. Lungo fiumi, canali, a ridosso delle frane. Un elenco sterminato di lavori, in corso o in programma, di cui si sanno con certezza solo i costi di partenza. Che se sono quelli di arrivo, stando al parametro Mose, abbiamo fatto tombola.
«Questa mattina all'Ara Pacis di Roma. La riqualificazione urbana e la gestione dei servizi possono, se bene indirizzare guidare la crescita economica e valorizzare le città». Ediliziaeterritorio.ilsole24ore.com, 27 novembre 2015
La filiera integrata del real estate oggi rappresenta il 20% del Pil italiano e circa due milioni di posti di lavoro, ma ha un enorme potenziale di crescita.Il lavoro da fare è tanto. Pensiamo, a esempio, al consumo di suolo, passato dal 2,9% degli anni 50 al 7,3% del 2012, che oggi richiede razionalità e salvaguardia ambientale; pensiamo al degrado fisico e sociale delle aree urbane storiche e periferiche: 2,6 milioni di edifici in mediocre o pessimo stato di conservazione (ricerca Cresme); per finire consideriamo il patrimonio costruito prima del 1971 - cioè 7,2 milioni di edifici - che non risponde a criteri antisismici. Per comprendere il valore di tali azioni da compiere, si consideri che nel 2014 gli investimenti nelle costruzioni sono arrivati a 170 miliardi e che lo sviluppo nel campo dei servizi in genere coinvolge il maggior numero di occupati, pari al 64% degli occupati totali, di cui oltre 12 milioni nel solo settore privato. In altre parole, riqualificazione urbana e gestione dei servizi rappresentano un giro d'affari colossale che, se ben indirizzato e coordinato, può largamente superare ogni aspettativa economica e proiezione di crescita. Parliamo anche di un settore tra i più penalizzati dalla crisi economica, e che non ha margini di recupero se non interviene una strategia politica di lungo respiro che ridia vigore al mercato reale.
Il comparto immobiliare oggi è a una sorta di anno zero, ancora alle prese con una crisi lunga e grave (da cui solo alcune aree del Paese cominciano a emergere), in un contesto in cui la carenza di risorse pubbliche si aggiunge alla paralisi amministrativa e all'ostinazione del popolo dei «No». «Insomma, l'economia italiana ha una grande risorsa inutilizzata, o mal interpretata, e che invece può essere, con nuove regole e nuovi modelli gestionali, il più straordinario volano di sviluppo per tutto il Paese», dice Alfredo Romeo, presidente di Osservatorio Risorsa Patrimonio-Italia (promosso da Romeo gestioni, Nomisma e Cresme consulting). Questa risorsa, precisa Romeo, è «il territorio nel suo complesso che, con poche iniziative destinate alla valorizzazione, può essere il motore di una ripresa generale soprattutto se si ferma quella distorsione del mercato provocata dai fondi immobiliari che fanno gli amministratori di condominio invece di valorizzare i beni gestiti». Con quali risorse intervenire in tempi di drastici tagli alla spesa? Ci sono modelli tecnici e amministrativi che possono esse adottati. E in più ci sono norme attuative che prefigurano in modo concreto le opportunità di intervento coinvolgendo, oltre alle Amministrazioni, anche cittadini e imprese.
Una formula che offre promettenti orizzonti di investimento e di ritorno economico è l'articolo 24 del Decreto "Sblocca Italia" (Dl 133/2014) che promuove un modello bottom-up. «Questa norma - insiste Romeo - può rappresentare il detonatore capace di far esplodere il vero cambiamento sul tema delle valorizzazioni, perché concilia tre elementi cruciali: la responsabilità sull'attuazione del progetto della pubblica amministrazione, la condivisione e la partecipazione dei cittadini e soprattutto l'interesse dei privati a investire». Conclusioni, sintesi e riflessioni, su tutto questo corpus di studio sono al centro del seminario in corso di organizzazione dal titolo «Gestire le città – La risorsa Territorio per un New Deal italiano». L'incontro, che si tiene oggi a Roma (Auditorium Ara Pacis) e che viene moderato dal direttore del Sole 24 Ore, Roberto Napoletano, presenta un programma articolato.
«L’attacco al welfare dei comuni è stata una fredda scelta ideologica, fatta propria anche dalla sinistra. Dobbiamo ripensare i luoghi urbani come una grande opportunità di redistribuzione sociale, che non smantella o vende i servizi pubblici ma li rende più efficienti». Il manifesto, 7 ottobre 2015
Se ci sarà vita a sinistra dipende molto dalle nostre capacità. Intanto dobbiamo prendere atto che la vita sociale sta scomparendo dalle nostre città sottoposte ad una spietata macelleria sociale, analoga all’offensiva tesa alla marginalizzazione del mondo del lavoro.
ùUno spunto di riflessione viene dalla recente scomparsa di una delle più alte figure di sindaco, Renato Zangheri. La Bologna che egli dirige a partire dal 1970 è la città che ha portato avanti una straordinaria realizzazione del welfare urbano. La stagione degli asili nido parte da lì. I centri anziani testimoniano l’attenzione verso la parte più debole della società. Biblioteche e parchi di quartiere per i giovani. Nella concezione egualitaria che allora caratterizzava la sinistra furono sperimentati trasporti urbani gratuiti nelle ore frequentate da lavoratori e studenti. La città era insomma concepita come un bene comune che doveva essere redistribuito per colmare le differenze sociali. In quegli stessi anni Pierluigi Cervellati mise in scena uno straordinario capitolo dell’urbanistica italiana recuperando parti del centro antico e lasciando le case restaurate ai ceti popolari: un’esperienza che divenne famosa in tutta Europa.
Quella stagione preziosa fu possibile grazie a una equilibrata politica di indebitamento, e cioè di investimenti pubblici in favore di tutti. L’attacco al welfare urbano è avvenuto sotto la bandiera dei tagli lineari di bilancio. Ma come dimostra il verminaio di Mafia capitale e i continui casi di corruzione nel sistema degli appalti, molto più consistenti poste di bilancio sono state lasciate nelle mani di malfattori legati alla politica ridotta ad azione lobbistica. Per le altre poste di bilancio non c’è stata pietà: asili nido, servizi sociali, trasporti, cultura. Un sistema inclusivo è stato desertificato e nello stesso tempo il deficit dei comuni è aumentato enormemente proprio perché sono state salvaguardate le opere inutili, dimostrando che la voragine dei nostri conti pubblici non deriva dalla spesa sociale ma dalla sistematica azione di rapina. Sono oggi 200 le amministrazioni locali fallite e i piccoli comuni sono ormai senza futuro. La scelta dei tagli alla spesa sociale si è dimostrata una fredda scelta ideologica.
Il tema da affrontare è come mai quell’ideologia sia stata fatta propria anche dalla sinistra. Alla fine degli anni ’80 (Zangheri lasciò la città nel 1983) furono accettate tutte le posizioni culturali dei nostri avversari storici per assecondare le privatizzazioni. Oggi si paga pressoché per tutte le erogazioni pubbliche e i pochi amministratori che resistono lo fanno con grandi difficoltà. Sbaglieremmo ad attribuire la responsabilità di questo misfatto solo al partito della sinistra che non c’è più, e cioè al Pds-Ds-Pd. Le sue colpe sono gigantesche ma se ci fermassimo lì non coglieremmo il nostro stesso appannamento. Anche figure prestigiose estranee a quel mondo sono state incapaci di delineare una prospettiva differente.
I bravi sindaci di Milano e di Genova sono rimasti loro malgrado schiacciati da questa gigantesca involuzione culturale. Non possono agire verso un’altra prospettiva e si limitano al più ad edulcorare le politiche neoliberiste trionfanti. E’ questo sentimento di impotenza ad essere avvertito dalla popolazione delle periferie. E’ da questo intreccio di questioni — oltre ovviamente dalla cancellazione dei diritti dei lavoratori — che nasce il cono d’ombra che ci oscura, la disaffezione alla politica, la fuga dal voto. Se non colmiamo questo deficit di cultura politica e non torniamo ad occuparci di città nel suo insieme di bisogni sociali e di marginalità non riusciremo a riscattarci.
E’ una sfida gigantesca, ma non partiamo da zero perché in questi anni una diffusa cultura alternativa si è mantenuta viva grazie a tante azioni locali e alla straordinaria vicenda dei movimenti dell’acqua pubblica. Si tratta a mio giudizio di passare dalla difesa dei beni comuni — penso all’esemplare azione di Napoli sull’acqua — ad una sistematica azione di risarcimento per la parte della società maggiormente colpita dalla crisi. Dobbiamo ripensare i luoghi urbani come una grande opportunità di redistribuzione sociale, che non smantella o vende i servizi pubblici ma li rende più efficienti con l’attiva partecipazione popolare. Le risorse ci sono: basta tagliare appalti e esternalizzazioni che perpetuano il dominio liberista.
Se perdiamo questa occasione determineremmo il nostro ulteriore declino e garantiremmo la riuscita piena dell’ultimo traguardo che l’economia di rapina vuole imporre: la vendita del patrimonio pubblico e la ulteriore privatizzazione dei servizi pubblici. La vicenda greca di queste settimane ci dice di non illuderci: Germania e Troika hanno imposto 50 miliardi di vendita di beni immobiliari e di società pubbliche e l’insigne giurista Paolo Maddalena non si stanca di ripetere che senza patrimonio gli Stati perdono la propria sovranità. E se non ci svegliamo toccherà anche al nostro paese.
Una proposta di P. Bevilacqua, F. Arminio, V. De Lucia, A. Gianni, M. Landini, T. Perna, M. Revelli, E. Salzano, E. Scandurra, G. Viale per stabilire un rapporto virtuoso tra l'esodo del XXI secolo e la rigenerazione dei territori e dei paesi abbandonati. Il manifesto, 29 settembre 2015
«Proposta-appello Cambiare le leggi e organizzare con i sindaci un piano per dare lavoro e riportare alla vita le aree interne, una volta ricche e poi abbandonate, del nostro paese».
Il tema non è nuovo. Alcuni degli scriventi ne hanno trattato sul manifesto. La sinistra ha, in Italia, la possibilità di indicare una soluzione non contingente né transitoria al problema gigantesco dell’immigrazione. Lo può fare nel migliore dei modi, risolvendo al tempo stesso alcuni suoi drammatici problemi demografici, territoriali, economici e sociali. Noi possiamo indicare agli italiani, contro la politica della paura e dell’odio, una prospettiva che non è solo di solidarietà e di umano e temporaneo soccorso a chi fugge da guerre e miseria.
Con le donne, gli uomini e i bambini che arrivano sulle nostre terre noi possiamo costruire un inserimento stabile e cooperativo, relazioni umane durevoli, fondate su nuove economie che gioverebbero all’intero Paese. Gli scriventi ricordano che l’Italia soffre di un grave squilibrio nella distribuzione territoriale della sua popolazione. Poco meno del 70% di essa vive insediata lungo le fasce costiere e le colline litoranee della Penisola, mentre le aree interne e l’osso dell’Appennino, soprattutto al Sud, sono in abbandono.
Lo spopolamento, l’invecchiamento di popolazione, la denatalità delle aree interne costituisce, in sé, una perdita incalcolabile di ricchezza. Vengono abbandonate terre fertili che erano state sedi di agricolture, i boschi si inselvatichiscono e non vengono più sfruttati, gli allevamenti di un tempo scompaiono. Al tempo stesso borghi e paesi decadono, perdono i presidi sanitari, le scuole, i trasporti. E in tale progressivo abbandono degradano case, palazzi edifici di pregio, monumenti, piazze: in una parola un immenso patrimonio di edificato rischia di andare in rovina insieme ai territori rurali.
Ebbene, queste aree non hanno bisogno che di popolazione, di nuove energie, di voglia di vivere, di lavoro umano. Queste terre possono rinascere, ricreare le economie scomparse o in declino con nuove forme di agricoltura che valorizzino l’incomparabile ricchezza di biodiversità dell’agricoltura italiana. In questi luoghi si può creare reddito con nuove forme di allevamento, in grado di utilizzare immensi spazi oggi deserti, controllando le acque interne ora in disordine e trasformandole da minacce in risorse.
Ebbene in che modo, con che mezzi, con quali forze si può perseguire un così ambizioso progetto?
La prima cosa da fare è cancellare la legge Bossi-Fini e cambiare atteggiamento di legalità di fronte a chi arriva. Occorre dare agli immigrati che vogliono restare la possibilità di trovare un lavoro in agricoltura, nell’edilizia, nella selvicoltura, nei servizi connessi a tali settori, nel piccolo artigianato. Non si capisce perché i giovani del Senegal o dell’Eritrea debbano finire schiavi come raccoglitori stagionali di arance o di pomodori e non possano diventare coltivatori o allevatori in cooperative, costruttori e restauratori delle case che abiteranno, dei laboratori artigiani in cui si insedieranno altri loro compagni. Ricordiamo che oggi l’ agricoltura non è più un semplice settore produttivo di beni agricoli, ma è un ambito economico multifunzionale. Nelle aziende agricole oggi si fa trasformazione artigianale dei prodotti, piccolo allevamento, cucina locale, commercio, turismo, assistenza sociale, attività didattica. E’ una rete di attività e al tempo stesso un mondo di relazioni umane.
La seconda cosa da fare è avviare e mettere insieme un vasto movimento di sindaci. Su tale fronte, la strada è già aperta. Mimmo Lucano e Ilario Ammendola, sindaci di Riace e Caulonia, in Calabria, hanno mostrato come possano rinascere i paesi con il concorso degli immigrati, se ben organizzati e aiutati con un minimo di soccorso pubblico.
I sindaci dovrebbero fare una rapida ricognizione dei terreni disponibili nel territorio comunale: patrimoniali, demaniali, privati in abbandono e fittabili, ecc. E analoga operazione dovrebbero condurre per il patrimonio edilizio e abitativo. A queste stesse figure spetterebbe il compito di istituire dei tavoli di progettazione insieme alle forze sindacali, alla Coldiretti, alle associazioni e ai volontari presenti sul luogo. Se i dirigenti delle Cooperative si ricordassero delle loro origini solidaristiche potrebbero dare un contributo rilevantissimo a tutto il progetto.
Sappiamo che a questo punto si leva subito la domanda: con quali soldi? E’ la risposta più facile da dare. Soldi ce ne vogliono pochi, soprattutto rispetto alle grandi opere o alle altre attività in cui tanti imprenditori italiani e gruppi politici sono campioni di spreco. I fondi strutturali europei 2016–2020 costituiscono un patrimonio finanziario rilevante a cui attingere. E per le Regioni del Sud costituirebbero un’ occasione per mettere a frutto tante risorse spesso inutilizzate.
E qui le forze della sinistra dovrebbero fare le prove di un modo antico e nuovo di fare politica, mettendo a disposizione del movimento i loro saperi e sforzi organizzativi, le relazioni nazionali di cui dispongono, il contatto coi media. Esse possono smontare pezzo a pezzo l’edificio fasullo della paura su cui una destra inetta e senza idee cerca di lucrare fortune elettorali. L’immigrazione può essere trasformata da minaccia in speranza, da disagio temporaneo in progetto per il futuro. Così cessa la propaganda e rinasce la politica in tutta la sua ricchezza progettuale. In questo disegno la sinistra potrebbe gettare le fondamenta di un consenso ideale ampio e duraturo.
Piero Bevilacqua, Franco Arminio, Vezio De Lucia, Alfonso Gianni, Maurizio Landini, Tonino Perna, Marco Revelli, Edoardo Salzano, Enzo Scandurra, Guido Viale
Parla Daniel Libeskind «Saranno le città i luoghi chiamati a realizzare politiche d’integrazione». Le idee di un architetto famoso sulla citta e sul tema delle migrazioni. Buone intenzioni e qualche piccola verità in in mare di ovvietà: e un malinteso di fondo. La Repubblica, 3 settembre 2015, con postilla
Lodz, Tel Aviv, New York, Milano. Ma anche Berlino, Sao Paulo, Seul, Singapore, Londra, Gerusalemme, Las Vegas. E tutte le altre città in cui Daniel Libeskind — architetto nato 69 anni fa in Polonia e cresciuto tra Israele e Stati Uniti — ha vissuto e progettato. Fino a Roma dove, nell’ambito del Festival internazionale della cultura e della letteratura ebraica, Libeskind domani sera sarà protagonista dell’incontro: “La linea del fuoco: città tra memoria e futuro”. «Perché innovazione e tradizione non si possono separare », spiega l’architetto a Repubblica. «Solo la trasformazione è in grado di introdurre qualcosa di nuovo. In architettura, per esempio : se fai qualcosa di astratto,
senza riferimenti al passato, il risultato non avrà senso. Devi guardarti indietro per comprendere dove andare».
A proposito di presente, quanto e come il web influenza la progettazione?«Internet ha rivoluzionato il nostro modo di pensare e analizzare le cose, rappresenta una sfida e un’opportunità continua. Possiamo scoprire in pochi minuti informazioni che un tempo erano prodotto di mesi di ricerca. Il progresso tecnologico ha innovato l’architettura. Ma va ricordato che si tratta di strumenti, che dobbiamo saper utilizzare».
C’è un progetto a cui è particolarmente legato?
«Non puoi mai innamorarti troppo di qualcosa che hai fatto. Ogni progetto è come un figlio: avrà la sua vita e la sua evoluzione, devi volergli bene, averne cura e rispettarlo. Quando immagini qualcosa devi essere pronto ad accettarne le conseguenze: non conta quel che vedi oggi, ma quello che diventerà».
Ci fa degli esempi?
«Il Museo ebraico di Berlino: non avevo mai fatto niente del genere, fu il mio primo vero progetto. Non posso che definire emozionante quell’esperienza».
E poi?
«Il progetto di Ground Zero, ovviamente. Che è ancora in sviluppo ed è stato la prova più complicata che abbia affrontato. Professionalmente e umanamente ».
New York: è quella la città a cui è più legato?
«Ci vivo e la amo: è la capitale dell’immaginazione, ma...».
Ma?
«Ci sono altre città importanti per me. Come Milano: adoro quel suo essere europea, internazionale. E poi Tel Aviv, una metropoli in miniatura».
Cosa cerca in una città appena arriva?
«Le persone. I loro occhi, i loro gesti. Osservo come e dove guardano, il modo in cui camminano. Sono elementi che ti fanno capire dove ti trovi, come le persone vivono quel luogo e quindi ti permettono di trovare una connessione. L’empatia. E poi, ogni città ha la sua luce e la sua personalità, un corpo e un’anima, con cui devi saperti relazionare se vuoi viverla, lavorarci o progettare qualcosa di importante».
Spesso le metropoli crescono a dismisura, oltre i propri limiti. Esistono limiti?
«Io privilegio un’altra lettura. Prendiamo Sao Paulo, città infinita che amo e dove ho lavorato: può sembrare esagerata, disperata, eccessiva, una giungla di cemento da venti milioni di abitanti preda del caos architettonico. E invece...».
Invece?
«Quel che consideriamo disordine si può rivelare un altro ordine, differente. Le città si sviluppano anche così ed è fantastico comprenderne energia e creatività. La vita ci insegna sempre qualcosa: dobbiamo imparare a non lamentarci e capire, ascoltare. Ogni luogo del mondo, Italia compresa, ha conosciuto sviluppi improvvisi, contrasti drammatici ».
Intanto l’Europa è scossa dagli effetti di un’ondata migratoria senza precedenti: cosa succederà alle nostre città? Come cambieranno?
«Il fenomeno della migrazione è epocale e ci sono nazioni che stanno mostrando la loro inadeguatezza nell’accoglienza. Ma dovranno inevitabilmente adattarsi. E le città saranno protagoniste di questo processo. Perché senza capacità di integrazione e accoglienza il futuro sarà triste e diviso: le metropoli non possono che diversificarsi, diventando più interessanti anche per i più poveri. La disperazione deve trovare accoglienza, la segregazione sarebbe l’ennesimo errore».
Tutto questo fa pensare a un ruolo attivo dell’architettura.
«Lo definirei indispensabile, in accordo con le politiche di accoglienza. L’architettura deve essere il modo creativo e innovativo con cui le nostre società, i nostri governi possono rispondere alle domande più profonde così come a quelle più urgenti».
Ovvero?
«Creare quartieri accessibili, offrire soluzioni abitative innovative e alla portata anche dei più poveri è una missione irrinunciabile per la politica e una nuova sfida per architetti e urbanisti ».
Anche a discapito della sostenibilità ecologica?
«No, questo è il punto. La soluzione è sempre e comunque green . Un recente studio spiega come il consumo di asfalto in Cina negli ultimi tre anni abbia superato ogni record delle epoche precedenti. Non possiamo più permetterci questo tipo di inquinamento, l’architettura verde e sostenibile non è più un’opzione ma una via obbligata. Il riscaldamento globale è una drammatica realtà. E non risolveremo il problema mettendo un po’ di verde sui balconi dei palazzi, dobbiamo ripensare le nostre città. La sostenibilità è un dovere del presente, se vogliamo avere un futuro».
Come lo immagina il futuro?
«Sarà ovunque riusciremo a sviluppare e difendere un’idea di società aperta e democratica. Perché il futuro è un concetto che appartiene alle persone, non alle cose. E le idee, architettura compresa, devono aiutarci ad andare in quella direzione. Pace e amore può sembrare uno slogan retorico, eppure sono proprio quelli i valori di una convivenza pacifica da sviluppare e difendere. Questo intendo per democrazia: tolleranza, giustizia sociale, salute, benessere. E libertà ».
La luce è sinonimo di libertà?«La luce è un simbolo, da sempre. E non solo perché le grandi religioni ne parlano in modo simbolico. Ma perché è ciò che ci serve per vivere, per sapere dove andare. E per aiutarci a trovare il futuro ».
postilla
La lunga intervista che la Repubblica ha riservatoa Libeskind ci ha molto colpito. In primo luogo, per la grande distanza checorre ptra le idee che esprime a proposito del rapporto tra architettura e città e il contribute che ha dato con leoperazioni immobiliari delle quali è stato, se non ideatore e promotore, certo volenteroso partner: bastipensare all’area ex Fiera a Milano. Masoprattutto per il modo pone un problema indubbiamente centrale per il nostrosecolo (la grande migrazione dal Sud al Nord del mondo) e ne indica la soluzione, individuandola nella trasformazionedelle città perché esse diventino accoglienti per i nuovi arrivati.
Certo, seun intervistatore chiede a un architetto che cosa bisogna fare per affrontareun determinato problema quel signore risponderà sulla base del suo sapere e delsuo mestiere. Il vizio di certo giornalismo italiano d’oggi è quello di privilegiare, nella sceltadegli interlocutori, non l’esperto o gli esperti capaci, per il loro sapere emestiere, di dare risposte congruenti con quel determinato tema,ma semplicemente l’interlocutore più famoso in relazione a un qualsiasi tema che abbia una pur vaga attinenza all’argomento.
E il tema dell’accoglienza dimilioni di persone appartenenti ad etnie e popoli di cultura, modo di vita,necessità e bisogni, esigenze, aspettative radicalmente diverse da quelle deipaesi ospitanti pone problemi certo più ricchi e complessi di quelli cui sembrariferirsi Libeskind. Intanto, nel quadrodi una vision globale del fenomeno occorre comprendere, e decidere, quale partedei profughi dalle guerre e dalle carestie endemiche sarebbe disposta atornare sulle proprie terre, e a quali condizioni, e quale parte invece èdisposta a trasferirsi stabilmente. Poi bisognerebbe definire (ovviamente in modoconsensuale con i diretti interessati) se questi preferiscano la propriaintegrazione nella cultura e nei modi di vita della loro nuova patria, oppure sepreferiscano mantenere la propria identità. Una volta compiute queste scelte(che appartengono ovviamente a una Politica divenuta tutt’altro di quella oggipraticata) bisognerebbe programmare i luoghi, le attività, le risorse daattribuire a questi nuovi cittadini, e di conseguenza I modi nei quali disegnare e costruire gli habitat a offrire loro. Questioni, tutte, un po' più complesse di quella di disegnare nuove costruzioni nelle vecchie città, magarisecondo il modello Milanese di Residence Libeskind a Milano, che riportiamo qui sotto.
Un’architettura di frontiera, dunque, per una rassegna di frontiera. Che corrisponde anche ai precetti indicati da Paolo Baratta, presidente della Biennale: basta con l’architettura magniloquente, che innalza spettacoli tecnologici a uso di una committenza, pubblica o privata, che vuol esibire successo e potere. Basta anche con l’accettazione un po’ passiva di quel che capita nel mondo. «Andiamo oltre lo status quo», rimarca a più riprese Aravena, «vogliamo capire le domande che interessano i cittadini e che superano il “ma a me che me ne frega?” E, insieme, vogliamo capire le condizioni politiche, economiche, persino estetiche che si vorrebbe far credere insormontabili, un dato di realtà, e cercare vie diverse».
La Biennale di Aravena, si può intuire, vorrebbe mostrare una carrellata di buone pratiche che hanno migliorato l’abitare, il muoversi, il vivere in comunità. «Proporre, fare qualcosa e non solo diagnosticare», aggiunge. E il riferimento corre alle esperienze da lui maturate in quindici anni di housing sociale (quello vero, non quello dietro cui si camuffa certa speculazione).
IL CURATORE
Prosegue e si estende la protesta contro uno dei mille delitti contro il territorio contenuti nel nefasto "Sblocca Italia, epitome del renzismo. ReTe, rete dei comitati, newsletter, 15 agosto 2015
L’Italia in piazza contro l’art.35 e la nuova ondata inceneritorista del Governo Renzi.
Il 9 settembre si riunirà la Conferenza Stato-Regioni per approvare il decreto attuativo dell’articolo 35, parte integrante dello Sblocca Italia.
Se approvato, l’incenerimento diverrebbe “attività di recupero” (anziché di smaltimento) e si aprirebbe la strada a nuovi impianti di incenerimento, addirittura non previsti dai Piani regionali, insieme a una miriade di “ristrutturazioni” di impianti obsoleti allo scopo di bruciare rifiuti da tutta Italia.
Il Governo, invece di impegnarsi a promuovere un Piano Nazionale del Riciclo e della Riparazione-Riuso (ed anche la reintroduzione del vuoto a rendere), misura che darebbe lavoro a centinaia di migliaia di persone (pensiamo ad esempio a tutte le operazioni di estrazione di metalli preziosi dai Rifiuti elettrici ed elettronici!) ancora una volta con l’accoppiata Renzi-Galletti si sdraia ai piedi della lobby degli inceneritori e delle fameliche multiutilities.
Se questo tentativo passasse si brucerebbe l’opportunità di estendere sempre più le buone pratiche verso Rifiuti Zero,decisive non solo per la tutela sanitaria ed ambientale delle comunità e dei territori, ma addirittura per la nostra intera economia, bisognosa delle materie prime-seconde contenute nei rifiuti. Insomma, se il tentativo dovesse andare a buon fine significherebbe bruciare in un sistema già di per sé costosissimo ed inquinante (pagato dalle bollette dei cittadini) risorse che rappresentano una ricchezza economica in grado di connettere rispetto ambientale e promozione di impresa locale e posti di lavoro.
L’altro effetto collaterale di tale “incursione piratesca” sarebbe quello di trasformare in carta straccia i Piani regionali, con una deregulation incontrollabile dei conferimenti da fuori Regione. Il paradosso sarebbe quello di Regioni che puntano sulle buone pratiche (e per fortuna ce ne sono) e che già fanno registrare obiettivi superiori al 60%-70% di RD (e che magari prevedono obiettivi superiori al 70-75% oltre a piani di prevenzione dei rifiuti) costrette ad accogliere rifiuti da tutta Italia, magari da Regioni arretrate e impermeabili alle buone pratiche.
Non parliamo poi dei cittadini: da un lato impegnatissimi a ridurre e riciclare i loro scarti e dall’altro costretti a subire l’inquinamento di chi ancora questo sforzo non lo sta facendo. Altro che Sblocca Italia! Oggi occorre uno Sblocca Cervelli, che chiuda con questo ennesimo regalo alle multiutilities e con l’incenerimento, per marciare verso un ciclo economico basato sul contrasto a tutti gli sprechi e sull’efficienza (basta con l’industria sporca ed assistita!).
Per questo un ampio cartello di forze locali e regionali con il pieno sostegno di Zero Waste Italy ha promosso per il 7-8-9 settembre mobilitazioni territoriali da svolgersi preferibilmente di fronte ai palazzi regionali, in modo da chiedere agli Enti Regioni di non firmare questo atto di prepotenza avvelenato ed autoritario (si brucerebbe non solo la democrazia dei territori ma anche quella delle autonomie locali).
Nei prossimi giorni forniremo maggiori dettagli ma già da ora è disponibile un documento di “Osservazioni” curato da Enzo Favoino, coordinatore scientifico di Zero Waste Europe e di Zero Waste Italy, da divulgare al massimo ed altri strumenti (bozze di comunicati stampa e brochure) da utilizzare da parte dei gruppi che aderiranno a questa mobilitazione.
Inceneritori Zero, Rifiuti Zero, Riciclo Totale dei Materiali: indietro non si torna!
Rossano Ercolini, presidente di Zero Waste Europe e di Zero Waste Italy
Un artista trasforma (temporaneamente) una chiesa cattolica in una moschea islamica: provocazione utile per stimolare un ragionamento serio e utile sul riuso del patrimonio inutilizzato. La Repubblica, 12 maggio 2015
Di fronte alle opere esposte in Biennale la domanda rituale è: «Perché è arte?». Se ci spostiamo dallo scivoloso piano della definizione a quello della funzione, possiamo rispondere che la metamorfosi di Santa Maria della Misericordia è arte perché ci obbliga a pensare. Tutto fa tranne che intrattenerci, o distrarci: ci ricorda che, per millenni, l’arte è stata un potente strumento per cambiare il mondo, non un irrilevante altrove di comodo in cui fuggire. Ci dice ancora, Büchel, a cosa può servire il nostro patrimonio artistico: non è vero che le uniche alternative siano la chiusura, o la messa a reddito commerciale. Una chiesa antica che non diventa resort a 5 stelle, ma una moschea, rende chiaro il nesso fortissimo, e quasi sempre eluso, tra cultura ed eguaglianza, tra articolo 9 e articolo 3 della Costituzione.
Perché - e questo è il terzo, e più importante, successo - l’opera è tutta giocata sul corto circuito tra finzione e verità, nella più alta tradizione dell’arte occidentale. Nella “moschea” pregano veri fedeli, guidati da veri imam: il che ha comprensibilmente turbato una parte dei veneziani. Più curiosamente, il Comune di Venezia ha provato a fermare il libero gioco dell’arte con la carta moschicida della burocrazia: ieri ha chiesto di avere, entro il termine perentorio del 20, i documenti che dimostrano che la chiesa è stata sconsacrata, e ha surrealmente imposto che la chiesa ospiti un luogo di culto solo “per finta” (e che, dunque, non si sia per esempio obbligati a togliersi le scarpe).
Ma la questione sollevata da Büchel va esattamente nella direzione opposta: perché non offriamo alle comunità islamiche, cui non abbiamo permesso di avere un dignitoso luogo di culto, alcune chiese storiche che non usiamo più?
Un simile passo si collegherebbe a una storia lunga e terribile, cambiandone il segno. Conquiste e riconquiste hanno mutato molte chiese in moschee, e viceversa: il Partenone di Atene è stato consacrato alla Vergine cristiana, per poi essere islamizzato. Il Duomo di Siracusa è passato da tempio di Atena a chiesa della Madonna, a moschea: e quindi ancora a chiesa. Così è successo alla cattedrale di Cordova, prima chiesa, poi Grande Moschea poi definitivamente chiesa: ma nel 2007 i musulmani spagnoli hanno chiesto di poter tornarci a pregare. Non mancano esempi di (almeno temporanea) convivenza: la Grande Moschea degli Ommayadi, a Damasco è un tempio costruito dagli Amorrei intorno al 2500 circa a. C., rinnovato dai romani, trasformato in santuario cristiano da Teodosio alla fine del IV secolo, e poi in moschea dopo la conquista araba del 661: quando musulmani e cristiani poterono pregare, fianco a fianco, intorno alla testa del Battista.
Oggi sono l’immigrazione musulmana in Europa e la contrazione del numero di cristiani praticanti a far sì che la più grande moschea di Dublino sia un’ex chiesa presbiteriana, e che simili trasformazioni si contino a migliaia in Inghilterra (dove dal 1960 ad oggi sono chiuse 10mila chiese), a centinaia in Olanda, a decine in Francia. Da noi l’opera veneziana fa rumore perché c’è un solo caso: quello della chiesa storica di San Paolino, nel centro di Palermo, donata nel 1990 alla comunità musulmana dal cardinale Pappalardo, e oggi moschea amministrata direttamente dal governo tunisino. Non poteva che venire da Palermo questo segno profetico di accoglienza: e sarebbe importante che un’altra città aperta all’Oriente, Venezia, facesse per sempre ciò che l’opera di Büchel fa per qualche giorno. Una chiesa che diventa moschea, per amore e non per forza, in una città chiave dell’identità culturale europea: la migliore risposta a ogni intolleranza.
Qualche anno fa mi capitò di proporre che una chiesa storica del centro di Firenze diventasse moschea: perché è profondamente incivile che i compagni di scuola dei nostri figli non abbiano nemmeno un luogo di culto, in una città che trasforma le chiese antiche in sedi espositive, o location per sfilate. Il sindaco di allora — si chiamava Matteo Renzi — rispose che «era una bella sfida»: ma niente si è fatto, e anche l’ultimo piano urbanistico non prevede spazi per la moschea.
E quando la politica non raccoglie le vere sfide, la parola torna all’arte: capace di vedere più lontano, di costruire più futuro. Di svegliare, prima o poi, la politica stessa.
«Appalti. Nasce la "coalizione sociale" Cgil-Cisl-Uil, Libera e Legambiente, con tanto di richieste al neo ministro: «Legalità e contratti». Separare controllante e controllato. Aumentare i poteri dell’Anac, agenzia guidata da Cantone. Incentivare chi rispetta i diritti del lavoro e stop al massimo ribasso». Il manifesto, 4 aprile 2015
Aneddoti a parte, essendo stato chiamato dal premier Matteo Renzi a “moralizzare” il ministero dopo gli ultimi scandali, Delrio potrebbe decidere di confrontarsi con una nuova “coalizione sociale”, nata giusto sul tema degli appalti: non l’ha lanciata Maurizio Landini, ma anche lui in qualche modo ne fa parte. Stiamo parlando dell’arco di sindacati e associazioni — Cgil, Cisl, Uil, Libera e Legambiente — che qualche giorno fa ha presentato un Decalogo per una riforma degli appalti pubblici: regole per far sì che siano trasparenti, pienamente legali, rispettosi dell’ambiente, dei contratti e della sicurezza sul lavoro.
D’altronde una decina di giorni fa, anche il governo ci aveva messo del suo: il ministero dell’Economia aveva siglato una sorta di protocollo con l’Anac (l’agenzia anticorruzione diretta da Raffaele Cantone), volto a bonificare gli appalti. Si rischia il catalogo delle buone intenzioni, certo, mentre magari le mazzette e le irregolarità continuano a fiorire indisturbate, ma intanto dalla Cgil spiegano che non solo fare cultura su questo tema può essere utile per riformare le leggi e i comportamenti, ma che sempre più spesso — è già accaduto in diversi territori — si riescono a firmare accordi con le istituzioni locali per migliorare concretamente la gestione delle opere pubbliche.
Basta deroghe per urgenza
Il primo articolo del Decalogo chiede di «rendere più efficace il quadro normativo»: tra i punti più interessanti c’è la richiesta di snellire il codice dei contratti per evitare il ricorso alle deroghe per urgenza; assegnare gli appalti sempre con gare di evidenza pubblica; ridurre il numero dei centri decisionali.
Il secondo articolo chiede di «assegnare appalti, servizi e concessioni pubbliche solo attraverso gare standardizzate»: e cioè abolire la trattativa privata; standardizzare e semplificare contratti del medesimo genere, prevedendo l’indicazione in fase di gara del contratto applicato per profilo merceologico prevalente, con il sostegno dell’Autorità nazionale anticorruzione e l’utilizzo del documento di gara unico europeo; attivare concorsi per tutte le opere pubbliche.
Il terzo articolo del decalogo della speciale “coalizione sociale” sugli appalti chiede di «rafforzare i corpi tecnici dello Stato per eliminare il ricorso a professionisti esterni inprogettazione e direzione lavori»: perciò, tra le altre cose, abolire l’istituto del general contractor», prevedere subappalti controllati, per cui la parte che va in subappalto debba essere dichiarata in sede di gara; stabilire il divieto di attribuzione del subappalto a imprese che hanno partecipato alla gara.
Premiare chi è in «white list»
Il quarto articolo chiede di «affidare i lavori solo sulla base di progettazione esecutiva», e di avviare gli appalti solo a fronte di coperture certe. Al quinto punto, si chiede di «implementare e migliorare il sistema delle white list», e cioè: premiare nelle gare le imprese che non siano coinvolte in vicende di corruzione e di mafia; rendere obbligatorio, per le categorie di lavori sensibili, l’iscrizione alle white list; preferire le imprese che hanno buoni e certificati risultati in precedenti attività contrattuali, controllando certificazioni fiscali e contributive.
Dal sesto punto in poi si chiede il miglioramento dei sistemi di controllo: «ampliare i poteri di intervento, vigilanza e sanzione dell’Anac». Settimo articolo: «Rendere efficace il controllo tecnico per ogni appalto», ad esempio scegliendo «collaudatori indipendenti sulla base di criteri definiti dall’Anac e solo alla fine dei lavori, per evitare conflitti di interesse».
Il punto otto evidenzia l’importanza dell’informazione: «adottare il Freedom Of Information Act anche in Italia», «introdurre il Debat Public per le opere pubbliche».
Il punto nove è per l’ambiente: «Valutazione di impatto ambientale sul progetto preliminare, con verifiche nelle fasi successive»; «Utilizzo di materiali provenienti dal recupero nei capitolati di appalto». Il dieci, infine, chiede di «tutelare i lavoratori»: «contrastare la pratica del massimo ribasso; reintrodurre il rispetto della clausola sociale vincolante nei campi di appalto; escludere le imprese che abbiano violato gli obblighi contrattuali verso i lavoratori; rendere obbligatorio il pagamento diretto del subappaltante da parte della stazione appaltante e, in caso d’inadempienza dell’impresa appaltatrice, il pagamento diretto dei lavoratori da parte della stazione appaltante».
La stessa Cgil ha lanciato la raccolta firma per una sua proposta di legge sugli appalti: contro il massimo ribasso, per la trasparenza e legalità e per la clausola sociale.
Il debutto alle Infrastrutture: “Cambiare il codice degli appalti”. E si tiene la struttura di missione. Un buon inizio. Ma per farci credere che sia vero non dovrebbe rimangiarsi lo Sblocca Italia e cancellare la "Legge obiettivo". Altrimenti è ennesimo tweet. La Repubblica, 3 aprile 2015
ROMA . Parte in bici da Palazzo Chigi, ormai suo ex luogo di lavoro, dove ha appena incontrato Matteo Renzi per decidere le prime mosse da ministro delle Infrastrutture. Grazie alla pedalata assistita Graziano Delrio - come documentano le foto che lui stesso posta su Twitter - sale facilmente fino a Porta Pia, dove per la prima volta entra al suo ministero. Ci resterà tutto il giorno impegnato a prendere contatto con i dossier più urgenti, per poi allontanarsi sempre in bici, portata fuori dal portone da un ufficiale e da un commesso, imboccando un pezzo di Nomentana contromano.
Già al primo giorno da ministro Delrio - successore di Lupi, costretto a lasciare per lo scandalo Incalza-Grandi Opere - cerca di lasciare il segno.
Ecco perché vogliono a tutti i costi realizzare grandi opere spesso dannose, sempre costose e mai prioritarie. Sono la base procedurale e materiale di un "articolato sistema corruttivo che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori". Il Fatto quotidiano, 16 marzo 2015
Ercole Incalza, storico dirigente del ministero dei Lavori pubblici, è stato arrestato su richiesta della procura di Firenze. Quattro persone sono finite in carcere mentre sono in corso oltre 100 perquisizioni: oltre a Incalza, l’imprenditore Stefano Perotti, il presidente di Centostazioni spa (Gruppo Fs) Francesco Cavallo e Sandro Pacella, collaboratore di Incalza. L’operazione è condotta dai carabinieri del Ros. Nel mirino la gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere. Agli indagati, a quanto si apprende una cinquantina, compresi alcuni politici, vengono contestati i reati di corruzione, induzione indebita, turbata libertà degli incanti ed altri delitti contro la Pubblica amministrazione. L eperquisizioni hanno toccato gli uffici di diverse società, tra cui Rfi (Rete Ferroviaria Italiana, controllata da Ferrovie dello Stato) e Anas international Enterprise. In primo piano nell’indagine, i rapporti tra Incalza e l’imprenditore Perotti, a cui sarebbero state affidate nel tempo la progettazione e la direzione dei lavori di diverse grandi opere in ambito autostradale e ferroviario, dietro compenso.
Incalza è stato un superburocrate delle Infrastrutture. Esordì nel 2001 come capo della segreteria tecnica di Pietro Lunardi nel secondo governo Berlusconi, poi nei 14 anni successivi ha “servito” Antonio Di Pietro (governo Prodi). Fu quindi Altero Matteoli (ancora con Berlusconi) a promuoverlo capo struttura di missione, con la successiva conferma di Corrado Passera (Monti), Lupi (governo Letta) e di nuovi Lupi (governo Renzi). Poi l’addio in sordina nel gennaio scorso, mantenendo comunque un ruolo di superconsulente. Nella sua trentennale carriera, Incalza è stato indagato ben 14 volte, uscendone però sempre indenne. Il suo nome ricorre nelle carte delle principali inchieste sulla corruzione nelle grandi opere, da Mose a Expo passando per la “cricca” di Anemone e Balducci. Cosa che non ha fermato la sua carriera in seno al ministero oggi delle Infrastrutture.
Tutte le principali Grandi opere – in particolare gli appalti relativi alla Tav ed anche alcuni riguardanti l’Expo, ma non solo – sarebbero state oggetto dell’”articolato sistema corruttivo che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori”. Le indagini sono coordinate dalla procura di Firenze, perché – sempre secondo quanto è stato possibile apprendere – tutto è partito dagli appalti per l’Alta velocità nel nodo fiorentino e per il sotto-attraversamento della città. Da lì l’inchiesta si è allargata a tutte le più importanti tratte dell’Alta velocità del centro-nord Italia e a una lunga serie di appalti relativi ad altri Grandi Opere, compresi alcuni relativi all’Expo.
«Bellezza, affari, arte, corruzione. Splendori e miserie dell’Italia minore, spiegata ai tedeschi. Un articolo scritto per l’edizione tedesca di Le Monde Diplomatique». Sbilanciamoci.info, newsletter n. 400, 12 marzo 2015
Urbino con i suoi 15.000 abitanti appartiene alle “cento città” del centro Italia che ancora oggi formano un tessuto unico nella cultura urbano-paesaggistica del paese. Bologna è la grande città più vicina che dista all’incirca tre ore (con i trasporti pubblici). Siamo in una profonda provincia quindi, ma in una provincia dall’altissimo livello culturale. Dal mio giardino riesco ad ammirare una delle più belle opere del Rinascimento, il Palazzo Ducale. Oggi il centro storico della città, dove anticamente il palazzo era il fulcro della vita cittadina, viene affittato a turisti e studenti universitari. Chi passeggia nelle vecchie stradine può rendersi conto della mancanza di bambini. Passerà sotto un potente platano piantato nel 1799 sotto il quale si trova un asilo infantile gestito da una cooperativa.
I servizi pubblici in Italia, ammesso che siano ancora considerati tali, sono in misura sempre maggiore privatizzati o affidati a cooperative sociali. In entrambi i casi si cerca di abbattere i costi ricorrendo a forme di lavoro precario di giovani e meno giovani. Le tanto elogiate riforme del mercato del lavoro volute dall’Unione Europea negli ultimi dieci anni hanno moltiplicato le forme di contratti precari così che ad occuparsi di bambini, malati, libri, musei, profughi e spazi verdi sono sempre più persone malpagate e in continuo ricambio. Tra questi troviamo sia eroici idealisti che molti ignoranti. Il loro lavoro precario provoca un nuovo tipo di alienazione e assomiglia a una tragicomica parodia di quello che Marx definiva il sogno di un’umanità dalle numerose e versatili capacità.
Solo pochi attenti osservatori hanno colto la relazione tra riforme del mercato del lavoro, politiche di austerità, concorrenza al ribasso nelle gare d’appalto pubbliche, impiego sempre maggiore del lavoro precario e degenerazione dell’apparato pubblico. Negli ultimi dieci anni si è assistito a un progressivo peggioramento dei servizi pubblici che nel frattempo sono diventati sensibilmente più costosi. “Mafia capitale”, il recente scandalo sulla corruzione a Roma, ha messo in luce un sistema in cui la gestione di vari servizi del sociale, in primis l’accoglienza degli immigrati, è stata trasformata in una gigantesca macchina per fare soldi e in un oliato meccanismo di corruzione e spartizione di potere. Per questo caso la procura di Roma ha richiesto perfino l’applicazione del reato di associazione mafiosa. Il ricorso all’utilizzo di tale strumento di accusa avrebbe il compito di facilitare il lavoro dei magistrati, ma dal punto di vista giuridico questa interpretazione resta molto discutibile. In maniera analoga, la magistratura di Torino aveva proposto l’applicazione del reato di terrorismo contro i leader delle proteste contro la costruzione della ferrovia ad alta velocità Torino-Lione. In questo modo gli accusati, per lo più giovani, avrebbero rischiato fino a 10 anni di prigione, ma per fortuna il tribunale si è opposto a questa strategia repressiva.
Sono le “grandi opere”, spesso inutili, antidemocratiche e perfino antieconomiche, che in Italia come in altri paesi rappresentano la vacca sacra delle politiche di crescita nazionali. Alle grandi opere crede la sinistra italiana ormai più della destra. Anche ad Urbino dove l’amministrazione locale è stata guidata da una giunta di sinistra per più di cinquant’anni.
La costruzione di una strada a scorrimento veloce che ha permesso l’accesso più rapido alla città ha richiesto l’apertura di una costosissima galleria. Una soluzione alternativa sarebbe stata l’ampliamento della strada già esistente alla quale in ogni caso la galleria si ricongiunge prima di arrivare in città. Questo pezzo finale di strada è rimasto nelle stesse condizioni ormai da dieci anni, tanto che una parte di strada è franata durante una delle abbondanti piogge degli ultimi anni. In questo modo, da mesi, gli automobilisti si trovano incolonnati per un cantiere fermo per mancanza di fondi e perdono così quello stesso tempo che hanno risparmiato con la galleria.
Un gioiello di Urbino, l’Oratorio di San Giovanni, doveva essere protetto dalla pressione dell’acqua che scende dalla collina adiacente. L’impresa che ha vinto l’appalto abbassando i prezzi è finita poco dopo in bancarotta lasciando sul posto un enorme cantiere. A ridosso delle mura della città sorgono ora due grandi centri commerciali. Per costruire uno di questi – parcheggio coperto con annesso supermercato e stazione dei bus – è stata letteralmente tagliata una delle colline sulle quali sorge la città per poi essere ricoperta da una colata di cemento nascosta da qualche albero. Per costruire il parcheggio sono stati bloccati numerosi canali d’acqua sotterranei che attraversano la collina, i quali con tutta probabilità si faranno rivedere con il prossimo smottamento del terreno.
Da circa una decina di anni ogni grande pioggia in Italia causa una vera e propria catastrofe. Nel cedimento fisico del territorio si rispecchia la decadenza morale del paese. La distruzione del territorio prosegue con gli scandali del Mose di Venezia, dell’alta velocità Torino-Lione, dell’Expo di Milano, della costruzione della nuova metro C a Roma (scandalo probabilmente più grande di quello “Mafia capitale”), tutti alimentati dal recente decreto “Sblocca Italia” del governo Renzi per il rilancio delle politiche di crescita. Dato che l’Italia non ha un apparato in grado di amministrare responsabilmente le grandi opere pubbliche, Renzi ha deciso di semplificare i processi decisionali e i meccanismi di controllo.
Quando Pasolini visitava le favolose città dell’oriente era solito paragonarle con città italiane quali Venezia e Urbino. Quale ruolo possono avere questi luoghi del passato nel mondo contemporaneo? Questa domanda esistenziale non si pone soltanto nel caso delle città italiane. L’unica soluzione fino ad oggi trovata e più che mai applicata è quella di dare il passato in pasto al presente, cioè al turismo. Quasi in una forma di cannibalismo. Ovviamente ci sono delle sfumature e varianti. La strategia sviluppata ad es. a Urbino in questi ultimi mesi può suscitare qualche interesse.
Dopo le elezioni comunali dello scorso anno, la città ha chiamato come assessore alla cultura Vittorio Sgarbi e negli ultimi mesi sono state organizzate numerose iniziative come non si vedeva da tempo. L’attrazione principale è un ritratto di una giovane principessa della famiglia Sforza attribuito a Leonardo da Vinci. Il ritratto, disegnato su una pergamena, è stato esposto a Palazzo Ducale. L’opera, acquistata inizialmente nel 1998 per 22.000 dollari come lavoro di artista sconosciuto, aumenterebbe il suo valore esponenzialmente qualora venisse riconosciuta la paternità di Leonardo. Dopo aver offerto il Palazzo Ducale come cornice espositiva, Sgarbi è entrato decisamente nel dibattito sull’opera essendo assolutamente convinto che l’autore sia Leonardo.
Un’operazione come questa – giocata sul piano del mercato dell’arte e della visibilità mediatica – punta a proporre Urbino come uno dei “centri” del mondo contemporaneo. Con toni meno enfatici e più sincero anni fa Paolo Volponi, scrittore e poeta originario di Urbino, aveva constatato: “In ogni grande museo del mondo si possono trovare tracce di Urbino”. Sgarbi ha mobilitato questo prestigio di Urbino, la sua storia, i suoi miti e i suoi enigmi e porta nella piccola città una cultura degli “eventi” fino ad oggi estranea ad Urbino.
Il mercato dell'arte e l'uso delle esposizioni ai suoi fini è estremamente attraente per attività finanziarie speculative (e anche criminali). Gli “eventi” sono diventati un gioco pericoloso della politica culturale, gestito da una tipologia molto particolare di manager del quale Sgarbi è un chiarissimo esempio, con la sua geniale quanto patologica figura di esperto dei mercati dell’arte, di uomo dei talkshow, di avventuriero della politica e della vita pubblica dell’era Berlusconi. Uno scrittore come Balzac avrebbe trovato molta eccitante raccontare il personaggio.
Se Urbino ritroverà o meno il successo grazie a lui rimane da vedere. Quello che è certo è che ha portato un “vento nuovo” in una città dal fascino addormentato e i visitatori ne sono entusiasti. “Vento nuovo” e “rottamare” sono le parole preferite del governo Renzi, un aspetto che unisce la politica di Renzi a quella di Berlusconi, senza soluzione di continuità: il “nuovo” come valore in sè.
Retoriche di questo tipo tendono a nascondere molte altre esperienze che tengono in piedi l’Italia migliore. Una, piccolissima, non lontana da Urbino, viene dal piccolo comune di Sant’Ippolito (1500 abitanti) che a dispetto di tutte le misure di austerità continua a permettersi una biblioteca locale. In uno degli incontri della biblioteca il priore di Fonte Avellana, monastero nascosto in mezzo all’Appennino, ha commentato il discorso che Papa Francesco il 28 ottobre scorso ha tenuto ai rappresentanti dei movimenti sociali di tutto il mondo. La discussione ha riguardato il tema della credibilità delle parole e si concentrava in particolare su due frasi pronunciate dal Papa. La prima è un monito: “È curioso come nel mondo delle ingiustizie abbondino gli eufemismi… Potrei sbagliarmi in qualche caso, ma in generale dietro un eufemismo c’è un delitto”. La seconda era rivolta al suo pubblico di attivisti: “Voi avete i piedi nel fango e le mani nella carne. Odorate di quartiere, di popolo, di lotta”. Una vera politica culturale, indivisibile dalla politica sociale, non significa altro che ridare credibilità alle parole e alle immagini.
«Non è la prima volta che gli amministratori della Val di Susa invitano gli altri comuni d’Italia a sfilare al loro fianco. Ma oggi la valle che resiste chiede agli extravalligiani di andare oltre la semplice condivisione di uno striscione in un corteo. Chiede atti veri, chiede UGO! l’Unica Grande Opera». Il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2015
Se vi capita di partecipare ad un’assemblea di uno qualsiasi delle migliaia di comitati in difesa del territorio che esistono ad ogni latitudine del nostro paese, ad un certo punto dell’incontro sentirete sicuramente qualcuno degli attivisti pronunciare la frase: “Dobbiamo fare come in Val di Susa!”. Chi si oppone alla cementificazione, chi resiste a una grande opera, chi protesta per difendere il paesaggio, negli ultimi anni ha quasi sempre fatto riferimento, in piccola o in grande parte, al movimento che in Val di Susa ha lottato e lotta contro il TAV. Dall’altra parte della barricata, il partito dei politici, degli immobiliaristi e dei lobbisti delle grandi opere, hanno sempre accusato i movimenti ambientalisti di essere soltanto “quelli del no”, di non avanzare proposte, di saper fare solo proteste. Sabato 21 febbraio 2015, si è svolta a Torino l’ennesima manifestazione Notav.
Se lo chiedesse la maggioranza dei comuni d’Italia? Se UGO nascesse davvero? Sarebbe un’altra Italia.
Postilla
E se insieme chiedessimo ( e magari ottenessimo) l'eliminazione delle spese per le guerre della NATO? Forse le istituzioni potrebbero aiutare il risveglio del pacifismo in Italia
«Il degrado urbanistico dei comuni italiani è dovuto a leggi scellerate volute con accordo trasversale sia dal centro destra che dal centro sinistra». .Da un numero monografico della webzina di Attac, Granello di sabbia, 17 febbraio 2015
Dal mese di aprile 2014 Roma è sostanzialmente fallita. La capitale dello Stato italiano ha accumulato un debito insostenibile di 22 miliardi quantificati dalla relazione di lavoro iniziata nel 2008 del commissario governativo e presentata al Parlamento. Se ne sono accorti in pochissimi. La notizia era così grave che renderla pubblica avrebbe provocato un terremoto sui mercati finanziari e molti investitori avrebbero preferito abbandonare un paese che vede la sua capitale portare i libri contabili al tribunale fallimentare. Ma gli economisti liberisti, il cui credo domina il mondo, trovarono una soluzione geniale: trattare la capitale d’Italia come una qualsiasi azienda decotta. Come già sperimentato con l’Alitalia, l’obiettivo fu quello di creare una bad company in cui far confluire tutti i debiti ed una nuova società pulita da affidare agli amici del cuore (nel caso di Alitalia, ai capitani coraggiosi guidati da Roberto Colaninno). E così è stato anche per Roma. L’amico del cuore stavolta rispondeva al nome di Gianni Alemanno, da pochi mesi eletto sindaco. Inizialmente ebbe poteri speciali in materia di bilancio e poi nel 2011 gli fu affidata una nuova creatura istituzionale pronta per l’uso: la vecchia Roma se n’è andata in pensione portando con sé 22 miliardi di euro di deficit.
Il caso del debito di Roma non è un’eccezione. Alessandria nel 2011 è stato il primo capoluogo di provincia ad essere portato al fallimento. Napoli è in fase di pre-dissesto. Parma è stata lasciata dalle amministrazioni di centro destra e cento sinistra con 850 milioni di deficit. Reggio Calabria è fallita. La quasi totalità delle amministrazioni locali è indebitata. Nel luglio 2014 sono stati complessivamente 180 i comuni italiani in default. Le cause sono sempre quelle elencate: opere pubbliche insensate, espansioni urbanistiche e utilizzo del comparto delle società di erogazione dei servizi come finanziamento occulto per il famelico mondo della politica.
Questo disegno scellerato si è servito anche dell’urbanistica, o meglio della sua distruzione. Dal 1994, anno dell’uscita del paese dalla crisi provocata da Tangentopoli, si è assistito ad una serie ininterrotta di provvedimenti legislativi e di concrete politiche che hanno cancellato le regole di governo del territorio per sostenere il comparto delle costruzioni. Questa scelta è stata sostenuta da un espediente retorico di grande efficacia: lasciando libera la proprietà fondiaria di disegnare le città si sarebbe avuta una nuova fase della vita urbana senza il ristagno dell’economia provocato da un’urbanistica accusata di non cogliere le ragioni del mercato. Le città sono diventate uno dei tanti segmenti dell’economia. Ma esse non sono meri settori produttivi: sono i luoghi in cui si vive, si lavora, ci si incontra, in cui ci sono le scuole per i giovani e i servizi di assistenza per gli anziani.
Grazie alla disarticolazione della legislazione di tutela e alla cancellazione dell’urbanistica si è prodotta la più grande espansione edilizia dal periodo dell’immediato dopoguerra. Nel 2013 l’Ispra, Istituto superiore di studi per l’ambiente, ha confermato quanto una parte degli urbanisti e delle associazioni aveva denunciato in quegli anni. Afferma l’Ispra che a fronte di un consumo di suolo medio europeo del 3,2% sul totale della superficie, in Italia il valore è pari a 6,2%, poco più del doppio. A parità di popolazione insediata e di luoghi per la produzione industriale o terziaria, in Italia abbiamo cementificato il doppio dei paesi che hanno invece mantenuto il controllo del territorio. La cancellazione delle regole ha prodotto un’esplosione edificatoria gigantesca, una frammentazione edilizia cui la mano pubblica deve fornire comunque i servizi e garantire il soddisfacimento dei bisogni primari, dalla mobilità, all’istruzione e all’assistenza sanitaria. Roma e tutte le città italiane pagano con un indebitamento crescente le politiche urbane che hanno dominato l’Italia per venti anni.
La diffusione urbana è così evidente da essere notata anche da un autorevole membro del neoliberismo. Nel giugno 2014 Carlo Cottarelli, chiamato dall’ottobre 2013 (governo Letta) quale commissario alla Spending Review, dopo anni di attività nel Fondo monetario internazionale, scopre dall’esame delle immagini satellitari notturne che la struttura territoriale italiana presenta anomalie rispetto all’Europa del nord poiché è più frammentata e dispersa, ulteriore conferma che abbiamo costruito troppo. La soluzione proposta da Cottarelli è coerente con i dettami del liberismo. Non chiede infatti di fermare la folle macchina del cemento. Afferma che il rimedio è quello di spegnere l’illuminazione pubblica in modo da spendere di meno.
Abbiamo il doppio dell’urbanizzato e conseguentemente spendiamo il doppio per far funzionare le città. I comuni italiani sono stati infatti costretti a inflazionare il cemento e l’asfalto perché così ha deciso l’economia dominante. Il principale responsabile di questo disastro è senza dubbio Franco Bassanini (Pd), Ministro della Funzione pubblica (2001, governo Amato), che in quel ruolo decise che gli oneri di urbanizzazione che i costruttori versano ai comuni per costruire servizi, potevano essere utilizzati anche per la spesa corrente e tutti le amministrazioni locali hanno fatto ricorso a quel cespite di finanziamento. Del resto, sono stati praticati da anni tagli lineari dei trasferimenti statali che hanno portato all’attuale generalizzata bancarotta. Per capire l’ammontare della manovra, basti dire che nei sei anni dal 2008 al 2013 sono stati tagliati 17 miliardi di euro, oltre 2 miliardi e mezzo all’anno.
Il degrado urbanistico dei comuni italiani è dovuto a leggi scellerate volute con accordo trasversale sia dal centro destra che dal centro sinistra. Domina però tutto il quadro la figura di Franco Bassanini, come abbiamo visto. Ed è forse per il grande merito di aver distrutto le amministrazioni locali che – ancora con accordo bipartisan – nel dicembre del 2008 fu nominato dal governo Berlusconi a capo della Cassa Depositi e Prestiti. E questa è una vicenda nota ai lettori della rivista perché Attac e Marco Bersani ne hanno fatto una meritoria battaglia.
Articolo tratto dal granello di sabbia di gennaio/febbraio 2015 "Enti locali: cronaca di una morte annunciata", scaricabile qui
«ll disegno originario, approvato dalla precedente amministrazione (sempre Pd), prevedeva la realizzazione di un polo residenziale nuovo di zecca, in un'area vasta quanto 35 campi da calcio. Il sindaco anti-cemento Isabella Conti: “Non temiamo più nulla. Abbiamo agito legittimamente"». Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2015
Addio alla nuova cittadella di San Lazzaro, al centro del caso delle presunte minacce al sindaco Pd anti-cemento Isabella Conti. Giovedì 12 febbraio il consiglio comunale ha votato all’unanimità a favore della decadenza del Piano operativo comunale, così come già deliberato dalla giunta. Quindi niente ruspe, per ora, nel cuore verde della città emiliana, 30mila abitanti alle porte di Bologna. La mossa comporta infatti l’annullamento dei diritti edificatori sull’area della frazione agricola di Idice, individuata per la costruzione di 582 alloggi. E costringe le cooperative a rinunciare al progetto come era stato pensato negli anni scorsi, e insieme a un affare d’oro.
«Abbiamo il dovere morale di farlo pensando al futuro e a ciò che lasceremo dietro di noi», ha detto il sindaco nel discorso prima del voto. «Non stiamo facendo nulla di diverso da quello promesso incampagna elettorale. Sempre nella tutela dell’interesse pubblico e tenendo la legalità come stella polare». A dicembre, Conti aveva deciso di raccontare ai carabinieri le pressioni, ricevute dopo aver bloccato i lavori della new town per la mancanza delle fidejussioni: politici (anche del suo partito), imprenditori e tecnici avevano tentato di indurla al dietrofront. Una denuncia che aveva mandato nel caos il Pd, e spinto la Procura di Bologna a indagare non solo sulle presunte minacce, ma anche sulla maxi operazione immobiliare.
Giovedì, dopo il via libera dell’aula, Conti ha ribadito l’intenzione di tirare dritto. Anche di fronte al rischio di azioni legali da parte di alcuni colossi del mattone (coinvolta c’è anche Coop Costruzioni, una delle più grandi coop rosse emiliane), che con il voto hanno visto andare in fumo un possibile giro d’affari stimato tra i 120 e 150 milioni di euro. Il disegno originario, approvato dalla precedente amministrazione (sempre Pd), prevedeva la realizzazione di un polo residenziale nuovo di zecca, in un’area vasta quanto 35 campi da calcio. «Non temiamo più nulla. Abbiamo agito legittimamente, seguendo un iter rigoroso e preciso», ha spiegato il sindaco. «Una causa sarebbe totalmente infondata. Ora voltiamo pagina e cominciamo a riprogettare la città, pensando ad altre zone che hanno davvero bisogno di essere riqualificate».
Lo stop è stato accolto con festeggiamenti e brindisi dalle decine di cittadini, che hanno riempito la sala del consiglio come poche volte nella storia di San Lazzaro. A esultare anche diversiconsiglieri comunali, da sempre contrari al maxi insediamento. Come Massimo Bertuzzi, della lista civica Noi Cittadini. Già nel 2013 aveva presentato un esposto in Procura, denunciando le anomalie nella vendita dei terreni. E proprio Bertuzzi, nella seduta del consiglio comunale, ha letto alcune delle osservazioni che le cooperative hanno fatto arrivare in comune nelle settimane scorse. Compreso un testo, in cui si parla senza mezzi termini dei danni e delle responsabilità legali dei singoli consiglieri. «Se qualcuno si permette di scrivere queste cose, mentre stai facendo solo il tuo lavoro, vuol dire che il sistema è malato», ha commentato il consigliere.
Non è un caso che al voto in aula, un passaggio decisivo, si sia arrivati dopo tre commissioni infuocate e tesissime, condotte a porte chiuse «per non alimentare preoccupazioni nei consiglieri chiamati a decidere». E prima di esprimersi sul blocco dei lavori, gli eletti avevano voluto consultare le carte e ascoltare avvocati per scacciare lo spettro di possibili ripercussioni legali. Alla fine però la votazione è andata secondo previsioni: 21 sì e 4 non votanti. Standing ovation e tutti in piedi al momento del verdetto. Esclusi i 3 consiglieri di Forza Italia, maggioranza e opposizioni hanno votato insieme. Compatto anche il Pd, che dopo giorni di incontri, discussioni e difficili mediazioni, ha deciso di fare quadrato e sposare la linea del sindaco.
Si chiude così il primo capitolo, quello politico, di una vicenda che per la prima volta ha acceso i riflettori sui rapporti tra coop emiliane e istituzioni e sulle influenze che le imprese possono esercitare sulle amministrazioni. Un terreno poco esplorato, in una regione dove Pd e mondo delle cooperative hanno sempre lavorato in sintonia, scambiandosi spesso uomini e dirigenti. Resta aperta e ancora tutta da scrivere la pagina giudiziaria.
«Si sono presi gli appalti per togliere le macerie e quelli per la ricostruzione. Imprese a loro vicine hanno messo l’amianto nelle scuole, l’hanno sotterrato sotto due centimetri di asfalto, l’hanno usato per fare i campi di accoglienza». La Repubblica, 29 gennaio 2015 (m.p.r.)
Nell'Emilia che crollava per il terremoto, la ‘ndrangheta era arrivata prima dei soccorsi. «O comunque in contemporanea», scrive il gip di Bologna, a corollario della maxi inchiesta che svela quello che da troppo tempo non si vuol vedere. Anche l’Emilia Romagna, infatti, è infestata dalle cosche calabresi. Sono a Parma, sono a Reggio, a Modena, a Piacenza. Dovunque. Sono nel cratere dei comuni devastati dal sisma del 2012, si sono presi gli appalti per togliere le macerie e quelli per la ricostruzione. Imprese a loro vicine hanno messo l’amianto nelle scuole, l’hanno sotterrato sotto due centimetri di asfalto, l’hanno usato per fare i campi di accoglienza. Ridevano mentre i capannoni di Mirandola cadevano giù, annusando l’odore del business. È già successo all’Aquila. Succede anche nella prospera regione rossa, preda del clan Grande Aracri di Cutro, piccolo paese del crotonese lontano un migliaio di chilometri da questa terra.
«Bologna: la procura apre un’inchiesta sulle frasi pronunciate nei confronti di Isabella Conti, primo cittadino di San Lazzaro che ha bocciato un mega progetto edilizio. Al vaglio gli sms in cui politici del suo partito e imprenditori le facevano pressioni». La Repubblica, 3 gennaio 2015
Blocca un mega-progetto edilizio e per lei, giovanissima sindaco Pd di un paese alle porte di Bologna, comincia un calvario. Pressioni di ogni tipo, una pioggia di sms, telefonate e mail di compagni di partito ed esponenti delle coop che vedono sfumare la costruzione di centinaia di appartamenti. Fino alla minaccia raccolta da un dipendente comunale al quale un ex consulente del comune sibila: «Ma che cosa intende fare, questa? Vuole passare un guaio? Vuole che le capiti qualcosa?». Troppo per Isabella Conti, 32 anni, avvocato, da pochi mesi primo cittadino di San Lazzaro, che corre dai carabinieri e denunciare l’accaduto, anche a costo di creare un caso politico e giudiziario. E infatti la procura della Repubblica di Bologna ha immediatamente aperto un’inchiesta.
Tutto nasce da un provvedimento urbanistico del paese dell’hinterland bolognese. Un insediamento da 582 alloggi, più una scuola e un centro sportivo, al centro di polemiche violente da quasi un decennio. Il progetto, da sempre osteggiato dagli ambientalisti e dai comitati cittadini, era stato varato dalla giunta precedente, targata sempre Pd. Ma nel novembre scorso la giovane sindaco Conti ne decreta lo stop con una delibera che avvia la decadenza del Poc (Piano operativo comunale). Uno strappo già annunciato dalla Conti in campagna elettorale, prima della sua elezione nel maggio 2014. L’occasione le si presenta quando, in seguito al fallimento della Cesi, una coop rossa che insieme alla Coop Costruzioni e altre due aziende, doveva realizzare l’opera, al Comune non viene presentata una fideiussione da parte della cordata vincente. E la Conti coglie il pretesto e ferma tutto anche se le aziende annunciano di essere pronte a fare causa al Comune per 20 milioni di euro. È in questo clima che cominciano le pressioni tramite sms e posta elettronica. Al vaglio degli inquirenti ci sono alcuni messaggi spediti da politici e imprenditori per convincerla a fare la “scelta giusta” e tornare sui suoi passi. Pressioni politiche, fin qui. Messaggi per consigliarle di valutare la sua decisione, per evitare eventuali problemi politici e azioni di risarcimento danni. Ma a un certo punto, a metà dicembre, all’orecchio del sindaco arriva altro. Un dipendente comunale le riferisce le frasi minacciose di un consulente del Comune, un professionista vicino al partito democratico. «Ma cosa intende fare questa? Vuole passare un guaio?», parole che Isabella Conti riferisce immediatamente ai carabinieri e che gli inquirenti, il procuratore aggiunto Valter Giovannini e la pm Rossella Poggioli, non prendono certo sottogamba. L’inchiesta è appena partita nella massima riservatezza. Ma tutto il mondo politico, dal Pd ai grillini al Forza Italia, esprime solidarietà alla Conti. E così i vertici di Legacoop. «Sono molto dispiaciuta — ha detto la presidente Rita Ghedini, ex senatrice — spero che non sia niente di rilevante. Quella di cui si parla è un’operazione di rilievo economico e speravo che rimanesse tale».
«Il Paese frana sotto la pioggia e passa la legge che sblocca i cantieri. Il Presidente del Consiglio invece di sostituirsi a giornali e storici nella ricerca di responsabilità, si chieda cosa deve fare il governo. Invece di pensare alle leggi regionali, pensi a quelle che firma lui». La Repubblica, 17 novembre 2014
Lascia interdetti lo scaricabarile tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Liguria sulle responsabilità del dissesto del territorio italiano. E non solo perché è indecoroso mettersi a discutere mentre i cittadini e la Protezione civile lottano contro il fango: ma anche perché la questione è troppo maledettamente seria per liquidarla a colpi di dichiarazioni e controdichiarazioni tagliate con l’accetta.
«RottamaItalia. Il governo rischia una procedura d'infrazione europea per l'articolo 5 del decreto che regola le concessioni autostradali. La denuncia di Altreconomia: "L'obiettivo dell'articolo pare solo uno: fare in modo che il rinnovo delle concessioni non sia mai messo a gara, una gara europea"». Il manifesto, 21 ottobre 2014 (m.p.r.)
In maniera più argomentata, l’ebook «RottamaItalia» pubblicato da Altreconomia ha denunciato il «comma Orte-Mestre», la mega-autostrada che il ministro Lupi intende costruire. La norma impedisce il rinnovo delle concessioni mediante una gara. Il «mercato» delle autostrade resterà così in mano ai monopolisti. Bruxelles ha deciso di agire in nome del «libero mercato» e conferma: tra le tante misure contestate di un provvedimento che dà il via libera a trivellazioni, cemento, speculazioni immobiliari e finanziarizzazione del patrimonio e del territorio, l’articolo 5 sulle concessioni autostradali sembra consentire la realizzazione di «significative modifiche» ai contratti di concessione esistenti riguardanti lavori nell’ambito del rapporto concessorio e livello delle tariffe. Insomma, il governo Renzi non starebbe affatto liberando gli «spiriti animali» del capitalismo tradizionale — quello del cemento e quello che costruisce automobili. Nei fatti sta favorendo i monopolisti del settore. Non solo, rischia anche di violare la legislazione comunitaria in materia di appalti pubblici.
Lo scoglio sul quale si sono andati a incagliare Renzi e il ministro dei trasporti Maurizio Lupi non è indifferente. Lo attesta anche un emendamento allo Sblocca Italia introdotto in commissione Ambiente alla Camera: per la proroga delle concessioni autostradali servirà il via libera dell’Unione europea. Un giudizio negativo sull’intero disegno di legge per la conversuione del decreto legge è arrivato anche dalla Conferenza delle Regioni. I governatori chiedono tra l’altro il ripristino del contributo di 560 milioni di euro per il riparto delle risorse del sistema sanitario nazionale nel 2014. Come denunciato dal coordinamento universitario Link, questo taglio si scaricherà sul finanziamento delle borse di studio, oltre che sui disabili. Non meno caldo è il fronte politico che ha visto la dura opposizione del Movimento 5 Stelle, oltre che convocazione di una manifestazione nazionale il 7 novembre a Bagnoli nell’ambito della campagna «Blocca lo Sblocca Italia». Ieri il deputato Pippo Civati ha ribadito l’intenzione di votare contro lo Sblocca Italia: «Sarà una buona palestra, contiene cose che non vanno». Sabato sarà in piazza a Roma con la Cgil. «È una maggioranza che ha fatto qualcosa che non era nel programma per il quale siamo stati votati».
«Una delle prime cose che abbiamo dovuto imparare quando siamo entrati in Parlamento è che in politica bisogna distinguere quello che si dichiara di voler fare da quello che si intende fare davvero». Corriere della Sera, 19 Ottobre, 2014
Forse possiamo dare un piccolo aiuto per chiarire lo stupore di Sergio Rizzo sulla stasi della legge «anticemento». La ricostruzione del giornalista (Corriere 6 ottobre) è corretta: le proposte di legge finalizzate a fermare il consumo di suolo sono incomprensibilmente arenate nelle commissioni parlamentari. Eppure il tema sembra condiviso dalla stragrande maggioranza delle forze politiche in Parlamento. Una delle prime cose che abbiamo dovuto imparare quando siamo entrati in Parlamento è che in politica bisogna distinguere quello che si dichiara di voler fare da quello che si intende fare davvero. Alla prima categoria appartengono le iniziative finalizzate alla ricerca del consenso (pubblicizzandole preferibilmente negli ambiti dove riscuotono maggiore interesse), mentre alla seconda categoria appartengono atti concreti e per i quali si cercano corsie preferenziali.
Massimo De Rosa, M5S, è vicepresidente Commissione ambiente alla Camera dei Deputati
Di questi tempi, l'informazione su un atto amministratico così ovvio non meriterebbe neppure una segnalazione. Nei giorno dello SbloccaItalia e della Legge Lupi appare come un gesto controcorrente: una buona notizia. Corriere della Sera, 7 ottobre 2014
Il Consiglio dei ministri ha deciso di impugnare la legge regionale della Campania, collegata alla Finanziaria regionale 2014, che prevede «Interventi di rilancio e sviluppo dell’economia
regionale nonché di carattere ordinamentale e organizzativo».
«Sblocca Italia. Il presidente dell'Autorità anti corruzione, Raffaele Cantone, ha sottolineato le criticità del piano del governo per le opere pubbliche e private che nei prossimi anni dovrebbero asfaltare il Paese: "Appalti a rischio senza trasparenza". Anche Bankitalia "avvisa" la Commissione ambiente alla Camera». Il manifesto, 1 ottobre 2014 (m.p.r.)
Una pioggia di miliardi promessi per completare le opere ferroviarie, per modernizzare gli aeroporti, per rilanciare i lavori pubblici nelle aree urbane, per asfaltare nuove o vecchie autostrade, per costruire varie infrastrutture, fra cui nuovi pozzi petroliferi. Questo è il meraviglioso programma del cosiddetto decreto “Sblocca Italia” (nome di fantasia, copy right Matteo Renzi).
E in più, tanto per essere svelti e convincenti, ci sono anche normative pensate ad hoc per snellire le procedure burocratiche e velocizzare l’assegnazione degli appalti. In buona sostanza, si tratta delle opere pubbliche (e private) che nei prossimi anni dovrebbero asfaltare l’Italia, con la prospettiva, dicono, di far ripartire l’economia.
La materia è complessa e c’è chi ha già ribattezzato “Sfascia Italia” il decreto che andrà in aula alla Camera la prossima settimana (il Movimento 5 Stelle che sta preparando una controproposta e una serie di iniziative nei territori per denunciare il bluff di un’operazione che non starebbe in piedi — “non ci sono i soldi” — e che sarebbe “dannosa” e piena di insidie — per il territorio e per l’opacità di procedure che potrebbero favorire il malaffare.
Questa però volta i penta stellati non sono i soli a sottolineare alcune “criticità”, se è vero che ieri nel corso di una lunga audizione alla Commissione ambiente alla Camera si sono levate altre voci autorevoli a suggerire una certa prudenza. E’ stata una lunga teoria di pareri, dubbi e perplessità, fra cui spiccano i pareri di Bankitalia e di Raffaele Cantone, il presidente dell’Autorità anticorruzione, quasi un oracolo del nuovo corso.
Gli esperti di via Nazionale, col tono compassato che gli è proprio, questa volta sono stati abbastanza espliciti: alcune deroghe previste nel decreto potrebbero favorire la corruzione, e ci sarebbero anche “rischi in termini di costi”. La parte del guastafeste è toccata al vice capo del servizio struttura economica di Bankitalia, Fabrizio Balassone, preoccupata per le troppe deroghe alla disciplina ordinaria previste dal decreto per la realizzazione delle opere pubbliche: “Si introduce un sistema di deroghe molto pervasivo al Codice di contratti pubblici sulla base della mera certificazione del requisito di estrema urgenza da parte dell’ente interessato. Tale ricorso a meccanismi derogatori, pur motivato dal condivisibile obiettivo di ridurre i tempi in fase di aggiudicazione, si è già rivelato in passato non sempre pienamente efficace, con ripercussioni negative sui tempi e sui costi nella successiva fase di esecuzione dell’opera e di vulnerabilità ai rischi di corruzione”. Invoca “trasparenza” Bankitalia.
Raffaele Cantone è andato oltre. E’ entrato nei dettagli per esprimere «qualche perplessità». Per il ruolo che ricopre è inutile dire che il suo è stato l’intervento più allarmante ascoltato ieri in Commissione. Per esempio: il decreto concentra troppi poteri in mano all’amministratore delegato di Fs Michele Elia, nominato commissario straordinario per la Napoli-Bari. La scelta sarebbe problematica perché «è evidente che c’è un soggetto che ha interesse al compimento delle attività che è anche soggetto attuatore pubblico degli appalti». Dicesi conflitto di interessi. Raffaele Cantone ha intravisto norme “non del tutto comprensibili” anche sulle concessioni autostradali, in particolare laddove esiste un meccanismo che affida alle aziende concessionarie la possibilità di presentare altri progetti nei tratti di interconnessione tra le autostrade anche dopo aver già vinto l’appalto.
L’affondo è piaciuto anche al presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti (costruttori edili): «Bisogna mandare in gara tutto quello che non è stato vinto tramite gara, dobbiamo fare chiarezza sugli interventi che creano lavoro». Cantone, inoltre, ha ravvisato un concreto rischio riciclaggio a proposito dei project bond (sorta di azioni non nominative e “de materializzate”), e più in generale ha chiesto più chiarezza su alcune figure chiave individuate per facilitare l’attuazione del decreto “Salva Italia”. Per il presidente dell’Anac «va resa obbligatoria la trasparenza assoluta». Il suo intervento è stato apprezzato da Ermete Realacci, presidente della Commissione ambiente alla Camera: «Ha indicato concretamente vari spunti per migliorare il provvedimento».