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come ha appena fatto Helsinki, il cui consiglio comunale ha rifiutato di costruire, e pagare, una filiale del museo Guggenheim perché “troppo cara per la città, richiede troppo denaro pubblico, occupa un sito di proprietà pubblica troppo pregiato per regalarlo a dei privati!”

La vicenda è stata ignorata dalla stampa italiana, ma andrebbe studiata attentamente, se non dagli amministratori, impegnati a farsi immortalare mentre inaugurano sedicenti musei, che spesso sono solo involucri vuoti, ancorché firmati da costosi architetti, dai cittadini terrorizzati di perdere le “occasioni uniche” elargite dalle multinazionali dell’arte, tra le quali la fondazione Guggenheim primeggia.

A partire dagli anni ’90, la fondazione ha dato avvio ad un piano di espansione globale delle sue attività e imposto una radicale trasformazione del significato e del ruolo dei grandi musei ridotti ad “attrazioni” per turisti e acceleratori di gentrificazione urbana. Dopo Bilbao, le successive tappe di tale piano avrebbero dovuto essere Abu Dhabi e Helsinki.

Il progetto per Abu Dhabi, la cui inaugurazione era inizialmente prevista per il 2017 (ma i lavori sono fermi e non è chiaro se e quando riprenderanno), ha suscitato critiche di varia natura, e non solo con riferimento alla qualità dell’intervento architettonico, firmato da Frank Gerhy e praticamente una replica di quello costruito a Bilbao. Gli oppositori hanno contestato l’approccio post- coloniale dell’operazione, definita una sorta di scambio “oil for art”, perché la gestione e ogni scelta di rilievo sarebbero rimaste a New York, e hanno denunciato e portato all’attenzione di tutto il mondo le condizioni di sfruttamento e semischiavitù dei lavoratori impiegati nella costruzione. Qualche mese fa GULF Labor, una NGO impegnata nella difesa dei diritti umani, ed un gruppo di artisti hanno proiettato sulla superficie esterne del Guggenheim a New York la scritta “Ultra luxury art, ultra low wages”.

La performance ha avuto grande visibilità e ha molto irritato la direzione della fondazione, ma non incide sull’accordo sottoscritto dall’emirato.

A Helsinki, invece, la mobilitazione dei cittadini ha obbligato le autorità locali a fermare il progetto la cui genesi era iniziata nel 2011, quando grazie a un’intensa attività di lobbying la fondazione aveva ricevuto l’incarico, nonché due 2 milioni e mezzo di dollari, per predisporre un piano di fattibilità per un Guggenheim Helsinki, dopo di che aveva suggerito di collocare il nuovo museo sulla parte più pregiata del waterfront, di proprietà della città, e di indire un concorso internazionale di architettura.


Già allora molti cittadini protestarono sia per i costi, 144 milioni, che per i probabili effetti negativi che il Guggenheim avrebbe avuto su altre strutture locali - musei e gallerie - e il consiglio comunale bocciò la proposta. I settori favorevoli però, soprattutto commercianti, albergatori e operatori turistici, hanno formato un gruppo di sostegno alla fondazione e concordato con questa una modesta riduzione dei costi a carico della città, cioè uno sconto sull’affitto del nome il cui prezzo, dai 30 milioni (uno all’anno) inizialmente richiesti, sarebbe stato ridotto a 20 milioni e una possibile partecipazione finanziaria anche da parte dello stato.

La fondazione, quindi, ha elaborato una nuova proposta e indetto un concorso di progettazione che si è concluso nel 2015.

Ma l’attenzione dell’opinione pubblica non ha mai smesso di seguire la vicenda e di evidenziarne gli aspetti negativi, dall’intenzione di sfruttare i cittadini per costruire un museo finalizzato al profitto privato al tentativo di imporre un modello che considera il museo come un marchio da cedere in franchise, invece che come strumento per promuovere il pensiero critico, e propaganda la vendita sui mercati locali di una merce globale, cioè l’arte contemporanea, con tecniche che essenzialmente sono una versione neoliberale del colonialismo culturale. Questa opera di svelamento è stata resa possibile anche perché gli intellettuali non sono stati in silenzio, e molti architetti e critici d’arte si sono impegnati per costruire alternative alla “McDonald dell’arte”. I risultati del loro lavoro sono ora raccolti nel volume The Helsinki effect. Public alternatives to the Guggenheim model of culture driven development.

Nel settembre 2016, la questione è arrivata in parlamento. Il ministro degli affari economici Olli Rehn (quello che non era mai contento dei conti pubblici italiani) si è dichiarato favorevole a stanziare 40 milioni, sostenendo che ne sarebbero derivati benefici all’economia e al turismo, ma il partito “populista” ha messo il veto sull’uso di soldi statali, con il risultato che il conto da pagare sarebbe nuovamente ricaduto tutto sulla città che ha, quindi, dovuto nuovamente votare sulla questione.

In una votazione ristretta la giunta comunale si è espressa a favore, ma i consiglieri sono stati sommersi da una petizione popolare inviata online che intima loro: City of Helsinki Councillors! Vote NO to the Guggenheim proposal!

Il testo con il quale i cittadini sono state sollecitati a sottoscrivere l’appello è molto semplice:

«Malgrado il consiglio comunale abbia già votato NO nel maggio 2012, è stato bandito un concorso di architettura. E’ questo un processo democratico? Un tentativo di far pagare allo stato finlandese il conto per i loro progetti è fallito. Ora, poche settimane dopo riprovano a far pagare con soldi pubblici i loro affari molto privati. E tutto questo in tempi di austerità e tagli!» e il messaggio si basa soprattutto sulle cifre che quantificano l’entità dei costi per i cittadini che si traducono in profitti per la corporation:

- 98 milioni di euro per l'edificio e la sistemazione del sito, in contanti dalla città,
- 35 milioni in prestiti garantiti dalla città,
- 1,3 milione di euro ogni anno dal ministero dell’educazione e della cultura, o in caso di non pagamento da parte del ministero, dalla città
- 0,9 milioni annuali per la manutenzione a carico della città,
- da 3 a 6,5 milioni di deficit ogni anno, perché la città coprirà tutti i rischi derivanti da previsioni finanziarie (introiti sovrastimati e costi sottostimati) totalmente non realistiche.

Per non parlare di una mai vista esenzione da IVA, mentre tutti gli altri musei privati pagano le tasse, per non parlare del terreno ceduto gratuitamente, per non parlare di 1 milione di euro all’anno solo per avere il brand Guggenheim.

In conclusione: oltre 100 milioni di euro per un museo privato che non corre alcun rischio finanziario e la cui gestione è in mano a una corporation straniera.

«Chi pagherà per tutto questo? TU. La proposta dice chiaramente che tutti i rischi saranno della città di Helsinki, dei contribuenti, dei cittadini, cioè NOI. Firma, dici ai nostri consiglieri di votare NO a questo progetto rischioso, costoso e antidemocratico. Se solo una frazione di tutto questo denaro andasse a iniziative culturali e ai musei locali, questo arricchirebbe la nostra città!»

I cittadini hanno firmato in massa e il consiglio comunale non ha potuto far altro che votare NO.

I

l signor Renzi che compra i voti dei sindaci, nonché futuri senatori, promettendo fondi speciali alle città ubbidienti è uno spettacolo .. (segue)

Il signor Renzi che compra i voti dei sindaci, nonché futuri senatori, promettendo fondi speciali alle città ubbidienti è uno spettacolo rivoltante, ma ovunque i criteri in base ai quali i governi nazionali distribuiscono le risorse finanziarie sono un indicatore significativo del livello di dialettica democratica tra potere centrale e amministrazioni locali.
La violenta campagna ingaggiata da Donald Trump contro le cosiddette “città santuario” ne rappresenta un esempio importante. Oltre che a deportare gli immigrati clandestini, incarcerare chi rientra negli Stati Uniti dopo essere stato espulso, rafforzare il muro lungo il confine con il Messico, Trump, infatti, si è impegnato a cancellare, fin dal primo giorno del suo insediamento, i finanziamenti federali alle città che non si adegueranno alle sue direttive nei confronti degli immigrati.

La definizione “città santuario”, che non ha valore dal punto di vista legale, è entrata in uso negli anni ’80 , per indicare le chiese di varie confessioni che offrivano rifugio alle persone in fuga dall’America centrale e meridionale. Ora si è trasformata nel marchio spregiativo con il quale i sostenitori di Trump bollano tutte le amministrazioni locali che hanno adottato provvedimenti per proteggere gli stranieri senza documenti da fermi e arresti arbitrari, e in genere da pratiche discriminatorie e vessatorie. In genere, tali provvedimenti consistono nel divieto per i pubblici ufficiali di chiedere informazioni circa lo “status” di una persona e il rifiuto di detenere individui che non abbiano commesso reati, in attesa delle verifiche da parte delle autorità federali. Alcune città, inoltre, rilasciano agli immigrati un documento d’identità che consente loro di lavorare e di accedere ai servizi di base. Nel complesso la denominazione riguarda 39 città, 364 contee e 4 interi stati (California, Connecticut, New Mexico e Colorado).

Verosimilmente le politiche locali circa i diritti degli immigrati diventeranno oggetto di scontro tra il governo e le amministrazioni in mano al partito democratico, e non a caso, subito dopo l’elezione di Trump, molti sindaci si sono affrettati a prendere posizione sul tema.

Alcuni hanno cercato di rassicurare i propri concittadini. Eric Garcetti, sindaco di Los Angeles, parlando ad un gruppo di studenti preoccupati per la sorte delle loro famiglie, ha promesso che farà “tutto il possibile per impedire la deportazione degli immigrati”. “A quelli che, dopo le elezioni, hanno paura, noi diciamo, qui siete sicuri” sono le parole di Rahm Emanuel, sindaco di Chicago e “noi non sacrificheremo nessuno” quelle del sindaco di Providence Jorge Elorza (figlio di immigrati dal Guatemala).

Molti sindaci hanno sottolineato i principi morali su cui si basa la loro politica. “Noi rimaniamo una città inclusiva”… “ è una questione di diritti umani”… “cacciare migliaia di giovani cresciuti qui è immorale” hanno dichiarato, rispettivamente, i sindaci di Denver, Santa Fe e Seattle. E simili proclami si sono ripetuti in tutte le grandi città: Philadelphia, Boston, New Orleans, Dallas, Minneapolis, Newark.

Il sindaco di New York, Bill de Blasio, dopo un incontro con il presidente eletto, ha ribadito che non cederà alle intimidazioni e, se necessario, farà distruggere i database con l’elenco degli immigrati senza documenti che hanno ottenuto la carta d’identità - “non sacrificheremo mezzo milione di persone che vivono con noi e sono parte della nostra comunità, non spezzeremo le famiglie”-, e a San Francisco sia il sindaco Ed Lee -“essere una città santuario è nel DNA di San Francisco”- che il capo della polizia hanno espresso la determinazione a preservare la propria indipendenza dai federali.

Ma tutti sono consapevoli che il ricatto economico è un’arma molto potente e che il nuovo governo la userà. Come ha detto Reince Preibus, capo di gabinetto di Trump, i sindaci devono togliersi dalla testa “l’idea che le città possano disobbedire alle leggi federali e poi sperare nel nostro aiuto economico”, mentre i più acerrimi nemici delle città santuario reclamano misure ancor più punitive nei confronti dei colpevoli di “sedizione e tradimento” e , oltre all’arresto dei sindaci, chiedono l’invio dell’esercito per ristabilire il rispetto della legge.

Nei prossimi mesi si vedrà quanta parte delle minacce del governo sia mera propaganda, quali compromessi saranno negoziati nelle singole situazioni, quali contromisure le città adotteranno, ad esempio con che criteri aumenteranno le tasse locali, per far fronte al taglio dei fondi.

Ma soprattutto, la contrapposizione tra governo federale e amministrazioni locali darà il via a una serie di vertenze giudiziarie e, comunque vada, le città saranno uno dei campi di battaglia cruciali per la democrazia americana.

Dal punto di vista legale, le città oltre che sulla incostituzionalità di alcune norme persecutorie nei confronti degli immigrati contano sulla cosiddetta “anti-commandeering doctrine”, il principio, cioè, secondo il quale il governo federale non può ordinare ai pubblici ufficiali di fare qualcosa che non sia un loro obbligo secondo la Costituzione, né può emanare una legge e poi intimare alle istituzioni locali di renderla operativa. Inoltre, il bilanciamento dei poteri che è uno dei cardini della Costituzione americana, prevede che in caso di conflitto prevalga il rispetto dei principi costituzionali. Per questo, qualsiasi paragone con le due volte nelle quali un presidente ha inviato l’esercito per far applicare la legge è improponibile. In entrambi i casi, infatti - Eisenhower (Little Rock, 1957) e Kennedy (Università Alabama,1963 )- la decisione fu motivata dal rifiuto dei governi locali, in sfregio alla Costituzione, di applicare le leggi antisegregazioniste.

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divenne molto popolare come l’autore degli studi che portarono alla redazione del libro I limiti alla crescita (in italiano I limiti dello sviluppo, pubblicato da Mondadori nel 1972).

La ricerca era stata voluta da Aurelio Peccei, presidente del Club di Roma, un gruppo di scienziati, imprenditori e uomini politici; nella sua autobiografia Forrester racconta che Peccei, durante un incontro sul Lago di Como, alla fine degli anni sessanta, gli espresse le sue preoccupazioni sul futuro di una umanità presa fra una popolazione crescente, un impoverimento delle risorse naturali, consumi materiali crescenti e un crescente inquinamento.

Forrester suggerì che il problema poteva essere trattato con l’”analisi dei sistemi”, un metodo consistente nella risoluzione contemporanea di varie equazioni differenziali relative ai mutamenti nel tempo di variabili interrelate, come appunto quelle elencate da Peccei. Il progetto “sul destino dell’umanità” iniziò con un finanziamento della Fondazione Volkswagen e un primo rapporto fu presentato nel 1970 davanti ad una commissione del congresso americano.

L’analisi, condotta con gli allora favolosi calcolatori elettronici del Massachusetts Institute of Technology (MIT), forniva dei grafici in cui si vedeva che, se fossero continuate le tendenze in corso, la popolazione umana sarebbe stata destinata ad un declino dovuto al crescente inquinamento e peggioramento della salute e scarsità di cibo. Le anticipazioni delle ricerche di Forrester cominciarono a circolare in Italia già ai primi del 1971, furono presentate alla Commissione sui “Problemi dell’ecologia” istituita dal presidente del Senato Fanfani e furono discussi nel corso della conferenza sul tema “Processo alla tecnologia ?” nel febbraio 1972.

Il lavoro di Forrester, esposto nel libro World Dynamics, del 1971, attrasse grande attenzione dopo la pubblicazione, da parte dei coniugi Meadows, collaboratori di Forrester, di una versione semplificata e “popolare”. Il loro libro The Limits to Growth, apparve contemporaneamente in varie lingue in molti paese nel 1972, in fortunata coincidenza con la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano in corso a Stoccolma. Al successo e alle reazioni del libro sui “limiti alla crescita” il prof. Luigi Piccioni ha dedicato un importante saggio pubblicato nel n. 20 della rivista altronovecento.

Alla scoperta dell’analisi dei sistemi Jay Forrester, nato nel 1918 in un paesino agricolo del Nebraska, laureato in ingegneria nel MIT, era arrivato dopo una lunga carriera scientifica. Poco più che ventenne era stato coinvolto nella progettazione di dispositivi per l’orientamento automatico delle antenne dei radar della difesa antiaerea. Alla fine della seconda guerra mondiale aveva partecipato alla costruzione del calcolatore elettronico Whirlwind utilizzando le memorie a nuclei magnetici inventate da An Wang nel 1949. Con questi nuovi strumenti di calcolo elettronico nei primi anni cinquanta del Novecento era possibile risolvere le complicate equazioni matematiche capaci di analizzare degli insiemi, dei “sistemi”, di grandezze economiche, sociali e biologiche legate fra loro.

Nel 1956 la Fondazione Sloan decise di istituire un cattedra di gestione aziendale presso il MIT al fine di portare i manager industriali a contatto con le realtà dell’ingegneria nel più prestigioso centro di tecnologie avanzate. Forrester fu chiamato a coprire tale cattedra e applicò la “analisi dei sistemi” ai fenomeni aziendali.

L’analisi dei sistemi permetteva di descrivere come i vari fattori delle attività di un’impresa - materie prime, produzione, distribuzione, mercato, personale - sono legati fra loro e si influenzano a vicenda; che cosa succede di ciascuno, per esempio dell’occupazione, se aumentano i costi di produzione e diminuisce la richiesta del mercato. La soluzione contemporanea di adatte equazioni matematiche può offrire una risposta a simili domande, come Forrester mise in evidenza con il libro Industrial Dynamics del 1961.

Una successiva occasione di applicare il nuovo modo di ragionare Forrester ebbe nel 1968 quando il sindaco di Boston gli chiese se fosse possibile analizzare il sistema urbano - distribuzione di abitazioni, servizi, uffici, trasporti - con il suo metodo. I risultati sono contenuti nel libro Urban Dynamics del 1969.

Dopo il successo del libro sui “limiti alla crescita” Forrester ha continuato a diffondere la cultura dell’analisi dei sistemi la cui utilità è andata crescendo a mano a mano che diventavano disponibili calcolatori elettronici sempre più potenti.

L’analisi dei sistemi non consente, né vuole, fare previsioni, come erroneamente credevano molti critici della ricerca del Club di Roma sul futuro dell’umanità, ma induce ad interrogarsi su quello che potrebbe succedere se: se aumenta la popolazione mondiale aumenta la produzione industriale; se aumenta la produzione industriale aumenta l’inquinamento; se aumenta l’inquinamento si diffondono malattie che rallentano la crescita della popolazione, e così via. Insomma uno strumento che aiuta a considerare che persone, economie, territori, città, materie prime, risorse naturali, sono legati da invisibili ma solidissimi fili. Meglio rendersene conto.

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Tra i vincitori in borsa delle elezioni americane, spiccano Corrections Corp e GEO Group, due società che possiedono e gestiscono prigioni private, le cui azioni sono salite rispettivamente del 48% e del 34% , e la Magal Security Systems il cui titolo ha guadagnato il 20% in una settimana.

The Immigrant-Only Prisons (2015)

Per i padroni delle prigioni, la vittoria di Trump rappresenta l’occasione di invertire la crisi del settore, che si era profilata in seguito alla decisione del Dipartimento di Giustizia di sospendere contratti e appalti in seguito ai molteplici scandali e alle denunce di violenze e maltrattamenti ai danni dei detenuti. Ora, la prospettiva di incarcerare un gran numero di immigrati senza documenti, è per loro una garanzia di grandi profitti. Va ricordato, a questo proposito, che undici carceri privati sono destinati esclusivamente ai non-cittadini americani ed è chiaro che i “clandestini” sono i clienti perfetti per queste strutture.

Magal Security Systems è una società israeliana, quotata a Wall Street, leader mondiale nel settore della cyber sicurezza. Oltre alle recinzioni della striscia di Gaza e ai vari dispositivi per ingabbiare i palestinesi, ha realizzato anche le barriere lungo le frontiere con l’Egitto e la Giordania che impediscono il passaggio di profughi e migranti africani.

I dirigenti di Magal sottolineano che la società non si occupa di filo spinato, ma crea e realizza “smart fences”, cioè barriere che richiedono l’impiego di sofisticati sistemi tecnologici (sensori e dispositivi mobili e satellitari) ed è una delle “punte di eccellenza nel mercato della sicurezza”.

Magal Security Systems built the walls around Gaza

“Stiamo sempre più concentrandoci sul mercato internazionale”, dicono i portavoce della società che, in Europa ha già fornito i sistemi di video sorveglianza dell’aeroporto di Monaco ed in Africa sta cercando di aggiudicarsi la costruzione dei 682 chilometri di confine tra il Kenya e la Somalia. Nel corso di una recente visita a Nairobi, insieme al primo ministro israeliano Netanyahu, i suoi rappresentanti si sono dichiarati fiduciosi di ottenere la commessa, perché “chiunque può mostrare un powerpoint, ma solo noi abbiamo realizzato un progetto complesso e costantemente testato come Gaza!”. A dimostrazione che Gaza è un laboratorio dove il blocco militare, industriale e accademico, che ha trasformato Israele in un efficiente e feroce cane da guardia, sperimenta su cavie umane i suoi prodotti e poi li vende ai governi dei paesi democratici.

Non a caso, Saar Koursh, l’amministratore delegato di Magal, è molto soddisfatto della situazione mondiale. ”Il business dei confini sembrava aver toccato il fondo”, ha detto, “ma poi è arrivato lo stato islamico e il conflitto siriano … il mondo sta cambiando e le frontiere stanno tornando. E’ un grande momento”. E in effetti, grandi momenti si profilano all’orizzonte, se Trump manterrà la promessa fatta durante la campagna elettorale di affidare alla ditta, che è già impegnata in Arizona nella costruzione di barriere anti immigranti, la fortificazione del confine con il Messico.

Ma non è solo Trump a scegliere il marchio Magal. Delle sue tecnologie d’avanguardia messe a punto in decenni di occupazione dei Territori Palestinesi, si è discusso la settimana scorsa alla conferenza HLS & Cyber 2016 (Tel Al Aviv 14-17 novembre) dedicata alla “Homeland security”, che ha visto la partecipazione dei rappresentanti di alcuni governi europei, nonché di Frontex e Interpol. L’Italia ha inviato una “delegazione imprenditoriale e istituzionale di primo piano” (da Enav a Eni a Finmeccanica-Leonardo) e due italiani sono stati inclusi tra gli speaker internazionali: il capo della polizia Franco Gabrielli, che ha espresso la sua ammirazione per la tecnologia israeliana e Alfio Rapisarda “senior vice president security” di Eni, le cui buone azioni in giro per il mondo necessitano protezione e sicurezza

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Nel corso dell’anno ci sono tantissime ”giornate” ecologiche, quella della Terra, quella dell’ambiente, dell’acqua, degli oceani, eccetera. E passa quasi inosservata una giornata mondiale … dei gabinetti, che pure cade ogni anno il 19 novembre, organizzata dalle Nazioni Unite. Quest’anno il tema è “Gabinetti e occasioni di lavoro”.

Nei paesi industrializzati, giustamente, si combattono battaglie per ridurre i milligrammi di metalli o il numero di batteri come Escherichia coli che possono essere tollerati nelle acque di fogna, ma nel nostro pianeta 2400 milioni di persone non hanno fognature, e 700 milioni, il 10 percento della popolazione totale, non hanno neanche acqua corrente e gabinetti nelle loro case, che talvolta sono soltanto baracche. Gli escrementi finiscono nei campi e da li, con il loro carico di batteri e di sostanze nocive, sono trascinati dalle piogge nei fiumi e nel sottosuolo e finiscono nei pozzi e contaminano le acque usate poi nelle case: un ciclo perverso dell’acqua che diffonde malattie, epidemie e morte, soprattutto infantile.

Esiste una organizzazione mondiale per la diffusione dei gabinetti, la World Toilet Organization, che ha tenuto, proprio nei giorni scorsi, la propria 15a riunione annuale a Kuching, in Malaysia. In quella occasione è stato reso noto il rapporto annuale che ha descritto lo stato dei servizi igienici nel mondo. Ogni anno oltre 300 milioni di bambini in tenera età, una strage degli innocenti, muoiono per malattie associate alla mancanza di pur elementari servizi igienici.

Le iniziative per assicurare servizi igienici per i paesi sottosviluppati non sono motivate soltanto da considerazioni etiche o dall’amore per il prossimo; la diffusione di apparecchiature igieniche per chi ne è privo rappresenta un grandissimo affare industriale e finanziario; al fianco della conferenza di Kuching c’era una grande esposizione di gabinetti e fognature in cui centinaia di imprese hanno presentato le proprie proposte di sistemi igienici, possibilmente a basso costo e efficienti, da esportare nei paesi arretrati.

Il “mercato” è sterminato: in paesi come il Sud Sudan, Madagascar, Congo e Ghana, oltre l’80 percento della popolazione non ha gabinetti. La situazione non è migliore neanche nelle abitazioni delle megalopoli di molti paesi emergenti nei quali la rapidità della crescita delle città non tiene il passo con il dovere di assicurare adeguati servizi igienici di gabinetti, fognature, depuratori.

La cui mancanza “costa” anche in soldi per l’economia di ciascun paese se si considerano le spese che la collettività deve affrontare per curare dissenteria, malaria, epidemie e malattie provocate dal contatto con acqua sporca nelle case e nei villaggi.

Le Nazioni Unite si sono poste un obiettivo globale di assicurare servizi igienici minimi per tutti nel 2030 e mancano appena 17 anni. E’ quindi evidente che le autorità sanitarie dei vari paesi chiederanno, a chi li sa produrre, apparecchiature igieniche, contando anche su finanziamenti internazionali.

La dimensione del problema appare se si considera che ogni persona, sia essa ricca e potente o povera e poverissima, ogni anno introduce, direttamente o con gli alimenti, circa 1000 chili di acqua che vengono eliminati con gli escrementi sotto forma di urina e di feci. Se una persona può utilizzare un gabinetto ad acqua corrente, “consuma”, per lo smaltimento di questi rifiuti, ogni anno da 10 a 20 mila litri di acqua che viene così sporcata e contaminata; se i gabinetti sono collegati ad una fognatura e a qualche depuratore, una parte dei rifiuti organici viene trattata o trasformata; altrimenti le acque sporche vanno a finire nei fiumi o nel mare e sono fonti di inquinamento microbiologico e di diffusione di virus. In molti paesi non ci sono gabinetti e neanche acqua sufficiente.

E’ una nuova corsa a inventare, perfezionare e fabbricare strumenti per migliorare le condizioni igieniche del mondo, specialmente dei paesi più poveri: occasioni per affari e attività industriali. Nei paesi industriali ci sono investimenti e pubblicità per servizi igienici sempre più sofisticati per una popolazione che pure ha già risolto i suoi principali problemi igienici e non c’è attenzione per un “mercato” che pure comprende centinaia di milioni di persone.

Il fatto è che nelle Università può sembrare ridicolo lavorare su problemi così “volgari” come la progettazione di “gabinetti di villaggio” e di tecniche di depurazione delle acque di fogna, benché la loro soluzione richieda spesso avanzate competenze tecnico-scientifiche.

Da noi per i paesi arretrati lavorano soltanto le associazioni di volontariato e le Famiglie missionarie, con mezzi limitati e nel disinteresse generale della politica e anche delle imprese. Alla progettazione e costruzione di gabinetti e sistemi igienici per i paesi arretrati lavorano invece intensamente proprio i paesi di nuova industrializzazione, come Cina e India; a Singapore e in India esistono dei Toilet Colleges per la ricerca tecnica e per l’educazione e l’informazione degli abitanti. Eppure queste tecnologie, umili e considerate “povere”, potrebbero dar vita anche in Europa a nuove imprese, a nuovi posti di lavoro, con prospettive di una vastissima richiesta futura. Prospettive per una ingegneria dell’amore per il prossimo e per l’ambiente.

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Il 5 febbraio del 1783 una violentissima scossa di terremoto sconvolse la Calabria meridionale. L’epicentro fu individuato nel territorio di Seminara, nella Piana di Gioia Tauro, ma l’onda d’urto investì con diversa intensità l’intera regione e la Sicilia, seguita da altre potenti scosse nei giorni e mesi successivi, lasciando dietro di sé uno sciame sismico che durò anni. Fu uno dei più catastrofici terremoti della nostra storia, reso particolarmente distruttivo nei paesi della Piana dagli effetti del moto ondulatorio e sussultorio, che sollevarono il suolo alluvionale poggiante sulla roccia madre e lo scaraventarono altrove. Non pochi vigneti e uliveti furono lanciati su proprietà altrui, creando problemi ardui di ricognizione ai tecnici della ricostruzione.

Scrisse di quell’evento lo storico Pietro Colletta: «Nulla restò della antiche forme: le terre, le città, le strade, i segni svanirono; così che i cittadini andavano stupefatti come in regione peregrina e deserta». Ma quel terremoto merita di essere oggi ricordato non per la sua violenza - che per fortuna non è paragonabile con quella che tormenta oggi i paesi dell’Appennino centrale - quanto per l’ardimento e l’originalità con cui reagì il potere politico del tempo. Nel 1784 il re di Napoli, Ferdinando IV, prese una iniziativa rivoluzionaria, trovando il tacito consenso del papa di allora, Pio VI. Con una serie di «regal dispacci» abolì gran parte dei conventi e monasteri esistenti in regione, i beni immobili di proprietà degli enti ecclesiastici vennero confiscati, la ricchezza della Chiesa venne incamerata in una speciale “Cassa sacra” e utilizzata, grazie alla messa in vendita dei beni, per finanziare la lunga e costosa opera di ricostruzione.
«La calamità della Calabria . scrisse l’abate Galiani – è stata tale e tanto distruttiva, che offre il campo a poter spaziosamente formare un nuovo sistema di cose…Bisogna adunque profittar del momento per formare un piano generale del suo ristoramento». Ecco la grande lezione che ne viene a noi oggi. Realizzare una shock economy di segno rovesciato rispetto a quelle realizzate negli ultimi decenni - come ci ha raccontato Naomi Klein - dai governi neoliberisti. Approfittare dell’evento disastroso del terremoto multiplo dell’Italia centrale, non certo per incamerare i beni della Chiesa, ma per realizzare due grandi operazioni distinte, in grado, per dirla col Galiani di «formare un nuovo sistema di cose».
I costi elevati delle ricostruzioni possono essere finanziati non con l’obolo caritatevole richiesto a tutti i cittadini, ma riorganizzando il sistema fiscale italiano. Vale a dire creando una gerarchia di esazione più severamente progressiva, colpendo i grandi patrimoni, organizzando un sistema apposito di leggi e di macchina inquisitiva per combattere l’evasione fiscale, rendendola severamente rischiosa e punitiva per chiunque la pratichi. Da ciò verrebbe, com’è ovvio, un vantaggio generale per il paese e risorse per rimettere in piedi il nostro welfare. Ma la seconda operazione non è soltanto un piano di ricostruzione.

Il recente terremoto rischia di rendere irreversibile il più grave problema demografico-territoriale del nostro Paese, ignorato sovranamente dalle nostre classi dirigenti. Non si tratta di “mettere in sicurezza il territorio”, come si usa dire, quasi che tutto si esaurisse in un’opera di ingegneria civile. Si dimentica la drammatica situazione della Penisola: ormai quasi il 70% della sua popolazione si addensa lungo le aree costiere e la Valle padana, mentre il centro si svuota. Se dovessero verificarsi terremoti violenti o altri eventi catastrofici in queste aree, a parte il numero dei morti, l’intera economia nazionale e le infrastrutture civili subirebbero danni che metterebbero in ginocchio per anni la nostra comunità.

Dunque, nelle terre da ricostruire non bisogna solo portare dei cantieri momentanei, ma popolazione ed economie. Le aree interne, quelle oggi abbandonate e quelle colpite dal sisma, devono rinascere non con una gigantesca opera pubblica, ma con un progetto che affidi alle popolazioni l’opera di creare o ricreare il tessuto produttivo, nuove relazioni sociali, servizi, oltre a nuovi modelli abitativi da affiancare alle ristrutturazioni. Non è un nuovo gravame che si aggiunge al nostro debito, ma un investimento per il nostro futuro: si tratta infatti di far rifiorire la nostra agricoltura montano-collinare, riprendere l’economia dei nostri boschi, estendere gli allevamenti, dare nuove opportunità all’artigianato, ai saperi alimentari, al turismo, ecc.

Per tutti i millenni della nostra storia sono state prevalentemente queste le aree della nostra economia produttiva. E oggi non si tratta di tornare indietro, ma di incoraggiare il nuovo già in atto, perché l’agricoltura biologica, non produce solo cibo, ma protegge il suolo, fa vivere il paesaggio, alimenta il turismo, tutela gli habitat, incrementa la salubrità. Come sappiamo da tempo oggi l’agricoltura non è più un’economia marginale, bensì il centro irradiatore di servizi avanzati. Ma per una tale prospettiva occorre che lo Stato torni a progettare in proprio, senza attendere che il mercato trovi le proprie convenienze.Bisogna bandire le fallimentari ricette neoloberiste. E, come vado ripetendo da tempo, i migranti che arrivano sulle nostre terre costituiscono un’opportunità grandiosa e insperata per affrontare un problema da cui letteralmente dipende il futuro dell’Italia.

La città è il luogo dell'innovazione, ma qualcuno da sempre cerca di darne una interpretazione piuttosto stravagante ... (segue)

La città è il luogo dell'innovazione, ma qualcuno da sempre cerca di darne una interpretazione piuttosto stravagante, che suona più o meno: la città è il luogo dove sperimentare le innovazioni, tanto le cavie stanno lì gratis e a volte lo fanno quasi volentieri. Avviene da sempre, certo, questa forma di esperimento, forse è uno dei caratteri peculiari dell'urbanità, l'essere sempre piuttosto disponibili e ricettivi a modi, tempi, stili di vita anche radicalmente diversi da quelli praticati tradizionalmente. Ma sembra essersi fatto particolarmente insidioso dall'epoca industriale in poi, con risvolti a dir poco subdoli in questa nostra epoca attuale detta (molto spesso ideologicamente) post-industriale, con le trasformazioni cosiddette immateriali, invece materialissime, al limite della violenza, nel manifestare i propri effetti sul territorio e la società.

Si parla e straparla di smart city, dove intangibili flussi dovrebbero cullare l'umanità urbana in una felicità senza fine, ma quel che si vede in realtà è al massimo il pullulare di iniziative a volte interessanti ma piuttosto limitate (come le auto o le biciclette in condivisione, per ora poco più di un giocattolo), a volte onestamente destabilizzanti, come nel caso di UBER, quel servizio che attraverso la gestione di applicazioni per smartphone ha letteralmente sconvolto il mercato del lavoro, nei trasporti e non solo.

E ora, dall'ambito più noto e famigerato dei taxi e analoghi, la disinvolta impresa digitale vuole balzare direttamente nell'aria fresca, gestendo con le sue app nientepopodimeno che il «trasporto aereo urbano». In un corposo rapporto pubblicato pochissimi giorni fa, dal titolo Fast-Forwarding to a Future of On-Demand Urban Air Transportation, delinea anche tecnicamente a cosa si riferisce, con quello che chiama «Veicolo a Decollo e Atterraggio Verticale»: un oggetto a motore elettrico, pochissimo rumoroso e a basso impatto, prodotto in grande serie, facile da gestire e pilotare, e che trasformi il cielo delle città in una specie di nuova frontiera della mobilità infinita, relativamente a buon mercato.

L'aspetto più surreale di tutta la faccenda è che non solo questo veicolo non esiste al momento, ma mancano anche moltissimi dei presupposti tecnologici e organizzativi che ne consentirebbero l'esistenza, e che il rapporto elenca dettagliatamente. Nondimeno, UBER abituata a maneggiare flussi immateriali per spremere materialissimi profitti, non si scoraggia certo per una bazzecola del genere, e si dilunga addirittura a spiegare quali debbano essere le trasformazioni urbane e infrastrutturali necessarie per lo sviluppo di questo nuovo futuribile servizio. Col più classico atteggiamento degli innovatori a senso unico, che ben conosciamo dopo un secolo di adattamento unilaterale delle città all'automobilismo solo per fare l'esempio più macroscopico, il concetto base è che tutto va benissimo, tutto si tiene, tutto ci farà felici, MA soltanto SE .... Basta seguire passivi il flusso degli eventi e avere fede nel trionfo dell'Idea, insomma. Ma cosa dovranno fare, esattamente, le città per eseguire gli ordini?

Innanzitutto partire da quel che già è disponibile, in una sorta di post-dismissione e riuso degli attuali eliporti per macchine tradizionali, ivi compresi quelli dichiarati inagibili proprio per i motivi di rumori e altri impatti che la nuova, virtuale tecnologia dà per superati. Ed ecco già apparire sui radar la nuova griglia della «rete eliportuale urbana», che redistribuisce gerarchie, e magari valori immobiliari relativi (certo, in attesa che la solita burocrazia municipale allenti i soliti lacci e lacciuoli, prima che il mercato faccia da sé). E a questo proposito esiste già addirittura una gerarchia interna, via di mezzo tra la logica degli aeroporti e quella delle normali infrastrutture automobilistiche, a distinguere i grandi nodi, detti Vertiport, da quelli di scala intermedia chiamati invece Vertistop, un po' analoghi a capolinea e/o incrocio di interscambio o fermata intermedia nella mobilità collettiva terrestre da comuni mortali. Magari, solo nei Vertiport potrebbero collocarsi gli impianti di ricarica rapida delle (tuttora inesistenti, si badi bene) batterie elettriche dei motori (pure di là da venire) delle trottole volanti immaginate pur nei minimi dettagli da UBER.

Un capitolo assai importante, se non altro per il portafoglio degli interessati, riguarda ad esempio il trasporto aereo «urbano» door to door e naturalmente svela in fondo quello che tutti già potevamo intendere, ovvero che i nostri operatori della fantascienza mescolata all'impresa postmoderna, hanno un'idea di ambiente urbano del tutto analoga a quella di certi economisti conservatori: città è il posto dove ci sono valori monetari in qualche modo legati a trasformazioni edilizie. Perché pensare, immaginare, elicotteri per quanto di dimensioni contenute e impatti evanescenti, che facciano servizio sullo zerbino di casa in stile cartone dei Pronipoti, significa far riferimento a un sistema di quartieri a dir poco a bassa densità, del tutto controcorrente rispetto ad ogni indirizzo ambientale e sociale emerso negli ultimi anni.

E analogo invece al primissimo comparire del vero, individuabile antenato ideologico di questi elicotterini fantasiosi di UBER: la Broadacre di Frank Lloyd Wright degli anni '30, dove di macchine del genere se ne vedono sia svolazzanti che parcheggiate, nell'utopia autostradale. Insomma, in definitiva e senza voler esaurire qui l'incredibilmente intricata questione, vale davvero la pena di tenere sott'occhio quel che stanno escogitando, i sedicenti profeti tecnologici del terzo millennio, per evitare di doverne subire troppo passivamente le pensate. E soprattutto, non rischiare di sentire, quando certi effetti si manifesteranno concretamente, il solito «ma noi a quell'epoca non potevamo certo sapere». Basta informarsi, e lo sappiamo.

Su La Città Conquistatrice qualche considerazione generale in più su questa Invasione delle Trottole Volanti, e il link a cui scaricare il documento tecnico integrale di oltre cento pagine, coi particolari dettagliatamente immaginati da Uber

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Il 27 ottobre scorso nella prima commissione dell’assemblea delle Nazioni Unite è stata votata la risoluzione L.41 che chiede che nel 2017 siano avviate trattative per arrivare ad un divieto delle armi nucleari con l’obiettivo della loro totale eliminazione, prevista fin dal 1970 dall’articolo VI del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (NPT), approvato dalla quasi totalità dei paesi della Terra, compresi quelli che possiedono armi nucleari.

La risoluzione è stata approvata con 123 voti a favore, 38 voti contrari e 16 astensioni. L’Italia ha votato contro. E’ questa, a mio parere, la vergogna, ed è il risultato dell’aver lasciato nelle mani del governo le decisioni importanti, senza consultazione del popolo che si esprime attraverso il Parlamento.

Una ulteriore riprova delle conseguenze negative dell’eventuale approvazione di una riforma costituzionale che, per “velocizzare” le decisioni, giuste o sbagliate, del governo, riduce ulteriormente il potere del Parlamento e il suo controllo sul governo che è chiamato ad “eseguire” quanto il Parlamento decide.

La risoluzione L.41 sarò oggetto di ulteriore votazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla fine di autunno. Come elettore di questo Parlamento chiedo che esso dia mandato al suo potere esecutivo di votare a favore dell’inizio di un cammino che porti al divieto totale delle armi nucleari auspicato da cittadini, studiosi, intellettuali, dal Papa Francesco e dai suoi predecessori, e che è un obbligo giuridico preso anche dall’Italia firmando il Trattato di non proliferazione NPT.

Nel mondo esistono ancora più di 15.000 bombe nucleari sufficienti per diffondere morte, malattie e danni all’ambiente nell’intero pianeta; per il loro ammodernamento e perfezionamento si spende nel mondo ogni anno l’equivalente di migliaia di miliardi di euro. Siamo ancora in tempo a eliminare le armi nucleari: chiediamolo ad alta voce.

La quantità di notizie, comunicati, diffide, appelli a favore o contro la costruzione a Roma di un nuovo stadio, sul terreno dove sorgeva l’ippodromo di Tor di Valle, rischia ... (segue)

La quantità di notizie, comunicati, diffide, appelli a favore o contro la costruzione a Roma di un nuovo stadio, sul terreno dove sorgeva l’ippodromo di Tor di Valle, rischia di far percepire una vicenda di grande rilievo, per quanto concerne i rapporti tra cittadini, pubbliche istituzioni e privati investitori, come una faida locale tra sindaci e assessori di diversi gruppi politici. Purtroppo, la questione è molto più seria e, a mio avviso, andrebbe esaminata tenendo conto di una serie di fenomeni tra loro collegati.

Il primo è la trasformazione, sancita con legge del 1996, delle società calcistiche da associazioni che avevano come scopi quelli connessi all’esercizio della pratica sportiva a imprese a fini di lucro, con la possibilità di quotarsi in borsa. Molte società di calcio, che in precedenza appartenevano a imprenditori locali, sono state acquistate da investitori finanziari. Oggi, ad esempio, il 78% della Roma è di due società del Delaware, paradiso fiscale degli USA; il Bologna è del canadese Joey Saputo, uno dei 300 uomini più ricchi al mondo; il Venezia è di una cordata rappresentata dall’americano Joe Tacopina. Ovviamente, l’obiettivo primario di queste società è quello di generare profitti da distribuire agli azionisti, un obiettivo che non si raggiunge certo con la vendita dei biglietti, ma in parte con le sponsorizzazioni e la cessione dei diritti televisivi, e sempre di più con investimenti finanziari e immobiliari.

Tra i molteplici effetti della finanza speculativa sul calcio, ben raccontati da Marco Bellinazzo in Goal economy. Come la finanza globale ha trasformato il calcio (Baldini &Castoldi, 2015), figura anche la questione della proprietà degli stadi (al momento solo la Juventus, l’Udinese e il Sassuolo hanno un loro stadio) e dei rapporti tra le società di calcio ed i comuni proprietari degli impianti e dei terreni su cui sorgono.

Su questo tema, già nel 2013, in un articolo intitolato “Cosa spinge i magnati stranieri a investire nel calcio italiano?” apparso sulla rivista Sport Business Management (19- 06-2013) si spiegava, con riferimento a Roma e a Venezia, che un elemento comune alle due cordate è che “appena si sono insediate, hanno indicato nello stadio di proprietà un elemento da realizzare il prima possibile… entrambe sanno che tali strutture rappresentano un elemento imprescindibile per generare ricavi, perché, una volta ultimati, tali stadi, considerando l’afflusso di turisti che hanno Roma e Venezia, diventeranno dei veri e propri monumenti cittadini da visitare, permettendo alle città un ulteriore sviluppo dal punto di vista turistico e di conseguenza economico”.

In secondo luogo, decisiva si sta dimostrando la determinazione del governo centrale di favorire gli speculatori immobiliari locali e internazionali, bypassando gli enti locali, che ha aumentato, anche grazie all’impoverimento programmato dei comuni, il potere negoziale e/o ricattatorio degli investitori privati, nel caso specifico dei padroni delle società calcistiche. Tale tendenza ha subito un’accelerazione con il governo Letta che, nel dicembre 2013, ha adottato un provvedimento per favorire non solo la costruzione o il rifacimento degli stadi, ma l’edificazione al loro intorno, se non al loro interno. Secondo Assoimmobiliare, tale legge ha introdotto “un adeguato e rivoluzionario impianto normativo.. determinando anche il concetto di impianto polifunzionale e rendendo molto più snelle le relative procedure”.

Non è un caso che, nello stesso periodo, sia stata avviata a Torino la cosiddetta operazione Cantinassa “un area che rappresenta l'ideale prosecuzione dell'investimento che la Juventus ha condotto sullo stadio e ha trovato nel comune una sponda molto disponibile al confronto, approvando in tempi brevi la variante urbanistica, indispensabile per portare avanti il progetto".

L’operazione Cantinassa è stata così vantaggiosa che, nel 2015, insieme a Accademia SGR, UbiBanca e Unicredit, la società ha creato J Village Juventus, il primo fondo immobiliare del calcio, che promuoverà lo “sviluppo di molteplici attività, direttamente o indirettamente collegate allo stadio di proprietà di Juventus… e la trasformazione e la valorizzazione di spazi urbani non centralissimi mediante un’opera di riqualificazione… oltre a eventi sportivi, il Village offrirà anche servizi culturali, di intrattenimento, gastronomici, di edutainment e di hospitality”.

Il cosiddetto ammodernamento degli stadi, quindi, ha poco a che vedere con esigenze di messa in sicurezza di strutture vetuste; è piuttosto l’avvio di un radicale ridisegno delle città italiane a vantaggio di chi ha individuato negli stadi degli enormi involucri pieni di rendita di cui impadronirsi. E’ chiaro, infatti, che se gli stadi e le aree di loro pertinenza diventano di proprietà dei club, i quali appartengono a cordate di capitali e ai relativi fondi immobiliari, intere parti di città italiane vengono sottratte ai loro cittadini, anche dal punto di vista giuridico.

Tale scenario ha suscitato l’unanime entusiasmo del mondo accademico, immobiliare e delle costruzioni. Nel 2015, ad esempio la Luiss ha organizzato un master dal titolo “ Stadi e impianti sportivi: le nuove frontiere della valorizzazione immobiliare” con la partecipazione di Assoimmobiliare, che ha costituito una delegazione ad hoc per il settore degli stadi, e Sportium, “una nuova realtà professionale, un vero e proprio consorzio di professionisti e società, che si propone come primo riferimento specializzato esistente in Italia.

Il governo Renzi non solo aderisce totalmente al progetto, ma ne ha allargato l’ambito alle squadre di serie B. Il 27 settembre 2016 è stato sottoscritto un protocollo di intesa tra Invimit (Investimenti Immobiliari Italiani), B Futura (società di scopo interamente partecipata dalla Lega B) e l’Istituto che attraverso lo strumento del Fondo Immobiliare, l’Istituto per il Credito Sportivo per la promozione di operazioni di valorizzazione di stadi e impianti sportivi attraverso lo strumento del fondo immobiliare.“Grazie a questa iniziativa, ha detto il presidente di Invimit Massimo Ferrarese, potranno nascere appositi Fondi Obiettivo gestiti da Sgr di mercato e promossi dagli enti territoriali proprietari degli impianti oggetto di valorizzazione”. In altri termini, i comuni dovranno cedere gli stadi.

Infine, a questo piano di spoliazione, si aggiunge la beffa che di fatto i comuni sono obbligati a dichiarare “di interesse pubblico” i progetti dei privati, dopo di che, se non li approvano rapidamente, devono pagare enormi penali. Una sorta di TTIP a livello locale a garanzia del rendimento del capitale degli investitori al quale i comuni hanno cominciato ad adeguarsi.

Pochi mesi fa, ad esempio, il consiglio comunale di Cagliari ha dichiarato il pubblico interesse della proposta per la realizzazione e gestione del nuovo stadio, un progetto di “rigenerazione urbana il cui concept è stato elaborato dalla società olandese, specializzata in impianti sportivi, The Stadium Consultancy, che si è avvalsa di alcuni professionisti polacchi coinvolti nella realizzazione degli impianti per gli ultimi europei”.

E i cittadini? A loro pensa la società crowdre:crowdfunding innovative real estate che sul suo sito ci scrive: “Ti piacerebbe che il tuo Comune potesse ospitare uno o due spettacoli al giorno di grande livello?Venerdì sera pallavolo, sabato pomeriggio tennis, sabato sera concerto, domenica pomeriggio calcio e domenica sera teatro, ecc … Il Comune non ha denaro per potersi permettere tutto questo? Voi trovateci un’area ben collegata ad aeroporti, treni ed autostrade ed al resto penseremo tutto noi. Non vi costeremo alcunché se ci chiamerete alla presenza di almeno due presidenti delle principali squadre del vostro comune e dell’intera giunta.”

Se la situazione è questa, l’unica informazione che sindaci e assessori, in carica e ex, di Roma dovrebbero darci è quale è “l’offerta che non si può rifiutare” alla quale soggiacciono, poi, vinca il migliore.

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Con la nuova legislatura e il licenziamento dell’assessore all’urbanistica Anna Marson, il PD, incarnato in amministratori e consiglieri regionali ex di tutto e ora renziani, ha iniziato l’opera demolitoria di quanto era stato fatto nella breve “primavera toscana”. Si procede in modo erosivo, cambiando alcuni articoli e commi della LR 65/14 (legge di governo del territorio), aggiungendovi codicilli derogatori ed eccezioni alle regole. Lo stesso vale per il Pit con valenza di Piano Paesaggistico; in questo caso il lavoro di demolizione non riguarda il testo ma la sua applicazione: un combinato - modifiche alla legge ed elusione del piano - che procede verso una definitiva normalizzazione delle politiche territoriali, asservite a una strategia che privilegia sempre e comunque le grandi opere, le infrastrutture impattanti, l’incenerimento, le messe in sicurezza fasulle, lo sfruttamento geotermico ubiquitario e a stretto contatto con oasi naturalistiche; che procede a testa bassa e a orecchie tappate, anche quando tutto ciò è contro il volere di Comuni e cittadini. Un paradigma di questo percorso è il Piano Strutturale di Lucca, adottato nel maggio 2016, e ora in fase di controdeduzione alle numerose osservazioni avanzate da associazioni ambientaliste, comitati e anche (flebilmente e strabicamente) dalla Regione Toscana.

Il piano di Lucca è esemplare di come in quattro semplici mosse si eludano leggi e Piano Paesaggistico; si propone quindi come modello per enti locali e professionisti che ne vogliano seguire la strada. Vediamo come. Prima mossa: allentare ed estendere il confine del territorio urbanizzato al cui esterno, per legge non sono permessi insediamenti residenziali, mentre qualsiasi previsione di nuovo consumo di suolo deve essere sottoposta a una conferenza di copianificazione che veda coinvolti Comuni limitrofi, eventuale Città metropolitana o Provincia, e Regione. Il nuovo PS include all’interno della “linea rossa” del confine circa cento ettari di suolo che nel piano precedente avevano una destinazione rurale o agricola; ora privi, perciò, anche della tutela offerta dalla classificazione di “area agricola interclusa” prevista dalla Legge 65/2014.

Seconda mossa: prevedere il consumo di suolo agricolo all’esterno del territorio urbanizzato, senza stabilire alcun dimensionamento in proposito. Questa incredibile omissione - si tratta di nuovi e presumibilmente consistenti insediamenti industriali - è avvenuta in sede di conferenza di copianificazione, senza che la Regione avesse alcunché da obiettare; la giustificazione addotta, che la legge non prevede esplicitamente tale dimensionamento, è evidentemente illogica, irrazionale e pretestuosa; né si capisce quale sia l’accordo cui si è pervenuti nella conferenza di copianificazione, dal momento che il dato essenziale - la quantità di suolo agricolo che si prevede di consumare - viene lasciato alla discrezione di uno solo dei contraenti, nella fattispecie del Comune di Lucca che, tuttavia, non ha fornito nel PS alcuna indicazione in proposito.

Terza mossa: sterilizzare le prescrizioni formulate come “indicazioni per le politiche” per ciascuna delle quattro invarianti nel Piano Paesaggistico adottato e poi conglobate in quello approvato in un'unica voce, come “obiettivi di qualità e direttive”. L’idea è stata di ripetere nella disciplina delle quattro invarianti (i caratteri idro-geomorfologici, i caratteri ecologici, il sistema insediativo e i sistemi agro-ambientali) letteralmente, non una virgola in più o in meno, quanto contenuto nel Piano Paesaggistico. Nessun approfondimento, nessuna indicazione più specifica, nonostante il salto dalla scala 1:50.000 a quella 1:10.000. La preoccupazione degli estensori del piano di Lucca è il rispetto formale delle leggi e l’adeguamento elusivo alle direttive del Piano paesaggistico, rimandando eventuali dettagli al Piano Operativo, di competenza esclusiva del Comune e di fatto incontrollabile.

Ma in realtà il PS di Lucca non si adegua neanche formalmente alle leggi regionali. Infatti, la Vas, obbligatoria per i piani strutturali, è soltanto una raccolta di dati provenienti da varie fonti e il relativo rapporto ambientale non contiene le informazioni richieste dalla LR 10/2010 sugli impatti ambientali del piano (sulla biodiversità, la popolazione, la salute umana, la flora e la fauna, il suolo, l’acqua, l’aria, i fattori climatici, i beni materiali, il patrimonio culturale, ecc.), di nuovo rimandando politiche e azioni al Piano Operativo.

E la Regione Toscana? Ha osservato le pagliuzze, ma non le travi del Piano Strutturale; e anche in questi casi si limita a consigliare, usando prevalentemente condizionali e frasi ipotetiche (il PS “potrebbe” “è opportuno effettuare ulteriori verifiche”, ecc.). Quanto alla rispondenza del PS al Pit con valenza del Piano Paesaggistico, la Regione si limita a ricordare al Comune di Lucca che il Piano è stato approvato e che il Comune di Lucca ricade nell’ambito di paesaggio Lucchesia. Se il Comune di Lucca sembra credere poco al Piano Paesaggistico, la Regione, a quanto pare, non lo tiene in nessun conto.

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E invece non bisogna solo sbarrare la strada a una cattiva riforma della Costituzione e al disegno neopresidenzialista della legge elettorale. Occorre sconfiggere Renzi per ragioni drammaticamente più serie. La presente riflessione è indirizzata ai tanti democratici, intellettuali, giornalisti e varie altre personalità pubbliche che considerano Renzi, nella presente situazione italiana, il male minore. E invece anche una sommaria considerazione ci consente di vedere e prevedere, fuori da ogni ragionevole dubbio, che egli è il male peggiore.

La sua eventuale vittoria al referendum segnerebbe un grave arretramento per la sinistra e soprattutto per l’intero paese. Ho considerato da subito sorprendente il fatto che il gruppo dirigente del PD si sia accorto con tanto ritardo dell’estraneità profonda di questo personaggio alla sua migliore cultura politica, quella ex comunista e quella cattolico-democratica. Ma quel ritardo è un segno dell’esaurimento storico di una tradizione. Certo, la distribuzione degli 80 euro, astuta mossa elettorale, ha tratto molti in inganno.Tra l’altro, il consenso che ne è venuto al PD alle elezioni europee la dice lunga sul bisogno drammatico che ha il paese di una redistribuzione della ricchezza, di superare le disuguaglianze crescenti che lo lacerano e lo fanno ristagnare. E infatti quando il centro-sinistra si è presentato con un programma passabilmente di sinistra (Pisapia, De Magistris, Zedda nelle amministrative del 2011) ha potuto constatare quale consenso maggioritario ha nel paese.
Ma Renzi ha preso la strada che conosciamo: abolizione della tassa sulla prima casa, conflitto aperto con il sindacato, ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro (Jobs Act), dialogo preferenziale con la Confindustria, ridisegno verticistico della scuola (legge sulla Buona scuola). Oggi la manomissione della Costituzione e l’Italicum dovrebbero completare il disegno coerente di una sempre più spinta “neoliberalizazione” della società italiana. Ma insieme alle scelte legislative andrebbero considerati i simboli e il linguaggio. Non era mai accaduto nella storia della sinistra che il segretario del partito eleggesse a proprio campione un manager della grande industria. Renzi, com’è noto, ha scelto come simbolo della nuova Italia Marchionne, nel momento in cui veniva ridimensionata la più grande industria italiana e imposto agli operai Fiat un violento disciplinamento dell’organizzazione del lavoro.
Ma anche sul piano del linguaggio le novità sono state rilevanti, ed è forse l’aspetto più profondamente rivelatore della personalità di Renzi. Rottamazione, termine che ha avuto tanta fortuna, che riduce le persone a cose, a ferri vecchi, introducendo una semantica del disprezzo per i compagni del proprio partito senza precedenti nella storia politica nazionale. E poi è seguito il repertorio dei gufi, rosiconi, civette e altre metafore di derisione culminate nell’incredibile: «nel partito c’entriamo col lanciafiamme», rivelatore di una non comune capacità di violenza, camuffata dalla maschera della bonomia pubblica.
Chiedo: perché tale veemente volontà di imposizione, espressa dentro il suo partito, non dovrebbe estendersi al resto della società italiana? E infatti abbiamo visto e vediamo come Renzi ha fatto della riforma della costituzione, materia per eccellenza del Parlamento, una battaglia del governo e sua personale. Egli ha alterato gravemente lo spirito e la lettera della Carta, tanto nell’iter parlamentare che nella campagna referendaria: dalla sostituzione dei parlamentari dissidenti in Commissione costituzionale al recente cambio di guardia dei direttori della Rai, che oggi occupa senza tregua con la sua propaganda referendaria.

Ebbene, questo segretario di partito e presidente del Consiglio, che mostra una spregiudicatezza senza precedenti nel manomettere il potere pubblico, che non indietreggia di fronte alla spaccatura del paese per vincere la sua personale battaglia, quale futuro ci predisporrà nel caso dovesse prevalere nel referendum? Se già ora si mostra capace di controllare tante sfere del potere, di violare le regole, che cosa accadrebbe con l’Italicum, una volta acquisita una capacità di comando enormemente rafforzata rispetto all’attuale? Non è evidente che egli darebbe una torsione autoritaria alla vita italiana?
Caro Scalfari, caro Cacciari, non c’è bisogno di immaginare un Videla o un Pinochet, siamo pur sempre in Europa, i cittadini devono consumare, non possiamo rinchiuderli negli stadi o farli sparire. E allora? E’ davvero difficile immaginare quanti milioni di italiani che hanno potere, nei partiti, nei media, nelle Università, nelle banche, diventerebbero renziani? Ci vuole troppa fantasia per prevedere in quale totalitario conformismo precipiterebbe il paese per almeno un decennio, con un incalcolabile impoverimento culturale di tutti ? Occorre avere una sfera di cristallo per intuire che anche sotto il profilo economico l’Italia non fermerebbe il suo declino, perché Renzi - tardivo epigono neoliberista - persegue la stessa politica che ha generato la crisi in Italia e nel mondo?

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Matteo Renzi l’ha detto apertamente, anzi l’ha ripetuto in diverse occasioni: la miglior legge elettorale sarebbe quella a doppio turno con ballottaggio finale fra i due candidati presidenti meglio piazzati, a meno che qualcuno non abbia ottenuto la maggioranza al primo turno. Si voterebbe, dunque, per scegliere direttamente il primo ministro. Il modello, noto e applicato più volte, è quello dell’elezione del sindaco nei comuni con più di 15.000 residenti. Di più: la lista o il gruppo di liste collegate al sindaco eletto si prendono il 60% dei seggi col 40% dei voti (a meno che il 60 non l’abbiano già ottenuto al primo colpo).

Aggiungiamo le impressionanti regole sui poteri che permettono a sindaci e giunte di surclassare qualsiasi richiesta “democratica” dei Consigli comunali (si intende, delle minoranze) per render giustizia alle rare proteste, al momento di quelle novità, di chi aveva vissuto l’esperienza delle vicende consiliari quando sindaco, giunta, consiglieri dovevano confrontarsi rispettando almeno due principi basilari: l’obbligo, per sindaco e giunta, di “portare” nel Consiglio tutte le “pratiche”, relative sia alla risoluzione dei più complessi problemi urbani sia alla risposta a domande di minimo rilievo locale, di metterle in discussione assicurando a tutti la pari dignità di funzione con la votazione. E sopra il Comune, indipendente in teoria, sorvegliava come un cerbero il prefetto a capo di una autoritaria commissione provinciale di controllo, messa lì apposta per rendere grama la vita democratica delle amministrazioni pubbliche d’ogni colore, per principio, ma nei fatti con prevalenza al 100% del colore rosso.

Vecchi quadri ammuffiti, questi, ignoti alle nuove generazioni ma dimenticati persino da protagonisti politici d’allora. Per noi, invece, una chiarezza fissata come un palo nella memoria, conficcata ben dentro al durame del ricordo.

Tutti, poi, erano stati eletti, mentre oggi il sindaco è una specie di principe che nomina gli assessori cortigiani pescando dove vuole, anche fuori della logica elettorale principalmente per i ruoli più alti: ricorrendo al topos del “grande tecnico” da reperire sul mercato più ampio e ben frequentato delle professioni (credono, anche in tempi di mafia legalizzata?) e quasi sempre sconosciuto al popolo elettore. Del resto, Renzi è stato eletto? No, è (era) un giovane borghigiano fiorentino di Rignano sull' Arno nominato da un presidente della repubblica detto, guarda caso, re Giorgio. A sua volta il rignanese s’è procacciato i ministri, i suoi ministri, forse mai come questa volta esonerati da attendibili apprezzamenti magari coram populo.

Ma torniamo a sindaci, giunte e Consigli, materia che sentiamo più nostra rispetto a certa estraneità dei giochi di sfere ministeriali e governative, che girano, cozzano, si respingono e si attraggono; benché una città come Milano, se è per questo, non sempre perda il confronto. Sono passati mesi dalle elezioni del nuovo sindaco Giuseppe Sala e nulla è accaduto dal punto di vista di un sano svolgimento delle relazioni politiche e amministrative (ovvia dimostrazione…). L’enorme problema del riutilizzo degli scali ferroviari dismessi richiama l’interessamento in diversi ambienti culturali; ma non in Consiglio comunale che sembra in disarmo (senza essersi armato), proprio come una vecchio vagone delle ferrovie. Parla qualche assessore qua e là, pareri personali e superficiali[i].

Finalmente, sotto la cappa di silenzio istituzionale in una città sventrata da rumorosi lavori (vecchia amministrazione) per l’ultima linea metropolitana[ii], il teleriscaldamento, la sostituzione di tubature del gas, nuovi (inconcepibili!) parcheggi sotterranei nel cuore della città, si è svegliato l’unico consigliere eletto con l’unica lista di opposizione da sinistra “Milano in Comune”[iii], Basiglio Rizzo, presidente del Consiglio comunale prima delle elezioni. Ha dichiarato, protestando signorilmente, che niente passa attraverso il Consiglio; sindaco o giunta decidono deliberano decretano fuor d’ogni dovere di instaurare la discussione nell’assemblea, o, per i provvedimenti di bassa ordinarietà, di informarla. «In questo modo fanno passare di tutto», scriveva sessantacinque anni fa il viennese Heimito von Doderer[iv]. Si rivolga, l’ingenuo, all’albo pretorio. Così leggerà almeno un elenco completo, si suppone.

Sala, che prima delle elezioni si era autodefinito (alla pari col rivale del centrodestra Parisi) un manager, si è mosso e si muove ben al di là dei presumibili compiti coerenti al titolo qualificante, giacché la versione italiana direbbe solo dirigente. Un comportamento da capo indiscusso, il suo: disinvoltura e spregiudicatezza siano il mio motto, sfruttamento della fama di eroe di Expo sia il mio daffare. Così l’abbiamo visto sbrigativamente noncurante di certi brutti inceppi nella gestione personale del potere. Notati e descritti da rari giornalisti non ossequienti[v]. Ora, passate e ripassate di un buon cancellino hanno ripulito a fondo la lavagna con le «note», come quelle che la maestra o il maestro segnavano per le mancanze più gravi degli scolari. Noi però conserviamo i ritagli degli articoli di quei giornalisti. Allora, promemoria minimo:

assegnazione senza gara a Eataly (alias Farinetti sostenitore di Renzi) dell’intera ristorazione nell’Expo; triplice dimenticanza nelle dichiarazioni obbligatorie: una casa in Svizzera, due società (in Italia e in Romania); disinteresse e supponente distacco di fronte agli allarmi e inchieste della magistratura milanese su corruzione negli affari all’Expo e resistibile larga partecipazione mafiosa; dolente svarione nell’affrettata prima nomina del segretario generale del Comune, la prescelta era stata rinviata a giudizio per turbativa d’asta a Como (ricordate lo scandalo delle famose paratie - muraglie di cemento - davanti al lungolago?).

Nel campo delle azioni legittimate dagli enormi poteri personali impressi nella figura del sindaco, Giuseppe Sala s’è infischiato di cautela, opportunità, buon gusto. Il potere di nomina l’ha esercitato senza il minimo ritegno. In certe scelte per cariche fondamentali, in primo luogo quella del nuovo direttore generale del Comune (dopo lo svarione), sembra che la garanzia di qualità e altezza morale dovesse risiedere nella provenienza bancaria. Il peggio tuttavia, sempre entro il troppo largo ventaglio delle condotte lecite ma criticabili, è rappresentato dall’assegnazione dell’assessorato al bilancio (vi sembra poco?) al suo socio in affari; un personaggio già gravato da tali carichi (non mancano quelli bancari) da destare preoccupati dubbi sulla possibilità di reggere il più pesante presente nella casa comunale.

Permane infine il mistero sulla sorte delle aree Expo. Chi ne ha vantato il successo grazie soprattutto a sé medesimo, non potrà defilarsi di faccia sia all’eredità negativa che comprende l’abolizione di un’area agricola acquistata peraltro a prezzo eccessivo e i debiti bancari di Comune e Regione, sia alla prospettiva del riutilizzo che esigerà un mucchio di investimenti pubblici (forse irragionevoli), intanto che ammetterebbe una gigantesca speculazione edilizia a Città Studi se una delle destinazioni fosse il trasferimento dell’università.

[i] Cfr. il mio articolo Meno “rito ambrosiano” ma nuovi ritualismi, eddyburg 21 settembre 2016.
[ii] La numero 4, successiva alla 5 già in funzione.
[iii] La lista “Sinistra X Milano”, sinistra del cavolo,
embedded nel gruppone pro Giuseppe Sala.
[iv] Trascrivo il passo che introduce la sconfortante locuzione: «…solenni invenzioni di gente interessata, di politici di professione, di generali, di palloni gonfiati, di storici, o esalazioni di persone alle quali il linguaggio dei giornali guazza nel cervello, come lo sciacquone nel vaso del w. c.», in
Die Strudlhofstiege oder Melzer und die Tiefe der Jahre, Biederstein, Monaco 1951; edizione italiana di un capolavoro della letteratura austro-tedesca: La scalinata, traduzione di Ervinio Pocar, Einaudi, Torino 1965, p. 375.
[v] Come Gianni Barbacetto, autore di un’inchiesta su Milano e Sala,
Il fatto quotidiano, alcuni numeri dell’estate 2016.

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«Se l’Europa non ci dà ascolto, faremo da soli» ha sbruffato Renzi di fronte alle crescenti chiusure dei governi dell’Unione, che non vogliono farsi carico dei migranti in fuga da guerre e miseria. Ma come faremo da soli, noi, abitanti di una penisola in mezzo al Mediterraneo, che non ha frontiere se non tra le valli delle Alpi? Eppure in questa espressione di sfida si può limpidamente scorgere la differenza che corre tra uno statista, figura quasi scomparsa, che guida il proprio paese con lungimiranza strategica e un qualunque rappresentante del ceto politico. Vale a dire quella figura oggi prevalente di professionista, perennemente in campagna elettorale, che usa le leve del potere pubblico per affermare e conservare il proprio. Uno sguardo ai membri dei governi europei ci offre un campionario desolatamente esaustivo. Il moto di Renzi, naturalmente, è un abbaiare dei cani alla luna. Ed è noto che quella solitaria protesta non ha mai cambiato la sorte dei cani sulla Terrai, né il corso dei moti lunari.

Eppure, se Renzi fosse uno statista potrebbe davvero sparigliare le carte, con una mossa che toglierebbe il sonno a non pochi governi. Il ritiro unilaterale e immediato dei nostri soldati, circa 4.500, dai vari teatri di guerra e il disimpegno economico del nostro stato in spese belliche: oltre 29 miliardi di € nell’anno 2015, circa 80 milioni di € al giorno secondo i dati dell’agenzia indipendente Sthockolm International Peace Research (SIPRI).

Uno sperpero immenso di denaro pubblico con cui non solo potremmo organizzare una dignitosa accoglienza dei migranti, ma fare di questi la leva demografica e sociale per la riorganizzazione del nostro territorio, dando un nuovo slancio alla vita economica e sociale dell’intero paese. Lo sforzo che oggi l’Italia sostiene per fare guerre camuffate dovrebbe essere interamente rivolto all’interno, a fronteggiare la più grande sfida che il paese ha davanti a sé nel suo immediato futuro. Dovrebbe apparire chiaro, infatti, che le chiusure sempre più ottuse e feroci degli stati del Nord Europa ai disperati che fuggono da guerra e miseria, trasformeranno l’Italia da paese di transito in mèta finale e permanente.

Il passo che un vero statista dovrebbe compiere è uscire dalla Nato. Oggi esistono buone ragioni per disfare la struttura dell’Alleanza atlantica. Essa non aveva più ragioni di esistere dopo il tracollo del Patto di Varsavia. Eppure sotto il dominio americano essa ha continuato la sua opera, provocando danni immensi e incalcolabili all’umanità intera. Rammentiamo qui brevemente, tralasciando le guerre balcaniche, che sotto lo scudo statunitense, almeno una parte di paesi Nato ha invaso l’Afganistan, intrapreso la rovinosa guerra in Iraq (dalle cui macerie è sorta l’Isis, il più sanguinario fenomeno di terrorismo internazionale dei nostri tempi), ha invaso e devastato la Libia. Ma anche in Europa, la politica americana della Nato è fonte di tensioni crescenti e di conflitti armati (Ucraina) .Rinfocolando i risentimenti antirussi di molti paesi dell’Est, ha fatto rinascere antichi nazionalismi e spinto la Russia verso un irrigidimento sempre più autoritario, favorendo platealmente il potere personale di Putin.

Chi possiede intelligenza delle cose del mondo deve riconoscere che gli USA hanno necessità di ricreare la figura di un grande Nemico esterno, venuto a mancare dopo il crollo dell’URSS. Ne hanno bisogno per ragioni di politica interna, per mantenere il consenso tra il popolo americano, sempre più deluso e lacerato. E per conservare il loro blocco di alleanze internazionali. Ma anche per ragioni economiche: la costosissima macchina industriale-militare degli USA ha bisogno di utilizzare, con guerre locali, ma anche di vendere i suoi prodotti. E i paesi Nato costituiscono la sua migliore ( anche se non unica) clientela. Il caso degli acquisti dei caccia F35 da parte dell’Italia - paese che per norma costituzionale ripudia la guerra - è la spia più clamorosa della disposizione e della pratica servile dei nostri governanti verso questo potere opaco e dispendioso che sfugge a ogni controllo democratico.

L’uscita dalla Nato potrebbe favorire il processo di unificazione dell’Europa. Dopo la Brexit sarebbe più agevole la costituzione di una difesa europea comune, una difesa leggera, assai meno dispendiosa di quella affidata ai singoli stati, non soggetta agli interessi commerciali USA. L’Italia, insieme alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia potrebbe mettersi alla testa di questa coraggiosa svolta politica, in grado di trascinare anche la Francia, se il senso del bene comune tornasse a brillare tra i socialisti di quel paese. Noi ne abbiamo necessità vitale. Il modo in cui evolverà il continente africano nei prossimi anni deciderà molte cose dell’avvenire del nostro Paese. Occorre una grande politica verso i paesi del Mediterraneo e non la si può realizzare con i dogmi fallimentari dell’ordoliberalismo tedesco. Mentre su questo blocco di paesi si potrebbe progettare un euro.2, una moneta euromediterranea, che segni una via d’uscita dal più grave errore fondativo dell’Unione Europea.

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«Le città? Devono stare zitte a cuccia e non chiedere più soldi». Così si esprimeva con una terminologia diventata leggendaria ... (segue)

«Le città? Devono stare zitte a cuccia e non chiedere più soldi». Così si esprimeva con una terminologia diventata leggendaria (Drop Dead! proprio come si dice ai cani) il peraltro dimenticato presidente americano Gerald Ford, inopinatamente succeduto a Nixon dimessosi per lo scandalo Watergate. Il suo linguaggio duro e sprezzante arrivava nel pieno della politica di disinvestimento urbano, ed esprimeva in sintesi una precisa linea conservatrice di sviluppo economico e sociale, iniziata in sordina a cavallo dell'ultima guerra, ma che dopo la stagione dei diritti civili e delle rivolte degli afroamericani nelle grandi metropoli aveva subito una forte accelerazione. Ovvero la fuga dei ceti medi dalle città centrali, lasciate in balia della dismissione industriale, di mostruose operazioni di urban renewal analoghe a certe grandi opere, inclusa la matrice autostradale, del formarsi di sacche di indicibile degrado sociale e umano, ambientale, magari di fianco a iniziative di speculazione edilizia terziaria, eccezioni a ribadire la regola.

Certo le grandi città erano tutt'altro che morte e sepolte, come dimostra ancora oggi quello straordinario filmato sulla «Vita sociale nei piccoli spazi urbani» composto dal sociologo William Whyte, ma la narrazione corrente, comprese certe strampalate teorie accademiche sulla cosiddetta «Integrazione spaziale», vendeva come ineluttabile quella dispersione territoriale suburbana delineata negli anni '30 dalla Broadacre autostradale di F.L. Wright, col suo vago sogno intellettuale di ritorno alla nuova frontiera, l'automobile invece del cavallo, il centro commerciale invece del saloon di qualche film di serie B. Curioso che proprio in quel periodo il padre di Donald Trump guadagnasse magnificamente lucrando proprio su quella narrazione di degrado e abbandono, accaparrandosi terreni nelle zone classificate hic sunt leones dall'immaginario collettivo, e poi gestendo la loro trasformazione in qualche palazzo per uffici o altro.

La suburbanizzazione era, come detto, un progetto economico, con tutto il suo strascico di consumi privati coatti, di ciò che la tradizione urbana considerava collettivo: dall'auto individuale, alla piscina, allo stesso verde del giardino alternativo a quello di quartiere, ai riti del fine settimana e via dicendo. Ma era anche un progetto politico, di natura sottilmente conservatrice per non dire peggio, con quel puntare tutto sul nucleo familiare, sullo slogan «I migliori vicini sono quelli separati da una solida recinzione», sulla trasformazione della casa e tutto ciò che conteneva nel cosiddetto castello del capofamiglia. Non a caso, le rilevazioni dei flussi elettorali appena qualcuno iniziò a porsi il problema, cominciarono a confermare l'ipotesi: le concentrazioni urbane erano più progressiste, la dispersione suburbana votava a destra. Vuoi per i partiti che tradizionalmente si presentano con quell'etichetta, vuoi su istanze specifiche, locali, referendarie o altro. Certo, difficile stabilire qualche tipo di scientifica corrispondenza fra cose come la densità edilizia, o le superfici a parcheggio pro capite, o la distanza di commercio e servizi dalle residenze, o i km di autostrada per abitante, e quel voto orientato in un senso o nell'altro. Ma agli studiosi il trend appariva e appare evidente.

E adesso arriva, se necessario, la conferma del discorso ufficiale di accettazione della candidatura di Donald Trump alla presidenza per i Repubblicani. Di quello stesso Trump che ereditato denaro e mestiere dal padre è diventato un simbolo di tante cose, che con quel dualismo territoriale e politico hanno a che fare: dalle «riqualificazioni» nelle zone centrali, a quel genere di lottizzazioni surreali progettate in aperta campagna da campioni di golf, e rivendute proprio come percorsi sportivi nel verde, quando altro non sono se non gated communities della peggiore e più esclusiva specie. Cos'ha detto, Trump, nel suo discorso alla Convention? Certo, lui parlava di questioni di ordine pubblico e sicurezza del cittadino, ma mettiamo in fila: caos e violenza per le strade; incremento degli omicidi soprattutto nei grandi centri ad esempio «nella Chicago da cui viene il nostro attuale presidente». E poi le infrastrutture che vanno a pezzi, vetuste, autostrade e aeroporti da terzo mondo (sic). Il che evoca e ribadisce, quasi esattamente, i medesimi scenari di quarant'anni fa, in cui Gerald Ford diceva, alle città che votavano in prevalenza Democratico e progressista: «a cuccia, niente soldi», e implicitamente «ci sono quelli degli investitori privati».

Foto F. Bottini
Oggi, letto nella prospettiva di quanto accaduto e ancora in corso nelle trasformazioni territoriali, lo scenario del candidato populista reazionario televisivo si legge più o meno, semplificando al massimo: grandi opere stradali di colonizzazione suburbana, a rilanciare la nuova frontiera dello sviluppo infinito di villette, centri commerciali, office park, zone industriali, ovvero ad alimentare i bacini naturali di voto alla propria area politica; e intervenire col ferro e il fuoco militare nell'orrore e degrado urbano, preparando la tabula rasa della riqualificazione speculativa, magari nella forma dei nuovi quartierini per giovani scapoli delle professioni rampanti, o quelle sacche di lusso a macchia di leopardo autogestite dalle imprese tecnologiche come intravisto a San Francisco, dove i pullman di Google attraversano blindati i quartieri «degradati» per portare in ufficio i manager. Normale, che la politica ragioni anche così, riproducendo nelle proprie scelte e strategie il medesimo brodo di coltura che le garantisce consenso. Lo si dovrebbe considerare anche da questo punto di vista, quando qui da noi si contestano i tracciati autostradali, gli «sprechi in opere inutili» che invece paiono utilissime proprio allo scopo di coltivarsi quel brodo sociale introverso, che prima o poi, al momento giusto, darà il proprio consenso alle medesime scelte chiuse, privatistiche, particolari. Tutto si tiene, basta farci caso.

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Come ben sanno le persone colte d’Europa e dei vari paesi del mondo, l’Italia eredita, con poco merito dei contemporanei, un patrimonio di inestimabile valore: il suo paesaggio. E forse occorrerebbe aggiungere che questo, subito dopo la tradizione culinaria, costituisce il connotato identitario più spiccato del nostro Paese, quello che ne fa appunto il Bel paese e che nell’immaginario internazionale fa dell’Italia, l’Italia. Eppure quanta fatica per le ristrette avanguardie nazionali, che sono consapevoli di questa eredità unica al mondo, di tutelarlo, di sottrarlo ai miopi appetiti della classe dirigente della nostra epoca, priva di progetti e cultura, che vorrebbe ricavarne soldi e legna da bruciare nel misero focolare della crescita.

Lo scorso anno qualcosa si è mosso sul piano dell’intervento pubblico a favore della cura e della pianificazione del paesaggio. La regione Puglia e la regione Toscana, uniche fra le 20 regioni, hanno completato e presentato con successo, al Ministero dei Beni Culturali, i loro Piani paesaggistici e territoriali. Si tratta della prima realizzazione di una politica inaugurata dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004) che trova una integrazione legislativa e soprattutto culturale nella Convenzione Europea del Paesaggio, adottata a Firenze nel 2000 ed entrata in vigore nel 2004. Si tratta di due architetture di norme ben pensate, che tendono a tutelare - come fa soprattutto la Convenzione europea - anche i paesaggi tradizionali di non particolare pregio, in cui si svolge la vita quotidiani dei cittadini.
Ma si tratta per lo più di norme, sforzo di una progettualità avanzata, prive di supporti economici adeguati, di cogenza giuridica e di impulso economico, soprattutto svincolate dalle politiche generali dell’Unione. Basti pensare che nei programmi della Commissione Europea, in tutte le sue numerose aree di intervento, il tema paesaggio non compare mai. Mentre le politiche agricole comunitarie, appaiono del tutto scollegate dalle dinamiche di tutela e pianificazione dei paesaggi rurali, che tanto peso hanno nel profilo identitario del paesaggio italiano ed europeo.

Su questi temi e soprattutto sulle strategie che hanno ispirato l’elaborazione del piano paesaggistico della Toscana, ritorna ora un prezioso volume, destinato a costituire un punto di riferimento imprescindibile per tutti i futuri interventi sul paesaggio, in Italia come negli altri paesi. Si tratta del testo, a cura di Anna Marson, che è stata assessore all’Urbanistica e pianificazione territoriale nella precedente giunta della regione Toscana, e ha avuto un ruolo fondamentale per la sua approvazione: La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare per il piano della Toscana, Prefazione di Enrico Rossi, Laterza, 2016, €34.

La Marson svolge una riflessione a tutto campo sui problemi del paesaggio, racconta brevemente come ha lavorato la Regione per la realizzazione del Piano - che ha scelto di ricorrere agli esperti delle sue Università e di restare nell’ambito delle competenze pubbliche - e soprattutto fornisce una sintesi molto rapida dei temi dei vari saggi che compongono il libro. A scorrere le 287 pagine del grosso volume laterziano non si può non rimanere impressionati dalla profondità specialistica (qualche volta perfino ostica per il comune lettore) dei temi affrontati: dai problemi di metodo interpretativo, a quelli degli equilibri geomorfologici del territorio, dalla funzione ecologica dei paesaggi e della loro “rete “ ragionale, al valore patrimoniale del policentrismo toscano, dai “morfotipi agroambientali”, cioè le molteplici forme dei paesaggi agrari tipici, ai temi della tutela e dei vincoli.
Ma ugualmente impressionati si rimane nello scorrere i tanti nomi degli studiosi, esperti di varie discipline che hanno scritto i saggi e operato spesso nella realizzazione dello stesso Piano. Da Alberto Magnaghi - che ha avuto un ruolo rilevante nella realizzazione, insieme ad Angela Barbanente, nella realizzazione del Piano paesaggistico della Puglia – a Salvatore Settis, da Paolo Baldeschi a Leonardo Rombai, da Ilaria Agostini a Daniela Poli, solo per citarne alcuni. Si tratta di un gruppo intellettuale e di esperti che riflette, malgrado tutto (malgrado i colpi subiti negli ultimi anni) la capacità di un territorio come quello toscano, di darsi e di organizzare delle competenze all’altezza della sua storia.
Non è qui possibile dar conto neppure per cenni di questo ventaglio tematico a più mani, che si presenta come un insieme di laboratori, a un tempo teorici e di sperimentazione sul campo, ricchissimo di esperienze e di idee per i pianificatori che vorranno cimentarsi in quest’ambito. Ma la rilevanza teorica e culturale di tutto il libro - messa ben al centro dalla Marson e che trova riflessioni specifiche nel saggio di Settis - è tutta nella idea di Piano.
Un piano per il paesaggio? Ma il paesaggio esiste già, si tratta solo di proteggerlo, di conservarlo. A che serve un piano? Domande retoriche, ovviamente. Intanto serve per comprendere il paesaggio medesimo, che costituisce un complesso sistema inserito in un territorio con le sue caratteristiche morfologiche primarie, che è stato elaborato dalle comunità umane in epoche diverse, con tecnologie e culture in evoluzione, adattandosi a domande economiche e sociali mutevoli, creando correlazioni tra gli abitati e i luoghi della produzione, tra economia e bellezza.
Si deve analizzare il paesaggio, con i saperi molteplici che si hanno a disposizione, mobilitando più discipline, non solo per imparare a leggerlo, per apprezzarlo e amarlo più profondamente, ma per poterlo anche tutelare adeguatamente. Ma la tutela - è questo il messaggio centrale, culturale e politico del libro - non si esaurisce nel vincolo. Il Paesaggio non è un presepe, non si può rinchiudere negli spazi protetti di un museo, vive nella nostra epoca, esposto ai venti della storia mondiale.
Il piano è indispensabile per una tutela attiva del paesaggio, per mettere insieme, come dice la Marson, «il riconoscimento delle regole di lunga durata con la possibilità di garantirne la riproduzione». La conoscenza storica consente di ricostruire geneticamente le modalità di formazione del paesaggio, delle economie e delle culture che l’hanno generato e plasmato e quindi offre gli strumenti attivi per intervenire e farlo vivere, dargli continuità nelle condizioni attuali, proiettarlo nelle dinamiche del futuro. La pianificazione del paesaggio può diventare in Italia una fertile officina in cui scoprire come le dinamiche del mercato possono essere piegate e impiegate in un disegno in cui torna a primeggiare l’umana progettualità.
L'articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto.
Riferimenti

Nella sezione Buone pratiche di Urbanistica e pianificazione di eddyburg due cartelle raccolgono l'esperienza dei piani paesaggistici di Puglia di Angela Barbanente e Toscana di Anna Marson, e un'altra quella della Sardegna di Soru

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Il distintivo di Milano appiccato all’ex capitale morale da Vezio De Lucia ai tempi del sindaco Gabriele Albertini e del successore Letizia Brichetto Moratti significò gettar via l’urbanistica tradizionale della pianificazione comunale, vale a dire operare sulla base di un’idea complessiva di città dimostrando volta a volta l’ineluttabilità dell’intervento classificato primo nell’elenco delle priorità, ancorché provvisorio; e, al contrario, costruire nuove parti di città secondo intese private, talvolta segrete, fra il sindaco e il potente imprenditore proprietario di suoli e/o costruzioni da dismettere. Il primo caso che fece scalpore e suscitò diversi commenti e critiche fu la combine immobiliare fra Albertini e Tronchetti Provera[i]: da cui la distruzione di una grande industria come la Pirelli e la realizzazione alla Bicocca di un’espansione urbana imprevedibile, indimostrabile.

Valse soltanto l’incontro fra il potere forte dell’industriale, disceso dal piano del profitto capitalistico a quello della rendita fondiaria/finanziaria, e il potere debole, verso i forti, di un’amministrazione comunale priva di un alto sentimento del progetto pubblico. Un gran numero di altri episodi simili segnarono il corso degli anni in cui la Milano del nostro destino perdeva completamente il proprio connotato storico di città dotata di una miriade di settori produttivi, di una coerente economia di sostegno e di una eccezionale ricchezza sociale per diventare l’emblema nazionale del dominio affaristico di finanza, commercio, edilizia privata unite come sotto una sacra corona; e della conseguente asfissia di classe.

Oggi è il tempo degli Accordi di programma con le Ferrovie dello stato (FS/Sistemi urbani)[ii] per la «trasformazione dei sette scali ferroviari[iii] [che costituiscono una grossa fetta dei 21 ATU - Ambiti di trasformazione urbana] in una visione di trasformazione della città»: così l’assessore Pierfrancesco Maran, che aggiunge altro, più come vaga speranza che come decisivo impegno («mi piacerebbe molto che…»). È in ballo un affare gigantesco che parrebbe spiegare l’unico interesse di FS. Quello di ottenere il massimo di rendita fondiaria, ossia la massima volumetria complessiva, quindi il più alto indice edificatorio. È attorno a quest’ultimo che si gioca una delle partite. Mentre risuona nell’aria qualche parolona circa i mirabolanti benefici che i milanesi riceverebbero da una collana di grandi parchi, ritualistica è la diatriba sull’edificazione.

FS se ne frega della funzione sociale che dovrebbe essere intrinseca al nuovo utilizzo delle sue proprietà. Si è visto quale livello di lucro speculativo comportante distruzione di storici assetti funzionali ed estetici abbia toccato il famoso programma Grandi stazioni. Basti l’esempio della stazione di Milano. Una mascalzonata nel confronto dei viaggiatori per avergli sottratto le comodità e le facilità d’uso, altresì vessandoli con incessante pubblicità visiva e sonora; per di più un’inconcepibile violenza verso l’architettura di Ulisse Stacchini sia riguardo alle funzioni sia al decoro (esempio, le magnifiche sale d’aspetto demolite in toto per aggiungere spazio al commercio).

Intanto Maran mette le mani avanti. Contano poco le volumetrie, dice, cioè gli indici di edificazione, conta invece lo spazio che resta libero: esempio i grattacieli di Garibaldi/Repubblica: si è operato bene lì. Ma quali spazi liberi, osserviamo noi. Quel modello, insensata presenza di figure urbane come in un qualsiasi emirato (Qatar proprietario al 100%) è parte integrante di una speculazione fondiaria ed edilizia smaccata, guai se la si applicasse allo scopo di un accordo che dovrebbe concludersi con la famosa “collana”. Ma l’assessore si contraddice, altro che la nonchalance verso i parametri edificatori.

Risaliamo al documento di piano del Pgt in scadenza, all’edificabilità delle ATU consistente in 0,70 mq/mq. Maran si inchioda a una fede di 0,65 mq/mq (interamente assegnata alla proprietà fondiaria FS/Sistemi urbani), che solo i tremori della minuscola sinistra milanese (un solo rappresentante in Consiglio comunale, l’ex presidente dell’aula Basilio Rizzo), evitano di discutere e di negare. A questo punto, ci valiamo delle analisi seccamente veritiere, inattaccabili di Sergio Brenna, delle sue tabelle che dimostrano le differenze di risultato, anche enormi, a seconda dell’intreccio fra diverse scelte parametriche di partenza.

Mentre la diatriba intorno agli ex scali sembra nascondere qualcosa della effettiva posizione di FS, come avvenne col progetto Grandi stazioni quando la realtà violenta del fatto compiuto (ma chi doveva controllare dal punto di vista degli interessi dei cittadini?) impedì di “tornare indietro”, a Milano potrebbe diventare tempestoso l’orizzonte di tutti gli spazi destinati a parco territoriale e a grandi servizi da Prg poi Pgt, come ex Gasometri, Parco Sud, Parco Vittoria, Parco Naviglio Martesana e altri, il cosiddetto Fiume Verde. Secondo Brenna l’indice di 30 mq/abitante di spazi pubblici vuol dire lasciarlo all’edificazione privata.

Pochi lo sanno o non lo ricordano, ma in maniera simile la città ha perduto una riserva di bellissimo verde sportivo col recinto del trotto a San Siro. Bastò una (con orribile dizione!) “Determina dirigenziale”. Allora, altro che accordo su 0,65 mq/mq. Calcoli precisi del nostro che mettono in chiaro diversi dati frazionari, mostrano un loro legame stretto che può provocare effetti paradossali, ossia disastrosi: gli spazi pubblici dovrebbero salire a 45 mq/ab e corrispondere a un’edificabilità territoriale dei 0,45 mq/mq per evitare l’inverarsi di una densità fondiaria che potrebbe raggiungere addirittura i 40 mc/mq.

Preferiamo esprimerla in metri cubi per ettaro, 400.000!! e piangere sull’urbanistica tradizionale quando criticati colleghi, succubi rigorosi dello zoning, “osavano” indicare per le zone dense, le più centrali o più vicine al centro della città, 60.000 mc/ha (densità eccessiva ma una pinzillacchera al confronto), poi cercavano di interpretarla attraverso i tipi di edificio, i servizi, il verde e così via. Supponiamo ora di ottenere per gli ex scali le migliori condizioni, secondo la nostra visione, nella dinamica (quasi un gioco) degli indici fondiari ed edilizi. Ma non dovrebbero, sindaco e giunta, finalmente proporre cosa sarebbe utile, giusto realizzare concretamente lì?

Occorrono nuovi alloggi, nuove case residenziali? Per chi, per quale popolazione in una città che ha vissuto (e vive) una lunga crisi demografica ripianata solo da un costante afflusso di immigrati? Questi sono circa 260.000, il 19% dei residenti; dove e come abitano? La statistica numerica ci spiega che sono distribuiti in tutti i nove “municipi” del decentramento[iv], non c’è un ghetto enorme in una presunta peggior periferia; ma non sappiamo come abbiano potuto affrontare un mercato libero delle abitazioni se non, per la maggior parte di loro, aumentando le coabitazioni. È di oggi la notizia che i nuovi arrivati, poche decine di profughi, troveranno sistemazioni provvisorie apprestate dal Comune, come al Palasharp.

Quanti sarebbero gli alloggi liberi a Milano? Non possiamo saperlo da ricerche credibili del Comune. Possiamo affidarci a una stima dell’anno 2014 di Scenari Immobiliari. Alloggi privati vuoti 60.000 di cui 40.000 sul mercato tra affitto e vendita e gli altri 20.000 sfitti. “Numeri che stridono se messi a confronto con le 22.000 richieste di alloggi popolari e i 17.000 sfratti esecutivi registrati”. E quanti saranno gli alloggi vuoti nelle “Nuove Milano” dei grattacieli qatariani e contorno? Secondo noi moltissimi. In ogni modo per abitarvi bisogna essere straricchi. Fresche cronache cittadine notate da Brenna segnalano che il noto (ai giovani) rapper Fedez (Federico Leonardo Lucia) abita a City Life (ex Fiera) in un attico di 400 metri quadrati.

Cosa si intende offrire ai cittadini “comuni” in cerca di alloggio a prezzo coerente al reddito nella parte residenziale degli scali convertiti, dicono, al bene comune? L’assessore sembra propenso a superare la quota del 20% di edilizia sociale ora abbozzata. Intanto, in piena contrapposizione con le intenzioni parolaie dei benpensanti sociali, l’Aler, l’Azienda lombarda di edilizia residenziale che ha cancellato, all’avvento dei governi regionali leghisti e forzisti, il glorioso Iacpm (Istituto autonomo per le casa popolari milanesi), ha già predisposto un piano di vendite straordinario per la dismissione entro il 2019 di 10.000 appartamenti. Destinati a chi? Agli attuali “utenti” (in affitto) se possiedono risparmio sufficiente, ma anche a famiglie affittuarie di alloggi esistenti in condominio con proprietari privati. Siamo all’ultimo atto del meccanismo messo in moto anni fa con la crisi degli ideali socialisti per sancire il primato assoluto della casa in proprietà.
Quanto alle possibilità e volontà dell’amministrazione comunale di fare la sua (piccola) parte in senso comunitario, in questo momento è aperto il 19° bando “per l’aggiornamento della graduatoria valevole per l’assegnazione di alloggi… sino al 7 ottobre 2016”. Al contrario, non ci sono attualmente bandi per attribuire alloggi a canone convenzionato in edifici di proprietà comunale. Nel complesso le iniziative per dar casa alle famiglie impossibilitate ad accedere al mercato libero sono sbagliate (Aler) o misere (Comune). Di qui l’obbligo che diventi effettivo l’investimento nei terreni degli ex-scali secondo un programma di edilizia sociale risolutivo di un fabbisogno sorto dopo la distruzione dell’Iacp e aumentato progressivamente con la perdita di qualsiasi relazione sensata fra prezzo della casa (proprietà o affitto) e valore del salario-stipendio[v].
E quanti e quali nuovi uffici occorrerebbero? Si conta su nuove sedi di grandi aziende internazionali? Non conosciamo nessuna ipotesi in questo senso. Quello che sappiamo è che nel cuore della città ci sono migliaia di uffici vuoti da molti anni. Conseguenza della consegna di Milano a un settore terziario gonfiato come un pallone aerostatico. Un terziario avanzato, si diceva; invece spesso nero, monetario, speculativo, incontrollato, aperto a ogni genere di mafia. La procura milanese ha stimato nel 25% l’appropriazione di commerci da parte della ‘ndrangheta specialmente attraverso l’acquisto di negozi e pizzerie.
Qualcuno ha gettato un mozzicone sul pallone che è sgonfiato lasciando però aerate le pieghe più nascoste e asfissiando le altre. Così basta guardarsi intorno e notare i lenzuoli o i pannelli di offerta in grandi e talvolta famosi palazzi del centro, quelli una volta punto di riferimento di attività legittime per capire che, aggiungendo l’invenduto o in attesa di locazione nei nuovi grattacieli, non bisognerebbe costruire nemmeno un nuovo metro cubo di uffici. E nell’hinterland? Grattacieli ne sorgono qua e là (per incamerare pura rendita che si riproduce anche se rimanessero oggetti scenografici esteriori, privi di allestimento interno). D’altra parte svettano ancora i complessi multipli ligrestiani in una decina di luoghi, in gran parte vuoti o abbandonati.

Quale conclusione? Negli scali solo grandi parchi, nessuna costruzione salvo le case di edilizia sociale, come detto sopra. Parchi che non devono finire nella fossa delle false presunzioni come quelle riguardanti il terreno dell’Expo. Vantarono un sicuro lascito di metà superficie a verde, una misura irrisoria giacché un tal “verde” interessato da una miriade di “sistemazioni” non approderà mai a un “grande parco”, che in primo luogo dev’essere fortemente arborato, come una foresta. Per realizzare la sognata catena di parchi che avvinghi Milano e contemporaneamente apra il beneficio verso l’hinterland, bisogna che il rapporto fra terreno destinato all’edilizia sociale e quello a verde intensamente arborato e pochissimo intaccato da impianti per lo svago sia almeno di uno a cinque. Così l’assessore Pierfrancesco Maran potrà calcolare se le case, essendo talmente vasto lo spazio libero, potranno raggiungere l’amata altezza di mille metri. Sarebbe sempre meno del grattacielo immaginario di Frank Lloyd Wright (denominato The Illinois) alto un miglio. Guarda caso, il maestro realizzò solo case basse, connaturali alla terra.

[i] Cfr. L. Meneghetti, Le nuove Milano estranee. L’architettura servile, in eddyburg 30 ottobre 2004; poi in Parole in rete. Interventi in eddyburg, giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005. Vedi anche, dello stesso autore, Contraffazione dell’architettura e privazione dell’urbanistica, in eddyburg, 11 settembre 2006; poi in L’opinione contraria. Articoli in eddyburg.it, giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2006.

[ii] Vedi Scali ferroviari a Milano - Storia, progetto, conflitto. Scritto (anonimo) per eddyburg, 10 febbraio 2016.

[iii] 1. ATU Farini-Lugano, 2. ATU Greco Breda, 3. ATU Lambrate, 4. ATU Romana, 5. ATU Rogoredo, 6: ATU Porta Genova, 7. ATU San Cristoforo. Promemoria: il sindaco Albertini, appassionato sostenitore dell’intervento sull’area dell’ex-Fiera campionaria incentrato sui tre grattacieli di Hadid-Lebeskind-Isozaki, parlò di un “nostro” Centra Park nello spazio libero, mero spazio di risulta, sformato, scarso e in parte solettone di garage sottostanti. Oggi è Pierfrancesco Maran che “pensa” alla scalo Farini come Central Park. Non ci libereremo mai a Milano dei governanti provinciali e presuntuosi?

[iv] Al 31.12.2015: Zona 1, 11.900. Zona 2, 44.200. Zona 3, 20.400. Zona 4, 29.800. Zona 5, 21.500. Zona 6, 23.400. Zona 7, 31.000, Zona 8, 33.400, Zona 9, 43.600.

[v] Oggi il prezzo della casa (che è di per sé una rendita) appare logico solo se commisurato a remunerazioni esse stesse come rendite (costruzioni, commercio, finanza, turismo…).

Circa un secolo fa, esattamente nel 1921, l'ambientalista Benton MacKaye pubblicava sul Journal of the American Institute of Architects il suo articolo "An Appalachian Trail: A Project in Regional Planning", in cui si tracciavano le linee generali di un vero e proprio programma di sviluppo montano, disteso su tempi e spazi davvero inusitati. Lo spazio, innanzitutto, che copriva migliaia di chilometri di valli, crinali, altopiani di entroterra, dalla Georgia al Maine, mescolando ambienti e contesti certo di una certa omogeneità, ma anche molto diversificati sia dal punto di vista ecologico, che geologico, che insediativo e politico. E poi il tempo, perché la visione naturalistica ma contemporaneamente molto umana dell'esperto di parchi, sapeva certamente cogliere in una visione non banale né spalmata sulla contingenza. Forse il tratto più caratteristico del gruppo noto come RPAA – Regional Planning Association of America, a cui MacKaye faceva riferimento, era proprio quello di saper riconoscere i propri limiti, ma di collocare entro una visione assai generale quelli che di fatto non potevano essere che particolari progetti e prospettive.

Così si contestualizzavano ad esempio le idee di Clarence Stein per riformulare in senso spaziale seriale l'idea di «unità di vicinato» appena elaborata dal sociologo Clarence Perry (e poi sviluppata autonomamente dallo stesso Perry in vari studi), oppure quella rivoluzionaria e pericolosissima idea di «baccello cul-de-sac» di Henry Wright, che inizialmente pensata per adattare la città giardino all'era dell'automobile, ribaltando il concetto di affaccio stradale, riprodotta acriticamente all'infinito (fuori da qualunque piano, regionale o non regionale) sarebbe diventata il marchio infame dello sprawl ameboide. Anche le stesse visioni umanistiche generali di Lewis Mumford, dentro il filtro di questa cultura induttiva-deduttiva, assumevano quella diversa prospettiva, per nulla utopica e testimoniale, del programma applicabile via via nel tempo e nello spazio, col contributo di moltissimi soggetti. Il valore di un'idea di «semplice» sentiero montano sviluppato su alcune migliaia di chilometri di MacKaye, insomma, era proprio quello di saper proporre un contenitore assai adattabile, il cui successo possiamo verificare ancor oggi, quando il suo Appalachian Trail, vivo e vegeto dopo molti decenni, diventa sfondo naturalistico e identitario nazionale, tra nostalgici di Jack Kerouac alla ricerca di sé stessi nel servizio antincendio su montagne e torrette di avvistamento (la raccontava bene Kerouac quell'esperienza esistenziale nel suo Bums of Dharma), o politici alla ricerca di uno sfondo accattivante per i consensi spontanei, vedi Al Gore con Bill Clinton arrampicati da quelle parti nella loro seconda campagna presidenziale.

La visione del sentiero sui monti, quella in grado di ricomporre in un vero Piano Regionale anche azioni davvero minimali come un campo di esploratori, o il restauro di qualche rifugio d'alta quota o di un ponte, è la prospettiva in grado di leggere qualcosa di più generale, territori, soggetti, bisogni. Solo per fare un esempio di questi aspetti, si pensi che la sensibilità dell'ambientalista già negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale riesce a cogliere la formazione di quanto due generazioni più tardi il geografo Jean Gottmann chiamerà «Megalopoli Bos-Wash», e che sottende sia territorialmente che socialmente quell'arco montano nell'entroterra. Socialmente, perché già nell'auspicio del Journal of the American Institute of Architects, l'ambientalista individua un soggetto chiave: la montagna è il tempio del «tempo libero», ma l'America urbana delle grandi città pullula di gente con tempo libero in abbondanza, e si tratta dei disoccupati o inoccupati, o lavoratori precari con lunghi periodi di inattività. Non a caso si è citato sopra Jack Kerouac, sfaccendato che alterna le sue frequentazioni dell'ambiente poetico-studentesco di San Francisco, con periodi da volontario stipendiato nel presidio dei crinali. Una popolazione urbana che va a «urbanizzare sostenibilmente» un territorio che già di fatto è complementare a quello della megalopoli insediativa sulla costa.

Non possono non tornare in mente, queste esperienze e considerazioni, antiche ma ancora tanto vive, ripensando sia al recente dibattito sul ruolo degli immigrati e profughi nella società europea e italiana in particolare, sia a quello sui nuovi equilibri città-campagna, sulle aree interne più o meno depresse e abbandonate, e infine la contingenza ma non tanto contingente del terremoto (l'ennesimo) sulla dorsale appenninica. Si è giustamente – anche se sinora un po' convulsamente - parlato di edilizia antisismica, di meccanismi di finanziamento e incentivi, di piani urbanistici generali e attuativi, ma forse è sfuggito il senso di un dettaglio, che emerge solo nelle polemiche. Il dettaglio, che è e resta tale di per sé, è la quota di «seconde case per passaggio generazionale» escluse dai benefici fiscali dell'adeguamento antisismico. Un particolare che, osservato nello spazio, nel tempo, nei processi sociali e di sviluppo locale, apre una prospettiva assai diversa su cosa significhi o possa significare «ricostruire com'era dov'era», secondo lo slogan comunemente accettato. E già qualcuno ne parla, pur senza nominarla esplicitamente, di pianificazione regionale spalmata nel tempo, di idee di sviluppo che sappiano andare oltre il puro ripristino di travi tetti scuole ospedali, ponendosi la domanda: perché e per chi, restaurare un immenso territorio? E chi saranno i soggetti attivi di questo piano, esteso come minimo su più di un «passaggio generazionale», edilizio e non edilizio? Sono queste le dinamiche, urbane e territoriali vaste, in cui inserire idee non peregrine o localiste di rilancio o qualsivoglia ripopolamento, posti di lavoro innovativie qualificati dal contesto, vera messa in sicurezza fisica e sociale di areesinora sospese nel tempo, in attesa di ruolo e identità adeguata. In fondo,basta un colpo d'occhio all'analogia del rapporto fra zone montane einsediamento costiero, per capire che un Appalachian Trail italiano potrebbeessere a portata di mano. Basta lasciar spazio adeguato ai suoi protagonisti.

Nature ... (segue)

Nature un articolo sostenendo che i peggioramenti climatici che stiamo conoscendo hanno le loro radici in eventi che risalgono ai primi decenni dell’Ottocento, all’inizio della rivoluzione industriale. D’altra parte il biologo americano Eugene Stoermer (1934-2012) e il chimico olandese Paul Crutzen (premio Nobel) anni fa avevano suggerito il nome “antropocene” per una nuova era geologica caratterizzata dalle più vistose modificazioni della Natura da parte dell’uomo e ne avevano indicato l’inizio nel 1784, l’anno in cui James Watt (1736-1819) ha perfezionato la macchina a vapore.

In quella seconda metà del Settecento si conosceva l’esistenza nel sottosuolo del carbone, un combustibile fossile; i suoi giacimenti erano spesso invasi dalle acque e vari inventori avevano proposto delle pompe azionate da macchine alimentate col calore liberato bruciando il carbone stesso. La vera soluzione del problema si ebbe con l’invenzione, da parte di Watt, di un dispositivo che permetteva di azionare le pompe e qualsiasi altra macchina con minori consumi di carbone. Per gratitudine i posteri hanno chiamato watt l’unità di misura della potenza di una macchina.

Dall’inizio dell’Ottocento in avanti è cominciata una reazione a catena: più carbone richiedeva altre macchine; altre macchine richiedevano altro ferro e acciaio; il ferro poteva essere separato dai minerali usando carbone; con più macchine era possibile meccanizzare la produzione di filati e tessuti; più tessuti richiedevano agenti di lavaggio come la soda, ottenibile trattando il sale marino con acido solforico e poi ancora con carbone.

La costruzione delle locomotive azionate da macchine a vapore a carbone apriva nuove terre alla coltivazione e le ferrovie richiedevano altro ferro anche per le rotaie. L’applicazione della macchina a vapore ai piroscafi transoceanici, nei primi dell’Ottocento, faceva affluire nelle fabbriche nuove materie prime e rendeva accessibili più alimenti.

Più fabbriche avevano bisogno di più operai che arrivavano nelle città industriali abbandonando le campagne alla ricerca di migliori salari; con migliori salari un maggior numero di consumatori poteva acquistare più merci prodotte con più fabbriche, con più macchine, usando più carbone.

Un’altra accelerazione si è avuta con la scoperta, dal 1860 in avanti, dei grandi giacimenti di petrolio negli Stati Uniti; con la raffinazione del petrolio diventavano disponibili carburanti per nuovi motori che, alla fine dell’Ottocento, avrebbero dato vita a mezzi di trasporto che si muovevano da soli, automobili, appunto.

Dagli inizi del Novecento col carbone è stato possibile ottenere per sintesi l’ammoniaca da cui ricavare concimi per aumentare la produzione di alimenti richiesti da una popolazione mondiale crescente e sempre più affamata, e ottenere acido nitrico con cui fabbricare esplosivi che sarebbero stati richiesti in grande quantità nelle due disastrose guerre mondiali del Novecento.

Nel 1960 l’energia ottenuta nel mondo dal petrolio ha superato quella ottenuta dal carbone e tutta la seconda metà del Novecento è stata segnata da crescenti consumi del petrolio da cui era anche possibile ottenere gomma sintetica, materie plastiche, fibre sintetiche, con cui era possibile percorrere strade con le automobili e attraversare i cieli con aerei, gli ingredienti della moderna società.

Gli eventi tecnico scientifici e merceologici di questo “secolo lungo”, come l’ha chiamato lo storico Pier Paolo Poggio, che va dal 1800 ad oggi, hanno avuto come conseguenza l’aumento della popolazione mondiale da 900 milioni agli attuali 7300 milioni di persone, e l’aumento di dieci volte dei consumi mondiali di energia. Energia ricavata, in questi due secoli, per la maggior parte da combustibili fossili, carbone, petrolio e, più recentemente, gas naturale, i quali tutti liberano energia sotto forma del calore di reazione fra l’elemento carbonio, delle rispettive molecole, e l’ossigeno dell’aria; si forma così il gas anidride carbonica che è andato continuamente ad accumularsi nell’atmosfera. La massa di anidride carbonica nell’atmosfera in due secoli è aumentata di 2000 miliardi di tonnellate; la sua concentrazione è passata da 220 a 400 ppm.

E’ proprio l’anidride carbonica, insieme ad alcuni altri gas come il metano e gli ossidi di azoto, anch’essi associati alla produzione e al consumo di energia, che trattiene nell’atmosfera una crescente frazione della radiazione solare e determina il riscaldamento planetario, causa dei continui peggioramenti climatici.

Non ci sono segni di rallentamento dell’uso dei combustibili fossili; l’energia nucleare, nonostante le promesse iniziali, non è stata in grado di sostituirli; l’energia del Sole e del vento possono sostituirli per ora solo parzialmente.

In questo scenario quanto potrà durare l’era della storia terrestre occupata da una specie, quella umana, che modifica e peggiora così aggressivamente la Natura ? Nessuno può dare una risposta; il Papa Francesco in una intervista anni fa ha detto che anche la nostra specie finirà; non finirà la vita sulla Terra, almeno fin quando il Sole continuerà ad irraggiare luce ed energia.

Intanto, per allontanare la fine di questo turbolento antropocene, non sarà male ripensare a come soddisfare i reali bisogni umani consumando meno energia fossile e inquinando di meno.

L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

A Stoccolma, una delle patrie dell’architettura del Novecento, è aperto il dibattito politico e culturale su un secolo di soluzioni abitative … (segue)

A Stoccolma, una delle patrie dell’architettura del Novecento, è aperto il dibattito politico e culturale su un secolo di soluzioni abitative che hanno inciso fortemente sulla società. Una interessante mostra può fornire l'occasione per discuterne anche in relazione ai problemi nostrani.

Secondo il recente rapporto McKinsey sullo stato dell’economia europea, tra le ragioni che hanno reso la Svezia uno dei Paesi più resistenti alla lunga crisi degli ultimi anni spiccano l’estraneità alla zona Euro, l’elevata sindacalizzazione dei lavoratori e una serie di interventi statali volti a garantire il salario e l’occupazione attraverso la concertazione con le parti sociali, la riduzione dell’orario di lavoro, e timide misure redistributive. Ora, nessun cenno a quanto avviene in Scandinavia può prescindere da alcuni luoghi comuni che per esser tali non sono meno veri, anzitutto il senso civico degli abitanti (bassa evasione, bassa corruzione), la situazione di bilancio relativamente florida, e una certa fede nel bene comune.

Né d’altra parte si argomenterà qui che la Svezia sia il paese di Bengodi: i problemi di ordine politico e sociale sono così evidenti da aver dato luogo a inediti fenomeni di guerriglia urbana (si ricorderanno gli scontri a Stoccolma e Göteborg nella primavera del 2013), e favorito la crescita, negli ultimi anni, di alcuni movimenti anti-sistema e talora francamente xenofobi (i cosiddetti Democratici Svedesi, al 13% nelle elezioni del 2014); né va dimenticato che l’inedita chiusura delle frontiere al flusso degli immigrati al principio del 2016 ha rappresentato un tassello fondamentale del fallimento della politica europea in tale àmbito.

Il ruolo dell’architettura e l’urbanistica
per la società del futuro

Ciò detto, in Svezia per tradizione l’architettura e l’urbanistica svolgono un ruolo di primo piano nella costruzione del modello di una società del futuro. Non è forse un caso che contro il discusso progetto di un nuovo Museo dei Nobel (quello attuale, nel Gamla Stan, è senz’altro insufficiente), un lucente bussolotto in vetro e pietra concepito per il cuore della capitale dall’archistar David Chipperfield, sia intervenuto con voce tonante il re in persona, Carlo XVI Gustavo. Già patria di numerose sperimentazioni, e in certe strade (Oxenstiernsgatan, Borgvägen, ma anche il nodo di Sergelstorg e Klarabergsgatan) vero e proprio museo a cielo aperto delle più varie tendenze architettoniche del XX secolo,

Stoccolma ospita sull’isola di Skeppsholmen, nello stesso edificio del popolarissimo Moderna Museet, un meno frequentato Museo di Architettura, che non si limita a raccogliere e catalogare modellini, ma si arroga anche un ruolo propositivo e di pensiero. È così che la mostra attualmente in corso, dal titolo un po' pop “Bo. Nu. Då.” ("Abitare. Adesso. Allora”), da un lato ripercorre le tappe principali della vicenda urbanistica svedese degli ultimi cent’anni, dall’altro valuta le possibili risposte ai problemi oggi insoluti, in primis la grave crisi abitativa che coinvolge la capitale (molti studi valutano in 700mila nuove case il fabbisogno minimo dei prossimi dieci anni).

La questione delle abitazioni:
gli elementi del puzzle

Il modello scandinavo, infatti, ha mostrato sotto questo profilo qualche crepa, giacché l’immane sforzo pubblico confluito nel milione di alloggi costruiti per iniziativa statale fra il 1965 e il 1975 (si ricordi che la Svezia ha oggi meno di 10 milioni di abitanti, e non più di 8 ne aveva all'epoca) ha creato nel medio periodo una larga platea di proprietari “inoperosi” seduti sulle loro proprietà, e ha lasciato le generazioni più giovani, escluse da tanta grazia, alla mercé di un mercato degli affitti sempre più caro e quasi inaccessibile alle nuove famiglie. Naturalmente, il massiccio arrivo di migranti negli ultimi anni (nel 2013 il Paese aveva il tasso di naturalizzazione più alto dell’UE, e gli immigrati pesano per il 14% circa della popolazione), e la civile accoglienza loro tributata (ma non a tutti: celebri sono le intemerate degli ultimi governi contro i Rom, come si vede per es. nella mostra Non Grata di Åke Ericson, attualmente in corso al Fotografiska), abbiano vieppiù esacerbato il risentimento dei locali nei confronti di uno Stato che da questo punto di vista sembra non tutelare i propri figli.

La mostra dell'Arkitekturmuseet ha un forte valore didattico, e mette sul tappeto tutti gli elementi del puzzle: la persistente presenza di homeless (31mila in tutta la Svezia, oltre un terzo dei quali fra Stoccolma, Malmö e Göteborg); la notevole estensione del Paese, grande come Germania e Austria messe insieme ma occupato da un decimo degli abitanti; l’insensatezza della visione che individua nei migranti la fonte di tutti i problemi; la lunga storia di soluzioni abitative provvisorie diventate a lungo andare stabili, dalle case per gli operai di Södermalm nel 1917 ai prefabbricati spediti nelle città bretoni semidistrutte nel 1944 al “Better shelter” disegnato l’anno scorso dall’IKEA in cooperazione con l'UNHCR per i profughi siriani; l’impulso fondamentalmente egualitario che ha caratterizzato le varie (ben 16) tipologie di case del sullodato “piano del milione” (fa impressione constatare la modestia delle case di Olof Palme o di Per Albin Hansson, peraltro ben proporzionale a quella delle tombe dei potenti nel cimitero di Skogskyrkogården); il ruolo delle frange di pensiero alternativo come i “disobbedienti anti-IKEA” e il più strutturato “HSB Living Lab” di Göteborg.

Non solo slogan, ma progetti

Le soluzioni qui più in voga - che hanno il pregio di non risolversi, come spesso accade in esposizioni e dibattiti, in meri slogan più o meno intercambiabili, ma si traducono in progetti concreti ben visibili in mostra (alcuni peraltro realizzati o in via di completamento) - passano oggi per due elementi sostanziali: l’uso sempre più ampio del legno, materiale che oltre ad abbondare in loco è anche più economico, rapido e sostenibile del cemento, e garantisce ormai un alto grado di sicurezza (lo studio C.F. Møller ne ha progettato uno di grande impatto proprio per Stoccolma); la crescente condivisione degli ambienti, in un paradigma di co-housing inteso a migliorare ed estendere l’idea abitativa degli studenti universitari in vista di una migliore gestione delle risorse e di un più alto grado di socializzazione negli spazi comuni, nonché di un’apertura dei quartieri stessi oltre le rigide enclosures che ostacolano spesso i rapporti umani (si pensa in particolar modo agli anziani sempre meno autosufficienti) come anche la creatività dei giovani (si cita spesso come esempio positivo il quartiere di Rågsved a Stoccolma, nel quale di fatto nacque durante gli anni ’70 il punk svedese, destinato a un luminoso futuro).

Non si prendono qui dunque in seria considerazione, se non con un curioso spirito antiquario, certe ardite soluzioni architettoniche escogitate nei decenni passati (le case a stella di Backström e Leinius; le case di Järnbrott a Göteborg, con le pareti interne rimovibili al fine di comporre e ricomporre diversamente le stanze; le case a piramide progettate da Sten Ramel). D’altra parte, s’insiste invece sulla drammatica serietà del problema abitativo come scelta politica: il social housing non è stato un fatto scontato nella storia svedese, e dagli anni ’90 in poi è stato sostanzialmente accantonato, con l’esito di quintuplicare gli elenchi d’attesa per un alloggio (attualmente 500mila persone in lista a Stoccolma).

Non è il caso di addentrarsi qui nei meandri del dibattito politico, in cui le distinzioni tra destra e sinistra sono spesso confuse: quel che importa - anche per segnalare le analogie con i fatti di casa nostra - è che all’ordine del giorno, e alla luce del sole all’insegna del motto architecture is participation, si pongono dinanzi ai cittadini delle alternative nette, quali per es. se fornire ai giovani contributi per l’affitto (che potrebbero però vieppiù far aumentare i prezzi), se costruire a spese pubbliche nuovi appartamenti da affittare (per alcuni ciò ostacolerebbe le libere dinamiche di mercato, per altri la deregulation ha già portato a esiti deplorevoli), se agevolare i mutui per la casa (secondo il governo l’operazione sarebbe rischiosa per la tenuta del budget delle famiglie: il debito privato è in preoccupante crescita), se reintrodurre l’imposta sulla casa abolita nel 2008 (qui la disfida è analoga a quella italiana: attendibilità dei valori catastali, impopolarità della tassa, idea di progressività dell’imposizione fiscale...), se semplificare le procedure per costruire nuovi alloggi (con i conseguenti rischi per l’ambiente e la tutela delle piccole comunità a fronte degli interessi dei grandi gruppi finanziari ed edilizi).

Smantellare sei miti mainstream

A tal proposito, colpisce vedere un’intera parete della mostra dedicata alla demolizione di “sei miti sull’edilizia”, tratti da un bouquet di tredici individuati dal think-tank svedese Critical Urban Sustainability Hub (acronimo: CRUSH): vale la pena di elencare per esteso le 6 proposizioni qui confutate, con dovizia di particolari e di interventi di professori e studiosi.

1) Un’economia più guidata dal mercato è la soluzione alla crisi degli alloggi. 2) Dobbiamo abbassare i nostri standard qualitativi nell’abitare. 3) La segregazione è prodotta dai migranti stessi che vogliono vivere assieme. 4) La gentrification è un processo di evoluzione naturale nelle aree urbane. 5) Economicamente, conviene possedere anziché affittare. 6) Dobbiamo ricreare la cara vecchia democrazia sociale del passato.

Credo che nel nostro spazio pubblico un manifesto che metta in discussione queste premesse - date ormai per acquisite dalla gran parte dei governi europei - potrebbe essere affisso al più in qualche centro sociale. La Svezia non è affatto il Bengodi (loin de là), ma è capace di sviluppare collettivamente - chiamando il pubblico a partecipare in modo attivo - un pensiero critico sui fenomeni sociali che ci coinvolgono, individuando proprio nella gestione dello spazio urbano uno dei fattori principali della società contemporanea.

Stoccolma, 21 agosto 2016

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Tutti i progressi per difendere e migliorare le condizioni dell’ambiente e della natura, cioè della salute umana, sono stati ottenuti in seguito alle proteste del “popolo inquinato”, delle persone danneggiate dalle azioni di qualche soggetto economico. Per capirci meglio, immaginiamo che una persona costruisca una fabbrica che “è buona”, perché produce beni utili e perché assicura occupazione e quindi reddito ai lavoratori, ma che, durante la produzione, immette nell’aria dei fumi che arrecano danni agli abitanti delle zone vicine. Alcuni di questi si ammalano e devono spendere dei soldi per curarsi e protestano - ecco l’inizio di un conflitto “ambientale” - e chiedono al proprietario della fabbrica di smettere di inquinare. Il proprietario della fabbrica inquinante replica che sta operando in conformità delle tecniche e delle leggi esistenti; ciò non soddisfa gli ammalati i quali chiedono che la fabbrica trovi qualche sistema per eliminare i fumi.

Il proprietario della fabbrica replica che, se facesse quanto chiesto dagli inquinati, la merce che produce verrebbe a costare troppo e sarebbe costretto a chiudere, licenziando gli operai. A questo punto operai e ammalati insieme ricorrono “allo Stato”, il quale ha il dovere di trovare una qualche soluzione in grado di difendere sia la salute degli inquinati, sia il posto di lavoro degli operai, sia il diritto del fabbricante di produrre le merci utili.

Per risolvere il conflitto lo stato può trarre dalle tasse dei cittadini qualche soldo per indurre il fabbricante a mettere un filtro sul suo camino, oppure per pagare un salario agli operai disoccupati, oppure per risarcire le spese degli ammalati o per qualsiasi altra soluzione. Anche se il riferimento al caso Taranto non è casuale, proprio questo tipo di conflitto ambientale è stato descritto già un secolo fa nel libro L’economia del benessere dell’economista inglese Arthur Cecil Pigou.

Lo studio di simili e di altri conflitti ambientali sarebbe di grande utilità per vedere come sono stati risolti in passato e come se ne possono trarre utili informazioni per il futuro. E’ quanto ha fatto l’Associazione ASud con il suo Centro Documentazione Conflitti Ambientali (CDCA) che raccoglie storici, sociologi, tecnici, ambientalisti, pacifisti (si, anche pacifisti alla ricerca di soluzioni dei conflitti militari, simili a quelli ambientali).

Nelle settimane scorse è stato pubblicato uno dei volumi del Centro, La democrazia alla prova dei conflitti ambientali, 100 pagine a cura di Giovanni Ruocco e Marianna Stori. Si tratta di uno dei preziosi libri “sommersi”, difficili da trovare nelle librerie, sovraffollate di libri commerciali, e che può essere cercato presso il CDCA.

I vari saggi del libro esaminano alcune delle molte forma in cui si presentano i conflitti ambientali in Italia. Talvolta la protesta riguarda l’inquinamento di attività che sono in funzione e di cui si vedono i danni alla salute e all’ambiente; è il caso dell’Ilva di Taranto o della centrale termoelettrica a carbone di Brindisi Sud. In altri casi la protesta della popolazione è rivolta ad impedire che vengano realizzate opere considerate inquinanti, dannose per l’ambiente, inutili o tecnicamente sbagliate; si possono ricordare le proteste contro i progetti di costruzione delle centrali nucleari, o delle fabbriche di proteine dal petrolio (che non sono state realizzate perché sbagliate), o quelli in corso nei confronti delle opere per il “Terzo Valico” fra Liguria e Piemonte, della linea ad alta velocità Torino Lione che attraversa la Valle Susa, della costruzione del ponte sullo stretto di Messina, che, secondo i proponenti, assicurerebbero più veloci trasporti di merci e persone e di cui i contrari contestano non solo l’utilità, ma anche la pericolosità e per le alterazioni che arrecherebbero ai territori attraversati.

In altri casi ancora il conflitto sorge per i danni che persistono dopo che le attività sono cessate. Si pensi ai morti per tumore per l’esposizione all’amianto in cave e fabbriche ormai chiuse (a Casale Monferrato e a Bari) o per essere venuti a contatto con sostanze cancerogene o tossiche di origine industriale presenti in depositi di rifiuti e scorie, come avviene in Campania e altre regioni. In questo terzo caso il conflitto chiede la punizione dei responsabili e un risarcimento per gli ammalati e per le morti.

Esiste poi tutto un vasto capitolo di conflitti che riguardano l’ambiente di lavoro, cioè i danni e pericoli a cui sono esposti i lavoratori all’interno delle fabbriche, delle cave e miniere, dei cantieri, nei confronti dei datori di lavoro che non assicurano adeguate condizioni di sicurezza. Un tema che è stato ben presente nelle organizzazioni sindacali e nella cultura scientifica da oltre mezzo secolo e che ha portato, solo di recente, all’emanazione dei decreti n. 626 del 1994 e 81 del 2008, che stabiliscono maggiori precauzioni, nonostante le quali ogni anno oltre mille persone perdono la vita nell’”ambiente” di lavoro,

Fra i conflitti ambientali vanno inclusi anche quelli che riguardano la difesa degli acquirenti di merci, esposti a frodi e a danni. Di questi si occupano numerose associazioni di difesa “dei consumatori”, talvolta attente anche ai risvolti ecologici dell’acquisto e dell’uso di merci.

Il libro prima citato mostra bene che la conoscenza dei conflitti ambientali può facilitarne la soluzione nel nome di una società capace di soddisfare i bisogni umani con minore violenza e con maggiore democrazia.

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Il progetto dell’aeroporto di Firenze è da rifare. Molto chiara in proposito la sentenza del TAR che boccia l’iter seguito ... (segue)
Il progetto dell’aeroporto di Firenze è da rifare. Molto chiara in proposito la sentenza del TAR che boccia l’iter seguito dalla Regione Toscana, da Enac e daToscana Aeroporti nella elaborazione e valutazione del progetto del nuovo aeroporto di Firenze (nello specifico la Vasdella variante al Pit del luglio 2014 che ha dato via libera al progetto). Lasentenza è stata accolta con fastidio e dispetto, se non con vera e propriarabbia, dai diretti interessati e dallo stuolo dei loro sostenitori. “Cavilliburocratici” (Luigi Salvadori, vicepresidente di Confindustria Firenze), “giustiziaimpicciona?” (Paolo Ermini nel Corriere fiorentino), “siamo una Repubblicafondata sul Tar” (Stefano Fani, presidente Ance di Confindustria Firenze); questesono alcune delle reazioni riportate dai giornali.
Nessuno che entri nel meritodei rilievi del Tar, tutti protesi a trovare i mezzi di aggirarne la sentenza.
In questagara il Presidente della Toscana, Enrico Rossi, e il Sindaco di Firenze, DarioNardella, si contendono il trofeo della dichiarazione più strampalata. DiceNardella che dal momento che il nuovo aeroporto vanificherebbe l’insediamentodi Castello (un milione di metri cubi, eredità di Fondiaria acquisita daUnipol), il Comune è pronto a cancellare una previsione urbanistica, giàapprovata (e su cui, presumibilmente, il proprietario ha pagato ICI e IMU). IlSindaco, come prima non si era accorto del contrasto tra i due progetti, ora nonvaluta il colossale indennizzo che il Comune dovrebbe versare a Unipol aseguito di un colpo di spugna che vanificherebbe un’operazione sciagurata, ma volutain questi anni dagli amministratori fiorentini e ormai tradotta in dirittiacquisiti.
Per nonessere da meno Rossi, fattosi giurista, ha prima dichiarato che: «La sentenzadel Tar confonde la valutazione strategica con la valutazione di impattoambientale. Per questo faremo senz'altro ricorso al Consiglio di Stato»; poi l’habuttata sulla politica: «Io mi sono presentato alle ultime elezioni, con treproposte: la riforma della Sanità, la riforma del governo del territorio e ilpotenziamento dell'aeroporto di Firenze e sono stato votato anche dai cittadinidelle città che a livello istituzionale erano contrarie, come a Sesto e Prato»;Il Presidente, a parte la boutade dei “cittadini delle città istituzionalmentecontrarie”, è evidentemente convinto che i toscani fossero ansiosi di vedererealizzato un nuovo aeroporto di Firenze e per tale impellente ragione lo abbiano confermato nel secondo mandato.
Conclude Rossi che «Non solo ha perso peso la politica, ma in questo caso anchelo stesso ruolo delle istituzioni entra in discussione, con tutti gli esitipolitici immaginabili». Dichiarazione incredibile, ma che adombra unaconvinzione comune a tutti gli attori coinvolti nel processo: che leistituzioni siano al servizio dei politici e non dei cittadini e che la “Politica”possa fare strame di leggi e procedure cui è soggetta la gente normale, per nondire della “Tecnica”, sentita come un fastidioso inconveniente procedurale. Inquesta linea, “burocratica” è la richiesta di piani che valutino i rischi cuisono sottoposti i cittadini, “burocratiche” sono le analisi che prevedono, unavolta realizzato il progetto, come inevitabile l’aumento della pericolositàidraulica e dell’inquinamento atmosferico. Tutto ciò che non asseconda losviluppo di Firenze, come è inteso da industriali, commercianti e politici, è etichettato– Renzi docet - come inutile burocrazia:il nuovo aeroporto si deve realizzare, costi quel che costi. I proponenti,ENAC e Toscana Aeroporti, e una schiera di politici incompetenti, stanno giàindicando al governo la strada per superare la sentenza del Tar: unaapprovazione “romana” della Via che sanerà (a loro parere) le lacune, leinadempienze e le contraddizioni della Vas; una susseguente Conferenza diservizi che, se necessario, ratificherà una nuova variante al Pit.
La strategiaè quella brillantemente seguita nel progetto del sottoattraversamento diFirenze da parte della Tav: approvarne la Via rimandando al progetto esecutivola risoluzione delle molte criticità segnalate; e poi se tutto si ferma avendospeso 760 milioni per lo scavo di una stazione sotterranea che non sarà mairealizzata e altre opere inutili, poco importa, nessuno sarà chiamato apagare. Ciò che Nardella e Rossi nondicono nel loro straparlare, è che i politici possono agitarsi in modo confuso e,a seconda delle convenienze del momento, premere per l’uno o l’altro progetto perchésono irresponsabili delle conseguenze delle loro improvvisazioni; nellaconvinzione che la “Politica” possa piegare a proprio piacimento non solo leleggi degli uomini, ma anche quelle della natura. L’Italia, Repubblica fondata nonsul Tar, ma sull’arbitrio e l’irresponsabilità dei potenti. Potrebbe essere un articolodella nuova Costituzione.

(segue)

E’ finalmente uscito il molto atteso libro: Rivoluzione e sviluppo in America Latina, a cura dello storico Pier Paolo Poggio, pubblicato dall’editore Jacabook di Milano.

Si tratta di un volume di oltre 750 pagine, il quarto di una serie di monografie ispirate all’”altronovecento”, cioè alle storie meno note del secolo scorso. I tre volumi precedenti sono stati dedicati a “rivoluzione e sviluppo” nel periodo del comunismo sovietico, e poi nel Novecento europeo e in quello degli Stati Uniti e sarà seguito da altri due che esamineranno le stesse contraddizioni in Africa e Asia e, infine, nel XXI secolo.

Questo quarto volume viene pubblicato proprio nei giorni in cui l’Olimpiade in corso a Rio de Janeiro, in Brasile, sta portando davanti agli occhi del mondo alcuni aspetti dell’America Latina, quella specie di vastissimo triangolo attaccato sotto l’America settentrionale. L’America meridionale deve essere sembrata una specie di paradiso terrestre incontaminato, ai “conquistatori” spagnoli e portoghesi che vi sono sbarcati 500 anni fa col preciso obiettivo di rapinarne, per la maggior gloria degli imperi europei, le risorse naturali.

Alla loro avidità si offrivano vegetazioni ricche di specie e materie fino allora sconosciute (si pensi soltanto alla patata, al pomodoro, al mais e alla gomma), minerali, deserti, montagne altissime, pianure erbose, cascate e vulcani, un continente attraversato da fiumi così vasti che i conquistatori pensavano fossero dei mari.

Ricchezze, soprattutto, che non erano “di nessun” e delle quali quindi il primo arrivato poteva impadronirsi tracciando una riga su una carta geografica. Salvo poi scoprire che tali ricchezze erano “di qualcuno”, di popolazioni di nativi, considerati “selvaggi”, anche se alcune avevano una lunga storia di civiltà e di cultura.

Per portare via metalli preziosi e risorse agricole e forestali occorreva della mano d’opera che i conquistatori ottennero portando via dall’Africa i “negri”, e usandoli vergognosamente come schiavi. Gli abitanti dell’America Latina diventarono così una straordinaria miscela di discendenti dei conquistatori europei, dei nativi, degli schiavi africani e dei relativi incroci, a cui si aggiunsero, e siamo ormai nel Novecento, gli immigrati provenienti dai paesi europei, in fuga dalla miseria e dai fascismi.

Nel XX secolo l’America Latina è stata davvero un crogiolo di diversità umane e naturali in cui sono nate, cresciute e scomparse rivoluzioni alla ricerca di strade autonome allo sviluppo, di liberazione da potenti e arroganti ristrette classi dominanti il cui sfruttamento delle risorse del paese ha mostrato presto i frutti avvelenati: inaridimento dei campi creati distruggendo le foreste, erosione del suolo, inquinamento delle acque, impoverimento dei pascoli.

E’ difficile riassumere in poche righe il gran numero di informazioni contenute nel libro Rivoluzione e sviluppo in America Latina; mi soffermerò a considerare alcuni aspetti delle risorse naturali e dell’ambiente relativi a tre dei paesi latinoamericani.

Cuba, la bella isola, pur indipendente dal 1902, è stata appetibile preda degli interessi economici e finanziari nordamericani con le sue ricche piantagioni di canna da zucchero, e la produzione di bevande alcoliche e di sigari, un turismo di lusso attratto dalla presenza di case da gioco. La rivoluzione castrista del 1959 ha liberato il paese dai corrotti personaggi che assicuravano la sudditanza agli Stati Uniti ed ha dato ad una austera Cuba mezzo secolo di sviluppo con migliori servizi sanitari e educativi.

Il Cile, repubblica indipendente dal 1817, ha vissuto periodi di grande prosperità grazie alle esportazioni del nitrato di sodio, materia prima per l’industria chimica, e poi del rame di cui possiede riserve fra le più grandi del mondo, per decenni nelle mani delle multinazionali nordamericane grazie a governi compiacenti. Così le ricchezze minerarie, pur appartenendo “al popolo”, potevano essere portate via lasciando solo spiccioli ai cileni. Nella breve primavera 1970-1972 del suo governo, Salvador Allende decise, con la nazionalizzazione delle miniere di rame, che i benefici della loro utilizzazione dovessero restare al popolo cileno per assicurarne uni sviluppo civile. Allende “fu suicidato” nel 1972, un evento che contribuì alle rivolte dei paesi produttori di materie prime, a cominciare da quelle petrolifere, contro gli sfruttatori stranieri.

Il Brasile ha vissuto la sua più recente primavera rivoluzionaria dal 2002 con l’elezione alla presidenza del socialista Lula che ha assicurato un periodo di grande prosperità e sviluppo economico e sociale e ha portato il Brasile fra le grandi potenze economiche e industriali emergenti, il gruppo BRIC, Brasile-Russia-India-Cina. Il successo di Lula è stato seguito da quello (2010) della presidente Dilma Rousseff (2010), entrambi osteggiati dalla potente destra che sta riportando il grande paese nella crisi economica e nel caos, difficilmente dissimulati dal chiasso e dallo sfarzo delle Olimpiadi.

Infine non è un caso che in questa straordinaria parte meridionale del continente americano sia nata quella primavera del cristianesimo che fu la teologia della liberazione, il movimento che ha riconosciuto la missione della Chiesa nel liberare, appunto, i popoli dalla povertà e dall’oppressione. Alcuni saggi del libro ricordano questa stagione che ebbe il suo più noto martire in mons. Oscar Romero, assassinato nel 1980 per aver testimoniato, “opportune et importune”, come scrive San Paolo a Timoteo, da che parte sta la Chiesa fra oppressori e oppressi. E non è un caso che da tale continente sia venuto l’attuale Papa Francesco, con le sue “nuove”, antichissime per il Vangelo, parole di giustizia e di misericordia.

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Bikini è una piccola isola, un atollo corallino, che fa parte della Repubblica delle Isole Marshall, in mezzo all’Oceano Pacifico. Dopo la seconda guerra mondiale il governo delle isole Marshall era stato affidato agli Stati Uniti i quali le scelsero, proprio così lontane da altre terra abitate, per condurre le prime esplosioni sperimentali (i test) delle bombe atomiche che avevano costruito da poco; le prime due erano state lanciate sulle città giapponesi di Hiroshima il 6 agosto e di Nagasaki il successivo 9 agosto 1945. L’America visse “la bomba” come il successo tecnico-scientifico che aveva costretto il Giappone alla resa, risparmiando migliaia di vite di soldati americani che sarebbero morti se la seconda guerra mondiale fosse continuata. Ma soprattutto era un sussulto di orgoglio per un paese stanco per i sacrifici di guerra, in cui molte famiglie piangevano i soldati morti sui fronti dell’Italia, della Germania, del Giappone.

Un libro di Paul Boyer, Il pensiero e la cultura americani all’alba dell’era atomica, descrive tale atmosfera; una copertina del settimanale Life mostrava una fotografia dell’attrice Linda Christian definita “bomba anatomica. L’era atomica arriva a Hollywood”. Parole come “atomico” e “uranio” entravano nei fumetti, nelle canzoni, nei film, nella pubblicità. L’America appariva come il paese più potente, in grado, con la sua capacità scientifica a industriale, di guidare il mondo e di assicurare la pace.

Il quadro luminoso aveva alcune ombre; da una parte alcuni scienziati cominciavano ad interrogarsi sulla moralità dell’uso della bomba atomica e sulle conseguenze ecologiche della radioattività rilasciata da ogni esplosione atomica. Dall’altra parte si stavano raffreddando i rapporti fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, alleata nella guerra contro la Germania ma così differente, col suo comunismo, dagli ideali capitalistici americani, e che era stata tenuta all’oscuro della fabbricazione della bomba atomica.

In queste condizioni i militari americani accelerarono in gran segreto gli sforzi per perfezionare le bombe atomiche e per costruirne altre; per controllarne l’efficienza e gli effetti distruttivi e ambientali occorreva effettuare delle esplosioni sperimentali e per tali test atomici furono appunto scelte le isole Marshall da cui furono fatti evacuare i pochi abitanti. Nella laguna dell’isola di Bikini furono trasportate molte decine di navi in disarmo fra cui la portaerei Oklahoma, che era stata danneggiata durante l’attacco giapponese a Pearl Harbor e la corazzata Prinz Eugen, orgoglio della marina nazista, catturata dopo la guerra.

Il 1 luglio 1946, settanta anni fa, un aereo sganciò sull’isola una prima bomba atomica; la chiamarono “Gilda” dal nome del film in cui appariva l’esplosiva bellezza di Rita Hayworth. La fotografia del lampo e della nube di polvere che si sollevava, come un fungo, sull’isola fece il giro del mondo; cinque giorni dopo uno stilista francese battezzò col nome di “bikini” un nuovo succinto costume da bagno che avrebbe avuto un successo mondiale.

L’effetto distruttivo dell’esplosione fu modesto: il 25 luglio successivo fu fatta esplodere una seconda bomba atomica, questa volta posta sul fondo della laguna, e l’effetto distruttivo fu un po’ maggiore; alcune navi affondarono, tutte furono contaminate dalla radioattività e rimasero inavvicinabili per molto tempo. La radioattività delle polveri lanciate nell’aria dall’esplosione atomica fu così elevata che il chimico Glenn Seaborg (premio Nobel nel 1951) dichiarò che quello di Bikini era stato "il primo disastro nucleare del mondo".

Le due esplosioni atomiche di Bikini, forse più ancora che quelle delle bombe atomiche precedenti lanciate sul Giappone un anno prima, rappresentarono una svolta storica: segnarono la nascita della consapevolezza dei pericoli nucleari e della contestazione ecologica e anche l’inizio del raffreddamento dell’entusiasmo americano e mondiale per l’atomo e la sua potenza. Si diffuse la paura che il segreto atomico finisse nella mani di altri paesi, e soprattutto dei sovietici, anche se molti in America ritenevano che un così importante segreto avrebbe dovuto essere reso accessibile a tutti, che avrebbe dovuto esserne vietata la costruzione e che mai più una bomba atomica avrebbe dovuto essere usata in guerra.

Intanto i rapporti fra Stati Uniti e Unione Sovietica si erano deteriorati al punto che nel 1948 i russi posero il blocco dei trasporti terrestri fra la Germania occidentale e la parte ovest di Berlino, circondata dalla Germania orientale comunista; la città isolata fu rifornita per un anno di cibo e carbone per via aerea. Era l’inizio della “guerra fredda”.

I militari americani accelerarono i perfezionamenti delle bombe atomiche come mostrarono i test del 1948 nell’atollo di Eniwetok, sempre nelle isole Marshall; ma intanto nel 1949 i sovietici avvertirono il mondo che anche loro avevano la bomba atomica. Si affacciava sulla scena un’arma ancora più potente, quella termonucleare, la bomba H, che gli americani sperimentarono per la prima volta nel 1952, 450 volte più potente di quella che aveva distrutto Hiroshima; tre anni dopo anche i sovietici fecero esplodere la loro bomba H.

E’ stata una corsa senza fine; oggi nel mondo ci sono 15.000 bombe termonucleari fabbricate da nove paesi e distribuite in molti altri paesi fra cui l’Italia. Uno dei film in cui erano immaginate le conseguenze umane e ambientali dell’esplosione su una città anche di una sola di tali bombe finiva con le parole: “Potrebbe succedere”. Per questo ricordiamo Bikini.

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impresso da Ebenezer Howard al suo riformismo sociale ... (segue)

impresso da Ebenezer Howard al suo riformismo sociale, senza cambiare gran che dell'idea insediativa generale, a far ripescare ai suoi interessati collaboratori ed epigoni il concetto di «città satellite». Assai meno impegnativo, apparentemente, non implicava alcuna ricomposizione delle gerarchie tra urbano e rurale, o mutamento radicale del rapporto sociali o di produzione: del concetto riformista riprendeva giusto quello schemino indelebile del grande nucleo centrale attorno al quale giravano i pianetini dipendenti. Che poi si trattasse di vere città integrate come le immaginavano da sempre gli utopisti, o dei sobborghi dormitorio da bambini e casalinghe cari ai padroni del vapore con sensibilità estetica, non contava moltissimo. L'importante era procedere con quel decentramento pianificato che tanto prometteva in termini di «macchina per lo sviluppo» economico, e si sperava anche un po' sociale: nuovi consumi, nuove aspettative, nuove frontiere, e per i paranoici nell'epoca della guerra fredda anche un po' di prevenzione in più in caso di attacco nucleare del terribile nemico comunista (ci furono decine di convegni monografici sul tema).

Eppure qualcuno già da tempo provava ad avvertire dei pericoli di asfissia e sopravvivenza, di quei «satelliti» inopinatamente scagliati nell'orbita territoriale e socioeconomica senza averne davvero valutato la resilienza. Fu per primo addirittura l'amministratore di Letchworth, Thomas Adams, a notare a cavallo della Grande Guerra come qualcosa non andasse proprio dentro la comunità artefatta del villaggio remoto monofunzionale per forza: finiva per diventare l'ennesima versione della comunità hippy di stravaganti, eccentrici, toga party itineranti, predicatori assatanati, scienziati pazzi ansiosi di essere presi sul serio, nulla a che vedere col «pacifico sentiero verso il futuro» di tutte le famiglie e gli individui preconizzato dal profeta.

Al satellite mancavano vistosamente parecchie componenti essenziali del pianeta madre, e nondimeno si insisteva nel mandarne in orbita altri e di diverso modello, come notava poco dopo la seconda guerra William H. Whyte nelle sue inchieste per la rivista Fortune dentro i laboratori sociali dei primi sobborghi voluti dalle nascenti multinazionali per i propri manager. Che ci fosse una bella differenza, tra gli schemi a Tre Calamite di Howard e una brutale flowchart organizzativa aziendale, evidentemente sfuggiva ai più, o non interessava capire, ma il sociologo rilevava parecchie anomalie nelle forme di convivenza, negli stili, nei tic apparentemente secondari, nello strapotere dell'Organizzazione nel dettare i ritmi della vita. O della morte violenta dentro il carcere volontario in cui si poteva trasformare la famiglia satellitare per i soggetti più deboli, come la moglie frustrata raccontata da Richard Yates nel suo Revolutionary Road (1961), antenata di tutte le casalinghe più o meno disperate dei decenni futuri disperse nello sprawl.

L'asfissia sociale da satellite difettoso, e insieme l'immediato gioco di parole che lo stesso termine «satellite» ovviamente induce, è certamente alla base del piccolo prezioso lavoro cinematografico di un giovanissimo cineasta, il ventunenne Lucas Monjo di Montpellier, che nel suo recentissimo corto Les Spectateurs mescola a modo proprio fantascienza e storia urbanistico-sociale. Collocando la città satellite esattamente su una versione gigante di quei satelliti che ciclicamente si sparano in orbita per telecomunicazioni o ricerca, e che in effetti potrebbero anche svolgere altri ruoli, per esempio quando si dice che «per mantenere un certo stile di vita avremmo bisogno di altri pianeti abitabili a disposizione». Ed ecco, parrebbe di poter dire, la trovata ingegneristica risolutiva, che pesca tutto il peggio di almeno un secolo di suburbanizzazione, con effetti sociali a loro modo perfettamente prevedibili, a partire dall'alienazione di una paradigmatica signora che lì «si sente proprio fuori luogo». E ne ha ben d'onde.

Gli Spettatori del titolo saremmo praticamente noialtri, che dentro quelle orbite satellitari, territoriali umane relazionali, ci passiamo tutto il tempo o quasi. Perché sarà anche vero come dice soprattutto la letteratura da treno, che «ognuno di noi è un pianeta», ma c'è una bella differenza ad esserlo dentro un consesso umano e urbano, oppure a sprofondare nel vuoto siderale del Satellite, ed è meglio provare a guardarci anche da quella prospettiva, le solitudini dentro un abitacolo di macchina, davanti a uno schermo televisivo in un pomeriggio di «vacanza» dal silenzio surreale, vis-à-vis con quel che si è e al confronto con quello che si sarebbe voluto essere. Insomma stare sul satellite quello vero, che gira nell'orbita terrestre anziché metropolitana, mette in evidenza la casalinga disperata che c'è in tutti noi, chi più chi meno. Lo fa in modo assai più efficace di qualunque sprezzante dissertazione contro la villettopoli (bruttissima e alienante finché non la pubblicano sulla rivista di settore giusta) o l'ecatombe ambientale incipiente se non ci pentiamo per il nostro stile di vita peccaminoso e consumista. Un modo per guardare le cose molto terra terra, e non dalla solita prospettiva «satellitare» tipica di certa critica.

Qui qualche informazione in più, una clip video, e qualche link di approfondimento in inglese e francese

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