Prima di iniziare la trattazione dei problemi urbanistici sotto il profilo legale è forse opportuno dare uno sguardo, per così dire, panoramico alla situazione urbanistica italiana, al fine di esaminare se e fino a qual punto lo stato attuale della legislazione abbia influito o possa influire sulla progettazione e sull'esecuzione di buoni piani regolatori.
Quando, nel settembre 1929, fu inaugurata in Roma la I Mostra Nazionale Urbanistica, molti delegati stranieri, convenuti in Italia per prender parte al XII Congresso Internazionale dell'abitazione e dei piani regolatori, ebbero espressioni di plauso e di meraviglia nel constatare, attraverso una documentazione di inoppugnabile evidenza, che l'Italia, da molti giudicata un paese ancora agli albori della scienza urbanistica, aveva invece compiuto e stava compiendo un lavoro notevole per la preparazione di piani di trasformazione e di ampliamento delle proprie città rispondenti alle moderne esigenze dell'igiene, del traffico e dell'estetica.
Quella mostra nazionale ebbe, quindi, il merito di svolgere un'utile funzione di propaganda presso scienziati e uomini politici stranieri, fornendo una prova del grande impulso dato dal Fascismo al rinnovamento del paese anche in questo settore importantissimo riflettente il miglioramento delle condizioni di vita materiale delle popolazioni.
Ma un altro vantaggio assai notevole essa recò, e fu quello di richiamare l'attenzione di molte amministrazioni municipali, rimaste fino ad allora pressoché inerti, sulla necessità di risolvere i problemi di sistemazione e di ampliamento dell'aggregato edilizio, come mezzo per eliminare molteplici inconvenienti più o meno gravi nello svolgimento della vita cittadina, e per assicurare la conservazione e il miglioramento del patrimonio di bellezze artistiche e panoramiche, che la maggior parte dei nostri comuni posseggono in misura doviziosa.
Infatti, mentre fino al 1929 solo poche grandi città avevano provveduto a preparare e far approvare piani regolatori edilizi e di ampliamento, da quell’anno in poi si moltiplicarono i progetti degli uffici municipali e numerosi furono i concorsi banditi per fissare i criteri più idonei da seguire nella loro compilazione, Ne il movimento di rinnovamento urbanistico si fermò alle città maggiori, che anche amministrazioni di centri appartati di provincie vollero fissare in piani più o meno bene studiati nuovi criteri di assetto dell'abitato.
Dall'Annuario delle Città Italiane, importante pubblicazione edita in questi ultimi mesi dall'Istituto Nazionale d'Urbanistica, risulta che dei 93 capoluoghi di provincia, 32 hanno oggi un piano regolatore approvato e 4710 hanno in compilazione; di guisa che solo 13 non hanno ancora affrontato la soluzione integrale dei problemi urbanistici.
Non è mia intenzione affermare che siffatti risultati debbano unicamente ascriversi alla funzione di richiamo e di propaganda esercitata dalla Mostra del 1929. A queste importanti realizzazioni contribuì in grande misura la parola appassionata di vecchi e di giovani urbanisti, di scienziati e di neofiti, i quali non cessarono di far presenti in tutti i modi, dalla cattedra e dalle colonne dei quotidiani, dalle Commissioni edilizie e dalle adunate di tecnici, i dannosi effetti di un'attività edilizia disordinata. Vi contribuì una conoscenza più approfondita delle esigenze demografiche, economiche, culturali e sociali in genere dei nostri aggregati urbani da parte di amministratori e di organi centrali e locali di controllo. Vi contribuirono le polemiche fra studiosi di problemi municipali, dalle quali quasi sempre emerse chiaro che alle esigenze predette non corrispondeva la struttura degli aggregati edilizi o non vi avrebbe più corrisposto in avvenire se non si fosse pensato a indirizzarne in modo idoneo la trasformazione e l'accrescimento.
Certo è che molte amministrazioni municipali riconobbero in questi ultimi anni la necessità di provvedere ad un conveniente assetto dell'abitato e affrontarono i problemi edilizi con una sollecitudine e con una buona volontà che talvolta disorientarono coloro stessi che avevano protestato contro l'inintelligente neghittosità di Consigli e di Giunte comunali, rimaste per lungo tempo impassibili di fronte all'incalzare dei bisogni relativi allo sviluppo cittadino.
Vi sono state esagerazioni? Alcuni ne dubitano. Altri lo affermano in modo reciso, dichiarando che la vanità personale di amministratori, desiderosi di legare il loro nome ad opere colossali, più che il reale bisogno di trasformazioni edilizie ha dato esca alla formazione di piani implicanti vaste demolizioni di edifici dove si sarebbe potuto provvedere con semplici modificazioni di dettaglio, ha spinto all'esecuzione di opere giustificate con necessità di traffico, d'igiene, di decoro, talvolta assolutamente inesistenti, spesso artatamente amplificate, ha condotto alla previsione di nuovi estesi quartieri di abitazione, con conseguenti vincoli alle proprietà private per la formazione di reti stradali, laddove il coefficiente d'incremento della popolazione avrebbe potuto render necessaria la costruzione di poche case in un periodo abbastanza lungo, ha spinto infine alla creazione di zone verdi e di spazi liberi dove questi risultavano superflui o comunque non indispensabili, impedendo un conveniente sfruttamento edilizio di vasti appezzamenti di terreni situati in ottima posizione.
Con il corredo di ben colorite relazioni anche sulla disoccupazione locale, si è detto, sono stati imbastiti grandiosi piani di sventramento, mastodontici progetti di bonifica igienica, sontuose trasformazioni estetiche, che, mentre hanno gravato molti bilanci comunali di pesi insostenibili per mutui o per anticipazioni onerose, non hanno risoluto definitivamente i problemi messi allo studio, giungendo quindi all'unico vero risultato di peggiorare la situazione dei contribuenti e di infliggere alla proprietà privata inutili limitazioni.
Il quadro è alquanto catastrofico! Non si può tuttavia negare che talvolta si sia andati troppo innanzi e che non solo sia stata Eseguita qualche opera non del tutto necessaria, ma che numerosi vincoli siano stati imposti sui beni privati senza la certezza di poter dar corso alle sistemazioni relative. Inconveniente questo assai grave, perché, se è fuori dubbio che l'interesse privato debba cedere di fronte a quello della collettività, è da considerare iniquo, e perciò inammissibile, che il cittadino debba soffrire una diminuzione del suo patrimonio senza che ne derivi un corrispondente vantaggio per la collettività. Di vera diminuzione patrimoniale deve, infatti, parlarsi quando un immobile, gravato della « servitus non aedificandi», perché destinato a passare nel demanio comunale con l'attuazione del piano regolatore, viene di fatto ad essere posto fuori commercio e subisce quindi una svalutazione più o meno grave, quasi sempre non compensata da altro beneficio economico per il proprietario.
Ne ad eliminare tali inconvenienti ha giovato il sistema del pubblico concorso per la preparazione del piano regolatore, sistema largamente usato in questi ultimi tempi, che, si riteneva, avrebbe assicurato i migliori risultati, chiamando a collaborare ad un compito così importante le migliori energie. Di fatto molto spesso le Commissioni giudicatrici si son trovate di fronte a proposte geniali e a piani profondamente studiati, ma altrettanto gravosi per le finanze comunali e non meno criticati dai rappresentanti degl'interessi della proprietà privata rispetto a quelli preparati direttamente dagli uffici municipali.
Quali le cause di una situazione tanto strana? Forse l'eccessivo ardimento di tecnici portati a seguire principi teorici senza la preoccupazione delle possibilità pratiche di realizzazione? O forse il carattere incompleto e anacronistico delle disposizioni che regolano in Italia la formazione e l'esecuzione dei piani regolatori?
Noi vorremmo poter scartare la seconda ipotesi: invece onestamente dobbiamo riconoscere che proprio a questa causa sono da attribuirsi in gran parte gli eccessi deplorati nel campo urbanistico.
Purtroppo, mentre per la parte tecnica sono stati compiuti progressi notevolissimi e i nostri architetti ed ingegneri si sono messi alla pari dei loro colleghi stranieri, se non li hanno addirittura sopravanzati, nella formulazione di progetti in tutto rispondenti alle esigenze dei centri da sistemare, le norme che regolano la materia sono rimaste ancora quelle di settanta anni or sono, contenute negli ultimi nove articoli della legge 24 giugno 1865 sull'espropriazione per pubblica utilità, norme emanate quando in tutti i campi, estetico, igienico, sociale, le esigenze erano infinitamente minori di numero e profondamente diverse nella sostanza.
Che le predette disposizioni siano ormai sorpassate è dimostrato da un cumulo di considerazioni. Ne accenneremo alcune rapidamente.
Anzitutto la legge del 1865 vuole il piano regolatore limitato a quelle parti dell'aggregato edilizio nelle quali si notino inconvenienti igienici o di traffico. Questa limitazione era concepibile moltissimi anni fa, quando piccole modificazioni nell'allineamento dei fabbricati e l'apertura di una via o l'allargamento di un'altra bastavano a risolvere problemi gravi di assetto edilizio. Oggi le cose sono totalmente cambiate, e non è più possibile predisporre provvedimenti edilizi in una parte dell'abitato senza considerare le conseguenze che ne deriveranno in altre parti anche lontane. Infatti, con 10 sviluppo dei mezzi di trasporto a trazione meccanica e con l'aumentata rapidità della circolazione, può una trasformazione edilizia avere ripercussioni in zone assai distanti dando luogo a rarefazione o congestionamento della circolazione in misura più che notevole.
La legge del 1865 esige che nella formulazione del piano regolatore si tenga conto dei bisogni attuali: principio assolutamente inammissibile, poiché, dato l'alto costo delle trasformazioni edilizie, si deve evitare la necessità di attuarne altre nel futuro, e quindi si devono considerare nella preparazione del piano anche bisogni che prevedibilmente si manifeste- ranno a scadenza più o meno lontana.
Nell'ambito del diritto urbanistico vigente è possibile riservare, attraverso il piano regolatore, solo le aree necessarie per costruzione o trasformazione di strade. Ora, se più di mezzo secolo fa, in un regime di vita che comincia ad apparirci patriarcale, nulla o quasi era la necessità di grandi impianti per servizi pubblici, all'epoca attuale, in cui Stato e Comuni provvedono direttamente alla soddisfazione di numerosi bisogni della collettività, i servizi pubblici si sono moltiplicati, ed è assolutamente inconcepibile che il piano regolato re si disinteressi totalmente dei problemi relativi alloro impianto, data l'influenza che essi esercitano sulle condizioni di vita della popolazione.
La legge del 1865, infine, non contiene disposizioni intese ad attuare una disciplina rigorosa delle costruzioni. Ora l'attività edilizia del dopo guerra ci ha dimostrato che cosa significhi lasciar sorgere interi quartieri senza un controllo accurato da parte delle autorità locali. Nel corso di pochi mesi vasti aggruppamenti di abitazioni sono sorti alla periferia dei maggiori centri urbani, senza collegamento con l'abitato esistente, disposti in modo da rendere quanto mai difficile l'estensione dei pubblici servizi.
Donde un triste spettacolo di miseria in w ne che apparivano prima veramente suggestive, sfoghi capricciosi di mania edilizia in località che per evidenti ragioni estetiche avrebbero dovuto rimanere molti anni ancora libere da costruzioni, imbarazzi gravi di amministrazioni, impossibilitate a curare il materiale benessere di molte centinaia di famiglie, dimoranti in località prive di ogni servizio pubblico, mentre altre zone, già da lungo tempo sistemate, erano disertate dalle nuove costruzioni!
Non può quindi recare meraviglia se, di fronte a siffatto stato di cose, sono stati invocati provvedimenti di eccezione, capaci di ovviare agli inconvenienti più gravi; ne può impressionare il fatto che, una volta riconosciuta la necessità di derogare al!a legge generale, le amministrazioni locali si siano spinte a richiedere posizione e privilegi speciali, e abbastanza facilmente le autorità centrali si siano indotte ad eccedere a tali domanda, anche se eccessive.
Gli eccessi sono derivati in questo caso dalla scheletrica semplicità della legge urbanistica, la quale non offre mezzi sufficienti per impedire mali, che possono in taluni casi raggiungere proporzioni preoccupanti ed avere conseguenze dolorose dal punto di vista della sanità fisica e morale del popolo, e assai scarsamente si presta a realizzare il canone fondamentale della scienza urbanistica, che è quello di assicurare la sistemazione degli aggregati edilizi in modo che la vita dei cittadini vi si possa svolgere nelle migliori condizioni possibili.
Ma v'è di più: in molti casi i rimedi che la legge pone a disposizione per eliminare deficienze edilizie, specialmente nei riguardi dell'igiene, applicati integralmente, risultano tali da favorire soluzioni criticabili urbanisticamente, perché assai costose per le amministrazioni comunali, rovinose per l'estetica cittadina, gravemente lesive degl'interessi della proprietà edilizia. Poche argomentazioni sono sufficienti a chiarire il fondamento di questa che può sembrare, e non è, affatto paradossale.
Un metodo generalmente riconosciuto adatto a realizzare il risanamento di quartieri antigienici, salvando le peculiari caratteristiche dei nostri aggregati urbani"e tuttavia assicurando l'eliminazione di quello stato di miseria edilizia, che solo pochi visionari o qualche turista in cerca di sensazioni di dubbio valore estetico vorrebbero mantenuto a tutela del cosiddetto «colore locale», è quello del diradamento, le cui particolarità furono più di venti anni or sono chiaramente indicate dall'Accademico d'Italia, professore Giovannoni. È possibile, con tale sistema, portare aria e luce in mezzo ai tuguri e assicurare un singolare miglioramento del patrimonio artistico-architettonico di molte nostre città, senza attuare nessuno di questi disgraziati «sventramenti» che hanno rovinato molti ambienti deliziosi, provvedimenti altrettanto brutti nel nome quanto deprecabili nelle loro conseguenze. Basta adoperare sapientemente l'arma della demolizione, procedendo ad un oculato abbattimento di costruzioni addossate, in tempi di oscura decadenza, agli edifici maggiori, basta creare piccoli slarghi là dove fabbricati di minore importanza si prestano a parziali e poco costose trasformazioni, basta tendere al miglioramento delle condizioni dell'igiene e della circolazione non preoccupandosi di attuare rettifili insignificanti e monotoni.
Molti compilatori di piani non hanno forse tenuto presente questo importante principio urbanistico nello studiare il risanamento di vecchi quartieri, ma dobbiamo pur riconoscere che, anche se lo avessero fatto, sarebbe poi loro mancata la possibilità di giungere alla formulazione di un piano eseguibile, perché la legge generale vigente non fornisce i mezzi per attuare soluzioni del genere di quelle che formano l'essenza del metodo del «diradamento edilizio».
Una prova convincente si ha in quello che è accaduto a Roma quando si è voluto affrontare in pieno la questione dell'assetto del quartiere del Rinascimento. Lo studio del delicato problema, iniziato fin da epoca anteriore alla guerra, completato e tradotto in un piano di massima da una Commissione nominata nel 1923, non è stato mai potuto trasformare in provvedimento definitivo perché si è riconosciuto che le norme in vigore non offrivano allora, come non offrono oggi, la possibilità di svolgere quell'azione complessa che si richiede per l'esecuzione di una sistemazione fondata su trasformazioni di dettaglio non precisabili attraverso un comune piano regolatore.
Nella stessa condizione si sono trovate molte altre amministrazioni comunali, alle quali si presentavano problemi analoghi da risolvere: esse hanno quindi creduto opportuno seguire la via più semplice, anzi l'unica che la legge loro offriva, quella del risanamento edilizio attraverso demolizioni su vasta scala, quella della bonifica dell'abitato radendo al suolo interi quartieri o aprendo grandi squarci nelle costruzioni, a costo di cambiare totalmente l'aspetto di determinate zone e sacrificare definitivamente quanto di bello esse offrivano.
A questo proposito, peraltro, s'insiste nell'affermare che troppo spesso si è ricorso agli sventramenti, anche quando il bisogno di risanamento igienico non era molto sentito; ma in ciò è da riconoscere un' altra prova dell'imperfezione della legge 25 giugno 1865, per la parte riflettente la formazione e l'approvazione dei piani regolatori. Essa esaurisce, si può dire, tutta la materia in due brevi disposizioni: quella dell'art. 86, nel quale è detto che «i Comuni con popolazione accentrata di più di 10.000 abitanti possono per causa di pubblico vantaggio, determinato da attuale bisogno di provvedere alla salubrità e alle necessarie comunicazioni, fare un piano regolatore, nel quale siano tracciate le linee da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell'abitato in cui sia da rimediare alla viziosa disposizione degli edifici, per raggiungere l'intento»; e quella dell'art. 93, in cui è stabilito che «tutti i Comuni, pei quali sia dimostrata l'attuale necessità di estendere l'abitato, potranno adottare un piano regolatore di ampliamento, in cui siano tracciate le norme da osservarsi nella edificazione di nuovi edifici, a fine di provvedere alla salubrità dell'abitato ed alla più sicura, comoda e decorosa sua disposizione».
Ora è la tacitiana laconicità della legge la causa principale della indecisione che vige nella disciplina dell'assetto degli aggregati edilizi. Pur senza seguire il metodo di una regolamentazione dettagliatissima adottato in altri paesi, se la nostra legge o il regolamento generale per la sua applicazione {che la legge prevedeva ma che non è stato mai emanato) fornissero un criterio qualsiasi di orientamento, o se, quel che sarebbe preferibile, fosse affidato ad un organo autorevole e urbanisticamente attrezzato il compito di dettare norme per la formazione dei piani regolatori e per indirizzare l'attività urbanistica con criteri idonei, forse nei concorsi non si avrebbero proposte che le commissioni giudicatrici debbono, sia pure con molto riguardo, deplorare piuttosto che segnalare come meritevoli di essere prese a fondamento per la formazione del piano definitivo, forse non si avrebbero progetti di uffici municipali che, una volta compilati, pubblicati e discussi, assai difficilmente possono essere respinti, anche se sostanzialmente errati ed anche se gli organi chiamati a dar parere sul loro contenuto intendono assumere una posizione di netta intransigenza.
Nelle condizioni attuali, pertanto, vi è chi si augura che molti Comuni si astengano dal formulare un piano regolatore, affermando che è meno dannosa un'attività edilizia non controllata affatto che uno sviluppo delle costruzioni disciplinato da un piano sbagliato.
A questo augurio noi non possiamo certo associarci. Occorre evitare gli inconvenienti, ma non si può rinunciare alla formazione dei piani, poiché, se è impossibile erigere un fabbricato di grande mole senza la guida di un progetto che tenga conto dell'uso cui l'edificio è destinato, dell'ambiente in cui deve sorgere e dei materiali con i quali deve essere costruito, è assurdo ritenere che un'opera molto più complessa, quale è la costruzione o la trasformazione di un nucleo edilizio di una certa importanza, dalla cui disposizione più o meno indovinata dipenderà la migliore soddisfazione di innumerevoli esigenze della collettività, possa essere compiuta senza un piano prestabilito. Quando per un complesso disgraziato di circostanze questo si verifichi, l'amministrazione municipale finirà, prima o poi, per trovarsi in questa alternativa: o tollerare uno stato di cose pregiudizievole dal punto di vista igienico ed estetico, e sarà un danno grave per la collettività, o adottare provvedimenti edilizi, che nella maggior parte dei casi porteranno a demolizioni, cioè a distruzioni di ricchezze, e anche questo rappresenterà un danno grave per la collettività, poiché su essa in definitiva si riverseranno le conseguenze economiche di tali distruzioni.
Del resto, direttive precise in questo campo sono indispensabili anche perché è attraverso un razionale sviluppo dell'abitato che la spesa per l'estensione dei servizi pubblici può essere contenuta in limiti convenienti. Questo lato del problema acquista, oggi che le finanze dei Comuni devono essere liberate da ogni inutile peso, importanza grandissima. Nell'impossibilità di gravare ulteriormente il contribuente, le amministrazioni municipali debbono essere messe in condizione di impiegare bene i fondi stanziati per la costruzione di nuove strade, per l'impianto di linee tranviarie, per l'estensione di canalizzazioni elettriche, idriche, telefoniche e soprattutto di ottenere che abbiano uno sfruttamento adeguato quelli erogati per siffatti impianti nell'aggregato edilizio esistente.
Quali sono, allora, i rimedi indispensabili per ovviare ai temuti eccessi nel campo urbanistico e per assicurare una disciplina dell'attività edilizia in tutto rispondente alle necessità della vita moderna?
Secondo il nostro avviso, essi sono essenzialmente due. Il primo deve consistere in una propaganda fra i nostri tecnici, tendente a far conoscere la portata delle norme vigenti nel campo urbanistico e i criteri da seguire nella loro attuazione, allo scopo di soddisfare le esigenze dei singoli aggregati edilizi senza contravvenire alla lettera della legge, ma adattando questa, per quanto è possibile, ai nuovi tempi e ai nuovi bisogni. A tale scopo di grande utilità sono senza dubbio i corsi di cultura urbanistica, sul tipo di quello fondato presso gli Istituti superiori di ingegneria e di architettura di Roma.
L'altro rimedio deve necessariamente consistere nell'emanazione di una legge generale urbanistica che sostituisca le antiquate disposizioni contenute nella legge sull'espropriazione per pubblica utilità, offrendo ai Comuni la possibilità di formare piani regolatori completi e perfetti e l'opportunità di attuarli razionalmente.
A giustificare la generale aspirazione verso norme urbanisticamente più appropriate alle condizioni attuali bastano gl'interessi estetici connessi con un conveniente assetto dell'abitato. Come, infatti, poter contribuire alla salvaguardia dell'importante patrimonio artistico e archeologico di molti nostri centri se la legge attuale non permette di tener conto di siffatta esigenza nella formazione di piani regolatori, ma solo di considerare i bisogni dell'igiene e del traffico? Come tutelare le bellezze paesistiche, che la natura ha profuso nella nostra tetra, se la legge non contempla la formazione dei piani regionali, con i quali soltanto è possibile assicurare il rispetto di una zonizzazione che vada oltre i-confini del territorio di un solo Comune? E come raggiungere questo scopo, anche entro i ristretti limiti di una circoscrizione municipale, se la zonizzazione stessa è principio sconosciuto alla nostra legge urbanistica, talché solo mediante legge speciale si è potuto finora disciplinare i vari sistemi di fabbricazione previsti dai recenti piani regolatori?
L'incompletezza delle disposizioni generali in vigore dà ragione dell'uso ormai invalso di approvare per legge ogni piano regolatore, unico mezzo per riparare alle deficienze delle disposizioni stesse. Ma evidentemente non potremo ridurci ad avere tante leggi di piano regolatore quanti sono i comuni d'Italia. Già troppi sono i provvedimenti legislativi speciali, nella cui congerie è difficile orientarsi anche al più colto fra i nostri urbanisti.
D'altra parte con una nuova e più completa legge urbanistica deve anche essere colmata la lacuna, che tuttora esiste, riguardante la precisazione dei criteri direttivi per la formazione dei Regolamenti edilizi comunali. Agli effetti del razionale sviluppo di un aggregato edilizio il piano regolatore non è tutto. La sua compilazione non esaurisce tutte le esigenze di un organismo urbano, al quale si vogliano dare sani elementi di vita. Se ci si consente un raffronto con altra arte, diremo che il piano regolatore è, nell'urbanistica, quello che in pittura è il disegno. Il disegno serve ad assicurare una opportuna distribuzione delle masse e dei piani: ma il colore, il particolare originale del quadro è dato dal pennello. Così nel campo urbanistico, il piano regolatore fissa i criteri di trasformazione o di sviluppo dell'abitato, ma i dettagli fisionomici dei singoli quartieri sono disciplinati dal regolamento edilizio. E questo che permette, nelle linee generali tracciate dal piano regolatore, di mantenere l'unità di direttive, senza la quale il piano regolatore è praticamente annullato. È questo solo che impedisce che il tracciato solenne e maestoso delle vie venga tradito da costruzioni inadeguate, o troppo meschine o troppo sfacciate: che il beneficio di spazi liberi e di parchi pubblici, disegnati perché la città respiri, venga in pratica neutralizzato dalla fabbricazione di case antigieniche; che l'intensità delle costruzioni in determinati quartieri annulli le precauzioni prese nel piano regolato re per assicurare al traffico un andamento normale.
Attualmente così delicata materia è pressoché lasciata in balia dei Comuni, poiché il regolamento esecutivo della Legge comunale e provinciale, nel disciplinare la compilazione dei regolamenti edilizi, si limita a circoscrivere il campo nel quale essi possono spaziare, e due circolari, una del Ministero dei Lavori Pubblici e una del Ministero dell'Interno, ambedue vecchie e in molte parti contrastanti fra loro, forniscono criteri invero molto arretrati circa la formazione di queste importanti norme urbanistiche locali. Siamo perciò in condizioni tutt'altro che propizie nei riguardi di un severo controllo delle costruzioni: e ad assicurarlo in modo conveniente nuove disposizioni generali occorrono, orientate sul principio dell'etica fascista, che vuole rispettato il diritto sacro della proprietà privata, ma non permette che il ius utendi attribuito al proprietario trascenda in un colpevole ius abutendi, raramente vantaggioso per il soggetto che vi si abbandona, sempre assai dannoso per gli interessi della collettività.
La necessità di un'ondata rinnovatrice nel campo della legislazione urbanistica balza, del resto, evidente dall'esempio di quanto è stato fatto in tutti gli Stati europei, compresi quelli di recente formazione.
In Inghilterra la legge urbanistica del 1919, benché relativamente recente, è stata aggiornata due volte: col «Town Planning Act» del 1925 e col «Town and Country Planning Act» del 1932.
In Francia si sono avute nell'ultimo ventennio le leggi generali urbanistiche del 24 marzo 1919 e del 19 luglio 1924.
In Prussia dopo la legge sui piani di allineamento del 1875 sono state emanate la cosiddetta legge Adickes del 28 luglio 1902 sulle lottizzazioni, le leggi 2 giugno 1902 e 15 luglio 1907 contro il deturpamento degli abitati, nonché le leggi del Reich 28 marzo 1918 sulle abitazioni e 6 giugno 1931 per la tutela dell'economia tedesca, che contengono anch'esse un aggiornamento delle norme urbanistiche.
In Sassonia la legge generale urbanistica del 1° luglio 1900, generalmente considerata la migliore del mondo, anche se contenente troppo dettagliate disposizioni, è stata modificata con le leggi 20 maggio 1904 e 20 luglio 1932 per venire incontro alle nuove esigenze relative all'assetto degli abitati.
In Baviera l’ordinanza edilizia del 2 ottobre 1863 è stata in progresso di tempo sostituita da quelle in data 30 agosto 1877, 31 luglio 1890 e 17 febbraio 1901, completata quest'ultima dall'ordinanza del 3 agosto 1910 sugli allineamenti e dalla legge del 4 luglio 1923 sulla disciplina della sistemazione di zone inedificate.
In Olanda la legge urbanistica del 22 giugno 1901, impropriamente chiamata «Legge sulle abitazioni» è stata modificata nel 1921 e completata nel 1931 con disposizioni riguardanti la formazione di piani regionali.
In Isvezia le precedenti disposizioni generali in materia urbanistica sono state aggiornate con legge 29 maggio 1931 e uguale aggiornamento è stato operato in epoca recente in Norvegia con legge 22 febbraio 1924.
In Polonia nuove disposizioni generali in materia urbanistica sono state dettate con decreto-legge del Presidente della Repubblica in data 16 gennaio 1928.
In Jugoslavia una legge urbanistica informata a principì modernissimi è stata emanata il7 giugno 1931.
In tutta Europa, quindi, per tacere delle altre parti del mondo, un'attività legislativa modernizzatrice si è svolta, in questi ultimi anni, nel campo urbanistico, partendo dal presupposto che norme intese a disciplinare la sistemazione dell'ambiente dove la vita di una collettività deve svolgersi non possono essere influenzate dalle modificazioni sostanziali verificatesi nei mezzi e nei modi di soddisfazione dei bisogni umani.
In Italia, invece, se numerosi sono stati i provvedimenti di eccezione per Comuni singoli, la legge generale urbanistica è rimasta quella del 25 giugno 1865, che regola insieme I'espropriazione per pubblica utilità e la formazione dei piani regolatori. Ciò significa che, all'epoca delle automobili-razzo e degli aeroplani capaci di attraversare in poche ore gli oceani, lo sviluppo degli abitati è regolato ancora con norme pensate, discusse e approvate quando non esisteva nemmeno la bicicletta!
La necessità di eliminare questa incongruenza lasciataci in eredità dai regimi passati è stata perfettamente compresa dal Governo Fascista. Infatti nel nuovo testo unico delle leggi sanitarie del 27 luglio 1934, nella cui compilazione il Governo era autorizzato, sentito il Consiglio di Stato, a modificare e a integrare le disposizioni di legge emanate in materia sanitaria, è stata inserita all'art. 230 la seguente disposizione: «Sono sottoposti al parerei del Consiglio superiore di Sanità i piani regolatori generali dei Comuni, i piani regolatori particolareggiati dei Comuni, tenuti per legge alla compilazione del piano regolatore generale ed i regolamenti edilizi dei Comuni predetti».
Si parla qui di piani regolatori generali e di Comuni tenuti per legge a compilarli: ma sta in fatto che ne la legge del 1865 ne le altre posteriori contengono disposizioni in proposito. Solo Leggi speciali sono state finora emanate, non per imporre la compilazione di piani generali bensì per approvare quelli compilati di loro iniziativa dai Comuni interessati e che in base alla legge 1865 non avrebbero potuto riportare l'approvazione per Decreto Reale.
Come si spiega, dunque, la norma contenuta nell'art. 230? Forse i compilatori del Testo Unico e lo stesso Consiglio di Stato ignoravano le norme urbanistiche generali in vigore in Italia? Tutt'altro! La ragione, molto chiara e semplice, è fornita dalla circolare interpretativa diramata dal Ministero dell'Interno (Direzione Generale della Sanità) il 20 agosto successivo. In essa è detto che l'art. 230 «riporta le disposizioni dell'art. 22 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 2889, modificate in modo da essere armonizzate con le disposizioni contenute nel progetto di legge urbanistica generale, predisposto dal Ministero dei Lavori Pubblici ed in corso di approvazione».
Possiamo quindi considerare la predetta norma come l'araldo annunziatore della tanto invocata legge urbanistica, la quale provvederà a regolare in modo completo la trasformazione e lo sviluppo dei centri abitati: e questo ci permette di guardare all'avvenire urbanistico dei nostri Comuni con la fiducia in uno stato di cose assai migliore dell'attuale. Infatti con l'emanazione di norme generali più appropriate alle esigenze della vita moderna non solo sarà eliminato una stato di incertezza, che è incentivo a programmi edilizi mirabolanti o è causa di inerzia assoluta, ma sarà portato un notevole contributo a quel processo di meditata evoluzione legislativa, che ha caratterizzato fin dal suo inizio l'attività del Regime Fascista e che ha condotto l'Italia in tutti gli altri campi alla avanguardia delle Nazioni più progredite.
L’affermazione di una certa idea di urbanistica, e di piano regolatore, è il risultato di un conflitto, che si sviluppa in Italia parallelamente al trionfo del fascismo, ed insieme il frutto di una precisa scelta “politica” tra due opzioni. La storia della legge urbanistica nazionale, che introduce l’idea di piano generale esteso indefinitamente nel tempo e nello spazio, è insieme anche la storia del prevalere di un’opzione su un’altra, e del sostituirsi di nuove contraddizioni a quelle antiche, che avevano generato il conflitto.
Negli anni del primo dopoguerra, cresce l’interesse per le città, per il loro futuro, per le strategie da adottare e le relative conoscenze scientifiche e tecniche da mettere in campo. Due punti di vista si fronteggiano. Da un lato un approccio vicino alle esigenze dei municipi, attento alla multidisciplinarità, ma che eredita le “colpe” di una cultura accusata di essere burocratica, tecnicista, poco sensibile alla storia e alle istanze sociali emergenti. D’altro canto, gli architetti, portatori di un punto di vista maturato lentamente a cavallo tra i due secoli, ma che ora ha una nuova legittimazione professionale, che intende allargare al campo della città nel suo insieme. [1] Chiameremo urbanismo l’approccio municipalista allo studio della città, per distinguerlo dalla urbanistica degli architetti.
La Mostra di Attività Municipale di Vercelli del 1924 [2], o il congresso di “urbanesimo” di Torino del 1926 [3], sono occasioni di visibilità e rilancio dell’ urbanismo. A Torino il segretario comunale Silvio Ardy propone una scuola/associazione di funzionari a scala nazionale, [4], e parallelamente su iniziativa di Cesare Albertini si costituisce a Milano con riconoscimento internazionale la Associazione Nazionale per l'Abitazione e i Piani Regolatori[5].
Semplificando al massimo, l’ urbanismo si articola secondo dodici linee di azione, tante quante dovrebbero essere le sezioni dei servizi tecnici comunali [6]. In questo spazio si colloca l’azione delle varie professionalità, interne o esterne all’amministrazione ma con ruoli ben distinti, ferma restando la centralità del ruolo decisionale politico. L’unitarietà di azione è quindi da ricercarsi nell’equilibrio con cui i vari aspetti progettuali e gestionali si collocano via via nel processo di attuazione, piuttosto che nella sola “organicità” di un’idea prefigurata di spazio fisico.
Al “dodecalogo” dell’ urbanismo, Gustavo Giovannoni indirettamente contrappone in un “decalogo” l’idea di piano degli architetti/urbanisti: piano regionale; piano regolatore generale comunale; piano dei quartieri di espansione; piano di diradamento e valorizzazione del centro storico; distribuzione delle funzioni per zone; coordinamento del piano stradale e di azzonamento con un piano del traffico [7]. Sono gli elementi base della “ricetta” che si sta imponendo nell’approccio alla città, e negli anni a venire sarà perfezionata, prima nel Bando tipoper concorsi di piano regolatore, poi nel dibattito per la legge urbanistica.
La prevalenza dell’ urbanistica sull’ urbanismo ha sanzione ufficiosa al XII Congresso Internazionale dell'Abitazione e dei Piani Regolatori, convocato a Roma sul tema dei centri antichi nel 1929. L'intervento di Cesare Chiodi ben riassume lo stato del dibattito nazionale: buone intenzioni, rare esperienze concrete, nessuna azione istituzionale. Oltre e sopra i confini amministrativi, agiscono le forze economiche, occorre affrontare la questione spostandola dalla scala comunale a quella metropolitana [8]. La “regione” posta da Giovannoni in apertura al suo decalogo diventa così elemento costante di riferimento, senza che si discuta delle questioni amministrative, o semplicemente geografiche. Questi temi, affrontati a Torino nel 1926, resteranno, semplicemente, in sospeso.
Resta comunque, ancora da tradurre in legge qualunque idea di piano, regionale e non, diversa da quella del 1865, via via definita e innovata per frammenti, in modo insoddisfacente, a definire un piano tutt’altro che “generale”. Gli studi sulla riforma dell'esproprio per pubblica utilità, pubblicati nel 1928 [9], deludono la cultura urbanistica italiana. Ci si aspettava uno stimolo a procedere in direzione almeno di un abbozzo di legge “urbanistica”, ma lo sviluppo delle città è quasi ignorato dai legislatori [10]. Appare evidente che per la legittimazione della disciplina uno stretto collegamento con i meccanismi gestionali rappresenta una tara: molto meglio scorporare le norme sui piani regolatori da quelle sull’espropriazione, e affermare almeno in linea di principio la nuova idea di città [11].
Gli urbanisti ritengono improcrastinabile una legge generale, meglio se modellata sul “decalogo” disciplinare. Solo per fare un esempio pratico di questa urgenza, a cinquant’anni dal dibattito sul risanamento di Napoli esiste ancora all’ordine del giorno una urgente questione igienica urbana, al punto che «si comprende come l'urbanista e il medico sociale siano dei veri alleati» [12]. Il tema della città “malata”, richiama la questione del decentramento, dei relativi piani regionali: unico concreto strumento di bonifica, attraverso la modernizzazione delle campagne e l’eliminazione del divario tra le qualità della vita [13]. Una singolare proposta in questo senso, è quella sostenuta da L’Industria, che propone, né più né meno, un modello decentrato per company towns[14]. È un’interpretazione nemmeno troppo forzata del pensiero di Giovannoni: là dove nelle «Questioni urbanistiche» si indicava la centralità dell’impresa nel determinare il successo o il fallimento di un piano, ora L’Industria propone l’interesse privato anche come promotore/controllore dello sviluppo. In questo contesto nasce l’Istituto Nazionale di Urbanistica, e si emargina in buona parte l’ urbanismo, centrato sulle professionalità interne ai municipi. Contemporaneamente, assumono grande visibilità i concorsi di piano regolatore, le prime realizzazioni nei centri cittadini, e nei nuclei di fondazione, la richiesta di una legge. Su quest’ultimo aspetto, si concentra la maggior parte delle aspettative.
Istituzioni e associazioni lavorano alacremente [15], sostenute dal ministro dei Lavori Pubblici, Araldo Di Crollalanza, che istituisce una Commissione ad hoc[16] con il compito di dare forma di articolato alla nuova idea di città e di urbanistica [17], Il piano della città moderna, della città fascista, dovrà articolarsi secondo tre zone distinte: l’area edificata, indicando le trasformazioni degli spazi saturi e di quelli ancora disponibili; l’espansione, studiando in base all’incremento demografico le linee generali dei nuovi quartieri; l’area rurale, soggetta o meno a futura urbanizzazione. Né più, né meno, che lo schema di massima del “decalogo”, o di uno qualunque dei bandi di concorso che le riviste pubblicano ogni mese. Uno schema di ampio respiro che accoglie, anche se in forme piuttosto confuse, l’idea di regional planning[18], per lo sviluppo delle grandi reti infrastrutturali, il sistema dei centri minori, la localizzazione produttiva, la tutela ambientale. Le aspettative dell’INU sulla legge urbanistica, però, devono fare i conti con le necessità di carriera politica del suo maggiore sponsor: per evitare un controproducente scontro con interessi confliggenti (militari, industriali, ferrovie), Crollalanza ritira il progetto.
Fallito il primo approccio istituzionale, l’urbanistica punta sull’ampliamento del consenso sociale. I concorsi di piano regolatore si trasformano in una sorta di laboratorio, e la città italiana sembra vivere soprattutto sulle pagine delle riviste specializzate dove si restringe lo spazio dedicato alle questioni teorico/istituzionali, mentre si dilata e ristruttura quello dedicato alle singole città, alle mostre degli elaborati presentati ai concorsi, alle spigolature dei giornali locali [19]. Questa strategia, anche se in piccolo, necessita di strumenti normativi e di unificazione nazionale, come il Bando Tipo per concorsi di piano regolatore, e l' Annuario delle Città Italiane[20], per il controllo qualitativo dei piani, e una relativa garanzia “scientifica” nell’impostazione.
La neonata urbanistica rurale convive con l’idea secondo cui «L'urbanesimo è il fenomeno che accompagna l'ascendere della nostra civiltà e l'intensificazione di tutte le manifestazioni umane ... annientarlo vorrebbe dire retrocedere» [21]. Ma l’antiurbanesimo sarà il tema centrale, se non altro per visibilità, al primo Congresso nazionale INU, convocato a Roma nel 1937 [22]. Anche l'intellettuale progressista Giuseppe Bottai, propone «l'urbanistica come antiurbanesimo, come antidoto dell'urbanesimo» [23]. In generale, il Congresso potrebbe apparire il sintomo di uno stallo nel dibattito. La stessa urbanistica rurale è presentata come «sistemazione igienico-edilizia e organizzazione dei servizi pubblici nella campagna nell'ambito del piano regionale» [24]: definizione ineccepibile, ma piuttosto generica in una sede di dibattito specializzato. Ma va considerato che il senso del congresso è, soprattutto, politico. Le forze tecniche e culturali italiane si contano: ai funzionari, accademici e professionisti, si affiancano ora amministratori, tecnici, intellettuali, la pubblica opinione più informata.
Con accresciuto potere contrattuale, si invoca l'approvazione della legge nazionale che ora, indipendentemente dai contenuti, appare anche come spazio di interazione delle diverse anime della cultura urbanistica cresciute in questi anni. È del 1938 un significativo cambio di “nome”: visto che la dizione “piani regionali” disturba la cultura centralistica di qualche gerarca, ci si affretta a ribattezzarli “territoriali” [25], senza chiarirne ancora una volta estensione e autorità preposte.
La fine degli anni Trenta sancisce il ritorno dei temi istituzionali al centro del dibattito [26], ma anche una vera e propria rivincita della città, ovvero dei temi che oltre la cortina fumogena dell’antiurbanesimo occupano la maggior parte delle ragionevoli aspettative professionali. Basta osservare, ad esempio, la Tavola sinottica dell'urbanistica che Piero Bottoni propone alla Triennale [27], e l’interpretazione del tema del decentramento nel Piano provinciale per l'abitazione operaia[28], che della tavola è figlio legittimo, per toccare con mano il nocciolo di buona parte della cultura del piano italiana. Non borghi rurali né idilli pastorali, ma immagini decisamente urbane, pur nella logica della bassa densità, dell’integrazione agro-industria, insomma di quanto intelligentemente era stato definito intercittà al congresso INU. I centri urbani, anche quelli medi, crescono in termini di popolazione, e di ruolo, e questo non scandalizza, anzi è considerato dagli operatori economici tutto sommato un buon segno [29]. Critica Fascista, diretta da Giuseppe Bottai, esamina la questione urbana, con una serie di articoli dedicati alla «funzione sociale dell'urbanistica», ospitando tra gli altri due contributi di Vincenzo Civico, che ripercorrono l'intero arco del rapporto tra deurbanamento, ideologia, sviluppo economico, e recuperano i temi della localizzazione industriale e del piano regionale [30]. Non sembra più l’epoca della Urbanistica Rurale = Urbanistica Fascista, come Civico stesso aveva intitolato un suo intervento nel 1937. Ora, molto più ragionevolmente, egli sostiene che un piano deve tenere massimo conto delle attività produttive e della scala a cui operano le maggiori forze economiche. Finita l’epoca della radicalità, dei proclami, è il momento del realismo e della contrattazione, come ben sa l’ingegner Giuseppe Gorla, neoministro dei Lavori Pubblici che ha deciso di farsi carico dell’antico progetto Di Crollalanza per una legge urbanistica nazionale.
Riecheggiano le precisazioni del decalogo giovannoniano: «non sono gli ingegneri o gli architetti a dar vita ad un piano regolatore, ... ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie» [31]. A queste “provvidenze” e “combinazioni”, come aveva imparato Crollalanza e come ben sa Gorla, si aggiunge l’intreccio di interessi pregiudizialmente contrari all’idea di piano sottesa alla legge urbanistica. Ma al contrario del Crollalanza, politico “puro”, Gorla è indirettamente coinvolto nella cultura urbanistica, e ritiene di aver ricevuto in questo senso un mandato pieno [32]. Così, pur tra numerosi conflitti, non solo si affermano i principi generali già maturi nel progetto del 1932, ma la struttura della legge arriva a coincidere quasi perfettamente con il decalogo del Giovannoni, con gli schemi dei bandi di concorso, insomma con la raffigurazione del piano ideale, così come almeno quindici anni di dibattito hanno contribuito a perfezionare. Ma, insieme a questa struttura, la legge si porta appresso anche una tara ideologica, figlia tra l’altro anche dei conflitti che, alla fine degli anni Venti, avevano visto l’ urbanismo municipalista sconfitto dall’ urbanistica dei professionisti. Forse anche a questa tara è da attribuirsi l’isolamento che circonda la legge dopo l’approvazione e che proseguirà [33]: «una legge che si ponga al di là dei traguardi già conseguiti dai conflitti sociali ... è destinata a rimanere sulla carta» [34].
NOTE
[1] Cesare Chiodi, ritiene che non sia possibile «concepire l’Urbanismo come un dominio esclusivo dell’architetto o del costruttore di città … Il problema è più vasto, si estende a tutte le condizioni infinite dell’esistenza umana, e principalmente – ma non esclusivamente – nelle agglomerazioni sovrappopolate e pulsanti che l’industria sviluppa sotto i nostri occhi». Cesare Chiodi, «Per la istituzione di una scuola di urbanismo», La Casa, febbraio 1926, p. 81. Commentando questo e altri tentativi di reazione (i vari convegni che negli anni Venti si organizzano soprattutto al nord per un’urbanistica non egemonizzata dagli architetti), è stato osservato che «prende … corpo lungo il fronte Torino-Vercelli-Milano l’ultima offensiva ufficiale contro le “teorie estetizzanti degli architetti” e del “loro preteso dominio sulle questioni urbanistiche”. Ma i “giochi” si decideranno a Roma». Guido Zucconi, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1885-1942), Jaca Book, Milano 1989, p. 141. Lo stesso scontro ideologico e professionale, esteso all’intero arco della formazione e professione dell’architetto, è la tesi di: Paolo Nicoloso, Gli architetti di Mussolini. Scuole e sindacato, architetti e massoni, professori e politici negli anni del regime, Franco Angeli, Milano 1999.
[2] Cfr. Cesare Albertini, «L’attività municipale a Vercelli», Le Vie d’Italia, dicembre 1924; «La premiazione alla prima Mostra italiana di attività municipale», Il Rinnovamento Amministrativo, n. 2, 1925
[3] Cfr. «Congresso di Urbanesimo a Torino, La Casa, marzo 1926.
[4] Cfr. Silvio Ardy, Proposta di creazione di un Istituto di Urbanesimo e di Alti Studi Municipali, Congresso Internazionale dell’Urbanesimo, Torino, 28 maggio 1926, IV Tema, S.AV.I.T., Vercelli 1926. La critica più radicale a questo progetto, e insieme una proposta alternativa (e vincente): Alberto Calza Bini,Per la costituzione di un Centro di Studi Urbanistici in Roma, Estratto dagli Atti del I Congresso Nazionale di Studi Romani, Roma 1928.
[5] Cfr. Cesare Albertini, «L'Associazione Nazionale dell'Abitazione e dei Piani Regolatori», La Casa, maggio 1926
[6] Anche se certo non riassume la complessità dell’urbanismo, la ripartizione in dodici sezioni può essere presa a utile metro di paragone. Cfr. Silvio Ardy, «Rassegna Urbanistica», Grande Genova, gennaio 1928
[7] Cfr. Gustavo Giovannoni, «Questioni urbanistiche», L’Ingegnere, gennaio 1928. Giovannoni osserva anche che «A veder bene, non sono gli ingegneri o gli architetti a dar vita ad un piano regolatore, più o meno ben disegnato; ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie ne rappresentano il vero elemento dinamico che ne avvia l'attuazione, non solo nello spazio, ma anche nel tempo, con un ordine di successione che può secondare o può annullare il concetto informatore del piano stesso». È un indiretto ma esplicito riconoscimento delle ragioni profonde della cultura “gestionale” dei municipalisti, ma questo apparentemente ovvio realismo rappresenta una posizione niente affatto scontata, anzi piuttosto isolata nella cultura degli architetti dell’epoca. Cfr. Paolo Avarello,Cinquant'anni di legge urbanistica in Italia, in ANCE, La città del futuro - nuove regole per la crescita urbana, ANCE, Roma 1993
[8] Cfr. Cesare Chiodi, Lo sviluppo periferico delle grandi città in Italia, in Atti del XII Congresso Internazionale dell'Abitazione e dei Piani Regolatori, Vol. I, International Federation for Housing and Town Planning, Roma 1929
[9] Cfr. Commissione Reale per la riforma della legge sulla espropriazione per pubblica utilità, Progetto di legge sulle espropriazioni per il pubblico interesse e sulle requisizioni, Libreria del Provveditorato Generale dello Stato, Roma 1928
[10] Cfr. Virgilio Testa, Dispense del corso di «Legislazione Urbanistica», Facoltà di Architettura dell'Università di Roma, Anno accademico 1933-34
[11] Cfr. Edile, «La nuova legge sulle espropriazioni», La Casa, settembre 1928
[12] Guido Salvini, «Tubercolosi e urbanesimo», in Atti del II Congresso Internazionale di Tecnica Sanitaria e Igiene Urbanistica, Reale Società di Igiene, Milano 1931, p. 179
[13] Cfr. Cesare Chiodi, «Zone fabbricate e spazi liberi nello studio dei piani regolatori», ivi
[14] Gustavo Bullo, «Sui benefici dell'obbligatorietà dei piani regolatori», L'Industria, gennaio (I) e febbraio (II) 1931
[15] In dettaglio: «Le proposte della Sezione piemontese dell'Istituto Nazionale di Urbanistica per l'inchiesta promossa per lo studio della nuova Legge sui Piani Regolatori», Urbanistica, VI, 1932; «Studio dell'Ingegner Cesare Albertini, dirigente dell'Ufficio Urbanistica del Comune di Milano», Concessioni e Costruzioni, n.8, 1932 (articolo riportato anche su La Casa, novembre 1932, col titolo: «Per una legge sui piani regolatori»); «Intorno alla nuova legge sui piani regolatori», Architettura, ottobre 1932 (anche su L'Ingegnere, settembre 1932, col titolo: «Proposte in merito alla nuova Legge sui Piani Regolatori»); Federazione Nazionale Fascista della Proprietà Edilizia, Sulla disciplina giuridica dei Piani Regolatori, 2 Voll. Roma 1932; Sullo studio della FNFPE, si veda Cesare Albertini: «Per una nuova Legge sui Piani Regolatori», La Casa, aprile 1933
[16] Sulla figura di Crollalanza, e i suoi rapporti con la disciplina urbanistica Cfr. Rosa Angela Làera, Carmela Riccardi, Pianificazione urbana e territoriale nella politica di regime di Araldo di Crollalanza, in Giulio Ernesti (a cura di), La costruzione dell'utopia, Ed. Lavoro, Roma 1988
[17] In questo senso, ho dato conto alcuni anni fa della relazione generale, pubblicandone alcuni stralci ne «Dall’utopia alla normativa. La formazione della legge urbanistica nel dibattito teorico», Bollettino DU, n. 4, 1984; ora lo stesso saggio è riportato in G. Ernesti, op. cit. Anche la relazione è stata nel frattempo pubblicata integralmente, insieme ad altri documenti coevi, su Le riforme possibili. Le proposte dell’INU per la legislazione urbanistica a partire dalla formazione della legge del 1942, a cura di Luigi Falco, Urbanistica Quaderni, n. 6, 1995
[18] Cfr. Virgilio Testa, «Necessità dei piani regionali e loro disciplina giuridica», Urbanistica, luglio 1933
[19] Cfr. Lucia Nuti, Roberta Martinelli, Le città di Strapaese, la politica di fondazione nel Ventennio, F.Angeli, Milano 1981. Un importante osservatorio, per comprendere la trasformazione del dibattito sulle città, è la rubrica «Notizie e commenti di urbanistica», che Vincenzo Civico cura in questi anni sulle pagine de L'Ingegnere
[20] Il Bando Tipo è pubblicato su Urbanistica IV, 1933, con aggiornamenti in Vincenzo Civico, «Per la disciplina dei concorsi di piano regolatore», L'Ingegnere, gennaio 1935; l'Annuario delle città italiane, in due volumi di cui uno di appendice statistica, è pubblicato a cura dell'INU nel 1935
[21] Achille Bassetti, Le città giardino nei loro aspetti economico – igienico – sociale, in Atti del Convegno Lombardo per la Casa popolare nei suoi aspetti igienico-sociali, Reale Società di Igiene, Milano 1936, p. 125
[22] I pareri non sono unanimi, a questo proposito. Per esempio, Giorgio Ciucci sostiene che «Il tema dei piani regolatori e dei relativi vantaggi economici fu la questione centrale del congresso, alla quale erano collegate quelle dell’urbanistica coloniale e dell’urbanistica rurale», Giorgio Ciucci, Il dibattito sull’architettura e la città fasciste, in Storia dell’arte italiana, Parte seconda, dal Medioevo al Novecento, Volume terzo, il Novecento, Einaudi, Torino 1982, p. 371. È comunque certo che la grande mole ed estensione qualitativa dei temi e degli interventi consente molteplici letture del congresso
[23] Giuseppe Bottai, Discorso inaugurale, in Atti del I Congresso Nazionale di Urbanistica, INU, Roma 1937, Volume II, Discussioni e resoconto, p. 4
[24] Enzo Fidora, Scipione Tadolini, Mario Zocca, Criteri basilari per l'inquadramento dell'elemento rurale nel piano regionale, ivi, Vol. I, Parte II, Urbanistica Rurale, p. 53. Un po’ polemicamente, qualcuno si chiede anche: «Come si può far rientrare nell'etichetta di urbanistica il programma mussoliniano della casa pei contadini?», «Alcuni rilievi sull'urbanistica rurale», Concessioni e costruzioni, n.8, 1937
[25] Cfr. Vincenzo Civico, «Progressi dell'urbanistica italiana: dai piani regionali ai piani territoriali», L'Ingegnere, aprile 1939
[26] Cfr. Armando Melis, «Dopo il Congresso di Roma», in Urbanistica, III, 1937
[27] Cfr. Piero Bottoni, Urbanistica, Quaderni della Triennale, Hoepli, Milano 1938
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[28] Cfr. Redactor, «Un Piano Provinciale per la soluzione del problema dell'abitazione operaia», Lo Stile, marzo 1941
[29] Cfr. Giovanni Balella, «L'industria nell'Italia fascista», Concessioni e Costruzioni, gennaio 1940
[30] Cfr. Vincenzo Civico, «L'urbanistica come problema nazionale», Critica Fascista, marzo 1942; «Distribuire il lavoro per distribuire la popolazione», idem, maggio 1942
[31] Gustavo Giovannoni, «Questioni urbanistiche», cit., p. 9
[32] Cfr. Giuseppe Gorla, L'Italia nella Seconda Guerra Mondiale - Diario di un milanese Ministro del Re nel Governo di Mussolini, Baldini & Castoldi, Milano 1959
[33] A metà degli anni Cinquanta, un dirigente della Democrazia Cristiana, introducendo un convegno sui piani regionali, attribuirà - innocentemente quanto significativamente - al progetto professionale degli architetti, più che a una scelta politica del fascismo, la legge del 1942. Cfr. Atti del convegno internazionale sulla pianificazione provinciale e regionale (Passo della Mendola 3-7 novembre 1955), pubblicati a cura della Camera di Commercio di Trento
[34] Marco Romano, L'urbanistica in Italia nel periodo dello sviluppo - 1942-1980, Marsilio, Venezia 1980, p. 26
1. Le fonti della prima legislazione urbanistica italiana vanno cercate negli ordinamenti degli Stati preunitari, in particolare di quelli che avevano subito in misura maggiore l’influenza francese. E’ il caso degli statuti murattiani che prevedevano, tra l’altro, l’acquisto da parte del comune di tutte le aree comprese nei piani; quelle edificabili erano concesse ai privati mediante il pagamento di un canone trentennale [1].
Nello Stato unitario, com’è noto, la prima disciplina relativa ai piani regolatori è contenuta nella legge del 1865 sulle espropriazioni per pubblica utilità (legge 25 giugno 1865, n.2359). Erano previsti due tipi di piano: il piano regolatore edilizio e il piano di ampliamento (capi VI e VII della legge). Il primo, consentito soltanto per i comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti, concerneva l’abitato esistente, e aveva lo scopo di migliorarne la disposizione dal punto di vista dell’igiene e del traffico; doveva anche contenere “le linee da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell’abitato in cui sia da rimediare alla viziosa disposizione degli edifizi, per raggiungere l’intento”. Il piano di ampliamento riguardava invece la formazione di nuovi quartieri, secondo un programma di progressivo sviluppo, assolvendo anche a funzioni di carattere estetico (sicura, comoda e decorosa disposizione dell’abitato). Ambedue i piani erano adottati dal consiglio comunale e approvati con decreto reale, avevano una durata limitata nel tempo, non più di venticinque anni, la loro approvazione equivaleva a dichiarazione di pubblica utilità e comportava per i proprietari dei terreni e degli edifici in essi compresi l’obbligo di uniformare le ricostruzioni, le trasformazioni di edifici esistenti e le nuove costruzioni alle linee indicate nei piani medesimi.
“Tali piani erano in sostanza dei piani di allineamento modellati su quelli codificati dal diritto napoleonico, per il quale le linee tracciate dal piano avevano l’effetto di sottoporre i terreni non costruiti all’immediato arretramento, se aperti, alla servitù non aedificandi, se recintati, ed i terreni costruiti al divieto di lavori atti a prolungare la durata dei fabbricati. Tuttavia la legge del 1865 prevede due istituti che – modellati anch’essi sulla legislazione francese – meritano di essere sottolineati per il loro contenuto innovatore: l’espropriazione per zone (articolo 22) e l’imposizione dei contributi di miglioria (articolo 77)” [2]. La prima norma consente di estendere l’espropriazione non solo alle aree strettamente necessarie alla realizzazione dell’opera pubblica prevista, ma anche a quelle attigue. Disposizione analoga consentì in Francia la realizzazione di opere pubbliche “che colpiscono l’immaginazione per la loro magnificenza”, mentre nel Belgio (in cui tale disposizione mancava) “si riuscì ad avere costruzioni meschine e talvolta prossime all’assurdo” [3].
Le disposizioni in materia di urbanistica della legge del 1865 ebbero scarsa applicazione e furono sostituite da leggi speciali, una per ciascun nuovo piano regolatore: furono quasi cinquanta gli strumenti urbanistici approvati in tal modo, fra i quali ricordiamo: il piano di Giuseppe Poggi per Firenze capitale (1865), i piani per l’espansione di Roma di Alessandro Viviani (1873, 1892), di Edmondo Saint-Just di Teulada (1911, al tempo dell’amministrazione di Ernesto Nathan), il piano di risanamento di Napoli (1885, dopo il colera), il piano di Milano di Cesare Beruto (1889). Nel 1935 risultava che, dei 93 capoluoghi di provincia, 32 disponevano di un piano regolatore approvato e 47 lo stavano predisponendo, solo 13 non avevano affrontato la questione urbanistica [4].
Negli anni del fascismo la tecnica urbanistica si era perfezionata, i nuovi piani regolatori (sempre approvati con leggi speciali) adottarono forme evolute di elaborazione e di rappresentazione. Alcuni sono piani moderni e convincenti, e i provvedimenti di approvazione anticipano la legge del 1942, ispirandosi ad alcuni principi uniformi, fra i quali vanno ricordati:
la distinzione fra piano regolatore di massima e piano particolareggiato: il primo contenente direttive e criteri generali, il secondo tendente a sviluppare e a dettagliare le direttive;
il ricorso allo strumento dell’espropriazione per attuare le sistemazioni previste;
il divieto di procedere, al di fuori dei limiti del piano regolatore di massima, a lottizzazione di terreni.
In alcuni casi operano disposizioni più radicali di quelle della stessa legge del 1942. Per esempio, la legge di approvazione del piano regolatore della città di Roma del 1931 prevede l’esproprio delle aree fabbricabili comprese nei piani particolareggiati anche prima dell’approvazione degli stessi piani. Anche per quanto riguarda la “forma” del piano, in quegli anni si raggiungono risultati ragguardevoli. Cito per tutti il piano regolatore di Napoli approvato nel 1939 e, per alcuni aspetti di cui trattiamo in seguito, il piano di Roma del 1941. Il piano di Napoli del 1939 è forse il miglior piano di cui sia stato dotato il capoluogo campano [5]. A esso collaborò Luigi Piccinato, che probabilmente ne curò la stesura. E’ accompagnato da una relazione lucida ed esauriente, che analizza la documentazione statistica disponibile, individua i problemi fondamentali della città e propone idonee soluzioni. Per segnalarne l’attualità, basta ricordare che, nella relazione, ampio spazio è riservato all’inquadramento regionale: vi si legge che le questioni della città andrebbero “proporzionate e risolte” in un piano regionale; ma ipotizzare un piano regionale, in assenza di “una ossatura amministrativa” con i necessari poteri, “rimarrebbe uno studio puramente platonico”. Nonostante questa “forzata limitazione” il piano deborda in alcuni comuni limitrofi.
Fra i risultati sicuramente positivi dell’urbanistica di quegli anni vanno ricordati almeno altri due piani ai quali anche collaborò attivamente il giovane Piccinato: mi riferisco a Sabaudia e all’E42, ampiamente documentati [6]. Le esperienze cui abbiamo accennato sono tutte precedenti alla legge del 1942 e le stese ragioni culturali e pratiche che le avevano generate sono evidentemente all’origine della legge.
2. Di una nuova legge urbanistica si era cominciato a parlare nella “Commissione reale per la riforma della legge sull’esproprio per pubblica utilità”, istituita nel 1926 dal ministro dei Lavori pubblici Araldo Di Crollalanza [7]. Il 30 aprile 1932 Di Crollalanza insediò un’apposita “Commissione ministeriale per la riforma delle disposizioni di legge sui piani regolatori” che dopo pochi mesi, nel settembre 1932, aveva già predisposto un primo “Progetto di legge sulla sistemazione e sull’ampliamento degli abitati”, cui seguì, due mesi dopo, il “Progetto di legge generale urbanistica”, probabilmente elaborato da Virgilio Testa: progetto aggiornato più volte, fino alla stesura definitiva del maggio-giugno 1933 [8]. Quest’ultimo è un testo di indiscutibile importanza, anticipatore della legge del 1942 che, anzi, per certi versi, sembra che abbia fatto passi indietro rispetto al progetto di dieci anni prima. Per esempio, per quanto riguarda il rapporto fra piano regolatore e piano particolareggiato: il piano regolatore (o “piano di massima”, secondo l’ultimo testo del 1933) rappresenta “la trama sulla quale verranno sviluppate le varie sistemazioni edilizie, perciò non crea vincoli a carico dei proprietari all’infuori dell’obbligo di osservare le linee e le norme di zonizzazione. Ad esso si dà carattere di durata illimitata com’è richiesto dalla sua funzione ed estensione. Solamente i piani particolareggiati sono qui considerati come di pronta attuazione e con efficacia da costituire vincoli veri e propri di espropriazione sulle proprietà in essi comprese” [9]. Per la disciplina urbanistica di più comuni può essere disposta la formazione di un piano regionale che comprende, tra l’altro, anche “i vincoli per la tutela di bellezze artistiche o panoramiche”.
Il progetto non riceve però l’adesione della federazione nazionale fascista della proprietà edilizia e non è approvato in consiglio dei ministri. Poco dopo Di Crollalanza è sostituito. Di legge urbanistica non si parla più per quattro anni, fino al primo congresso nazionale dell’Inu del 1937, significativamente inaugurato da Giuseppe Bottai [10]. Si ratifica allora l’alleanza fra l’ideologia corporativa e la disciplina urbanistica e ricomincia la discussione per la nuova legge. Nell’ottobre 1940, l’Inu pubblica i “Criteri fondamentali di una legge urbanistica” elaborati da una commissione presieduta da Alberto Calza Bini [11]. Il ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Gorla agisce con determinazione. Nel dicembre 1941 insedia anch’egli una commissione ad hoc che rapidamente elabora un testo di legge sottoposto al consiglio dei ministri nel marzo 1942. Interviene ripetutamente il ministero delle Corporazioni, rivendicando e ottenendo che la localizzazione dei nuovi impianti industriali potesse avvenire fuori delle previsioni degli strumenti urbanistici e altre agevolazioni. Alla Camera dei fasci e delle corporazioni e al Senato la discussione fu breve ma intensa, soprattutto fra i difensori a oltranza della proprietà e coloro che alla proprietà intendevano porre dei limiti [12]. Alla conclusione del dibattito, il ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Gorla poteva dichiarare che la legge approvata “non può far timore ai galantuomini, ma solo a coloro che, attraverso il diritto di proprietà, vogliono difendere la speculazione”.
3. La nuova legge urbanistica fu promulgata nell’agosto 1942 da Vittorio Emanuele III a Sant’Anna di Valdieri dov’era in vacanza [13]. Non si può liquidarla come una legge “fascista”. E’ invece una legge moderna, che attribuisce all’urbanistica i connotati, ancora attuali, del governo del territorio, non quelli dell’architettura su grande scala. Non è certo un caso se la legge del 1942 è in vigore ormai da quasi sessant’anni, nonostante il nuovo modello costituzionale che ha direttamente inciso sulla materia urbanistica, trasferendone le competenza dallo Stato alle Regioni (mentre così non è stato, o lo è stato solo in parte, per le leggi di tutela del 1939), mentre i tentativi di riforma si susseguono inutilmente dalla seconda metà degli anni Cinquanta.
Al centro del sistema configurato dalla legge sta l’ambizione di includere nella pianificazione urbanistica l’insieme delle forme e degli istituti funzionali al governo del territorio. Nel commento predisposto dall’Inu subito dopo l’approvazione della legge si osserva che alla “nuova legge ha presieduto adunque un concetto di integralità della disciplina urbanistica; si è ravvisata la necessità di una regolamentazione degli aggregati urbani, ma anche delle campagne; e non soltanto degli elementi strettamente planimetrici dell’organismo cittadino e della sua zona di influenza, ma anche di tutti gli altri elementi dell’attività urbana” [14]. L’urbanistica, insomma, come disciplina che si estende alla totalità del territorio e delle trasformazioni che lo riguardano.
La legge è articolata su un sistema di piani urbanistici: i piani territoriali di coordinamento, che dovrebbero indirizzare e coordinare l’attività urbanistica in determinate porzioni del territorio nazionale ed alle cui direttive dovrebbero uniformarsi i piani regolatori intercomunali e comunali; i piani regolatori intercomunali, aventi per oggetto la sistemazione urbanistica di due o più comuni contermini con particolari caratteristiche di sviluppo; i piani regolatori generali (Prg), estesi all’intero territorio comunale, di cui stabiliscono le direttive per l’assetto e lo sviluppo urbanistico; i piani particolareggiati, che precisano tali direttive con riferimento a porzioni limitate del territorio comunale, per consentire l’attuazione dei piani generali. La formazione dei piani regolatori generali è obbligatoria per i comuni indicati in appositi elenchi ministeriali, è facoltativa per gli altri comuni che, se non intendono adottare un Prg, sono obbligati a dotarsi di un programma di fabbricazione, che è una specie di Prg semplificato nei contenuti e nelle procedure di approvazione e di attuazione.
Il sistema si fonda sulla presenza congiunta dei poteri statali e comunali. Secondo la legge del 1942, l’approvazione dei piani regolatori e dei programmi di fabbricazione è quindi un “atto complesso” alla cui formazione concorrono ugualmente la volontà del comune e dell’autorità statale (il ministero dei Lavori pubblici). Soltanto i piani territoriali di coordinamento sono di esclusiva competenza dello Stato. A essi si attribuiva un’importanza decisiva nella politica del fascismo. Secondo Alberto Calza Bini, i piani territoriali sono il “vero strumento di armonica disciplina, per il quale soltanto possono ordinatamente raggiungersi gli scopi che il Regime si prefigge: l’allontanamento dei disoccupati dai grandi centri cittadini, l’equa distribuzione del lavoro produttivo su tutto il territorio nazionale, la valorizzazione e il potenziamento delle naturali risorse del suolo” [15].
L’impostazione risente evidentemente delle tecniche giuridiche elaborate in età liberale riguardo ai rapporti fra l’amministrazione centrale dello Stato e i comuni, che il fascismo esasperò assicurando allo Stato un ruolo nettamente predominante. Al riguardo fu coniato dalla dottrina giuridica il concetto di autarchia, intesa come l’insieme dei poteri attributi all’ente pubblico locale al fine di perseguire gli interessi propri dello Stato [16]. Il ruolo dello Stato è evidenziato subito, all’articolo 1, dal potere di vigilanza attribuito al ministero dei Lavori pubblici e dall’istituzione di organi periferici con la specifica competenza a controllare l’attività urbanistica e a orientarla.
Al ministero spetta anche l’approvazione dei piani regolatori, dei piani particolareggiati e dei programmi di fabbricazione e di decidere riguardo alle osservazioni e alle opposizioni. Ciò dipende, evidentemente, dall’impianto ideologico del regime ma risponde anche alla sfiducia nelle possibilità per le amministrazioni comunali di gestire il proprio territorio in autonomia senza l’intervento attivo dello Stato [17].
Altro fondamentale elemento innovativo introdotto dalla legge del 1942 è la zonizzazione, cioè la suddivisione del territorio in zone, distinte per omogeneità di destinazione edilizia. E’ una modalità conformativa della proprietà privata, già ampiamente utilizzata dai piani regolatori approvati con leggi speciali prima del 1942, cui fanno riferimento anche le leggi, immediatamente precedenti, relative ai vincoli paesistici, ai beni artistici, al vincolo idrogeologico, alle servitù militari, alla bonifica integrale. E’ proprio l’attribuzione alle autorità urbanistiche del potere di zonizzare, e quindi di conformare le proprietà private, che consente di eliminare il ricorso alle leggi speciali, una per ogni nuovo piano.
4. Il centro della politica urbanistica è sempre costituito dai dispositivi di controllo della proprietà fondiaria. Fermiamoci a considerare quest’aspetto nella legge del 1942, cominciando dalla proposta dell’Inu del 1940, dove si legge che “il possedere e liberamente disporre della proprietà terriera non come strumento di produzione e ricchezza, ma come mezzo di arricchimento e di speculazione senza lavoro e senza merito mal si concilia con la funzione sociale della proprietà. Partendo da tali premesse e dalla considerazione dell’interesse pubblico che è insito nella destinazione del terreno ad uso urbano, si è provveduto a fissare la nuova disciplina giuridica dell’intera materia delle aree urbane”. La normativa proposta dall’Inu prevedeva perciò l’espropriazione delle “aree urbane”: l’indennità si differenziava fra le aree da considerare già urbane, anche in assenza del piano regolatore, prima dell’emanazione della legge, e quelle che lo divengono successivamente. Per queste “la legge, sin dal momento della sua emanazione avverte che il proprietario in caso di esproprio riceverà il prezzo ragguagliato al puro valore di mercato che il terreno, considerato nella sua ordinaria utilizzazione agricola o industriale, avrà alla data del decreto di espropriazione […]. In tal modo ciò che non si pagherà più dall’ente espropriante sarà il plusvalore, che sulle aree urbane già esistenti al momento dell’emanazione della legge o sui terreni agricoli o industriali, si formerà in avvenire. E’ dunque soltanto la speranza di un futuro guadagno del privato che la nuova legge toglierebbe ai privati. Ma questo “futuro guadagno” del privato non è frutto dell’attività produttrice del privato stesso bensì della collettività e della pubblica Amministrazione, cui sono dovuti l’espansione dell’abitato e l’attrezzatura urbanistica” [18].
Lo stesso obiettivo è perseguito dall’articolo 18 della legge del 1942, certamente quello più incisivo sul regime di proprietà dei suoli, che consente ai comuni di espropriare, dopo l’approvazione del Prg, i terreni destinati all’edificazione nell’ambito delle zone di espansione, a un prezzo che non tenga conto degli incrementi di valore derivanti dalle previsioni del piano. Questa norma avrebbe dovuto consentire la formazione di demani comunali, strumento indispensabile per indirizzare l’espansione urbana nelle zone ritenute più idonee, esercitando al tempo stesso un’azione calmieratrice sul mercato delle aree. A proposito dell’articolo 18, il ministro Gorla dichiarò che “fino ad oggi chi ha profittato delle espansioni che hanno avuto le nostre città è stato il privato, anzi, più che il privato, lo speculatore. Lo scopo della legge è proprio quello di impedire la speculazione, non di danneggiare il privato, di togliere al singolo il vantaggio di appropriarsi di tutto il plusvalore che i terreni acquistano per i lavori eseguiti dagli enti pubblici” [19].
Su questo argomento, la riflessione più utile mi pare che sia quella di Piero Della Seta e di Roberto Della Seta [20]. Essi contestano le interpretazioni correnti circa la continuità fra l’urbanistica del fascismo e quella del primo dopoguerra sostenendo, tra l’altro, che “i governi democristiani dei primi decenni del dopoguerra nemmeno sfiorarono” i risultati che si produssero durante il fascismo, in particolare nel campo della legislazione. E ancora, “lo strapotere della grande rendita fondiaria è una novità del dopoguerra, non del fascismo”. Molto innovativa, “addirittura rivoluzionaria”, è considerata la politica del fascismo per Roma. Al riguardo gli autori ricordano il piano regolatore di massima per l’espansione di Roma verso il mare, già prima citato, approvato con regio decreto del gennaio 1941, decaduto nel 1943 per la mancata conversione in legge a causa della guerra e, probabilmente, per le proteste dei proprietari: certo è che le norme sulle espropriazioni di quel provvedimento penalizzavano la proprietà più di quelle previste da qualunque legge precedente [21], e non saranno confermate dalla legge urbanistica dell’anno successivo. Si prevedeva l’esproprio preventivo e generalizzato di tutti i 12 mila ettari appositamente perimetrati – a cavallo della via Imperiale, fino al Tevere – dov’era previsto lo sviluppo lineare della città verso Ostia che avrebbe dovuto ospitare 800 mila abitanti. Il perimetro del piano comprendeva l’E42, dove cinque anni prima erano già stati espropriati 500 ettari circa destinati all’Esposizione universale di Roma [22].
5. Se la politica fondiaria rappresenta il fondamento dell’urbanistica, la sua parte strutturale, non si devono però trascurare le altre componenti della disciplina, quelle relative alle strategie territoriali, alla forma degli insediamenti, alle conseguenze sul piano sociale, ai rapporti con l’edilizia storica, eccetera. E’ soprattutto su questi temi che si coglie l’ambiguità nota del fascismo, il contrasto fra indiscutibili elementi di modernità e ingombranti sovrastrutture retoriche: gli strumenti operativi straordinariamente efficaci del decreto del 1941, e della legge del 1942, sono a servizio dell’espansione di Roma verso il mare, una scelta urbanisticamente sbagliata, perché la più lontana dall’entroterra regionale, dalle principali reti di trasporto e inesorabilmente bloccata dalla linea di costa, destinata perciò a trasformarsi in un’altra, illimitata, direttrice di espansione perpendicolare alla prima. La scelta era, in effetti, esclusivamente ideologica, l’obiettivo era il ricongiungimento di Roma con il “suo” mare (sono gli anni in cui si consuma l’avventura etiopica).
La medesima ambiguità lega la formazione delle leggi di tutela alla pratica degli sventramenti che si sviluppa proprio in quegli anni, anch’essa prevalentemente motivata da ragioni ideologiche. Lo stesso elogiato piano di Napoli del 1939 proponeva pur limitati sventramenti e diradamenti.
6. Concludiamo con due rapide riflessioni. La prima, sul tema, ancora attualissimo, del rapporto fra la legge urbanistica del 1942 e le leggi di tutela del 1939. I progetti di legge del 1932 citati prima comprendevano, come si è detto, “i vincoli per la tutela di bellezze artistiche o panoramiche” fra i contenuti dei piani regionali. Il repentino stop imposto alla legge urbanistica nel 1933 sgomberò il campo a favore delle leggi del 1939, e del piano paesistico. Si stabilì allora una netta distinzione fra il regime delle tutele e quello delle trasformazioni urbanistiche. Distinzione che ha retto anch’essa al trascorrere degli anni e delle vicende storiche (nonostante ripetuti tentativi di riforma, e nonostante l’ambiguità dei “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali” della legge 431 del 1985).
Il doppio regime è stato convalidato dalle numerose sentenze costituzionali che si sono susseguite, con indiscutibile coerenza, dal 1968 al 1999. Né può essere posto in discussione dalla apprezzabile tendenza delle più recenti leggi regionali – e dalla diffusione, nella formazione degli strumenti urbanistici – ad annoverare le tutele fra i contenuti essenziali della pianificazione urbanistica, a considerarle anzi in guisa di condizione prioritaria agli interventi di trasformazione. In questi casi si tratta, infatti, di contenuti aggiuntivi rispetto a quelli tradizionali dell’urbanistica. Mentre resta ferma la competenza esclusiva in materia di tutela di altre figure pianificatorie e di altri poteri statali e regionali [23].
La seconda riflessione conclusiva riguarda la lunga durata della legge del 1942, cui si è già accennato prima, nonostante le evidenti incompatibilità con la carta costituzionale del 1948 e, in specie, con il profondo processo di riforma che ha avuto inizio a partire dal 1990. Si è passati da un sistema nel quale allo Stato era assegnato un ruolo di assoluta centralità a uno nel quale convivono una pluralità di centri decisionali – non solo in materia di diritto urbanistico – titolari di proprie attribuzioni. E, quindi, non solo le competenze urbanistiche dello Stato sono, evidentemente, ormai residuali, ma la stessa materia urbanistica non è più quella totalizzante pensata negli anni Trenta, non riguarda più l’ universitas dello spazio fisico, ma è subordinata a un complesso di decisioni relative ad altri interessi pubblici specializzati insistenti sul territorio: la difesa del suolo (attraverso i piani di bacino), la protezione della natura (attraverso i piani dei parchi), la tutela dei valori estetici (attraverso i piani paesistici). E, accanto a questi, gli strumenti delle politiche di settore (i piani dei trasporti, dell’energia, dei rifiuti, delle cave, eccetera).
La legge del 1942 è insomma sopravvissuta al suo tempo, alle condizioni storiche, istituzionali e giuridiche che l’avevano determinata. Se continua a essere in vigore è per merito della sua eccellente fattura. Ma soprattutto per l’incapacità del legislatore repubblicano di mettere mano alla riforma della materia urbanistica.
Note
[1] Camera dei Deputati, quarta legislatura, disegno di legge presentato dal ministro dei Lavori pubblici Giacomo Mancini di concerto con altri ministri, recante Norme per una nuova disciplina della materia urbanistica, presentato alla Presidenza il 3 febbraio 1967. Atti Camera n.3774. Relazione, p.2.
[2]Ibidem.
[3] Relazione Pisanelli alla legge del 1865, citato in Camera dei Deputati, quarta legislatura, cit., p.3.
[4] Virgilio Testa, Politica e legislazione urbanistica. Cause di errori urbanistici e possibili rimedi, in Urbanistica, n.1, 1935, p.5.
[5] Cfr. Urbanistica, n.65, luglio 1976, p.5 sgg. Il piano del 1939 fu formato per iniziativa di Giuseppe Cenzato, presidente della Sme, industriale, promotore di iniziative importanti per Napoli e il Mezzogiorno (cfr. in proposito, Stefania Barca, L’etica e l’utilità: appunti sul “meridionalismo razionale” dell’ingegner Cenzato, in Meridiana, n.31, gennaio 1998).
[6] Cito solo, per Sabaudia, Riccardo Mariani, Fascismo e città nuove, Feltrinelli, 1976; per l’E42, Italo Insolera, Luigi Di Majo, L’Eur e Roma dagli anni Trenta al Duemila, Laterza, 1986.
[7] Di Crollalanza fu un protagonista, negli anni del fascismo, della politica del territorio, per usare un’espressione di oggi. Fu ministro dei Lavori pubblici dal 1926 al 1933 e poi presidente dell’Opera nazionale combattenti dal 1933 al 1939 quando si completarono la bonifica pontina e le “città nuove”.
[8] Sui lavori preparatori della legge del 1942, cfr. Pier Giorgio Massaretti, Dalla “regolamentazione” alla “Regola”: Sondaggio storico-giuridico sull’origine della legge generale urbanistica 17 agosto 1942, n1150, in Rivista giuridica dell’urbanistica, 1998, p.437 sgg. Vedi anche il saggio di Francesco Ventura, L’istituzione dell’urbanistica. Gli esordi italiani. Alfani, 1999, dov’è riportato integralmente il progetto di legge del novembre 1932 e la relazione di Virgilio Testa. Virgilio Testa (1889-1978) fu funzionario del Comune di Roma, poi del Governatorato, di cui fu nominato segretario generale da Giuseppe Bottai nel 1935; accademico di San Luca; nel dopoguerra, fino al 1973 è stato commissario dell’Eur ed esperto urbanistico della Dc.
[9] Relazione del ministro Di Crollalanza, in Massaretti, cit., p.449.
[10] L’Istituto nazionale di urbanistica era stato fondato il 25 gennaio 1930 per iniziativa dei componenti del comitato italiano per il XII Congresso internazionale dell’abitazione e dei piani regolatori – che si era svolto a Roma nell’anno precedente – utilizzando a tal fine l’avanzo di bilancio dell’iniziativa. Scopo dell’istituto era lo “studio dei problemi tecnici, economici e sociali, relativi allo sviluppo dei centri urbani e l’esame delle questioni relative all’organizzazione ed al funzionamento dei servizi pubblici di carattere municipale”. Si cercò in tal modo di recuperare il ritardo culturale dell’Italia rispetto ai paesi d’Europa più progrediti dove i problemi della pianificazione si dibattevano dall’inizio del secolo. Nel novembre del 1930 fu fondata la prima sezione, quella piemontese, che nel gennaio 1932 pubblicò la rivista Urbanistica, destinata a diventare, nell’anno successivo, l’organo ufficiale dell’istituto. Negli anni dal 1948 al 1976, quando direttore era Giovanni Astengo (1915-1990), Urbanistica raggiunse un insuperato prestigio internazionale. Nel 1943 l’Inu ebbe il riconoscimento di ente morale e di istituto di alta cultura e nel 1949 di ente di diritto pubblico. Fra i presidenti dell’Inu vanno ricordati Adriano Olivetti, Edoardo Detti, Saverio Tutino, Edoardo Salzano e Giuseppe Campos Venuti.
[11] Le proposte dell’Inu in Urbanistica, n.2, 1941.
[12] Interessante è l’esame degli emendamenti raccolti dalla legge rispetto al testo della commissione ministeriale. Cfr. Massaretti, cit., p.465 sgg.
[13] Legge 17 agosto 1942, n.1150, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 16 ottobre 1942, n.244
[14]Urbanistica, numero speciale, ottobre 1942, p.29.
[15] Alberto Calza Bini, Il “piano territoriale” come strumento della politica fascista del disurbanamento, in Urbanistica, n.1, 1941, p.3.
[16] Una ricognizione della dottrina giuridica in materia in Giorgio Berti, Caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale, Cedam, 1969.
[17] Lo stesso può dirsi per non rare forme di recente centralismo regionale, almeno fino a tutti gli anni Novanta, impostato su rapporti con i Comuni di tipo gerarchico.
[18]Urbanistica, n.2, 1941, cit., p.7.
[19]Urbanistica, numero speciale, cit., p.27.
[20] Piero Della Seta e Roberto Della Seta, I suoli di Roma, Editori Riuniti, 1988.
[21] L’indennità di espropriazione era ragguagliata al valore venale del terreno del 1930, capitalizzato al tasso del 4% annuo, senza tener conto di “qualsiasi incremento di valore verificatosi in dipendenza dell’approvazione del piano regolatore o dell’esecuzione di opere pubbliche”.
[22] Il ricorso all’esproprio preventivo delle aree da trasformare era pratica corrente in quegli anni, in particolare a Roma e nell’area romana. Oltre a quelli per la realizzazione di Cinecittà, della nuova università, del Foro Mussolini, dell’Eur, della zona industriale (1.500 ettari lungo la via Tiburtina), vanno ricordati gli imponenti espropri, operati senza riguardo ai proprietari, per le grandi operazioni di bonifica: più di 1.200 ettari per la sistemazione del Tevere e ben 75.000 ettari per le bonifica delle paludi pontine (Della Seta, cit., p.111 sgg.).
[23] Il perseguimento di obiettivi di tutela attraverso il piano regolatore non è recente. Basta citare il decreto del ministro dei Lavori pubblici (che era Giacomo Mancini) di approvazione del piano regolatore di Roma del 1965, quello ancora vigente, che introdusse – per “preminenti interessi dello Stato” – una modifica d’ufficio al piano adottato dal Comune, destinando a parco pubblico gli oltre duemila ettari dell’Appia Antica e della campagna circostante, da porta San Sebastiano al confine comunale. E’ bene ricordare che precedenti proposte di piano paesistico prevedevano invece l’edificabilità a cavallo della regina viarum.
In una calda estate di fine Ottocento, nei porti del Mediterraneo iniziano a venir segnalati casi di colera. Come recita un testo medico, “La malattia, dopo un periodo di incubazione di 1-5 giorni, si manifesta con diarrea improvvisa e intensa con scariche sempre più liquide e incolori, e quindi con enormi perdite di liquidi, calcio e potassio. Segue il vomito che aggrava lo stato di disidratazione. La trasmissione si verifica perchè il vibrione, eliminato con le feci, non viene distrutto, per carenze del sistema di depurazione dei liquami o di potabilizzazione dell'acqua, per cui può arrivare all'uomo sano, attraverso gli alimenti e le bevande”.
Ad alcune settimane di distanza dalle prime segnalazioni, l’esplosione dell’epidemia in alcuni quartieri popolari di Napoli, dove non solo i sistemi di “ depurazione e potabilizzazione delle acque” risultano assai primitivi, se non inesistenti, ma dove le condizioni urbanistiche generali rasentano l’impossibile: casamenti che dal livello suolo si inerpicano disordinati per scale e cunicoli, a costruire ambienti spesso privi di luce e aria diretta, e con densità di popolazione che in alcune parti della zona Porto raggiungono i 2.600 abitanti ettaro. A questo si aggiunge anche il sistema socioeconomico, con una “economia del vicolo” entro cui si mescolano la residenza, le attività produttive anche di carattere microindustriale con l’uso di sostanze tossiche, il commercio anche alimentare e all’ingrosso con un confuso sistema di depositi e relativa rete di approvvigionamento e distribuzione.
Gli spaventosi livelli di mortalità provocano un dibattito nazionale, che sfocerà tra l’altro nella legge speciale per il Risanamento di Napoli, nel relativo piano regolatore della città, e successivamente nell’estensione a scala nazionale di alcuni provvedimenti, ritenuti utili per intervenire in casi di condizioni urbane igienico-sanitarie gravi.
I testi inseriti di seguito vogliono restituire in parte sia il clima culturale nazionale entro cui matura l’intervento per Napoli, sia alcuni caratteri dell’ambiente locale, sociale e urbanistico. Ne emerge un quadro sicuramente più complesso di quello, spesso soltanto legato ad alcune innovazioni normative, che di solito caratterizza le ricostruzioni della “Legge di Napoli”.
Il primo documento, Il dibattito politico sulla Legge di Napoli(estratto da: Camera dei Deputati, Segretariato generale, Ricerca sull’Urbanistica. Parte prima, Servizio studi legislazione e inchieste parlamentari, Roma 1961) costituisce una sorta di introduzione generale all'argomento.
Esso è poi raccontato, nel quadro delle problematiche e delle visioni contemporanee, da alcuni scritti di Carlo Carozzi ed Alberto Mioni, Le condizioni urbanistico-sociali di Napoli e la Legge Speciale(da L’Italia in formazione. Lo sviluppo urbanistico del territorio nazionale: antologia critica, De Donato, Bari 1980), Cesare De Seta. Le vicende locali nel quadro nazionale (da Napoli, Laterza, Bari 1981), Guido Zucconi, Igiene, Città, Urbanistica (da La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1885-1942), Jaca Book, Milano 1989) e Giancarlo Alisio, Presupposti e soluzioni urbanistiche al colera (da Napoli nell’Ottocento, Electa Napoli, 1992)
I due testi successivi descrivono il "ventre di Napoli" dall'interno e nell'immediato, per la penna di due famosi giornalisti di quegli anni: Pietro Ferrigni detto Yorick, Il degrado della città (brevi brani del 1877, estratti da: Giuseppe Russo, Il risanamento e l’ampliamento della città di Napoli, Società per il risanamento, Napoli 1960) e alcune pagine del celeberrimo pamphlet di Matilde Serao, Bisogna Sventrare Napoli! (da Il Ventre di Napoli, Treves, Milano 1884)
Conclude, per il momento, Il Piano di Risanamento di Napoli (da: Giuseppe Russo, Il risanamento e l’ampliamento della città di Napoli, Società per il risanamento, Napoli 1960)
A complemento e completamento della documentazione si uniscono una Galleria di immagini, e una presentazione powerpoint suddivisa in cinque file allegati
Si giunge così al 10 ottobre [1884], data nella quale il cav. Adolfo Giambarba, ingegnere capo, reggente la 1° direzione tecnica del Municipio di Napoli, presenta al Sindaco il lavoro disposto per la bonifica della città; lavoro che, come fa notare nella nota di accompagnamento, ha portato a termine “in soli quindici giorni, attesa l’urgenza giustamente addimostrata” mercé l’attivo concorso degli egregi ingegneri della sua direzione. “Il grave lavoro compiuto – fa rilevare il Giambarba – non avrebbe potuto recarsi ad effetto, senza il corredo di tutti gli studi parziali, che le successive Amministrazioni municipali hanno sempre preparato, tanto mercé pubblici concorsi che per opera di questa 1° Direzione tecnica”. L’opera, che tende alla soluzione del problema del risanamento radicale di Napoli bassa e alla edificazione di un nuovo quartiere, comprende la relazione, il computo metrico e la stima. Nello stesso giorno, con altra nota, il Giambarba presentava al Sindaco una “relazione aggiunta”, per fornire notizie e dati d’Ingegneria Statistica e Sanitaria [...]. Anche a chi non conosca la tragica situazione dei fondaci e dei bassi, anche a chi non conosca la costituzione composita della maggior parte delle strade napoletane – ove, spesso, addossati al apalazzo magnatizio, o da esso ricavati, sono gli abituri dei miseri, mentre nello stesso edificio coesistono le case dei borghesi benestanti e quelle del povero – appare evidente il rapporto tra il numero degli abitanti e la superficie abitata, nei quartieri che furono più colpiti dal colera (Mercato, Pendino, Porto, Vicaria: mq 0,75 per ab.) ed in quelli che furono meno colpiti (S. Ferdinando, Montecalvario, Chiaia, Avvocata: mq 0,98 per ab.)e sorge spontanea l’idea di un diradamento. Come subito si pensa alle superfici, allora esuberanti, di Chiaia, S. Carlo all’Arena, Vicaria e Vomero per destinarle ad una immediata espansione della città.
[...]
Era corretto o non il concorso dello Stato? La cifra proposta era sufficiente a raggiungere lo scopo? Quali garanzie erano necessarie ad evitare che il danaro fosse distratto dall’opera di risanamento? Lo Stato era garantito dal debito che il Comune avrebbe avuto verso di esso, per il pagamento dell’annualità di 50 milioni? Era possibile modificare, ed dentro quali limiti, la legge sulle espropriazioni per la pubblica utilità? Era possibile ottenere, con speciale disposizione, che la edificazione di nuove case precedesse l’abbattimento di quelle vecchie destinate ad essere demolite? Poteva essere lasciata, al Governo ed al Municipio, ampia facoltà di regolare le dichiarazioni di insalubrità, lesive del diritto di proprietà? Si poteva, in contrasto con tutti i precedenti legislativi, obbligare il proprietario a fornire di una determinata acqua la sua casa ed a pagarla secondo una tariffa municipale prestabilita?
[...]
Il progetto generale del 1884 che costituì, indubbiamente, l’elemento centrale per le previsioni della legge pel risanamento di Napoli (15 gennaio 1885, n. 2892) – dalla quale trassero poi vita i numerosi provvedimenti, relativi ai piani di risanamento ed ingrandimento della città di Napoli - si articolò ben presto in tre gruppi di progetti dei quali il primo, ed il più importante, è quello che si riferisce al risanamento dei quartieri bassi, seguono quello relativo alle fognature e quelli relativi ai rioni di ampliamento (Arenaccia, S. Efremo Vecchio, Otto Calli, Ponti Rossi, Miradois, Materdei, Vomero-Arenella, Belvedere, prolungamento Principe Amedeo), nonché quelli relativi alla sistemazioen di S. Lucia e S. Brigida. Il Piano generale pel risanamento delle sezioni Porto, Pendino, Mercato e Vicaria, deliberato dal Consiglio Comunale nelle sedute del 10 e 11 febbraio 1885, ed approvato dopo infinite vicissitudini, pur con qualche condizione di riserva, dai RR.DD. 7 gennaio e 22 luglio 1886, verrà reso esecutivo con la deliberazione della Giunta Municipale approvata dal Consiglio Comunale nel febbraio del 1888: il R.D. 17 marzo 1889, n. 6024, vi apporrà il suggello definitivo.
[...]
le opere comprese nel piano di risanamento vengono così suddivise:
1) Opere di bonifica per colmata e demolizione di fabbricato su larga scala, nonché formazione di rete stradale allacciata alla creazione di una unica arteria principale con limitata edificazione sulle aree disponibili. Queste costituiscono un insieme di opere, coordinate ad un’unica sorgente di risanamento e di edilizia insieme.
2) Opere di bonifica per demolizioni parziali con rete stradale sparsa, allacciata a diverse arterie esistenti, con limitata edificazione sulle aree disponibili. Queste rappresentano un complesso di bonifiche parziali usufruendo delle sorgenti di salubrità esistenti.
3) Opere di ampliamento nei terreni contigui alle zone bonificande con nuova costruzione di fabbricato, le quali sono una illazione necessaria delle prime e delle seconde.
[...] Si prevede lo spostamento di 87.447 abitanti, dei quali in modo definitivo: 4.693 della classe agiata; 25.151 della classe media; 39.354 della classe povera.
[...]
Sul significato e sul valore di questa urbanistica ottocentesca, di queste trasformazioni della città nel sec. XIX, non pochi sono gli studiosi che hanno espresso il loro avviso discorde, ma non v’è dubbio che la maggioranza di essi ne accoglie sempre più positivamente le conclusioni. [...] Le trasformazioni delle zone inurbate, procedenti “per sventramenti di forza, operati da arterie nuove di traffico che s’aprivano un varco nel vecchio tessuto”; la urbanizzazione delle zone verdi circostanti fatta per mezzo di distinti quartieri residenziali per i più abbienti e per i meno abbienti; l’apertura di “lunghe strade rettilinee di sezione molto ampia, per solito alberate alla moda del tempo, coordinate a piazze secondo un andamento assiale”; il coordinamento del vecchio centro cittadino con le nuove zone di trasformazione; la monumentalità degli edifici pubblici; la tecnica risolutrice dei problemi relativi all’acqua potabile ed alle fognature: costituiscono già, all’epoca nella quale si pone mano al risanamento ed all’ampliamento di Napoli, una riconosciuta ed affermata tradizione della tecnica urbanistica dell’ottocento europeo.
Il quartiere Porto, assieme al Pendino ed al Mercato, costituiva i “quartieri bassi”, edificati a partire dall’età altomedioevale, sull’antica spiaggia della città; [...] Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, l’area fu coinvolta in due massicci interventi, i più radicali per quanto riguarda la trasformazione della città: l’ampliamento del porto ed il risanamento dei quartieri bassi.
[...]
I lunghi anni trascorsi tra il sorgere dell’epidemia di colera e l’inizio dei lavori furono densi di difficoltà e di impegnative battaglie politiche che interferirono, ovviamente, su un più rapido esame dei procedimenti amministrativi da adottare in proposito. Il piano del 1884 fu articolato in tre gruppi di progetti che corrispondevano, in effetti, ai criteri generali di scelta: risanamento dei quartieri bassi, sistema fognario e rioni di ampliamento (Arenaccia, S. Efremo Vecchio, Ottocalli, Ponti Rossi, Miradois, Materdei, Vomero-Arenella, Belvedere, prolungamento rione Principe Amedeo). Il “Rettifilo”, strada principale e asse attorno a cui ruotava tutta l’operazione di sventramento, presentava un percorso diverso rispetto a quello del piano del 1884. Esso, infatti, partendo sempre da uno degli angoli della piazza della Stazione centrale, giungeva fino alla piazza Mercato di Porto, dove era prevista una grande piazza rettangolare (l’attuale piazza della Borsa); qui, biforcandosi in due strade anch’esse in rettifilo (le attuali via Depretis e via Guglielmo Sanfelice), raggiungeva piazza Municipio e via Medina. Una piazza ottagonale (piazza Nicola Amore) si apriva all’incrocio di via Duomo con il “Rettifilo”, al quale afferivano 14 strade invece delle 16 previste; di minor numero erano anche le vie longitudinali che completavano la nuova trama viaria.
Il 22 luglio 1886 il piano fu definitivamente approvato, tuttavia non vi era alcuna intenzione da parte del Municipio di assumere direttamente l’esecuzione dell’opera richiedendo essa un impegno assoluto, a discapito degli altri problemi cittadini, coinvolgendo tutti i suoi organi tecnici, i quali sarebbero rimasti assorbiti da un cospicuo lavoro da condurre in tempi brevissimi. Si preferiva che un unico concessionario assumesse, dunque, i tre punti essenziali dell’opera: espropriazione, proprietà dei suoli e nuove costruzioni, con i relativi rischi. La scelta fondamentale era costituita dal risanamento delle zone insalubri della città mediante sventramento e diradamento dell’abitato, il che comportava, come diretta conseguenza, l’ampliamento urbano da effettuarsi ancor prima delle demolizioni dei vecchi fabbricati. Elemento amministrativo prioritario, per conseguire questi obiettivi, era il coordinamento della legge e dei mezzi finanziari ad essa assegnati, tutelando, al tempo stesso, gli interessi pubblici e privati coinvolti nella realizzazione dell’opera.
La superficie interessata dal piano di risanamento si estendeva su di un’area di 980.686,76 mq (durante la messa a punto dei progetti essa era notevolmente aumentata rispetto agli 802.459,27 mq del progetto del 1884), di cui 800.153,95 era coperta di fabbricati da demolire e strade da abolire, 95.625, 09 da fabbricati soggetti a colmata e 84.907,72 mq da strade da innalzarsi al nuovo livello.
La riuscita del piano era in parte condizionata dalla necessità di procedere rapidamente alla costruzione dei rioni d’ampliamento. Si prevedeva, infatti, il graduale spostamento dai vecchi quartieri di ben 87.447 abitanti, dei quali, una parte vi avrebbe fatto ritorno, occupando i fabbricati loro destinati ed un’altra avrebbe invece trovato stabile residenza nei rioni appena creati.
Soltanto quando, con decreto regio del 26 luglio 1886, furono approvati i piani parcellari relativi alle zone espropriabili ed alle opere da eseguire, la I Divisione tecnica iniziò la stesura degli estimativi di spesa, approssimativamente già compilati nel piano di massima.
Un rilievo delle aree interessate al risanamento in scala al 200 fu ritenuto indispensabile per individuare, nel dettaglio, le proprietà e definirne l’entità, per studiare, inoltre, le modifiche che si sarebbero verificate per i tagli parziali e, quindi, passare al progetto esecutivo.
Il 15 giugno 1888, il Giambarba era finalmente in grado di fornire tutti gli elementi necessari che, approvati dal Consiglio comunale nel marzo 1889, furono resi esecutivi con Regio Decreto del 17 marzo 1889 n. 6024. Dopo anni di attesa la bonifica dei quartieri bassi entrava, dunque, nella sua fase operativa. La gara d’appalto indetta nel frattempo fu vinta dalla Società per il Risanamento di Napoli, appositamente creata il 15 dicembre 1888, con un capitale di 30.000.000 di lire, da gruppi finanziari non napoletani. Il “Rettifilo”, oltre a svolgere la precipua funzione di collegamento est-ovest, all’altezza di piazza Nicola Amore, s’innestava a via Duomo, che finalmente veniva completata, proseguendo oltre il detto incrocio. Era così realizzata quella rapida comunicazione fra via Foria e via Marina, inutilmente tentata per tanti anni, e si otteneva, tra le colline ed il mare, un percorso alternativo a via Toledo, mentre il corso Garibaldi ed il suo prolungamento oltre piazza della Stazione e via Foria garantivano il collegamento fra l’entroterra ed il porto.
Il termine di dieci anni preventivato per la conclusione dei lavori non venne rispettato [...] il 25 luglio 1912 fu necessaria una nuova legge per il completamento delle opere residue che furono terminate alcuni anni più tardi.
Da: Giuseppe Russo, Il risanamento e l’ampliamento della città di Napoli, Società per il risanamento, Napoli 1960
“Un fondaco è una specie di falansterio, un’agglomerazione di inquilini miserabili, entro un vecchio palazzo costruito intorno alla più lurida corte. Si entra per un andito obliquo, dalle cui pareti l’intonaco casca a pezzi e scuopre la muratura, marmorizzata di placche giallognole e verdastre che puzzano di mucido un miglio lontano. Lungo il muro e negli angoli stanno le prove che la colonia, nell’ultime ventiquattr’ore, ha mangiato e bevuto grazie alla Provvidenza divina e alla carità napoletana, che ha gli occhi acuti e le braccia lunghe e le mani sempre aperte. In fondo all’angolo si apre quella cloaca del cortile, quadrato o triangolare, chiuso fra le pareti altissime, come nel fondo di un pozzo dal quale il cielo non si vede se non a rischio di un torcicollo. Cinque, sei, sette ordini di balconi, in muratura, sospesi su negri mensoloni di legno tarlato, dividono il piano terreno dal tetto, e accolgono un nuvolo di donne e di bimbi schiamazzanti. Raggio di sole non penetra mai nel tubo intestinale ... Tutti i muri sudano l’umidità e piangono la loja; tutte le pietre si vestono di quel verde marcio che – non so come – mi dà l’idea del veleno, della putredine, dell’interno di un sepolcro ... Lì, dentro ai mille bugigattoli oscuri e crollanti, stanno fino a quattrocento famiglie ammonticchiate, mescolate, confuse, perdute in que’ labirinti; lì nascono vivono muoiono migliaia di individui, che non hanno mai veduto Capodimonte né il Vomero;e che non usciranno né per amore né per forza, finché il piccone dei demolitori municipali non riduca il topaio in un mucchio di ruine” (Yorick, pseudonimo di Pietro Ferrigni, Vedi Napoli e poi ..., Napoli 1877).
L’irruzione dei precetti dell’igiene nel quadro delle trasformazioni urbane cambia radicalmente gli orientamenti ideologici dei tecnici intellettuali preposti alla redazione dei piani edilizi. Attraverso l’igiene vengono introdotti nuovi strumenti di intervento e di indagine, ma soprattutto tecniche collaudate da tempo subiscono una sorta di forzatura ideologica: operazioni di ordinaria amministrazione come rettifiche o allargamenti stradali vengono ora definite con un’espressione attinta al vocabolario di una chirurgia spicciola: sventramento. Analogamente, demolizioni e ricostruzioni, coordinate con i nuovi servizi a rete, assumono il nome di risanamenti o di sanificazioni. Il mutamento del significante, più che del significato, sottintende il senso, tutto ideologico, di una battaglia per il progresso contro le tenebre di un passato sudicio e oscurantista, del puro contro l’impuro. “Avanti, avanti colla fiaccola in mano e colla scure a sventrare le città, a regolarizzarle, ad ampliarle, a fognarle convenientemente, a dotarle di buona acqua potabile”, esorta l’ingegner Zannoni dalle pagine de L’Ingegneria Sanitaria (n. 5, 1896). Nell’indicare un atto di violenta chirurgia, il termine sventramento rivela l’attitudine degli igienisti a ricorrere a metafore attinte alla fisiologia del corpo umano. Sventrare significa attaccare il male nel suo epicentro, secondo procedure che nulla hanno di vistoso o di appariscente, che anzi si ammantano di intenti disinteressatamente missionari. “Nella vita materiale di una città, un buon sistema di fogne dà l’idea di quel complesso di virtù modeste e nascoste, perciò più rare e stimabili, che fa retta e pregevole la vita di alcuni individui” (E. Zabban, “Napoli e l’Esposizione d’Igiene”, Nuova Antologia n. 171, 1900, p. 161).
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Attraverso indagini a tappeto, da condursi con zelo missionario sul corpo malato della città, l’igiene rivoluziona gli strumenti della conoscenza: se per l’ingegneria del territorio il problema centrale era quello di rappresentare lo spazio ed i flussi in modo geometricamente esatto, per l’ingegnere igienista il problema è quello di organizzare la conoscenza attraverso strumenti che si addentrino nelle zone d’ombra, nel sottosuolo, nelle parti più recondite, in un parola nel ventre della città: si tratterà perciò di elaborare strumenti, che a partire dalle scienze positive rivelino ciò che non è visibile all’occhio umano. Prelievi di campioni d’acqua potabile, ispezioni nei pozzi neri, sopralluoghi nelle abitazioni più sordide sono i tasselli di una conoscenza degli aspetti materiali che riorganizza i dati secondo quadri e tabelle statistiche. Un metodo analogo a quello che, sul piano letterario, impiegano gli “scrittori-palombari”: coloro che, come Valera a Milano o Carbone a Firenze si addentrano nei labirinti della città, coloro che, sulla scorta dei successi letterari di Zola e della Serao, titolano i propri romanzi veristi con ventri, sotterranei e misteri. Lo schema del romanzo riproduce i metodi dell’indagine sanitaria: la vita che si svolge nelle viscere brulicanti della città è di norma prima rilevata, poi organizzata secondo capitoli relativi agli aspetti materiali [...] L’indagine collegata al risanamento di Napoli rappresenta il caso-campione, il modello che la legge del 1885 estende a tutti i comuni italiani che intendano intraprendere operazioni di risanamento.
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Così come il centro dell’indagine è costituito dal ventre della città, l’epicentro dell’azione è individuato nel sottosuolo: il piano di risanamento dovrà trasformare la città di superficie solo dopo aver profondamente modificato la città sotterranea. La progettazione delle reti per l’afflusso e il deflusso delle acque diviene lo strumento fondamentale per progettare le trasformazioni e le linee di espansione della città. Questo ruolo assunto dalla rete di fognatura appare ancora più evidente nella generalità dei centri minori, dove essa costituisce l’unico strumento di pianificazione urbana.
Essa segnala “la gravità della situazione urbanistico-edilizia del paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite. E non può […] non auspicare che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto - deciso ed irreversibile - al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico”.
Un ampio dibattito si apre nel paese. A cominciare dal Parlamento, dove un memorabile intervento di Mario Alicata, autorevolissimo esponente del PCI, accende gli animi. Pochi mesi dopo l’esondazione dell’Arno a Firenze e l’alta marea a Venezia confermano, con la forza degli eventi, l’entità dei danni provocati da una gestione del territorio governata dalla miopia pubblica e dalla rapacità privata.
Governo e Parlamento corrono ai ripari: per iniziativa di Mancini viene approvata una legge (un “ponte” verso una più compiuta riforma) che rende un po’ più incisiva la pianificazione urbanistica. Il risultato fu ottenuto, allora, dall’incontro tra la commozione dell’opinione pubblica, la sensibilità dei mass media, l’intelligenza dei governanti. Una simile confluenza si è manifestata raramente negli anni successivi, mai in quella più vicini.
Nei quartieri Porto, Pendino, Vicaria e Mercato, posti a ridosso del mare e nella zona bassa della città, viveva una popolazione di circa duecentomila abitanti e si raggiungevano densità dell’ordine di 1.200 abitanti per ettaro, con punte fino a 2.600 in alcuni rioni. Le abitazioni erano spesso ricavate nei fondaci, “in quei covi, nei quali non si può entrare per il puzzo che tramandano immondizie ammassate da tempi immemorabili, si vede spesso solamente un mucchio di paglia, destinata a far dormire un’intera famiglia, maschi e femmine tutti insieme. Di cessi non se ne parla, perchè a ciò bastano le strade vicine ed i cortili” (Pasquale Villari, Discorso al Senato del 10 gennaio 1885). I problemi creati da questo spaventoso addensamento erano aggravati dall’assenza quasi totale di una efficiente rete di fognature (la maggior parte delle abitazioni era dotata di semplici pozzi perdenti, e dalla scarsa estensione degli allacciamenti alla rete idrica. [...]. Un rapporto diretto, infine esisteva fra sovraffollamento e sottosviluppo socio-economico della popolazione. Sottosviluppo testimoniato dai bassissimi redditi derivanti da un lavoro saltuario e svolto per la massima parte a domicilio, con largo impiego di bambini e di vecchi; dall’alto indice di mortalità infantile; dalla diffusione dell’analfabetismo e, non ultimo, dalla assenza di una qualche coscienza delle cause della propria condizione, se è vero che “la plebe della città di Napoli era notevole per la cordialità delle sue relazioni con la borghesia, erto maggiore che in qualunque altra città italiana, salvo forse Palermo” (intervento del senatore Brosetti durante la discussione).
Nella sostanza la legge del 1885 impegnava lo Stato ad un intervento straordinario (100 milioni ottenuti mediante emissione di titoli speciali di rendita), per l’esecuzione di tutte le opere contenute in un piano di risanamento elaborato dal Comune. In ultima analisi, è proprio nell’insufficiente esame dello stato di fatto e nell’assenza di obiettivi a lunga scadenza di questo piano (tutto teso alla realizzazione di operazioni di primo intervento e di emergenza, condotte senza un quadro unitario di riferimento) che vanno fatte risalire le cause del modesto successo dell’operazione, proprio nei riguardi del miglioramento delle condizioni insediative. [...] È incontestabile che l’esecuzione del piano servì a dotare la città di alcune attrezzature che prima esistevano solo allo stato embrionale (ad esempio la fognatura), a promuovere sostanziali miglioramenti nelle condizioni di vita specie dei ceti borghesi, ad aprire mercati alle grandi imprese edilizie (in particolare a quelle settentrionali) e ad imprimere un volto “occidentale” ad una parte della città; servì meno a risolvere il problema del sovraffollamento delle zone più povere, né promosse un sostanziale spostamento di popolazione verso i nuovi settori di espansione. [...] Infine, da un punto di vista urbanistico, e cioè delle relazioni funzionali fra le diverse parti della città, la legge dell’85 provocò un addensarsi di attività “direzionali” nelle zone centrali ed una espulsione verso le aree periferiche della residenza più povera e quindi incapace di reggere, quando in seguito se ne presentò la necessità, una organizzazione urbana decentrata.
Le vicende dell’amministrazione si trascinarono confusamente fino all’elezione a sindaco di Nicola Amore, nel maggio del 1884. L’alacrità di questo amministratore, i suoi onesti intendimenti, la capacità di divenire interlocutore privilegiato del presidente del Consiglio Depretis, sembrava dovessero sortire alcuni effetti; ma nell’estate del 1884 scoppiava l’epidemia di colera che si diffuse rapidissima nella città e in gran parte della provincia. Tutte le denunce che avevano preceduto questo drammatico evento - che solo a Napoli fece 7000 vittime – ebbero larga eco in tutto il paese suscitando forte emozione. Finalmente il governo Depretis nel gennaio del 1885 varò una legge speciale per il Risanamento della città di Napoli. Ancora una volta le vicende amministrative della città si succedettero con colpi di scena che non contribuirono certo a che una così imponente impresa fosse gestita e guidata nel migliore dei modi. Lo scontro maggiore, tra i sostenitori di Amore e il gruppo cattolico-moderato, riguardava proprio la questione dei lavori programmati: essi si fondavano soprattutto sulla bonifica edilizia dei quartieri di Porto, Mercato, Pendino e Vicaria, sull’ampliamento per nuovi quartieri residenziali e per il completamento dell’acquedotto del Serino. [...] Il piano per il Risanamento di Napoli, dopo i lavori del Viceré don Pedro de Toledo, è il più vasto programma urbanistico che abbia avuto Napoli nella sua storia moderna e contemporanea.
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Il progetto per il risanamento di Napoli nasceva da una lunga sedimentazione di piani e programmi vari che almeno a partire dal 1870 erano stati elaborati da privati professionisti, da associazioni di tecnici o da uffici pubblici senza alcun concreto esito; ma essi costituirono un innegabile patrimonio di idee e di operative indicazioni di cui la Società per il Risanamento si servì. [...] Questi progetti vertevano sulla necessità di collegare il centro antico – attraverso trafori nelle colline – con il settore occidentale; di collegare la parte bassa – mediante funicolari – con il Vomero e Posillipo; di rendere più spediti i collegamenti tra i due versanti della città attraverso l’ampliamento della Riviera di Chiaia o la creazione di una litoranea. Puntavano sulla necessità di realizzare un quartiere operaio ad oriente che fosse di supporto alle attività dell’industria siderurgica, a quelle commerciali e portuali; prevedevano massicci interventi di sventramento [...] nell’ottica del grand travaux alla Haussmann, secondo il fortunato e celeberrimo modello parigino. Tema privilegiato – poi reso operativo dal Risanamento – fu quello del collegamento del centro con la piazza della Ferrovia.
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Adolfo Giambarba, in qualità di ingegnere capo della Prima divisione tecnica del Comune, fu l’estensore del progetto: esso prevedeva il risanamento dei quartieri Porto, Mercato, Pendino – con uno sconfinamento nella sezione Vicaria – l’ampliamento della fascia costiera e la ristrutturazione della rete delle fogne e dell’approvvigionamento idrico del nuovo acquedotto del Serino. [...] Il progetto s’articolava in diversi interventi retti dalla stessa logica dello sventramento dei quartieri più malsani; un’ampia strada, partendo da via Medina, giungeva alla stazione di piazza Garibaldi, un sistema di assi ad essa perpendicolari – ma poco profondi generalmente, tanto da non intaccare a nord il complesso monastico di S. Marcellino – in numero di sedici s’aprivano nel corpo dell’edilizia preesistente, ed altre parallele s’aprivano all’altezza del quartiere Mercato. [...] da piazza Garibaldi la via omonima veniva prolungata a nord fino a piazza Ottocalli, prospiciente l’imponente mole dell’Albergo dei Poveri ove, con massicce demolizioni, si creava il disegno del tridente. L’intervento residenziale più esteso era previsto proprio in quest’area del vecchio quartiere di S. Antonio Abate. Edera questa l’area orientale destinata ai quartieri operai. [...] Dopo un esame abbastanza rapido del Comune il progetto passò al governo che, dopo discussioni nei due rami del Parlamento, il 15 gennaio 1885 varò la Legge per il risanamento della città di Napoli. [...] l’amministrazione comunale non trovò concordia d’intenti, le giunte si susseguirono al governo della città, sicché il fatidico primo colpo di piccone ufficialmente fu dato dopo ben quattro anni dall’approvazione della legge, precisamente il 15 giugno 1889.
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Tra le poche voci precocemente ostili all’operazione va ricordata quella di Pasquale Villari che, dal 1885 al 1910, seguì con permanente attenzione le vicende della città. Egli rimproverava al Risanamento d’essersi risolto in una operazione speculativa, di non aver offerto alloggio agli abitanti dei quartieri sgombrati e di averli ridotti ai margini della città in condizioni non migliori di quelle che avevano abbandonato; di aver goduto dei pubblici provvedimenti legislativi per fini sociali e di averli manifestamente disattesi o, peggio, d’averli adoperati a fini speculativi. [...] Ritornando alla distruzione del patrimonio artistico va ricordata l’opinione del Ceci che poteva scrivere “la grande opera del Risanamento dei vecchi quartieri napoletani, invocata da igienisti e da filantropi, ordinata, ad impulso e con concorso dello Stato dal nostro Comune, avrà i suoi errori, ma tra questi non si dovrà annoverare la distruzione di chiese notevoli per importanza artistica” (G. Ceci, Ricordi della vecchia Napoli. Notizie delle chiese comprese nel piano di Risanamento della città, Napoli 1982).
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l’operazione Risanamento ha caratteri inequivocabilmente e smaccatamente speculativi che le fonti di studio più accreditate hanno cercato invano di celare: il sol fatto che il risanamento dei fondaci proceda con esasperante lentezza e con impudente disinteresse per la sorte dei destinatari, ne è una ben palmare conferma. Accade che la massiccia immissione sul mercato di case signorili e di edilizia borghese nei quartieri di ampliamento sortisca il duplice risultato di far impazzire il mercato immobiliare e di ridurre nei più sordidi tuguri, posti alle spalle dei boulevards parte della stessa popolazione residente nelle aree sventrate che non poté certo accedere alle nuove abitazioni rese disponibili. [...] l’operazione del Risanamento costruì assai più case signorili di quanto il mercato immobiliare potesse assorbire e assai meno case economiche e popolari di quante sarebbero state necessarie. Basti ricordare che nei primi tre anni di lavori ci furono nei quartieri bassi 20.000 espulsi e sicuramente più di 10.000 arretrarono nelle povere case, fondaci e bassi alle spalle del Rettifilo, facendo precipitare ulteriormente le condizioni igienico-edilizie di questa area urbana.
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Quantunque manchino delle ricerche analitiche sull’andamento demografico della popolazione in questo periodo [1861-1901], si legge con chiarezza una prima fase di tendenza alla stagnazione ed una seconda di netta ripresa: confermata da un andamento positivo del tasso di natalità rispetto a quello della mortalità che è un indice abbastanza chiaro per dire che il nuovo sistema fognario e gli stessi lavori del Risanamento, nonostante i caratteri speculativi da esso assunto, contribuirono in qualche misura a rendere meno precarie le condizioni igienico-edilizie di taluni settori urbani.
Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perchè voi siete il Governo e il Governodeve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata per racconti di miserie. Ma il Governo doveva sapere l' altra parte; il Governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il Governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il Governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri [...] Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne avrete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani istessi che vi conducevano non conoscono tutti i quartieri bassi. La strada dei Mercanti, l’avete percorsa tutta? Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello; le case altissime la immergono durante le più belle giornate, in una luce scialba e smorta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v’è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell’olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio. Da questa via partono tante altre viottole [...] molto più strette dei Mercanti, ma egualmente sporche e oscure; e ognuna puzza in modo diverso: di cuoio vecchio, di piombo fuso, di acido nitrico, di acido solforico.
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Sventrare Napoli? Credete che basterà? Vi lusingate che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli? Vedrete, vedrete, quando gli studi, per questa santa opera di redenzione, saranno compiuti, quale verità fulgidissima risulterà: bisogna rifare.
Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi le case che si sono lesionate dalla umidità, dove al pianterreno vi è il fango e all’ultimo piano si brucia nell’estate e si gela nell’inverno; dove le strade sono ricettacoli d’immondizie, nei cui pozzi, da cui si attinge acqua così penosamente, vanno a cadere tutti i rifiuti umani e tutti gli animali morti [...] il cui sistema di latrine, quando ci sono, resiste a qualunque disinfezione.
[...]
Per distruggere la corruzione materiale e quella morale, per rifare la salute e la coscienza a quella povera gente, per insegnare loro come si vive – essi sanno morire, come avete visto! – per dir loro che essi sono fratelli nostri, che noi li amiamo efficacemente, che vogliamo salvarli, non basta sventrare Napoli: bisogna quasi tutta rifarla.
La legge 15 gennaio 1884, n. 2892, nota con il titolo di “legge per il risanamento della città di Napoli”, fu ispirata e determinata dai luttuosi eventi dell’estate del 1884, allorché il colera causò in quella città migliaia di morti. Lo stesso titolo del disegno di legge presentato dal presidente del Consiglio dei ministri, Depretis, il 27 novembre 1884, alla Camera dei Deputati (ove prese il n. 261), è chiaramente indicativo delle finalità perseguite: “Disposizioni per provvedere alla pubblica igiene della città di Napoli”. Del resto le considerazioni illustrative del disegno di legge e le ripetute dichiarazioni dello stesso Depretis non lasciano dubbi in proposito. Si sottolinea nelle prime l’esigenza, di fronte al frequente ripetersi di invasioni coleriche in Napoli, di provvedere “non tanto al riparo delle sventure singole e locali, quanto a prevenire e impedire le nuove e generali che potrebbero colpirci”. Durante la discussione al Senato, inoltre, nella seduta del 10 gennaio 1885, Depretis affermò che il disegno di legge in discussione doveva essere considerato nel suo vero carattere, precisando: “Esso è principalmente, anzi esclusivamente, un provvedimento igienico. Tuttavia i fini di igiene pubblica della legge non impedirono, come del resto era necessario, che l’attenzione si rivolgesse anche a problemi essenzialmente urbanistici. L’esatta individuazione delle cause del colera non poteva non suggerire interventi intesi a predisporre più razionali strutture cittadine e con l’occasione non si mancò di indicare gli strumenti procedurali e tecnici, oltre ai mezzi finanziari, dell’intervento pubblico nella sistemazione dell’insediamento urbano. Nella presentazione del disegno di legge si afferma: “Le cause principali della recente sventura furono accertate con sollecita cura dal Municipio di Napoli e da uomini competentissimi, e consistono nelle condizioni deplorabili delle fogne e del sottosuolo dove si sprofondano e pullulano migliaia di pozzi e sorgenti di acqua cattiva, naturale veicolo di infezione; nell’agglomerazione delle classi più misere del popolo in tuguri e sotterranei immondi; nella generale insalubrità delle abitazioni in parecchie sezioni di Napoli”. La discussione in Parlamento si polarizzò intorno a soluzioni di coraggiosa modernità e chiara tecnica urbanistica: costruzioni di una grande e larga strada centrale con numerose alte vie ad essa perpendicolari, costruzione di nuovi quartieri, espropriazione per pubblica utilità di zone “laterali alle nuove strade” ecc., elementi questi che portarono gli avversari della legge ad affermare, in polemica, che tutto un altro scopo era così perseguito, uno “scopo puramente edilizio ed estetico” e che non si vedeva quale relazione potesse trovarsi “fra un problema così complesso come è quello dell’igiene ed un bel rettilineo”. È evidente, pertanto, come la rilevanza della legge in esame trascenda le contingenze specifiche che la originarono: alcune norme in essa contenute rappresentano un momento essenziale del processo evolutivo della legislazione urbanistica italiana.
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Dalla discussione dei singoli articoli è da ricordare l’intervento del deputato Nervo il quale aveva presentato il seguente emendamento aggiuntivo all’art. 1: “Il sottoscritto propone di aggiungere le seguenti disposizioni all’art. 1: il piano dovrà essere concepito in modo che i nuovi fabbricati, che saranno costruiti in sostituzione delle case malsane, contengano abitazioni la cui distribuzione interna si presti anche all’esercizio di piccole industrie a domicilio, e il cui valore locativo possa essere accessibile alle classi meno abbienti che ora abitano i quartieri malsani”. [...] Furono proposti (ed accettati dal Governo) i due seguenti: “L’indennità dovuta ai proprietari degli immobili espropriati sarà determinata sulla media del valore venale e dei fitti coacervati dell’ultimo decennio, purché essi abbiano data certa, corrispondente al rispettivo anno di locazione. In difetto di tali fitti accertati, l’indennità sarà fissata sull’imponibile netto, agli effetti delle imposte sui terreni e su fabbricati”.
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Durante la discussione generale da parte del senatore Brioschi furono analiticamente esaminate le varie possibili iniziative di opere pubbliche in Napoli e fu affrontato poi un più generale problema d’indole sociologica per i riflessi che sulle varie progettate soluzioni urbanistiche avrebbero avuto le specifiche condizioni della popolazione napoletana: “non pare a Lei, onorevole Presidente del Consiglio, non pare al Senato, che questo clima, questa plebe, queste abitudini, esigano considerazioni e studi speciali, anche dal punto di vista della questione edilizia; e che il partito di abbattere case malsane per costruirne altre salubri in altra località, partito che pure può ritenersi in generale opportuno, non lo possa diventare meno in quelle circostanze locali? Quei due nuovi rioni ideati a costruirsi, denominato l’uno rione operaio, l’altro rione industriale, sembra a Voi possano albergare quella parte della popolazione di Napoli intorno la quale hanno scritto così belle pagine il Villari, il Turiello, il De Zerbi, la Mario, il Fucini e molti altri? Non vi è qui un problema sociale che si complica con l’edilizio e con l’igiene e del quale, a mio avviso, non si è tenuto alcun conto?”.
Signor Ministro,
all'atto di consegnarLe i risultati di due mesi di intenso lavoro, pur riconoscendo che la brevità del tempo a disposizione e la complessità di eventi e situazioni, non le hanno consentito di spingere le indagini fino al completo esaurimento di ogni conoscenza, né forse di calare l'intera materia in equilibrate ripartizioni, la Commissione ritiene che il peso della consistente documentazione raccolta, dalla quale si son potute trarre considerazioni generali specifiche, sia tale da illuminare sufficientemente sulle situazioni di fatto e di diritto. sulla concatenazione storica degli eventi e sul comportamento dei soggetti. Una risposta ai pressanti interrogativi dell'opinione pubblica può essere ora data, ed è stata data dalla Commissione.
Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento.
Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l'aspetto sociale, civile ed umano.
La città dei « tolli » non è piú l'Agrigento di un tempo.
Il volto urbano, sfigurato, potrà forse in parte essere ricuperato con generose piantagioni di verde, cui affidare la, cicatrizzazione delle ferite e la ricucitura dei tessuti, ma difficilmente, e certo con costi assai elevati, potrà assumere l'aspetto decoroso di una città umana: le ferite inferte, anche curate, resteranno a lungo.
Ma ancora piú delicato si prospetta il problema dei rapporti umani, che, con l'accertamento e la punizione di colpe, esige che sia posto fine alle sofferenze della popolazione agrigentina, a lungo vessata dall'arbitrio.
È per questi pro fondi motivi che la Commissione ritiene di aver assolto nel rispetto del vero, della legge e dei principi della umana convivenza, il proprio mandato e di aver fornito elementi per un sereno giudizio e per efficaci proposte.
La gravità dei fatti rilevati pone senza dubbio la situazione di Agrigento al limite delle possibili combinazioni negative dei molteplici fattori che concorrono alla formazione di una città, alla sua crescita ed alla sua guida.
E l'evento franoso, verificatosi in questa città, potrebbe dirsi in un certo senso coerente con questa aberrante situazione urbanistico-edilizia.
Ma la Commissione, nel rimettere gli atti, sente il dovere di segnalare all'attenzione del Signor Ministro, dei Parlamentari e di tutti i responsabili delle amministrazioni pubbliche e degli enti locali, la gravità della situazione urbanistico-edilizia del paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite.
E non può, nel concludere, non auspicare che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto - deciso ed irreversibile - al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico.
Il problema non può, ovviamente, essere risolto che con una nuova legge urbanistica - la cui emanazione non dovrebbe essere ulteriormente rinviata -; ma in attesa che tale legge entri in vigore e dispieghi suoi effetti positivi e rinnovatori, appare indispensabile ed urgente l'adozione - eventualmente anche nella forma del decreto-legge - di alcune essenziali ed incisive norme di immediata operatività, atte ad affrettare la formazione dei piani, ad eliminare nei piani e nei regolamenti le piú gravi storture relative ad indici aberranti e a troppo estese facoltà di deroga e ad impedire i più vistosi fenomeni di evasione e di speculazione.
Se, da un serio esame della situazione urbanistico-edilizia di Agrigento potranno emergere, con l'ampliamento dell'orizzonte e con una precisa volontà operativa, atti concreti di progresso urbanistico, la frana di Agrigento non sarà soltanto ricordata come un evento calamitoso, che ha posto in luce gravi patologiche locali, ma potrà aprire un nuovo capitolo nella storia urbanistica dell'intero paese.
Michele Martuscelli, Amindore Ambrosetti, Giovanni Astengo, Nicola Di Paola, Giuseppe Guarino, Bruno Molajoli, Angelo Russo, Cesare Valle
Roma, 8 ottobre 1966
Improvvisi ed eccezionali accadimenti hanno scosso il paese tra luglio e novembre: la frana di Agrigento, l'allagamento di Firenze e Venezia, le frane e le alluvioni nell'alto e basso Veneto.
Alla radice di ognuno di essi sta, per certo, il cattivo uso del suolo, sotto forma sia di continuativo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del suolo a scopi edificatori.
In entrambi i casi, la natura, irragionevolmente sfidata, ha scatenato d'improvviso le sue furie terribili ed ammonitrici.
In entrambi i casi, alla radice è l'imprevidenza umana. E se, nell'imminenza del repentino maturare della tragedia, è mancata anche la più rudimentale forma di preavviso organizzato, alle origini giganteggia una ben più ampia e continuativa imprevidenza, che si concreta nel mancato uso razionale degli strumenti della pianificazione territoriale ed urbanistica.
Non è infatti pensabile l’istituzione ed il funzionamento di un sistema di costante controllo, capace di far scattare uno stato di allarme, senza la presenza di un quadro di riferimento generale, che, stabilite le regole interne di equilibrio fra i vari fattori, definisca le finalità delle singole azioni, d'intervento e d'uso, e fissi le soglie dello stato di pericolo. Senza piani territoriali ed urbanistici, seriamente studiati e coscienziosamente resi operanti, è dunque perfettamente inutile pretendere un efficace sistema di controlli per l'ultima ora: se in Olanda scatta l'allarme nel « polder » minacciato è perché l’intero paese è vigilato da una pianificazione territoriale attiva ed attenta, con strutture, responsabilità e tradizioni.
È proprio per questo motivo, per la stretta connessione fra le carenze di pianificazione ed i recenti dissesti territoriali, che questo fascicolo è doverosamente dedicato all’illustrazione e, nei limiti delle attuali possibilità conoscitive, all'esame urbanistico dei casi occorsi.
E cosi alla riedizione integrale della relazione Martuscelli si aggiungono alcuni profili sulla situazione di Firenze, di Venezia e del Veneto, durante e dopo il diluvio.
Ne si tratta soltanto di illuminare questi eventi di luce razionale, sottraendoli alle deformazioni emotive e recriminatorie, ma soprattutto di trarre sensate e tempestive conseguenze dagli avvertimenti della natura violentata.
Non a caso, le annose ostinate resistenze alla presentazione della nuova legge urbanistica, in tempo utile per esser ancora discussa ed approvata nella presente legislatura, sono cadute di fronte ai fatti di Agrigento. Non a caso sono stati presentati in Parlamento i provvedimenti di immediata modifica della legge urbanistica del ‘42, che dovrebbero divenire operanti in tempi brevissimi.
Urge infatti far presto, ricuperando, se possibile, il tempo perso in sterile attesa. Urge dar mano alla formazione dei piani per le città ed i territori che sono sprovvisti e rivedere dalle fondamenta una quantità di piani operanti, ma inefficienti, perché privi di chiara finalizzazione all'interesse pubblico, di coerenza interna e di strumentazione efficace, oltreché di coordinamento territoriale e di compatibilità economica e finanziaria.
Urge studiare e lavorare intensamente a tal fine, per formare nuovi piani e dotarli di capacità operativa. Ed è bene dire esplicitamente che a tal scopo non bastano le leggi che si stanno predisponendo con i loro attuali obiettivi. Anzitutto, perché le leggi ed obiettivi sono tutt’oggi ancorati agli accordi di governo del luglio '64 che riflettevano una interpretazione mediana di condizioni generali del paese ormai sostanzialmente mutate. Nell'estate del '64 era infatti ancora largamente diffusa l'illusione, e non solo nell'ambito degli operatori edili, nella ripresa del sistema economico che aveva prodotto dapprima il boom edilizio e quindi il suo arresto. Le opinioni dei partiti dellà coalizione governativa oscillavano, allora, tra gli assertori dell'esigenza di immediate riforme di struttura atte a modificare sostanzialmente il sistema, ed i fautori di una sostenuta ripresa del sistema stesso, da condizionare si a fini sociali mediante correttivi, ma solo successivamente alla sua rimessa in moto. Se allora prevalse la tesi moderata è perché, tutto sommato, vi era una maggioranza effettiva che ancora nutriva un'acritica fiducia nel sistema precedente.
Pienamente coerente con questa logica di fiducioso sostentamento della ripresa era la lunga casistica degli esoneri dall'esproprio, garantiti agli operatori edili ed ai proprietari di aree dagli accordi di governo del luglio '64.
Mal si comprende come questi esoneri, allora concessi nell'intenzione di sostenere la ripresa, possano ancora giocare, oggi, con qualche efficacia come stimolo all'edificazione, se nei 30 mesi trascorsi, in cui ha regnato il totale esonero da espropri, l'attività edilizia privata non è affatto rifiorita in virtù di tale libertà. È invece evidente che l'ampia casistica degli esoneri, se ancora mantenuta, agirà ormai soltanto più come remora alla messa in moto di una pianificazione operativa.
Occorrerà, dunque, che il Parlamento decida con chiarezza se sia logico coltivare ancora a lungo l'illusione in una ripresa automatica per forza endogena di incostanti e incoerenti iniziative private o se, dopo le recenti drammatiche esperienze, non sia preferibile agire più celermente nella direzione di interventi razionali e responsabili, progettati, discussi e decisi alla luce del sole. In questa seconda ipotesi, è ovvio che la casistica degli esoneri dovrà esser completamente riveduta.
Ma non basterebbe solo questo aggiornamento per garantire efficacia al processo di pianificazione, occorre rettificarne sensibilmente gli obiettivi per i tempi brevi del periodo transitorio, in attesa delle leggi regionali. Infatti, non si tratta più, oggi, di far fronte alle esigenze delle aree di « accelerata urbanizzazione » con semplici strumenti di razionalizzazione ad effetto immediato: questa esigenza nasceva dalle tumultuose urbanizzazioni originate dal boom del '60-'63 nelle aree metropolitane ed in quelle di interesse turistico. In tali zone, le finalità della nuova legge urbanistica dovrebbero esser chiaramente delineate, nelle disposizioni transitorie, rispetto alle situazioni attuali, più in funzione di una profonda ristrutturazione generale delle agglomerazioni urbane e del paesaggio, che non di semplice razionalizzazione dei margini esterni dell'onda espansiva.
E poiché su questa materia, estremamente seria le improvvisazioni non aiutano alcuno, il Parlamento trarrebbe giovamento ad avvalersi, durante l'iter di esame della nuova legge urbanistica, della consulenza di esperti e di pubblici amministratori, incaricati di riferire documentatamente, in tempi brevissimi ed anche, occorrendo, in contradditorio, sui recenti mali urbanistici di alcune città e località. I provvedimenti legislativi allo studio, sia per i tempi brevi, che per i tempi lunghi, assumerebbero cos1 maggior concretezza ed aderenza ai fatti, e si eviterebbero i pericoli, tutt'altro che remoti, di astratte e formali generalizzazioni giuridiche.
A questo proposito, l’indagine sulla situazione urbanistica ed edilizia di Agrigento è stata esemplare, essendosi consentito alla. Commissione, con l'accesso ai documenti di tutti gli Enti, di ricostruire la realtà sotto tutti gli angoli visuali e di ritrovare, nel succedersi ed intrecciarsi dei fatti, il filo conduttore delle singole azioni dei singoli protagonisti pubblici e privati. È un documento acquisito al Paese.
Ma analoghe indagini occorrono su alcune situazioni campione, comprensive di aree metropolitane di sviluppo e di zone ad elevato interesse turistico, dirette non tanto alla identificazione di responsabilità personali, quanto piuttosto alla ricerca delle cause dell'avvenuta degenerazione delle strutture urbanistiche del Paese. Un'indagine seriamente organizzata, mobilitando tutte le forze disponibili, anche a livello degli Istituti universitari e di CNR, dovrebbe, in non più di sei mesi, dare i suoi frutti. Sulla base di quelle risultanze anche l'introduzione di nuovi strumenti operativi per la pianificazione sarà, allora, più facile. Diventerà ad esempio evidente a tutti la necessità di dotare gli Enti, preposti all'attuazione dei piani, di strumenti non solo positivi, e cioè liberatori e suscitatori di iniziative pubbliche e private, ma anche contemporaneamente di quelli negativi, e cioè di vincolo, temporaneo o permanente, sulla edificabilità di talune aree. Senza, infatti, il doppio pedale dell'accelerazione e del freno, senza l'uso congiunto del si e del no, senza la delimitazione delle aree da urbanizzare con priorità e delle aree a temporanea sospensiva d'uso, è impossibile porre in moto una macchina veramente efficiente. Ecco perché i sia pur apprezzabili emendamenti legislativi per i tempi brevi, ormai all'esame del Parlamento e che riportiamo per esteso qui di seguito, rischiano l'inefficienza, se privati del progettato, ma non presentato, programma operativo dei Piani regolatori, in cui siano definite periodicamente le aree da urbanizzare e quelle di riserva.
Infine, il discorso non può chiudersi senza un accenno, ormai d'obbligo su queste pagine, alle strutture degli -uffici di progettazione e di gestione dei piani, a tutti i livelli.
Si rompano gli indugi e si parli finalmente della istituzione del Ministero della Pianificazione urbanistica.
Si riparli seriamente delle Regioni, e non solo sotto il profilo del loro costo d'impianto, ma anche dei benefici economici che potranno realizzarsi con l'effettivo incontro fra stato ed enti locali, mediante la pianificazione territoriale ed urbanistica, decisa a livello regionale, all'unico livello cioè, capace di sostanziare la programmazione economica.
Si guardi per tempo agli uffici tecnici comunali, attrezzati oggi in modo arcaico e per compiti di istituto, in cui la pianificazione urbanistica è quasi totalmente esclusa o mortificata. E si incominci ad edificare una efficiente struttura tecnico-amministrativa dell'urbanistica, dagli uffici di pianificazione locale, a quelli a livello regionale e statale.
Si obietterà che tutto ciò costa, ed è facile rispondere che una efficiente struttura di pianificazione urbanistica costerà alla collettività una piccola frazione dell'insieme dei danni provocati dall'assenza di tale struttura. Ma si può anche dare una risposta più precisa: stanzi per intanto lo stato quanto ha stanziato per riparare i danni del solo episodio di Agrigento, ma per finanziare, e subito, strutture e studi urbanistici, e si istituisca immediatamente il Ministero della Pianificazione Urbanistica come primo atto di volontà pianificatrice: tutto il resto verrà, e presto.
A meno di accettare fatalisticamente il cumulo, già enorme, di conseguenze negative della mancata pianificazione urbanistica.
[…] ecco l’avvenimento che ripropone drammaticamente l’intera “questione urbanistica”. Il 19 luglio 1966
“una frana di inconsuete dimensioni, improvvisa, miracolosamente incruenta, ma terribile nello stritolare o incrinare irrimediabilmente spavalde gabbie di cemento, ed impietosa, al tempo stesso, nello sgretolare vecchie abitazioni di tufo, in pochi istanti, ha buttato fuori casa migliaia di abitanti ponendo Agrigento sotto nuova luce e nuova dimensione”[i].
La frana è stata causata dall’enorme sovraccarico edilizio: ben 8.500 vani costruiti negli ultimi anni in contrasto con tutte le norme esistenti. Mancini, Ministro dei lavori pubblici, nomina una commissione d’inchiesta, presieduta da Michele Martuscelli. Nel settembre la “relazione Martuscelli” è resa pubblica.
“Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l’aspetto sociale, civile ed umano”[ii].
L’impressione nel paese è enorme. Sotto accusa è la DC che amministra la città da vent’anni. Un aspro dibattito si accende nel Parlamento e nel Paese. Un accusatore implacabile è il deputato comunista Mario Alicata:
“Il dramma di Agrigento non pone problemi nuovi o straordinari. Ripropone il problema dello sviluppo democratico e civile della Sicilia e del Mezzogiorno, il problema del tipo di sviluppo economico e sociale, che è stato impresso a tutto il nostro paese, e, in questo quadro, il problema, oggi centrale, dei caratteri impressi all’urbanizzazione da un sistema di potere economico e politico fondato sulla speculazione e l’affarismo; ripropone il problema del monopolio politico della DC, come strumento, oltre tutto, degenerativo della vita pubblica del paese”[iii].
La DC fa quadrato intorno ai suoi uomini compromessi.
Gran parte della stampa conservatrice tenta di accreditare la versione dell’“evento naturale imprevedibile”. In questa tesi, in fondo, c’è del vero: la sordida connivenza tra amministratori e speculatori, che è all’origine della frana, non è una triste prerogativa di Agrigento; Agrigento riproduce in piccolo la generale situazione italiana, da Roma a Napoli, da Palermo a Mestre. Lo afferma la stessa commissione Martuscelli che
“nel rimettere agli atti, sente il dovere di segnalare all’attenzione del Signor Ministro, dei Parlamentari e di tutti i responsabili delle amministrazioni pubbliche e degli enti locali, la gravità della situazione urbanistico-edilizia del paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite. E non può, nel concludere, non auspicare che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto - deciso ed irreversibile - al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico. Il problema non può ovviamente, essere risolto che con una nuova legge urbanistica - la cui emanazione non dovrebbe essere ulteriormente rinviata - ; ma in attesa che tale legge entri in vigore e dispieghi i suoi effetti positivi e rinnovatori, appare indispensabile ed urgente l’adozione - eventualmente anche nella forma del decreto-legge - di alcune essenziali ed incisive norme di immediata operatività atte ad affrettare la formazione dei piani, ad eliminare nei piani e nei regolamenti le più gravi storture relative ad indici aberranti e a troppo estese facoltà di deroga e ad impedire i più vistosi fenomeni di evasione e di speculazione”[iv].
La “lezione di Agrigento” induce Mancini a correre ai ripari; “in attesa che la nuova legge urbanistica sia emanata e che i dispositivi da essa previsti producano i loro effetti positivi e rinnovatori, appare indispensabile ed urgente l’emanazione di norme intese a porre un freno all’attuale situazione di disordine urbanistico-edilizio”. Così inizia la relazione al d.d.l. governativo, che sarà approvato nell’estate del 1967 e sarà noto come “legge-ponte”.
Ad accelerare l’approvazione della legge concorsero anche, indubbiamente, i disastri del novembre 1966: le tragiche alluvioni di Firenze e Venezia, le frane e le alluvioni nel Veneto. Come scrive Giovanni Astengo:
“Alla radice di ognuno di essi sta, per certo, il cattivo uso del suolo, sotto forma sia di continuativo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del suolo a scopi edificatori. In entrambi i casi, la natura, irragionevolmente sfidata, ha scatenato d’improvviso le sue furie terribili ed ammonitrici. In entrambi i casi, alla radice è l’imprevidenza umana. E se, nell’imminenza del repentino maturare della tragedia, è mancata anche la più rudimentale forma di preavviso organizzato, alle origini giganteggia una ben più ampia e continuativa imprevidenza, che si concreta nel mancato uso razionale degli strumenti della pianificazione territoriale ed urbanistica”[v].
[i] Ministero dei lavori pubblici, Commissione d’indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, Relazione al Ministra, on. Giacomo Mancini, Roma, 1966, p. 5.
[ii] Ivi, p 142.
[iii] M. Alicata, La lezione di Agrigento, Roma, 1966, pp. 29‑70.
[iv] Ministero dei lavori pubblici Commissione, cit., p. 142.
[v] G. Astengo, Dopo il 19 luglio, in “Urbanistica”, n. 48, dicembre 1966 p. 2.