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ad una sparatoria. E questo titolo, molto provocatoriamente, fu dato a una rivista da un gruppo di intellettuali di varia provenienza politica e formazione, all'indomani dell'uccisione, a Bologna, l'11 marzo del 1977, dello studente Francesco Lorusso.

La grande manifestazione di protesta che investì la città provocò un'ondata di repressione poliziesca che portò alla chiusura di Radio Alice: una voce indipendente fra le più popolari d'Italia. In quel momento Bologna venne a incarnare uno dei punti di più aspro conflitto tra forze politiche di sinistra radicale e il potere istituzionale nelle sue varie incarnazioni. Ma in quell'anno memorabile, che produsse gravi lacerazioni nel corpo della sinistra tradizionale, i conflitti nella città emiliana possedevano una intelligenza anticipatrice che a 40 anni di distanza non possono non sorprendere.
E' una sensazione che si prova leggendo oggi Il cerchio di gesso.Antologia (1977-1979) a cura di Vittorio Boarini, Giulio Forconi e Giorgio Gattei, Pedangron Bologna , 2018 ( pp.318 € 18). La raccolta antologica ospita scritti di varie dimensioni e impegno, che vanno da una lunga poesia civile di Roberto Roversi su Bologna e sul recente eccidio, al saggio introduttivo di Gianni Scalia – uno di primi a lasciare il gruppo per dissensi interni – a scritti degli stessi curatori, di Luigi Ferrajoli, Federico Stame, Pietro Bonfiglioli, Giuseppe Caputo, Anna Panicali e vari altri. In coda le testimonianze di quella breve esperienza a 40 anni di distanza, di D.Bigalli dello stesso Boarini, Bernardino Farolfi, Forconi, Gattei, Maurizio Maldini e Paolo Pullega.

Il senso di anticipazione che si percepisce in questi scritti intrigano lo storico che guarda a quei fatti dalla catastrofe politica dei nostri giorni. Quegli intellettuali che protestavano contro forme intollerabili di violenza e di sopraffazione, in realtà cominciavano a esprimere non solo disagio per un welfare cittadino avviato al declino, ma un dissenso sempre più dispiegato nei confronti della politica nazionale del PCI, ispirata dalla dalla scelta del “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana. Nelle parole di Gianni Scalia le ragioni della rivista, che sono quelle di una rivolta intellettuale e morale molto ampia, si comprendono con rara chiarezza. E sono parole per il nostro tempo: « Dovrebbe essere semplice da capire: il Potere diventa assoluto, e funziona come tale se manca l'opposizione al potere, se l'opposizione fa parte del potere, si “compromette” col potere, se il potere si produce e si riproduce con il consenso dell'opposizione». Scalia e gli altri, in effetti, vedevano da Bologna e dall'Emilia, vale a dire dal punto più alto del successo egemonico del PCI, l'inizio del suo storico dissolvimento. E lo scorgevano marxianamente – vale a dire con l'insuperabile bussola analitica di Marx – nel progressivo disancoraggio della sinistra istituzionale dalle sue radici di classe: «Quello che ci minaccia è la perdita della “memoria” di classe, nella classe che è irriducibilmente espropriata ed è irriducibilmente, potenzialmente rivoluzionaria, perché c'è sempre la divisione intollerabile di oppressi e oppressori, di sfruttati e di sfruttatori.» Parole queste ultime che ssuoneranno arcaiche ai politici perbene della sedicente sinistra dei nostri giorni, impegnata a conseguire sempre più scarsi consensi elettorali, piuttosto che organizzare e rappresentare le classi lavoratrici e i ceti subalterni.

Non è qui possibile dar conto dei temi affrontati dalla rivista nei suoi pur pochi anni di vita. Basti qui accennare almeno al fatto che negli scritti antologizzati in questa pubblicazione si riflette anche il generale processo involutivo verso cui si avviava la vita civile del nostro Paese. Repressione e rivolta si fronteggiavano in quegli anni in una contrapposizione lacerante.Tutta «la società – scriveva Boarini in un saggio dell'ottobre 1978 – è idealmente e materialmente in armi: il pluralismo politico e sociale sembra tendere a identificarsi con una pluralità di partiti o gruppi armati». L'ombra del terrorismo calava sulla realtà italiana finendo col rendere “criminale” ogni critica radicale alla società divisa in classi.

postilla
Il "compromesso storico" proposto da Enrico Berlinguer, dopo i fatti del Cile, alle due forze mondiali idealmente ostili al sistema capitalistico (la comunista e la cattolica) era cosa ben diversa dal modesto "compromesso politico" tra partiti della sinistra (Pci e Psi) e la Dc) basta leggere il saggio di Berlinguer pubblicato in tre puntate dal settimanale del Pci, Rinascita

Il 22 marzo è la mia giornata e quest'anno voglio parlare di me: sono la goccia di acqua. Di gocce simili a me ce ne sono in numero sterminato, tutte intorno a voi, nel mare davanti a Genova o Palermo o Trieste, ma siamo tutte in continuo movimento e ciascuna di noi ha una sua storia. Io sono in questo momento nel mare, ma sta sorgendo il Sole e il suo calore scalda me e tutte le mie compagne. Questo calore mi trasforma dallo stato di goccia liquida allo stato di vapore e mi disperdo perciò nell'aria. C'è una forza che mi spinge verso l'alto, nell'atmosfera, ma ben presto mi sento circondata da aria fredda che mi costringe a tornare, dallo stato di vapore, allo stato di goccia d'acqua, che è poi lo stato più naturale per me, che mi piace di più.

Come goccia sono più pesante dell'aria e scendo rapidamente; molte mie compagne, e qualche volta anch'io, ricadiamo di nuovo nel mare, ma oggi cado sul suolo di una zona interna dell’Appennino. Benché sia così piccina, arrivo sul terreno con una forza di caduta enorme al punto da disgregare le rocce e da sollevare tutto intorno la polvere; non per vantarmi (e non ci sarebbe da vantarsi) nella mia caduta sul suolo scavo un cratere quasi come una bomba. Il terreno su cui sono caduta è inclinato e io scendo in basso, verso quella che voi chiamate pianura e costa, trascinandomi dietro un po' della polvere disgregata dal terreno.

l mio cammino finisce dopo poco, in un lungo tubo buio; sento una grande forza che mi trascina, voi umani le chiamate pompe, e una di queste mi attira e mi spinge; per un po' di tempo non vedo niente, ma poi ritrovo la luce uscendo da un rubinetto e mi ritrovo fra le mani di un bambino che si sta lavando. La cosa mi piace fino a un certo punto perché il bambino si toglie lo sporco dalle mani con una roba schiumosa, quella che voi chiamate sapone, e io mi ritrovo tutta inquinata.

Dopo qualche istante sono trascinata, con tante mie compagne, lungo lo scarico del lavandino e qui le cose cominciano a mettersi male; lo scarico è collegato con altri tubi e altri tubi ancora e qui sono circondata da tantissime mie compagne ancora più sporche e inquinate di me; tutto intorno a noi, povere gocce d'acqua, ci sono porcherie, residui di cibo, sostanze schiumose, avanzi di fibre che, mi dicono, vengono dalle macchine che voi chiamate lavatrici. Voi umani scrivete delle belle poesie sull'acqua e anche un vostro santo ha detto che l'acqua è vostra sorella, ma all'atto pratico ci trattate davvero male. Alla fine arrivo in un aggeggio che chiamano depuratore e, con vari maltrattamenti, separano da me almeno una parte delle sporcizie con cui ho viaggiato nelle ultime ore.

Finalmente un tubo mi rigetta nel mare; ero così contenta di viaggiare nell'aria e sul suolo, ma adesso mi rendo conto di avere passato una brutta avventura; speriamo vada meglio la prossima volta. Dopo qualche giorno di nuovo il calore solare mi fa evaporare dal mare e questa volta vengo trascinata da un vortice di vento che mi porta in alto e lontano. Nel mio stato di vapore guardo sotto di me e vedo altri grandi mari e terre e questa volta trovo uno strato freddo a grande altezza e finalmente torno allo stato liquido di goccia e scendo verso il suolo.

Nella mia precedente caduta sulla terra nessuno si è occupato di me e mi hanno anzi maltrattata con le lavatrici e le fogne e i depuratori, ma adesso, mentre sto scendendo, vedo tante mani alzate verso di me ci sono tanti bambini e la loro pelle è colorata di scuro, molto diversa da quella bianca del bambino che mi ha usato per lavarsi le mani. La mani di questi bambini mi toccano, mi accarezzano, come se fossi un regalo del cielo; da quel che capisco, da mesi non vedevano una goccia di acqua e ne avevano disperato bisogno per preparare il cibo, per bere, per irrigare i campi da cui trarre i raccolti, per abbeverare i magri animali che vedo intorno a me. Questi umani almeno mi dicono grazie e mi raccolgono come una cosa preziosa; ogni piccola goccia di acqua come me viene messa entro vasi e stanno tutti attenti perché nessuna di noi cada a terra o vada persa.

Chi sa perché voi umani siete così diversi nei confronti della umile e preziosa goccia di acqua. Mi piacerebbe che la prossima volta che scendo su una delle vostre terre, piene di automobili e di pompe e lavatrici e tubi, mi salutaste con affetto o almeno con rispetto. Se qualche volta qualcuna di noi scorre troppo rapidamente verso la pianura e allaga i vostri campi non è colpa nostra; siete voi che avete maltrattato il suolo dimenticando che noi gocce d'acqua abbiamo le nostre regole e forze e possiamo arrivare nella vostra vita senza danni se imparate a conoscere come ci muoviamo sul suolo, nel sottosuolo, fra gli alberi e dentro le foglie.

L'acqua è vita e noi gocce d'acqua la vita portiamo a tutti voi terrestri, di pelle bianca o colorata.

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Qualcosa di interessante sta crescendo in Toscana; si tratta dell'’opposizione di sette sindaci al verticismo del giglio magico che viene dall’interno del Pd, non a parole ma su fatti concreti: un segnale non da sottovalutare, perché, se compreso e raccolto, potrebbe delineare un’importante novità politica.

Il terreno del contendere si trova nella nevralgica area metropolitana, dove in questi giorni si sta assistendo a un tentativo di accelerazione delle pessime operazioni in corso - in primis il nuovo aeroporto e il sottoattraversamento Tav. Specularmente, le dichiarazioni di politici e notabili locali tradiscono la preoccupazione che i risultati delle elezioni e la conseguente crisi della nomenclatura renziana mettano in forse alcuni progressi faticosamente raggiunti a furia di strappi a leggi e procedure. «Senza la nuova pista non acquisteremo la Fortezza da Basso (sede delle manifestazioni espositive fiorentine)» dichiara Leonardo Bassilichi, presidente della Camera di Commercio. Concetto ribadito in tono ricattatorio nel titolo de La Nazione Firenze del 13 marzo, «L’aeroporto non si fa? Allora niente Fortezza». E, ancora, si chiede La Nazione «Orfana del giglio magico, Firenze rischia la retrocessione?», rassicurando però i lettori con un «ma Renzi pensa al rilancio».

Ancora più chiaro il ministro Lotti: «Credo che sull'aeroporto si sia fatto tutto: mi auguro che si arrivi velocemente all'inizio dei lavori perché questo è il punto su cui il Pd e anche il nostro governo hanno fortemente lavorato e finalmente si è arrivati alla parte finale. Iniziamo i lavori: dopo resteranno solo le polemiche di chi dice sempre no». Una volta tanto siamo d’accordo: governo e Pd hanno fatto di tutto per togliere la parola ai cittadini: negando il dibattito pubblico previsto per legge, escludendo i Comuni interessati dall’Osservatorio che dovrebbe monitorare il rispetto delle prescrizioni Via sull’aeroporto, eliminando nel suo ruolo di controllore ambientale ogni terzietà all’Arpat, diventata una sub-articolazione della struttura direzionale della Giunta Regionale; con buona pace del legislatore nazionale, che aveva inizialmente concepito il sistema Anpa come un’authority completamente sganciata dal potere esecutivo.

Anche peggiore è la situazione del sottoattraversamento di Firenze da parte dell’alta velocità, con l’arresto di Duccio Astaldi, presidente del comitato di gestione di Condotte spa, sull’orlo del fallimento e i lavoratori non pagati in sciopero. Ma corruzione, malaffare e inefficienza nella Tav fiorentina, già denunciate nel 2016 in un’audizione della Commissione Ambiente del Consiglio regionale da Raffaele Cantone, hanno lasciato indifferente l’establishment politico-imprenditoriale fiorentino. Perché ora dovrebbe turbare la notizia che l’impresa appaltatrice dell’opera sia in drammatica crisi finanziaria e con i vertici indagati?

Tuttavia, qualcosa di interessante si sta muovendo in direzione opposta e non è casuale che proprio a Firenze e dintorni, dove il potere e l’ideologia renziana è più forte, si stiano manifestando le maggiori contraddizioni all’interno del partito. Da una parte l’establishment imprenditoriale che fa tutt’uno con i notabili del Pd, dall’altra sette sindaci dello stesso partito che, almeno su due questioni strategiche - aeroporto e nuovo inceneritore - si stanno opponendo alle decisioni dei vertici; ciò che al di là della sostanza delle specifiche operazioni, significa due politiche antitetiche: quella che decide dall’alto in nome del fare a ogni costo e rifiuta qualsiasi mediazione, anche nelle forme minimali di un dibattito pubblico; e la politica che ancora si ricorda che essere di sinistra significa tutelare gli interessi e la qualità di vita dei cittadini-elettori, il contrario del populismo che viene imputato a chiunque non la pensi nella scia del main stream della governabilità. Non si tratta di una contraddizione dettata da tattiche di corto respiro, ma nel merito: una spaccatura che potrebbe esaurirsi, soffocata dal potere dei vertici, ma cui potrebbe anche seguire una proposta politica che si leghi dal basso a comitati e movimenti, con una prospettiva diversa del ruolo del Pd, finora facilitatore delle politiche confindustriali.

I sindaci che si stanno ribellando ai diktat dei vari Lotti, Nardella, Nencini, Bassilichi, rivendicano il diritto-dovere di partecipare in rappresentanza dei loro quattrocentomila amministrati e indicano l’unica strada percorribile dal Pd se vuole dar senso alla parola “sinistra” e riconquistare il proprio elettorato: ripartire dal basso, ascoltare la gente, sostenere i diritti dei più deboli. I sette sindaci che hanno fatto ricorso al Tar su contenuti e procedure del progetto dell’aeroporto non si oppongono pregiudizialmente all’opera, ma vogliono che siano rispettate tutte le prescrizioni della Via; e se ciò non fosse possibile e se non vi fossero garanzie per la sicurezza e la salute delle popolazioni chiedono che l’opera non si faccia. Guardando più avanti, in prospettiva, propongono esplicitamente un diverso modello di sviluppo: una politica che punti sulla qualità dell’ambiente come fattore di crescita economica e sociale; aggiungiamo noi: che investa nell’università, nella ricerca, nella formazione del capitale umano; che assecondi e rafforzi gli ecosistemi naturali e non li violenti, con conseguenze disastrose. Noi, con loro, ci accontenteremmo di un partito che sappia comprendere le sfide del futuro e non guardi indietro, avendo come paradigma politico l’autostrada Bre-Be-Mi. Inutile, dannosa e costruita su rifiuti tossici.

In questi tempi di pistoleri e di razze bianche, di suprematisti e di macerazioni, forse l’unico modo per provare a sconfiggere il male oscuro dell’ignoranza, e per mettere in discussione i presupposti stessi dell'odio, è quello di decostruire dall’interno alcuni stereotipi dell’immaginario collettivo: i cowboy bianchi, le discoteche americane, gli immigrati cattivi da rimpatriare, i tiranni dell'Africa nera... È quanto provano a fare i Parigini, in un Paese e in una città assai provati dalle contrapposizioni di razza e di cultura, tramite interventi d’arte e di pensiero che non si vogliono destinati soltanto agli addetti ai lavori, ma provano a coinvolgere l'espace public.

Il fotografo e videoartista franco-algerino Mohammed Bourouissa, forse il più celebre fra quelli ispirati dalle contraddizioni della metropoli (la sua serie Périphérique, ricca di memorabili istantanee degne di un pittore, rimane la più efficace e inquietante introduzione visuale al fenomeno delle banlieues), ha vissuto per molti mesi nella comunità afroamericana di Filadelfia: la sua installazione Urban Riders (fino al 22 aprile al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris) presenta il frutto di quel suo incontro, e si propone di capovolgere con decisione l'inveterato mito del cowboy bianco. Nei sobborghi di Filadelfia, attraversati da afroamericani a cavallo, va finalmente in scena un rodeo interamente “nero”, con destrieri lungamente allevati e allenati in apposite scuderie, e finemente parati per il gran giorno ("Horse Day") per mezzo di strabilianti gualdrappe intessute di stracci multicolori, di tappi di bottiglia, di CD legati alla meglio, in slanci cromatici che non sfigurerebbero dinanzi all'affresco senese di Guidoriccio da Fogliano. Con minore artificio e maggior concretezza rispetto a Tarantino (il cowboy nero di Django Unchained), Bourouissa propone - nell’America di Trump - un’umanità marginale e inattesa, determinata e aperta, che dà corpo alla propria identità secondo parametri simili a quelli dei “bianchi” di Hollywood, ma ricorda sorprendentemente anche l'estetica equestre degli Arabi o dei Messicani. Ci sono dunque il ragazzo nero che incede su un cavallo bardato al modo di Napoleone, il mito di Pegaso precipitato a Fletcher Street, e i volti della città riflessi sulla carrozzeria deformata delle auto, i controversi destrieri della modernità: i "dannati della terra" (Bourouissa cita spesso Frantz Fanon) sono vicinissimi a noi.

Oltre la Senna, la mostra fotografica del maliano Malick Sidibé alla Fondation Cartier (Mali Twist, chiusa il 25 febbraio) ha offerto un’immagine non banale del continente africano, non di rado considerato dalla pubblica opinione secondo parametri affatto esterni, e farisaicamente appiattito lungo assi che non gli appartengono. Certo, non tutti i Paesi africani hanno attraversato l’età dell’oro conosciuta dal Mali all’indomani dell’indipendenza (1960), quando i dancing della capitale Bamako pullulavano di una gioventù vivace e disinibita, la musica combinava sonorità indigene e straniere, e il futuro sembrava passare attraverso i juke-box, le domeniche in topless lungo le rive del Niger (luoghi oggi degradati dall'abbandono), e una singolare forma di non-belligeranza tra religione musulmana e slancio edonistico. Le foto di Sidibé immortalano quegli anni con una freschezza che ha a tratti del pasoliniano (penso in particolare alla Battaglia delle pietre, del 1976), e si capiscono così, a posteriori, le ragioni dello speciale interesse degli estremisti islamici nella destabilizzazione di un Paese tanto libero e "occidentale"; d'altro canto, s'intuisce lo spazio di eleganza, di emancipazione femminile, di sofisticazione artistica e musicale che i Maliani hanno saputo creare, senza aver nulla da invidiare al ricco Occidente bianco.

Dalla guerra civile della Repubblica Centrafricana viene invece il protagonista del film Une saison en France (di Mahamat Saleh-Haroun, Francia 2018), toccante storia di un rifugiato che dopo aver perso la moglie nel suo Paese ed essersi ricostruito una vita decorosa coi due figli nella banlieue di Parigi, si vede rifiutato l'asilo (per un errore, forse; per un nome sbagliato su una lista, o per una lista dal nome sbagliato), e al fianco di una compagna francese d'origine polacca (Sandrine Bonnaire) affronta il calvario della clandestinità e della paura, fino ad approdare a una Calais appena smantellata. Il film non sfugge alla retorica, e attraversa momenti un po' didascalici e rigidi; tuttavia, nel momento in cui la politica non smette di propugnare quasi a una voce il rimpatrio di legioni di persone come principale soluzione al problema migratorio, questo racconto offre uno spaccato di cosa voglia dire concretamente eradicare a forza di carte bollate nuovi cittadini (per di più onesti) da un tessuto sociale che li sta lentamente assorbendo.

Tutto questo non interessa soltanto la triste temperie elettorale e post-elettorale italiana, ma anche la Francia - la quale, per inciso, ha nei Paesi africani sopra citati interessi militari e strategici ingenti, nei quali ha da ultimo coinvolto anche il nostro debole governo. Emmanuel Macron - eletto proprio sull'onda della reazione alla xenofobia lepenista - sta approvando nuove norme sull'immigrazione che preoccupano molti, anche all'interno del suo partito, dove 30 deputati hanno pronti emendamenti sostanziali in vista dei prossimi passaggi parlamentari. La "circolare Collomb" (dal nome del ministro degli interni) prevede ormai il censimento e la scrematura degli immigrati (“triage”, come in ospedale) da parte delle squadre mobili della polizia già nei centri di accoglienza; si prevedono procedure più rapide per giudicare l'asilo ma anche un iter più stringente per richiederlo, tempi di detenzione più lunghi per gli immigrati irregolari, e rimpatri di massa e immediati per chi non ha diritto, con la fine perpetua degli accampamenti "tipo Calais". Soprattutto nel mondo dell'associazionismo, vi è chi ritiene questo programma politico - segnatamente l'intervento delle forze dell'ordine e la contestuale scrematura degli immigrati “sul campo" - sia perfino più a destra di quello di Sarkozy; l’ex first lady Valérie Trierweiler ha dichiarato di ritenere "inaccettabile che si trattino gli esseri umani peggio degli animali”. Ma il Consiglio di Stato ha per ora ritenuto tutto compatibile con la Costituzione.

L’arte e il dibattito non risolvono, ma possono aiutare. Fino al 10 marzo al Théâtre de l’Odéon, dinanzi al Senato della Repubblica, si è rappresentato il Macbeth di Shakespeare nella messa in scena di Stéphane Braunschweig; per scelta del regista, il protagonista della tragedia, intrisa di stregoneria e di Medioevo, di tirannia e di ambizione, era il senegalese Adama Diop. L'idea non pare avere soltanto una ragione artistica (l’umanizzazione quasi spiazzante di uno dei personaggi più complessi e contraddittori del teatro occidentale), ma anche un risvolto culturale, nella misura in cui ha suggerito - in forma dubitativa - una forma di avvicinamento e di confronto tra mondi, dinamiche e contesti che troppe volte tendiamo a considerare remoti e inconciliabili tra loro.


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1.- Anni fa uno studioso di demografia e problemi sociali scriveva che abbiamo aggiunto anni alla vita ma non vita agli anni. Dentro il senso così vero e profondo di quest’affermazione si radica la questione dell’ambiente vitale: la qualità dello spazio, una città e un territorio umanamente abitabili. La classe dominante (oggi la borghesia finanziaria e speculatrice) e i ceti sottoposti consenzienti poiché stretti nella logica consumistica non hanno voluto realizzare quegli assetti economici, sociali e spaziali che appunto aggiungano vita agli anni poiché rivolti esclusivamente al benestare e al benessere dell’uomo e a produrre superiori relazioni umane nella comunità vantaggiosamente insediata.

2.- Lo spazio e il suo uso, in una situazione antropologica di civiltà nel significato straussiano, dovrebbero rappresentare elevati rapporti sia ravvicinati che estesi fra gli uomini. Così, spesso, è avvenuto nel passato. Oggi sono diventati fattore ostile, generatore di penosità e ansia, alla fine punitivo, come una prigione: condizione ben più pesante per gli strati più deboli della popolazione, in primis per gli anziani, sempre più numerosi grazie alla durata media della loro restante vita, nonostante tutto molto maggiore che nel remoto passato. Non sembrerebbe necessario fornire nuove dimostrazioni, misure, come se esistesse ancora qualcuno da convincere circa la realtà in cui si ritrova. Eppure le lamentale di singole persone e di gruppi di cittadini risuonano qua e là ma non riescono a diventare contestazione di massa. Allora competerebbe a sociologi, economisti antiliberisti, urbanisti, architetti, geografi… indicare gli ideali che dovranno distinguere il sentimento comune, per ora invalidato da incultura, insipienza, vocazione all’assoggettamento.

3.- In una visione sia a scala territoriale che a scala urbana il nodo strutturale da cui partire è la diminuzione della popolazione nelle città, specie nel centro storico, cui corrisponde la dislocazione nelle periferie metropolitane e regionali. Fenomeno che a Milano ha raggiunto fino al primo decennio del XXI secolo entità assolute incredibili (perdita di 550.000 residenti), ma che non aveva risparmiato gli altri capoluoghi. Se Milano non potesse contare su oltre 250.000 stranieri residenti regolari (per l’abitazione si arrangiano in ogni maniera) avrebbe circa un milione e 100.000 abitanti (oggi, circa 1.350.000), quando all’inizio degli anni Settanta ne conteneva 1.740.00 [1]: una città ancora arricchita dalla presenza di tutte le classi sociali, classe operaia e borghesia produttiva per prime, totalmente diversa dalla città commerciale e finanziaria priva del confronto fra differenze, se non quelle fra vendere e comprare: le merci e lo stesso denaro.

4.- La Milano propagandata come centrale dell’animazione attorno ai due settori ritenuti motori di nuovi sviluppi economici e, addirittura, culturali, salone del mobile e tanti saloncini delle sfilate di moda non inganni; non si caschi nell’abbaglio dei tanti posti per giocosi incontri al momento dell’uno e degli altri (ah! la città viva…). Le case di moda in crisi, già vendute ad aziende straniere o prossime a chiudere, come poterle ritenere fonte di buona vita, attiva o non attiva? A una giornalista di «Vogue», pendolare fra New York e Milano e indubitabile conoscitrice del settore, chiedo di qualificare il prodotto d’oggi (prescindendo dal fatto che la maggior parte della lavorazione avvenga in paesi orientali ove lo sfruttamento tocca livelli inammissibili nell’Europa occidentale e nordica); la risposta è secca: «fuffa!». Il salone del mobile, poi, con la sua immensa catasta di cose d’ogni genere non prodotte nella nostra città – e se lo fossero non si potrebbe spacciarla come fondamento dell’economia sociale riformatrice – rappresenta il grado a cui è giunta la confusione a-culturale della domanda e dell’offerta [2].

5.- Mentre le nascite continuano a essere superate dalle morti, le uscite, quasi mai emigrazioni a lunga distanza, raffigurano un obbligo ad andarsene fuori dalla città, una decisione forzosa anche se magari descritta da sociologi ciechi quale libera volontà di tornare alla (scomparsa) campagna. La causa consiste nella mancanza di una decisa, convinta politica della residenza milanese rivolta alle famiglie lavoratrici. La realtà amministrativa e politica si è dipanata lungo i decenni fra distruzione dello storico Istituto autonomo case popolari (Iacp) e formazione dell’Azienda lombarda edilizia residenziale (Aler), premessa alla privatizzazione del patrimonio pubblico e impedimento a una domanda di giovani coppie per un’affittanza «popolare» milanese. Unica fuggevole speranza: il Comune, che si è accollato meno della metà degli alloggi, potrebbe comportarsi in senso opposto, garantendo la difesa del patrimonio indiviso.

6.- Questa insufficienza è il risvolto logico di un laisser faire a favore di una terziarizzazione spropositata in primo luogo fagocitatrice di abitazioni esistenti, poi destinataria dei tristi edifici di quest’epoca, spesso grattacieli presto invecchiati e abbandonati (decine quelli di Ligresti) o nuovi lucidati col Sidol-Henkel difficili da riempire; mentre era già iniziato lo svuotamento negli edifici del centro storico e del contorno non destinabili a un mercato di abitazioni a buon mercato. Tutte le amministrazioni succedutesi fino a oggi a iniziare da quella del sindaco Formentini (anni Novanta) hanno cavalcato un fenomeno ritenuto inevitabile e non governabile, creduto in ogni caso ultramoderno, post-industriale, post-tutto [3].

7.- Mentre vigevano anche gli effetti autonomi di trasferimento residenziale causati dalla pesante deindustrializzazione, i maggiorenti vantavano primati di terziario «avanzato» quando la gran massa invasiva e aggressiva apparteneva ai settori più tradizionali (magari anche «neri»), il contrario che generatori di progresso civile. Il peggior liberismo urbanistico in ordine ai settori funzionali non solo ha costretto molte famiglie a trasferirsi nei circondari ma esse hanno dovuto farlo senza poter scegliere il luogo. Intanto, nell’insieme il sistema classista impediva nuovi ingressi in città per risiedervi a lavoratori dipendenti del terzo settore milanese che avrebbero potuto riequilibrare in equa misura il rapporto casa lavoro.

8.- Possedere una casetta nell’hinterland più scomodo non reca alcun vantaggio se il prezzo aggiuntivo consiste nel penare due o tre ore, e più, di andirivieni per lavoro (stressanti spostamenti in automobile e avvilenti viaggi su mezzi pubblici inadeguati). La proprietà della casa secondo l’Agenzia delle entrate (giugno 2017) riguarderebbe in Italia il 77 % delle famiglie, per questo un Berlusconi continua tuttora a ripetere (il condannato ritornato nell’agone politico senza che qualcuno obiettasse) che il problema della casa non esiste. Al contrario, è il momento di distinguere prescindendo dalla diffusione della proprietà che peraltro nelle città grandi è molto inferiore (Milano, circa 60 %, secondo la stessa agenzia). Riguardo a nuovi modelli di organizzazione dello spazio fondati sulla conoscenza delle diseguaglianze sociali e sulla certezza che le divisioni classiste del territorio hanno comportato la sua degradazione funzionale ed estetica, occorre proiettare la residenzialità nella concezione e nella realtà di habitat: collocare in una prospettiva di nuova città (nuova metropoli) la città storica e la città nuova (il territorio comunale), la città madre e le periferie metropolitane.

9.- La scelta in favore di un potente rilancio della residenza urbana, accompagnata dalla visione di una metropoli indipendente dall’economicismo liberista, può influenzare la struttura della popolazione per fasce di età e per classi di lavoro/non lavoro, indirizzandola verso forme coerenti ai bisogni e alle libere più alte aspirazioni dei gruppi umani. La resistibile caduta quantitativa e selettiva della residenzialità nei centri urbani, contrastata solo dagli immigrati stranieri in forte maggioranza extracomunitari, sancisce la perdita di un complesso sistema di rapporti e di equilibri fra le destinazioni funzionali (produttive e riproduttive) e un conforme uso degli spazi. Un sistema che Milano e le altre città medie e piccole, pianeti e satelliti di un’organizzazione territoriale policentrica quanto mai funzionale, hanno potuto conservare a lungo nel corso storico. Il territorio lombardo, fino alla seconda rivoluzione industriale costituito da poli urbani compatti e da ampie fasce agricole estese a tutta la regione, anche nella parte meno fertile a nord della linea delle risorgive, ha divorato se stesso attraverso il soddisfacimento dell’appetito del capitale trascorrendo dapprima lentamente poi a rotta di collo dal piano dei profitti a quello delle rendite fondiarie ed edilizie, infine declinate in assoluta e criminosa speculazione finanziaria ruotante spiralmente su se stessa senza alcuna validazione sociale.
NOTE
[1] Per un’ampia trattazione di questi temi, vedi il mio articolo Com’era Milano e com’è al tempo dell’Esposizione, eddyburg, 9 aprile 2015.

[2] Il collegamento del Salone ai numerosi negozi di arredamento ha prodotto un ulteriore legame con luoghi per i consumi e il divertimento, preesistenti o nuovi (movida e consimili). Sembra che il design abbia introdotto una specie di estetismo di massa commettendo falli irreparabili. La cultura di un design milanese ineguagliato altrove e punto di riferimento internazionale per l’arredo e l’allestimento di qualità si è esaurita con lo spirare del secolo breve. In seguito gli autori si sono rifugiati nell’azzardo o nel semplicismo o nell’insensato inquinando le sorgenti delle idee e degli ideali.

[3] Si criminalizza il terziario, dicono gli amministratori pubblici. Invece è valutazione della realtà. Ho lasciato da parte la presenza massiva dell’ndrangheta-mafia che, come ho descritto in altri articoli, sguazza soprattutto nel commercio (25%, pizzerie 50%, stima della procura milanese) ripulendovi facilmente capitali senza etichetta di provenienza, e nei cantieri per i movimenti di terra e le fondazioni.

Il mondo della cosiddetta cultura nazionalpopolare e dell'intrattenimento sa benissimo di essere immerso fino al collo dentro criteri di mercato anche piuttosto perversi, dove impera assoluto (o quasi, vabè) lo slogan business is business, e qualunque produzione ha come obiettivo quello di vendersi a un pubblico più vasto possibile. Il che dovrebbe far riflettere, soprattutto quando pensiamo che la medesima valutazione, consapevolmente o meno, permea di sé ogni forma (o quasi) di giornalismo informativo, dal più pettegolaio e dichiaratamente vicino alla pura fiction al più serioso e «politico di inchiesta» che però non rinuncia mai all'immagine caratterizzante. Perché esistono immagini ricorrenti, stereotipate, accostamenti automatici di situazioni e sensazioni, «senso del luogo», del tutto campati per aria? E perché li si usa con tanta noncuranza o leggerezza, come se non se ne conoscesse l'enorme potere di condizionamento quasi subliminale dell'opinione pubblica? Forse davvero, si scherza col fuoco senza neppure sospettare di accenderlo e alimentarlo. E le città sono il caminetto ideale per questi esperimenti incendiari da apprendisti stregoni a propria insaputa.

Lo slogan immobiliarista come convenzione sociale

Milano, 10 feb. 2018 - Foto F. Bottini
Quante volte siamo inciampati nella cronaca dei più efferati delitti «ambientati dentro» l'implicita innocenza o colpevolezza di uno spazio urbano? Così tante non solo da aver perso il conto, ma anche da essersi abituati a considerarlo normale, parte del rito, persino credibile tanto quanto le forme dell'impaginazione o la posizione e scelta delle eventuali foto di contorno: la «insospettabile stradina di linde villette» dove mai e poi mai ci si sarebbe aspettati il «sottoscala dell'orrore»; la cittadina tranquilla e sonnacchiosa che «si risveglia» nel panico delle latenti contraddizioni; e naturalmente gli «allucinati falansteri metropolitani» dove tutto il male del mondo sta già concentrato, e pronto a fare il suo mestiere. Del resto questa incredibile geometrica potenza degli stereotipi urbani è il motivo per cui con tanta facilità e spontaneità anche brillanti teorie come quella del decentramento pianificato nelle città giardino di Ebenezer Howard, si sono rapidamente involute nel proprio opposto, alimentando l'eterna illusione suburbana, o le estremamente moderne osservazioni di Jane Jacobs sono sfociate nei peana sul quartiere tradizionale da cartolina, del tipo poi riprodotto in serie dai gentrificatori di tutto il mondo. Eppure, molti osservatori per nulla casuali ci hanno provato, a leggere i segnali della città per quello che sono o potrebbero essere. Solo per fare un esempio basta citare la Teoria della Finestra Rotta, che parte da sistematiche osservazioni concentrate soprattutto negli anni '70 della crisi metropolitana più nera, della fuga dei ceti medi verso il suburbio, del crollo di solvibilità fiscale da insicurezza reale e percepita.

Dall'affermare chiaramente all'essere davvero ascoltati, cosa c'è di mezzo?

Ma puntuale come un cronometro, anche un lavoro teorico a suo modo ineccepibile come la Broken Window Theory nella formulazione originaria, affondava negli stereotipi, e il luogo comune invece di cogliere il potenziale di questo collegamento tra sicurezza percepita e uso mirato delle risorse scarse di ordine pubblico a scopi urbani preventivi (perché di questo originariamente si trattava), trasformava tutto in «politiche ferro e fuoco». Con che obiettivo, di fatto? Beh, ce l'abbiamo davanti agli occhi, volendo guardare a posteriori: la gentrification degli ex quartieri degli stereotipi negativi, e lo spostamento dei problemi nello «insospettabile scantinato dell'orrore» sotto la linda villetta che altre, nuove ricerche ci spiegano non essere poi tanto linda. E guardando la questione da un'altra, non troppo diversa prospettiva, pare che i medesimi stereotipi – nazionalpopolari ma non troppo - in agguato pervadano anche certe stravaganti idee di recupero delle periferie a colpi di prevalenti interventi edilizio-urbanistici, quando in realtà l'eventuale degrado delle strutture fisiche è solo conseguenza, e non componente base, del vero problema. Ma è dura discutere con chi una volta impugnato con forza uno slogan non intende certo lasciarlo andare, specie se ne ha fatto strumento di identità e legittimazione. E così, nonostante l'evidenza, dovremo continuare ancora per decenni, magari per sempre, a sorbirci una «informazione» come quella su Macerata, capoluogo provinciale sonnacchioso dove non succede mai niente perché in un posto così e così niente deve mai succedere, finché all'improvviso … Beh: chi vuole si legga al link cosa ne pensano gli studiosi della Brookings Institution, dei rapporti tra politica e «stereotipi spaziali».

Riferimenti:
Jenny Schuetz, Does TV bear some responsibility for hard feelings between urban America and small town America? Brookings Institution, 12 febbraio 2018
E magari per chi non li ha visti, gli articoli de La Città Conquistatrice dedicati alla Sicurezza Urbana

Diciamo la verità, tutta la verità, almeno a sinistra, circondati come siamo da un oceano di menzogne pubblicitarie. Non siamo contenti di come il nostro campo politico... (segue)

Diciamo la verità, tutta la verità, almeno a sinistra, circondati come siamo da un oceano di menzogne pubblicitarie. Non siamo contenti di come il nostro campo politico è arrivato all’appuntamento elettorale. Un anno perduto appresso alle oscillazioni quotidiane di Giuliano Pisapia, quando pure appariva evidente l’inconsistenza del tentativo e l’inadeguatezza del suo proponente. Poi, al momento della configurazione di un nuovo organismo politico, con la nascita di Liberi e Uguali, l’esplosione di logiche spartitorie e pattizie che hanno emarginato i protagonisti del Brancaccio e dunque una vasta area di movimenti e di giovani. Il tutto condito dalla incoronazione dall’alto, come il deus ex machina delle tragedie antiche, di un personaggio esterno alla storia politica delle formazioni che si fondevano.

Come se il prestigio pur alto di un uomo delle istituzioni, come Pietro Grasso, avesse potuto compensare l’assenza di democrazia nella scelta dei candidati: pratica inveterata che costituisce una delle cause della fuga dai partiti politici e della diserzione delle urne. Tutto questo mentre a sinistra una nuova formazione, Potere al popolo, mostra altre forze vitali del nostro campo che si disperdono, in un momento di acuto scontro politico e ideale in atto nel Paese

Ma se è andato male il percorso con cui si è arrivati alla scadenza elettorale non è che la campagna con cui ci si presenta al 4 marzo stia andando splendidamente. Pur tra spunti apprezzabili, mancano indicazioni programmatiche limpide e nette, in grado di caratterizzare e distinguere il campo della sinistra. E nelle indicazioni, a livello di linguaggio elettorale, una strada di efficace comunicazione è costituita dalla opposizione radicale ad alcune riforme del governo Renzi. Quella contro il Jobs Act è certamente di grande importanza e parla a una larghissima platea di lavoratori e di italiani. Anche se la critica a quel monumento antioperaio andrebbe articolata con maggiore ricchezza di motivazioni.

Ma c’è un ambito fondamentale della vita del nostro Paese, una istituzione strategica per il nostro avvenire, che oggi non appare sufficientemente vicina agli sguardi e agli interessi della sinistra. E’ la scuola. Il luogo dove si formano le nuove generazioni. Ebbene, occorre dire con forza quello che è ignorato da gran parte degli italiani: la scuola così come l’abbiamo conosciuta, luogo di formazione culturale, civile, spirituale è quasi andata distrutta. Essa è stata trasformata e diventa sempre di più, una unica, indistinta, scuola professionale. La cultura, l’insieme di discipline in cui si articola il sapere del nostro tempo è ormai ridotta ad apprendistato, un campo neutro e frantumato di “competenze”, di cui gli studenti devono appropriarsi per accedere al lavoro.

Com’ è noto l’alternanza scuola lavoro prevede 400 ore annue di prestazioni lavorative da parte dei ragazzi degli istituti tecnici e 200 da parte dei liceali. Ore sottratto allo studio, alla riflessione, al dialogo con gli insegnati. Questi ultimi sempre meno sono impegnati nell’insegnamento diretto e nella preparazione delle loro lezioni e sempre più assorbiti da compiti di valutazioni del lavoro. di rendicontazione, misurazione dei risultati, elaborazione di progetti per raccogliere risorse per i loro istituti, ecc. La scuola azienda – un progetto avviato in Europa alla fine degli anni ’90 - diventa un pilastro di una più ampia riforma del mercato del lavoro, in cui le istituzioni pubbliche della formazione vengono piegate ai presunti bisogni produttivi delle aziende. Una esagerazione? Invitiamo a leggere, in Gazzetta, (25/1/2018) il decreto congiunto del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e del MIUR che istituisce il Quadro nazionale delle qualificazioni rilasciate nell'ambito del Sistema nazionale di certificazione delle competenze.

È evidente che siamo arrivati alla cancellazione di un paradigma educativo che l'Europa aveva elaborato nel corso di alcuni secoli, vale a dire il profilo culturale della modernità, il fondamento della nostra civiltà. E l’aspetto davvero grottesco di questa drammatica involuzione del processo formativo, è che avviene in una fase storica in cui la vorticosa innovazione dei processi produttivi rende obsoleto in breve tempo qualunque “competenza”. La scuola che vuole formare i giovani non come cittadini e spiriti liberi, ma come lavoratori, equivale a rincorrere a piedi un treno in corsa, ma correndo in direzione contraria. Abbiamo bisogno di generazioni culturalmente ricche e dotate di capacità creativa, per fare della tecnologia che avanza strumenti di liberazione umana e di un superiore assetto di civiltà. E invece si vogliono fabbricare soldatini di un esercito del lavoro per una guerra che si combatte con altre armi.

Per queste ragioni l’impegno a cancellare alla radice l’assetto aziendale della formazione - di cui la Buona scuola è l’ultimo esito - non è solo un tema efficace di campagna elettorale, ma un obiettivo strategico irrinunciabile della sinistra.

Articolo inviato contemporaneamente a il manifesto

Quale Roma vorremmo? Perché questa città, ancorché bellissima, è diventata il luogo dei misfatti, degli intrighi, dei costruttori e loro amici, dei Sindaci che non avrebbero nessun credito nemmeno come direttori di un supermercato. Mi è capitato di entrare in città attraverso Porta San Sebastiano e, come in un sogno ad occhi chiusi, ho immaginato che quel parco dell’Appia Antica mi seguisse fino alle Terme di Caracalla e poi, ancora, sfociasse nei Fori con tutta la sua carica di storia, di presenze silenziose, di colori del cielo. E’ stato solo un sogno ma ho pensato che fosse quello immaginato da Petroselli, Cederna, De Lucia e tanti altri. Poi, seduto su una pietra, ho aperto un quotidiano (uno qualsiasi) alla cronaca cittadina: ho letti di buche, cinghiali in transito, topi, discariche, municipalizzate, trasporti, immigrati, senzatetto, sfrattati. Un brutto risveglio da quel breve sogno.

Ho richiuso gli occhi e immaginato un giorno di festa dove venivano aperte le tante caserme di Roma, i cui spazi venivano restituiti alla città insieme ai tanti alloggi occupati da chi la casa non ce l’ha. Ho visto spazzini, insieme ad abitanti, pulire strade e marciapiedi, salutati da un coro di persone scese nella strada per contribuire all’opera. Ho sognato i Fori riempirsi di ragazzi delle scuole, girare tra i ruderi, sentirsi orgogliosi di quella grande storia raccontata da quelle presenze solenni.C’era aria di festa in quel mio sogno, il suono di un fiume che scorreva lì vicino e le grida di tanti bambini che giocavano in strade dove una volta passavano auto veloci, e, ora: biciclette, tricicli, carrozzelle, pattini, che si mescolavano alla folla; felice, ognuno, di essere in compagnia di altri in questa grande città.

Ho riaperto per un attimo gli occhi e ho visto le ferite inferte: recinsioni, reti metalliche, camionette che sbarrano il passo, militi che, pur se gentili, evocano spettri di una minaccia sconosciuta e misteriosa, segnali di pericolo. Questa volta, chiudendo gli occhi, ho avuto un incubo: il Colosseo divorato da tante cavallette travestite da turisti; l’ho visto, così solenne, sgretolarsi d’incanto, pezzo dopo pezzo, molecola dopo molecola. Ho sentito il rombo degli arei della parata del 2 giugno, il gran silenzio interrotto dal rumore assordante dei carri.

Ho visto cinghiali rotolarsi in Campo dei Fiori tra la spazzatura, intimoriti solo dalla presenza di nutrie che arrivavano risalendo i muraglioni del fiume, e poi, ancora, gabbiani e gabbiani dare la caccia ai colombi. Sulla gran Colonna di Traiano appollaiati strani pappagallini gialli e verdi come vedette che mettono in guardia altri uccelli a stare alla larga e un cielo nero solcato da rondoni e falchi. Ho visto il fiume trasformarsi in una marea di fango che trascinava con sé relitti di barche e rami spezzati.

Ho di nuovo aperto gli occhi e pensato come vorrei questa città: è un sogno che tengo per me.

Qualche giorno fa, l’8 gennaio, è stato pubblicato un curioso articolo sul quotidiano la Repubblica, passato inosservato, dal singolare titolo: “Il 2017 è stato l’anno migliore”, in assoluto della lunga storia dell’umanità. L’autore è Nicholas Kristof, editorialista del prestigioso New York Times, vincitore di ben due premi Pulitzer, quindi, se ne dovrebbe dedurre, voce autorevole del giornalismo internazionale. Se il titolo dell’articolo suscita serie e legittime perplessità, il suo contenuto lascia ancora più sorpresi. La percentuale, afferma, della popolazione mondiale che soffre la fame, è in miseria, o non sa leggere e scrivere, non è mai stata così bassa. La percentuale di bambini che muoiono non è mai stata così bassa. Anche la percentuale di persone sfigurate dalla lebbra, accecate da malattie come il tracoma o affette da altri mali, è scesa. Ogni giorno, il numero di persone di tutto il mondo che vivono in povertà estrema (quelli che guadagnano meno di due dollari al giorno) scende di 217.000 unità, ogni giorno 325.000 persone in più hanno accesso all’energia elettrica e 300.000 persone in più hanno accesso a un’acqua potabile pulita.

Più oltre, nell’articolo, si afferma anche: in tempi recenti, come gli anni Sessanta, la maggioranza degli esseri umani era analfabeta dalla nascita e viveva nella miseria più estrema. Ora meno del 15 per cento della popolazione mondiale non sa leggere e scrivere e meno del 10 per cento vive in estrema povertà. Tra altri quindici anni l’analfabetismo e la povertà estrema saranno quasi del tutto scomparsi. Dopo migliaia di generazioni, questi fenomeni stanno, più o meno, svanendo alla vista.

Che dire? Un esempio fulgido di come le magnifiche sorti e progressive dell’umanità sono all’opera, nonostante i dubbi di Leopardi e di tutte le generazioni che sono a lui seguite. A me l’articolo ha fatto ricordare un divertente sillogismo con il quale mia nonna (democristiana doc) riusciva a stroncare, alla fine degli anni Cinquanta, i miei aneliti comunisti quando avevo l’età di 13 anni. Ella diceva: adesso non c’è più la guerra, nessuno più muore di fame, abbiamo la radio, siamo nel benessere. Tu osi contestare tutto questo? Di chi il merito se non del partito che ci governa (democristiano)? Di fronte all’evidenza di queste evidenze non mi rimaneva che restare in silenzio, pur sospettando che quello non era certamente il migliore dei mondi.

L’editorialista, però, non può fare a meno di riconoscere che il mondo sta andando a scatafascio, ma ha una sua ricetta per salvarlo. Più avanti nell’articolo afferma: in quale momento storico preferireste vivere? Francis Scott Fitzgerald diceva che la prova di un’intelligenza di prima categoria è la capacità di intrattenere due pensieri contraddittori nello stesso momento. Provate con questi (ecco la ricetta, nda): il mondo sta registrando importanti progressi, ma è anche esposto a minacce letali. Il primo pensiero dovrebbe darci la forza per agire rispetto al secondo.

Non ci avevamo pensato! Basta dunque non vedere il mondo che sta andando a scatafascio e concentrarci sulle magnifiche sorti e progressive, per risolvere tutti i problemi. Straordinario questo articolo che ci insegna a fare come gli struzzi che, di fronte, a un pericolo mettono la testa sotto la sabbia per non vedere. E’ un esempio di come i mass media possono manipolare le menti delle persone e far credere loro che questo è il migliore dei mondi possibili. Anzi, non potremmo desiderare di meglio e ringraziare chi ce lo ricorda e chi ci governa!

(segue)

Sulle pagine milanesi dei quotidiani è riapparsa la questione del turismo, da una nebbia padana che non ha potuto nascondere le stolidezze che dicono o fanno gli amministratori pubblici (la bandiera nera spetta per una parte alle arie dei lavori per la nuova linea della metro, per un’altra al patto illegittimo per il riutilizzo degli scali ferroviari. Al turismo bandiera gialla).

Già alla fine di settembre 2017 il sindaco vantava grandi conquiste con sorprendente imprecisione: sette milioni di visitatori nell’anno, la notizia di un giorno; superamento degli otto milioni quella di un altro appena successivo. E «gli pare» che Milano batterà Roma; vittoria che «per l’economia e la reputazione di Milano è fondamentale». Tutti capiscono che il nostro spara palle di grosso calibro per abbattere la vecchia capitale reale, così che appaia più alta la capitale economica (non morale, con tutta quella ’ndrangheta che l’accompagna). Un assessore romano risponde che Roma sconfigge Milano 14 milioni a 7. Statistiche provenienti da La Stampa - Secolo XIX indicano che la capitale disperata resta pur sempre la regina di bellezza per italiani e soprattutto stranieri, 20 milioni gli arrivi e 40 le presenze nell’ultimo anno: incredibile dictu audituque? Ad ogni modo, fossero anche molti di meno, mostrerebbero la predominanza delle visite dette «mordi e fuggi» per additare un turismo rientrante nel grigio sistema del consumo di tipo culinario, anziché nella grande conca della cultura generale e dell’arte.

Ugualmente Venezia. Da molto tempo le quantità (anche decisamente inferiori a quelle segnalate da istituzioni, da enti pubblici e privati, da amanti appassionati - etiam nos) paiono insopportabili dalla città storica - come fosse una persona tanto fisicamente fragile - con l’osteoporosi diffusa per cause persistenti dalla fine del XVIII secolo; ma dalla seconda metà del XX concentrata nella corporeità del torso, al limite della frattura, eppure selezionato dalle agenzie turistiche per darlo in pasto a irresponsabili grappoli umani: sarebbero questi a morsicare le ruskiniane pietre prima di fuggire? L’isola veneziana deve fronteggiare la parte gravosa dell’assalto al territorio comunale, tuttavia forse inferiore all’attesa preoccupata se crediamo ai numeri dell’annuario municipale dell’anno 2016. Infatti: riguardo all’intero comune si sarebbero registrati 4 milioni e mezzo di arrivi e 10 milioni e 200.000 presenze turistiche (cifre arrotondate); nella città storica i primi e le seconde si riducono al 60÷70 per cento, ossia rispettivamente a circa 2.800.000 e a 6.800.000: però in uno spazio urbano di meno che 50.000 residenti, spazio e abitanti fissi ancor più ridotti, fin quasi a zero secondo l’ipotesi di concentrazione in quel torso.

Esposti disciplinatamente i dati numerici, quanto sicuri non sappiamo, li accantoniamo riconoscendogli un peso generico assoluto ma non la capacità di raccontarci la realtà degli accadimenti nelle città malversate dal turismo. Sì, è così, il turismo nella maniera d’oggi e del passato prossimo è malversazione, Carla Ravaioli ce lo ha spiegato una dozzina di anni fa con l’articolo in eddyburg Il turismo inquinante (11 aprile 2005), da noi rilanciato dopo pochi giorni con Coraggiosa Carla Ravaioli (22 aprile 2005), entrambi ricordati da Salzano insieme al fondamentale quasi saggio di Luigi Scano Turismo insostenibile, 8 dicembre 2006 [1]. Niente è cambiato da allora.

Il turismo di folla, lasciato allo sfruttamento liberistico dai governanti, dallo stato al piccolo comune, o, peggio, profittato direttamente da questi per risanare i bilanci e diminuire i debiti, inquina con la propria impronta contro-culturale ogni ambito della vita, le città e il territorio; una maniera che seziona il 10÷20 per cento dei beni culturali, artistici, paesaggistici in conformità alla convenienza dell’azienda o dell’ente, li delimita teoricamente e materialmente, li spreme, li schiaccia, li tagliuzza, ne riduce il valore mentre aumenta il consumo di gruppo (gruppone); ossia ne cava il massimo di produttività quindi di incasso. L’80÷90 per cento è destinato all’avvilimento, se non al degrado, all’abbandono, infine al disconoscimento. A meno che si tratti di coste marine, montagne, laghi, colline che quanto più si estendano, si invadano e si denaturalizzino tanto più generano il compiacimento di massa per vacanze e divertimenti stagionali, intanto che la conquista della seconda casa in proprietà permanente ha soddisfatto o soddisfa in avvicendamento oltre cinque milioni di famiglie: in tutto questo risiede per Carla Ravaioli il peggio dell’«inquinamento turistico».

Seguirà l’invettiva di Luigi Scano verso azzardate soluzioni per la sua Venezia, del resto epitome al cubo del falso daffare e dei veri affari di politici, amministratori, manager pubblici e privati in tutte le città storiche. Scontata l’attenzione agli interessi dei pochi residenti, ben più decisivo sarà il principio «di non ledere, se non marginalmente e inavvertitamente [quelli] arroccatissimi e fortificatissimi delle categorie, delle sotto-categorie, dei gruppi, dei soggetti, individuali e societari, che, per lucrare sulla funzione turistica della città storica di Venezia e della sua Laguna, da anni e da decenni stanno, come locuste predatorie e voraci, sfregiando, sconciando, divorando, consumando l’una e l’altra». Eppure restano ai veri amici, piccola minoranza di conoscitori e amatori, le parti, non poche, trascurate dalle locuste; fortunatamente, vien da dire, giacché resistono riservate ad essi, cui raccontano la loro storia umana e sociale e la connaturata bellezza, ormai estranee agli intontiti residuali abitanti.

Dicevamo della grande conca della cultura generale e dell’arte. Il turismo ufficiale contabilizzato che ne è fuori non vi rientrerà mai senza un rivolgimento sociale. Le masse guidate da un’azienda o da un ente pubblico verso quel 10÷20 per cento dei beni adatti o adattati a cavarne un plus-profitto applicando gli stessi metodi storici del capitalismo nell’utilizzo del lavoro, restano prigioniere della loro ignoranza così come gli operai restavano prigionieri della loro povertà. Se Venezia ne è testimone, Milano ne è primatista. Ne consegue d’altra parte un ostacolo ai desideri e alla libertà delle persone colte o propense a valersi del cervello e del cuore per continuare l’autoformazione e, attraverso la percezione dell’elevatezza dell’arte, goderne l’effetto di puro piacere e di elevamento del sé.

Prima di tutto: niente scalfisce il dominio del turismo commerciale. L’abbiamo mostrato nell’articolo La contesa degli identici a Milano, madre della compravendita [2]. E siccome nel gigantesco ruotante sistema delle entrate e uscite relative agli spazi commerciali i capitali della ‘ndrangheta si puliscono e si legittimano coprendo almeno il 25 per cento dell’intero affare (secondo la Procura milanese), ne desumiamo ancora una volta con Carla Ravaioli che li turismo milanese è intriso di mafiosità.

L’ente che indirizza le masse e ne ricava profitto forse più di ogni altro è la curia. Le indirizza verso la visita del Duomo e le governa nell’acquisto del biglietto, nell’ingresso, nell’uso dei sevizi igienici (costruiti addosso all’angolo meridionale della facciata). Uno spettacolo spiacevole che supera quant’altri ne esistano riguardo all’accesso «turistico» di altre cattedrali, anche una San Marco, o una San Pietro… Come bestiame incanalato mediante transenne metalliche in un percorso ritorto più volte, le si conduce anziché al macello alla biglietteria o ai servizi, poi a uno dei portali, adesso l’ultimo a destra dei cinque della facciata.

Sembra logico che per aumentare l’introito sia utilizzata e messa in risalto, dirimpetto al fianco destro della chiesa (guardando la fronte), la vecchia entrata al museo per accedere al nuovo Duomo Shop, punto di vendita ufficiale della Veneranda Fabbrica. L’allestimento commerciale si incentra sulla grande sala viscontea colonnata, alcuni anni fa esposizione di importanti testimonianze della signoria. Il museo, per dar spazio allo shopping, è stato spinto all’indietro nel corpo del Palazzo Reale, è accessibile dalla piazzetta del palazzo e a sua volta diventa un altro passaggio al magazzino di vendita [3].

Non siamo troppo scandalizzati per la gestione turistica della curia profittante dell’enorme richiamo in Italia e all’estero del Duomo e della piazza. È innegabile l’indirizzo commerciale prevalente rispetto alle domande della cultura. Che la manutenzione della cattedrale richieda un mucchio di quattrini è vero ma, di questo passo e generalizzando una condizione che non è soltanto milanese benché quest’ultima sia in testa alla classifica, dove verrebbe cacciata se non nella discarica delle buone idee e azioni la possibile mobilitazione politica e delle quasi-classi minoritarie consapevoli dell’ingiusta distribuzione delle risorse pubbliche?

Una divisione che rispecchia l’essere attuale del capitalismo italiano. Magari a scapito di più convenienti rese sociali futuribili, per un lato punta forte sulla speculazione (finanziaria, edilizia, commerciale), per un altro conduce una «nuova» lotta di classe per contrastare lo sviluppo delle classi operaia e media [4]: infatti, prende le iniziative più adatte a impedire la costituzione di risorse, nei bilanci economici dello stato e di ogni altra istituzione, che possano favorirlo. Così il potere capitalistico coarta tutte le funzioni che devono appartenere ai diritti sociali e popolari: la scuola, l’università, la ricerca sia scientifica che umanistica; deve diminuire costantemente, in proporzione e in assoluto, il sostegno pubblico delle arti, della musica, della cultura in generale, il sostegno di ogni popolazione e persino delle singole persone che aspirino alla conoscenza. La lotta anticapitalistica delle classi subalterne, che non sono affatto scomparse, comprende la riconquista di questi diritti.

Vi rientra, non è una forzatura affermarlo, anche il diritto di godere l’effetto di una visita esauriente, preparata e orientata, del Duomo di Milano sull’intelligenza e sul sentimento!

Il municipio con gli assessorati e altre istituzioni pubbliche o pubblico-private, dal momento dell’avvento del centrosinistra succeduto all’amministrazione del sindaco Letizia Brichetto Moratti, ex ministro dell’università e ricerca scientifica, ha in sostanza confermato una politica culturale frammischiata col turismo. Siccome quest’ultimo, come si è visto, trionfa dentro all’incessante ciclo della compravendita, le istituzioni indirizzano le masse aspiranti a conoscere i beni artistici e culturali della città allo stesso modo, cioè secondo la maggior resa economica.

Per questo «servizio» funziona oggi Milanoguida, un’organizzazione che propone con largo anticipo visite guidate a pagamento (biglietto d’ingresso più accompagnatore-narratore) in primo luogo alle mostre, poi a qualcuno dei complessi storici monumentali. Enorme lo squilibrio numerico delle visite offerte fra le prime e i secondi, peraltro scelti, quest’ultimi, secondo criteri inadeguati rispetto alla grandezza della dotazione milanese. Dev’esserci una specie di virus che infetta i decisori occulti per le visite d’arte e i relativi aspiranti. Infatti persiste inguaribile e diffusa la malattia denominata Frida Kahlo. Insomma, per una nuova mostra delle pittrice messicana (3 febbraio - 3 giugno 2018, Milanoguida vanta già ora 18 esauriti delle 31 visite guidate previste nel mese di febbraio (prezzo tout compris 22 euro). Per capirci senza altre discussioni: nello stesso mese, finora Sant’Ambrogio non ottiene alcuna indicazione mentre ha ospitato a gennaio due sole visite guidate. Per chiudere con un altro dei tanti esempi possibili riguardo agli squilibri che è la stessa politica a-culturale di Milanoguida a provocare: Santa Maria della Passione, la seconda chiesa di Milano per dimensione dopo il Duomo, magnifica l’architettura, bellissimi il decoro e le opere d’arte, unica la contrapposizione di due famosi organi del ’500-‘600 ai lati del presbiterio, dotati di ante dipinte e protagonisti di concerti in duo, non è stata selezionata per visite di gennaio e presenta una sola segnalazione per febbraio [5].

[1] Qui riportiamo il dato giornalistico di 12 milioni di visitatori annui. Che sarebbero diventati 20 secondo scritture o parlate dei giorni nostri.
[2] In
eddyburg, 21 aprile 2016.
[3] L’incentivo all’acquisto avviene rivolgendosi direttamente e paternamente al visitatore: «Potrai immergerti in un percorso coinvolgente e unico, suddiviso per tematiche ed esperienze: dal design all’abbigliamento e gli accessori, passando da oggetti per la casa, libri e souvenir originali e di qualità, presentati in modo suggestivo e attraente». Davvero un emporio in linea con il miglior consumismo.
[4] Vedi: Luciano Gallino,
La lotta di classe dopo la lotta di classe, Intervista a cura di Paola Borgna, Laterza, Roma-Bari 2012.
[5] Tutt’altra levatura culturale, generale e specialistica, presenta un’intraprendenza estranea alla macchina organizzativa di Milanoguida. La denominazione: Iniziative culturali di Pierfrancesco Sacerdoti, di Google Gruppi. Sacerdoti è un giovane architetto conoscitore, entro una competenza complessa di architettura e di arte, delle testimonianze milanesi a partire dall’eclettismo ottocentesco fino all’attualità, attraversando il Liberty, il modernismo e il Novecento, il razionalismo, la nuova critica post-razionalista e le contraddizioni dell’attualismo internazionaliste. Su queste basi egli conduce piccoli gruppi di cittadini, magari in bicicletta nelle buona stagione, alla scoperta di una città poco conosciuta o in ogni modo non esibita secondo l’effettiva qualità delle opere che la contraddistinguono.

(segue)

Finalmente,dopo quasi tre anni dalla presentazione del Master Plan, la Valutazione diimpatto ambientale del nuovo aeroporto di Firenze ha avuto un esito positivocon le firme dei ministri Galletti e Franceschini. Tanto è occorso aiproponenti per raggiungere un traguardo che, con un po’ più di modestia e buonsenso era a portata di mano e nonostante la sproporzione delle forze in campo:da una parte il governo, con Renzi e Galletti in testa, Enac, ToscanaAeroporti, la Regione Toscana, il Comune di Firenze, l’Associazioneindustriali, la Camera di commercio, politici di ogni tendenza e partito, tuttala stampa locale, dall’altra i comitati e successivamente qualche sindaco“dissidente”. Ora che, come nel gioco dell’oca, il progetto è tornato a puntodi partenza, di nuovo la responsabilità passa al Presidente della RegioneToscana e all’uomo politico Enrico Rossi. Vediamo perché.
Come diconsueto i giornali fiorentini, dando la notizia della firma della Via e delle relativeprescrizioni, hanno registrato e amplificato l’esultanza di Toscana Aeroporti edel Sindaco Nardella, attori ormai indistinguibili, per un presunto via liberaal nuovo aeroporto, di cui era stata annunciata l’entrata in esercizio nel 2017- ma che solo ora, proprio negli ultimi giorni del fatidico 2017, muove ilprimo passo. A dimostrare, sia la connivenza acritica della stampa locale, siala vacuità degli annunci della proprietà, sia, soprattutto, gli errori di Enace Toscana Aeroporti, sicuri, per “prassi consolidata”, di potere trasgredireleggi, regole e procedure; tanto sicuri da riuscire ad aggrovigliarsi in unmare di contrattempi e contraddizioni.

Un’esultanzagiustificata quella dei vari Eurnekian, Carrai, Nardella, notabili fiorentini ePd toscano? Sorge qualche dubbio in proposito. Basti ricordare che laCommissione Via aveva chiuso i suoi lavori nel novembre 2016 con un parerepositivo corredato da ben 142 prescrizioni. Un esito non assolutamente graditoa Enac e a Toscana Aeroporti, che perciò avevano chiesto al Ministro dell’Ambientedi sollecitare una nuova valutazione da parte della Commissione, ottenendo daquesta un secco rifiuto.
Nonriuscendo a tagliare il traguardo per vie normali, occorreva rovesciare iltavolo e cambiare le regole del gioco; ed ecco,” l’arma finale”, il decretolegislativo 104 del giugno 2017 che, prese a pretesto le direttive dell’UE, haprovveduto a sanare le irregolarità dei proponenti, in primis quella di averepresentato a Via un Master Plan e non un Progetto definitivo, come prescrivevala legge. Nella sostanza, però, sono rimaste in piedi tutte le precedentiprescrizioni tra cui, come riportato dal Corriere fiorentino (29/12/2017): “è confermatol’obbligo di predisporre i nuovi habitat al posto di quelli cancellatidall’aeroporto, prima che partano i cantieri per la nuova pista; è con­fermatala centralità e la complessità, dello sposta­mento del Fosso Reale e dellarealizzazione di tutte le opere per ridurre il rischio idraulico in un'areaalluvionale (si intende “soggetta a esondazioni”) da sem­pre”. Aggiungiamo: è confermatol’obbligo della costituzione - prima dell'approvazione del progetto da partedel MIT - di uno studio riferito al rischiodi incidenti aerei, redatto da un soggetto terzo pubblico; obbligoparticolarmente sgradito a Enac, affezionato al ruolo di controllore di sestesso. E altre 138 prescrizioni, gran parte delle quali richiede la verifica el’approvazione da parte delle autorità competenti.
Ma,allora, perché la società Toscana Aeroporti esulta ora, dopo essersi oppostaalle prescrizioni della Commissione Via nel 2016 e dopo avere perso un anno pergiungere allo stesso identico risultato? Perché il suo Presidente, MarcoCarrai, annuncia che “ora si può partire con la nuova pista”, contraddicendo findall’inizio le prescrizioni appena rese pubbliche? Anche dando scontato uncerto gioco delle parti dove si fa buon viso a cattivo gioco, si potrebbesospettare che vi sia un altro motivo: il fatto che, a seguito del DL 104/2017,una volta che il Master Plan ha avuto tutte le necessarie approvazioni nellaConferenza dei Servizi, si passa direttamente al progetto esecutivo; e, inquesta fase, con lo spezzettamento del progetto in settori, fasi, sub-progettidestinati agli appalti, si apre la possibilità di eludere, bypassare,ammorbidire, procrastinare, eliminare, le prescrizioni più onerose. Si potrebbedire che, per “prassi consolidata”, una volta avviati i lavori, non valgono piùle prescrizioni e nessuno è in grado di imporne il rispetto.
Ed eccoperché il gioco ritorna nelle mani di Enrico Rossi. Tra le varie prescrizioniministeriali ve ne è una fondamentale, l’obbligo di costituire un Osservatorioambientale di undici rappresentanti, presieduto dal Ministero dell’Ambiente condue membri e con un’analoga partecipazione della Regione Toscana. Quale saràquesta partecipazione? Dobbiamo credere alle intenzioni e dichiarazioni diEnrico Rossi quando nel marzo 2016 si proponeva come presidente di uncostituendo osservatorio e garante dei suoi lavori.

A noi che consideriamoil nuovo aeroporto fiorentino un’opera inutile e potenzialmente dannosa, farebbepiacere un radicale ripensamento di Rossi. Dobbiamo dare atto, tuttavia, che sconfessareun aeroporto da lui sempre sostenuto, dopo avere abbandonato il Pd a favore diun altro partito, sarebbe una prova palese di incoerenza istituzionale e unsuicidio politico. Al contrario, sarebbe del tutto confacente al ruoloistituzionale e, perché no? a una maggiore autonomia politica, farsi garantedel diritto alla salute, al benessere e alla sicurezza dei cittadini di Firenzee della Piana. Vale a dire che Enrico Rossi ha l’occasione di dare un segnaledi politica diversa, più trasparente, più di sinistra, se eserciterà nell’Osservatorio,come i cittadini sia aspettano, un peso decisivo per assicurare che tutte leprescrizioni della Via siano compiutamente e tempestivamente realizzate; acosto di arrivare alla conclusione che il progetto non è sostenibile e quindi nonrealizzabile.

In questi giorni, Trump ha deciso di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, provocando le proteste e la giusta indignazione di tutti i paesi arabi alla Turchia all’Arabia Saudita, alla Palestina,che annuncia “un giorno di collera”... (segue)

In questi giorni, Trump ha deciso di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, provocando le proteste e la giusta indignazione di tutti i paesi arabi, dalla Turchia all’Arabia Saudita, alla Palestina (che annuncia “un giorno di collera”), e di molte cancellerie europee preoccupate per quella che sembra, nemmeno troppo velatamente, una provocazione gravida di conseguenze imprevedibili per tutta l’area del Medio Oriente. Con lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, di fatto gli Stati Uniti riconoscerebbero la città santa come capitale d’Israele, come mai prima aveva osato fare la comunità internazionale. Per ricordare il valore simbolico di questa città, sono riportati, di seguito, alcuni brani tratti dal libro del cardinale Martini, Verso Gerusalemme.

Carlo Maria Martini, l’arcivescovo di Milano, avrebbe voluto trascorrere a Gerusalemme gli ultimi anni della sua vita, scegliendola addirittura come la terra per la propria sepoltura. Non perché fosse semplicemente terra dei luoghi santi; semmai perché città lacerata da conflitti violenti, da passioni contrapposte, eppure fatta di persone viventi, di popoli, di comunità delle tre religioni monoteistiche che qui convivono. La chiamava la città dello shalom, che significa pace, completezza, prosperità, ma soprattutto amicizia, accoglienza.

Nel suo libro, così descrive il suo incontro con la città:

«Arrivai in aereo da Roma di sera tardi, mi recai sul terrazzo della casa e mi misi a contemplare il cielo stellato guardando verso le mura. A un tratto ebbi quasi con prepotenza questa percezione: io sono nato qui, a Gerusalemme. […] Mi sembrava di essere davvero nato lì, di essere sempre vissuto a contatto con quelle pietre.

Questa città, unica al mondo, svolge un ruolo simbolico fondamentale: «Ne deriva che la pace in Gerusalemme è il segno della pace nel mondo, è una questione cruciale per i popoli che vi abitano e insieme per l’umanità intera, in quanto simbolo, segno, del destino umano».

Ma Gerusalemme è anche la città della tensione, tra i praticanti e i non praticanti, tensione tra comunità differenti: «E’ una tensione che vibra sempre in questa città”, dove permane un conflitto mai sanato e che forse mai si sanerà. Ed ecco affacciarsi il tragico dilemma, si chiede Martini: il dualismo; città dell’incontro o semplicemente città della coesistenza? Città in cui tante persone e situazioni si passano vicini, ma non si compenetrano? La risposta del cardinale è questa: «Gerusalemme è un mondo di coesistenza e non di simbiosi: voi siete là, per esempio, alla porta di Sichem e potete vedere, gli uni accanto agli altri, un rabbino che va a pregare al Muro, una ragazzina in minigonna che viene da un kibbutz, un musulmano sul suo asino e poi un monaco greco. Non c’è, direi, alcuna interpenetrazione. Ciascuno vive nel suo mondo; non c’è niente di comune tra il mondo del rabbino e quello del monaco greco: sono mondi differenti che coesistono, l’uno affianco dell’altro».

Gerusalemme è città dei simboli. La pietra, innanzi tutto: «pietra non soltanto perché sorge su colline rocciose ma anche perché «pietra» sono i tre centri della città: la pietra del Muro del Pianto, la pietra della cupola, la pietra ribaltata del Sepolcro. E la Porta, porta della speranza: entrare in Gerusalemme, scrive Misrahi, è entrare nel combattimento per la giustizia, è assumere la responsabilità della lotta. Questa entrata avrà perciò uno sbocco, un’uscita: da Gerusalemme uscirà la Legge».

«E la nuova Gerusalemme è il punto di riferimento che dà senso a tutta la storia umana, è il punto d’arrivo di tutte le nazioni e di tutti i popoli, è la città ideale aperta e pronta a ricevere tutti, è la città che esclude ogni impurità e ogni falsità, che affratella nazioni e popoli a mano a mano che vengono immersi in questa pienezza luminosa».La decisione di Trump di spostare, in questo luogo sacro dell’umanità, l’ambasciata americana, è quanto di più empio sia stato partorito da questa modernità che ha totalmente perso il concetto della sacralità (come lo intendeva Pasolini). Solo a un Tycoon come Trump poteva venire in mente un’idea simile, segno e simbolo di future sciagure.

Nel corso dell’anno ci sono tantissime ”giornate” ecologiche, quella della Terra, quella dell’ambiente, dell’acqua, degli oceani, eccetera. E passa quasi inosservata la giornata mondiale … dei gabinetti, che pure cade ogni anno il 19 novembre, organizzata dalle Nazioni Unite. Quest’anno il tema è “Wastewater”, cioè l’acqua con cui vengono eliminati gli escrementi.

Nei paesi industrializzati ci sono operazioni e gesti così “naturali” che neanche ci si pensa; ogni giorno è normale e indispensabile liberarsi del “superfluo peso del ventre” (come lo chiama Boccaccio); ogni persona, sia ricca e potente o povera e poverissima, ogni anno elimina circa 1000 chili, una tonnellata, di urina e feci.

Se una persona dispone di un gabinetto ad acqua corrente, per lo smaltimento di questi rifiuti, ogni anno “consuma” da 10 a 20 mila litri di acqua che viene così sporcata e contaminata; un fiume contenente sostanze organiche, batteri, virus, residui di medicinali, e di altre sostanze ingerite durante il giorno.

Se i gabinetti sono collegati ad una fognatura e a qualche depuratore, una parte dei rifiuti organici viene trattata o trasformata; altrimenti le acque sporche vanno a finire nei fiumi o nel mare e sono fonti di inquinamento microbiologico e di diffusione di virus.

Il gabinetto costituito da una tazza e da un serbatoio di acqua, una tecnologia perfezionata nel corso del Novecento è ormai considerata del tutto normale nei paesi più progrediti: in molti paesi si esige che i gabinetti siano presenti, oltre che nelle singole abitazioni, nelle scuole, negli uffici, nelle carceri, negli ospedali, nelle fabbriche; per molti lavoratori vengono progettati e resi disponibili gabinetti mobili.

Ebbene adesso fermatevi e pensate che questa situazione è un privilegio di pochi perché nel mondo 4000 milioni di persone come voi e come me, con le stesse necessità fisiologiche vive in abitazioni prive di gabinetti con acqua corrente e mille milioni - avete letto bene - defecano e fanno i propri bisogni all’aria aperta.

I loro escrementi, con il carico di sostanze puzzolenti suscettibili di putrefazione e fermentazione e di batteri e virus, finiscono nel suolo, contaminano le acque superficiali con cui vengono a contatto gli altri abitanti del paese e del villaggio, veicoli di malattie, epidemie e morte. I più colpiti sono i bambini che giovano per terra, sguazzano nelle pozze di acqua contaminata, tanto che nel mondo ogni anno oltre 300 milioni di bambini in tenera età muoiono per malattie associate alla mancanza di pur elementari servizi igienici, una strage degli innocenti.

Il superamento di questa situazione è considerata una delle priorità sanitarie dalle Nazioni Unite che organizzano iniziative per diffondere in tutti i paesi la disponibilità di gabinetti e di servizi igienici che assicurino anche ai più poveri sicurezza igienica e anche dignità, per un delicato e privato irrinunciabile atto della vita quotidiana.

Per richiamare l’attenzione delle autorità sanitarie e dell’opinione pubblica su questo grave problema, si tiene ogni anno la “Giornata mondiale dei gabinetti” voluta dalle Nazioni Unite in collaborazione con la associazione internazionale World Toilet Organization. Le iniziative per assicurare servizi igienici per i paesi poveri e poverissimi non sono motivate soltanto da considerazioni etiche o dall’amore per il prossimo; la diffusione di apparecchiature igieniche per chi ne è privo rappresenta un potenziale grandissimo affare industriale e finanziario. Infatti al fianco delle conferenze annuali della World Toilet Organization, la prossima si terrà alla fine di novembre a Melbourne, in Australia, si svolge una grande esposizione di gabinetti e fognature in cui centinaia di imprese presentano le proprie proposte di sistemi igienici, possibilmente a basso costo e efficienti, da esportare nei paesi poveri.

Il “mercato” è sterminato: in paesi come il Sud Sudan, Madagascar, Congo e Ghana, oltre l’80 percenti della popolazione non ha gabinetti. La situazione non è migliore neanche nelle abitazioni delle megalopoli di molti paesi emergenti nei quali la rapidità della crescita delle città non tiene il passo con il dovere di assicurare adeguati servizi igienici di gabinetti, fognature, depuratori.

La cui mancanza “costa” anche in termine di soldi se si considerano le spese che la collettività deve affrontare per curare dissenteria, malaria, epidemie e malattie provocate dal contatto con acqua sporca nelle case e nei villaggi. E’ stato calcolato --- ci sono sempre economisti pronti a tradurre in soldi anche il dolore umano --- che per ogni euro speso per migliorare i servizi igienici un paese ne risparmia 4 per minori spese di assistenza sanitaria.

Le Nazioni Unite si sono poste l’obiettivo di assicurare servizi igienici minimi per tutti nel 2030 e mancano appena 13 anni. E’ quindi evidente che le autorità sanitarie dei vari paesi chiederanno, a chi li sa produrre, apparecchiature igieniche, contando anche su finanziamenti internazionali.

E’ una nuova corsa a inventare, perfezionare e fabbricare strumenti per migliorare le condizioni igieniche del mondo, specialmente dei paesi più poveri: occasioni per affari e attività industriali per un “mercato” che pure comprende centinaia di milioni di persone.

Nelle Università può sembrare ridicolo lavorare su problemi così “volgari” come la progettazione di “gabinetti di villaggio” e di tecniche di depurazione delle acque di fogna, anche se la loro soluzione richiede spesso avanzate competenze tecnico-scientifiche.

Da noi per i paesi arretrati lavorano soltanto le associazioni di volontariato e le Famiglie missionarie, con mezzi limitati e nel disinteresse generale della politica e anche delle imprese. Alla progettazione e costruzione di gabinetti e sistemi igienici per i paesi arretrati lavorano invece intensamente proprio i paesi di nuova industrializzazione, come Cina e India; a Singapore e in India esistono dei Toilet Colleges per la ricerca tecnico-scientifica a e per l’educazione e l’informazione. Eppure queste tecnologie, umili e considerate “povere”, potrebbero dar vita anche in Europa a nuove imprese, a nuovi posti di lavoro, con prospettive di una vastissima richiesta futura: una ingegneria del rispetto per il prossimo e per l’ambiente.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto.

Sia che le proposte urbanistiche degli anni Venti fossero di «urbanisti» o di «disurbanisti», ci pensò il Comitato centrale sovietico del 16 maggio 1930 a decretarne la morte o la stentata sopravvivenza (segue)

Sia che le proposte urbanistiche degli anni Venti fossero di «urbanisti» o di «disurbanisti», ci pensò il Comitato centrale sovietico del 16 maggio 1930 a decretarne la morte o la stentata sopravvivenza, tacciandoli di estremismo, utopismo e, per eccesso di incoerenza, di opportunismo. Lenin era morto da sei anni. Egli riconosceva il ruolo indispensabile della città per il progresso sociale ma l’ideale di sopprimere l’antagonismo fra città e campagna era al primo posto. Sarà Stalin a dichiarare con impressionante noncuranza tautologica che «l’eliminazione delle differenze sostanziali fra l’industria e l’agricoltura non potrà portare all’eliminazione di qualsiasi differenza fra di esse. Una certa differenza… incontestabilmente rimarrà, a causa delle differenze esistenti nelle condizioni di lavoro nell’industria e nell’agricoltura»[1].

Il realismo era avverso all’utopismo e soprattutto al modernismo, come si confermerà in seguito per la restante durata dello stato sovietico a causa dell’ordine zdanovista applicato all’arte e all’architettura.

Leggiamo l’articolo del Guardian in eddyburg. Da una parte risaltano trionfalistiche costruzioni e sistemazioni pseudo-sociali di abbellimento urbano, dall’altra risuonano pesanti passi dell’oca verso il «cambiamento», ossia la privatizzazione dell’edilizia includente vecchi e umani spazi comunitari. Non esiste in Russia nel modo di costruire la città alcuna cultura e pratica differenti da quelle dominanti nel mondo della globalizzazione urbana.

L’architettura di oggi a Mosca
Quella, sempre a Mosca, del 1952

Come in qualsiasi paese d’occidente deturpato dalle ignobili scelte d’architettura urbana in un medio ed estremo oriente in grado di esportarle, Mosca esibisce, e continuerà a farlo nel futuro, i soliti grattacieli dritti, torti, sciancati come dappertutto, credendo con questi di dar lezione sbeffeggiante ai sette famosi edifici alti e complessi definiti «stalinisti» (Stalinskie Vysotki): dall’Hotel Ucraina all’Università Lomonosev, dall’Hotel Lenin al Ministero degli esteri, e così via: uniche grandi costruzioni realistiche da noi selezionate come architetture storiche difese dalla loro stessa consistenza massiva nella determinata funzione, e recepite sensitivamente come organi emittenti note estreme di un neo-romanticismo né europeo né asiatico, o forse fusione di entrambi. Il romanticismo musicale russo potette prolungare la propria esistenza, proporzionalmente appartata, oltre l’ultimo ventennio dell’Ottocento grazie a Rachmaninoff (che lasciò la Russia nel 1917), musicista estraneo ai movimenti espressionistici e al rivolgimento viennese ma capace di portare gli ascoltatori che riempivano e riempiono tuttora gli auditori al più alto grado di commozione con le sue invenzioni tematiche, esaltate da un pianismo mirabolante e in se stesso tecnicamente (diremmo) romantico.

Cosa è successo all’architettura e all’arte della rivoluzione, cosa potrebbe succedere? Qual è il grado di riconoscimento dell’autorità e dei cittadini verso l’architettura moderna e l’arte geometrica parente stretta della prima? L’arte è caduta prima del 1930; aveva raggiunto vertici d’espressione oltre l’astrazione, collegata com’era al tema della construction e all’impaginato colto della propaganda sovietica negli anni precedenti e immediatamente successivi al 1920. La pittura e la scultura realiste (oltre alla letteratura), celebrative o commemorative, dovettero ad ogni modo attendere il superamento (effettivo o apparente) dei contrasti politici e culturali al centro e alla periferia del potere per approdare alla più inerte forma di interpretazione della vita nella Grande Russia quale modello di felicità. La prospettiva zdanovista al congresso degli scrittori nel 1934 sanzionerà definitivamente ogni deviazione. Dopo la sua morte sarà Stalin in persona, nei pochi anni che gli resteranno da vivere, a emanare pesanti critiche, censure e divieti, il cui effetto durerà a lungo. Sicché, all’interno di un consenso popolare privo di strumenti conoscitivi, non potranno formarsi né tantomeno affermarsi, nuovi artisti in nessuna disciplina. Unica eccezione la straordinaria figura di Dmitri Shostakovich, personaggio centrale di un racconto, non proponibile qui, sul rapporto fra l’arte e il potere.

L’architettura dopo la rivoluzione presenta una propria versione della tendenza che in diversi modi percorre l’Europa, tutti diretti a contestare l’eclettismo ottocentesco e i suoi retaggi, a cercare nuove strade, nuovi stili improntati alle ragioni fondamentali delle funzioni relative alle persone e alle domande sociali. Architetture diverse possono manifestare la stessa volontà di riforma, ma si è soliti identificare come maggioritario ed europeista il razionalismo originato in Germania e diffuso in altri paesi, magari trascurando esperienze non meno importanti benché localizzate in contesti regionali, per esempio Vienna o Amsterdam. In Russia numerose associazioni di architettura o di cultura in cui l’arte e l’architettura concorrono a creare condizione nuove, «rivoluzionarie », agiscono per rispondere modernamente alla gigantesca domanda di ogni genere di edifici e infrastrutture.

Gli architetti con alla testa i giovani non estranei agli sviluppi della disciplina in Europa ricevono il messaggio razionalista ma ne vogliono approfondire la costituzione più avanzata. Così si affermano correnti originali, in alleanza con l’arte geometrica cui abbiamo accennato, che avranno risonanza fuor dei confini. Razionalismo «sovietico», costruttivismo, cubofuturismo (preavvisato, se così si può dire, dall’avanguardia futurista in pittura fin dal 1912) testimonieranno con interventi in diverse città la grandezza di molte realizzazioni. La nuova architettura, diversamente dall’urbanistica, sembrò poter superare l’anatema del 1930 e infatti qualche risultato conforme lo ottenne ancora al principio del decennio, ma bastò poco tempo perché suonasse la grancassa del realismo socialista ripudiante l’opera avanguardista degli anni Venti.

Di qui possiamo riallacciarci agli interrogativi fatti. Esistono ancora in Russia, e anche in nuovi stati distaccatesi dall’«impero», numerosi complessi architettonici o unità che, come già avvenuto nel passato, potrebbero rischiare di scomparire stante la concezione urbana e architettonica predominante.

La Royal Academy of Arts ha organizzato per la fine del 2011 e l’inizio del 2012 la mostra Building the Revolution: Soviet Art and Architecture 1915-1935. Quattro città europee l’hanno accolta, Salonicco, Barcellona, Madrid e Londra. Il magnifico catalogo ci è arrivato da poco. Ne abbiamo ricavato una selezione, cinque lavori di grafica-pittura-modellini (quattro dal titolo Construction, uno con la proposta grafica di El Lizzistzky per il monumento a Rosa Luxenburg), sedici di architettura, disparati. Con queste ventuno figure abbiamo costruito un corpus di immagini facilmente consultabili: vedi qui sotto il rettangolo del frontespizio blu con la scritta; basta il doppio clic per aprire la serie a pieno schermo del pc, passando dall’una all’altra con un semplice clic o con le freccette di spostamento.

Clicca qui per sfogliare il catalogo

Il quadro d’insieme delle architetture evidenzia:
1.- Molti edifici appaiono in stato di degrado, tanto da richiedere interventi urgenti di restauro. In verità dove ha prevalso l’abbandono, spesso concentrato nell’industria ma non estraneo a nuclei abitativi, l’ipotesi del restauro sarebbe illusoria se non falsa.
2.- Qualche caso di restauro accurato emerge dalla rassegna. Vedi in particolare la bellissima scala «novecento» in un complesso a Ekaterinburg destinato originariamente a personale del KGB (privilegio delle élite?).
3.- Risalta la mancanza di manutenzione in edifici residenziali famosi, vedi la Casa comune di Ginzburg e Milinis in viale Novinski a Mosca.
4.- Al contrario, si nota come possa perpetuarsi la funzione sociale di complessi abitativi un tempo pubblici quando la soluzione urbano-architettonica sia stata particolarmente felice, vedi la Casa comune di Ginzburg e Pasternak a Ekaterinburg.

[1] G. Stalin, Problemi economici del socialismo nell’URSS, Ed. Rinascita, Roma 1953, pp. 40-41, cit. in V. Gerratana, Introduzione a F. Engels, Antidüring, Editori Riuniti, Roma 1971, p. XXVII, nota 11

Piove. Dalla finestra guardo le prime intense piogge di questi giorni di novembre e la mente corre ai “novembre” dell’alluvione del Polesine, di quelle di Firenze e Venezia e a tutte le alluvioni e frane che ho visto nel corso della mia vita.

Dopo la più calda estate degli almeno ultimi cento anni è cominciata la stagione delle piogge, improvvise e violentissime, diecine di centimetri di acqua caduta in un solo giorno, in zone spesso relativamente ristrette. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti; paesi allagati, case distrutte, fabbriche ferme, campi che hanno perduto i raccolti, prima per la siccità e ora per gli allagamenti. Miliardi di euro di soldi, pubblici per ricostruire strade e per risarcire i danni, privati, ma soprattutto beni materiali spazzati via e dolori, spesso morti.

Le cause sono due, su entrambe si potrebbe intervenire, se si volesse. Le bizzarrie di siccità e piogge sono dovute ad un ormai innegabile mutamento del clima rispetto ai decenni e secoli precedenti: mari più caldi a livello planetario, fusione dei ghiacciai permanenti, modificazioni irreversibili del grande ciclo dell’acqua planetario.

Se ce ne fosse stato bisogno lo hanno ripetuto, nei giorni scorsi, anche gli scienziati dell’amministrazione dello scettico presidente Trump.

La rivoluzione industriale del carbone dell’Ottocento, ma soprattutto nell’ultimo mezzo secolo l’età del petrolio, con l’aumento del consumo dei combustibili fossili, l’irrinunciabile alimento della società dei consumi - nei paesi industriali, in quelli di recente industrializzazione e in quelli poveri che aspirano ai modelli di vita europei ed americani - hanno provocato un crescente flusso di gas (anidride carbonica, metano e altri) che, immessi nell’atmosfera, ne alterano la composizione chimica. Questo fenomeno, come è noto, fa lentamente aumentare la quantità di calore solare che resta “intrappolato” nell’atmosfera e che riscalda, di conseguenza, continenti ed oceani.

Da decenni gli scienziati chiedono ai governanti della Terra di rallentare il flusso nell’atmosfera dei gas che alterano il clima, modificando la produzione e il consumo di merci e di servizi, ”limitando” le attività che comportano un crescente consumo di combustibili fossili.

Nei prossimi giorni a Bonn sentiremo i governanti del mondo discutere, per la ventitreesima volta, di un grado e mezzo o di due gradi di riscaldamento, di “p.p.m.” di gas serra, se sono più colpevoli il carbone o il metano o le flatulenze dei bovini, concludere con dichiarazioni di buona volontà, anche se nessun governante dei paesi maggiori inquinatori vuole scontentare i venditori di carbone, di automobili, di petrolio, di gas, di elettricità, eccetera.

Tutto questo per dire che la situazione continuerà per anni come la conosciamo adesso, con tutti i suoi danni d’estate e d’inverno.

Ciò premesso, i danni dei mutamenti climatici sulle attività umane derivano soprattutto dal fatto che l’acqua piovana, per quanto intensa, non trova più le strade per raggiungere il mare da dove si è originata, quelle strade, rigagnoli e poi torrenti e poi fossi e poi fiumi, che la natura nei millenni aveva predisposto per agevolarne il moto lungo le valli e nelle pianure.

In Italia, nel dissennato uso del territorio di tanti decenni sono stati costruiti, autorizzati ed abusivi, edifici, strade, ponti, ferrovie, senza alcuna attenzione al moto delle acque, anzi alcuni interventi rappresentano veri ostacoli al moto delle acque; per alcune “infrastrutture”, come le chiamano, sono stati sbancati i fianchi delle valli e sono così stati accelerati i fenomeni erosivi che lasciano un suolo nudo su cui più facilmente e violentemente scorrono le acque.

Spesso dove è arrivata la presenza umana la copertura vegetale è stata considerata inutile; dove si pensa che siano d'intralcio alle opere “economiche”, alberi e macchia vengono estirpati o bruciati. Quest’estate poi la forza devastante degli incendi ha reso il suolo di centinaia di migliaia di ettari ancora più esposto all’erosione.

Per attenuare i dolori e i costi delle alluvioni ci sono (ci sarebbero) alcune cose da fare: prima di tutto opere di rimboschimento e incentivi per riportare l’agricoltura nelle zone collinari perché la cura del bosco e il paziente e rispettoso lavoro degli agricoltori sono i principali rimedi per regolare il flusso delle acque nel loro cammino dalle valli al mare.

Se il suolo è coperto di vegetazione la forza di caduta delle gocce d'acqua si "scarica" sulle foglie e sui rami, che sono elastici e flessibili, e l'acqua scivola dolcemente verso il suolo e scorre sul terreno con molto minore forza erosiva e distruttiva.

Quest’anno avremmo avuto un lungo periodo senza piogge che avrebbe consentito, ad un governo previdente, di far ispezionare tutte le vie di acqua e di far sgombrare le rocce e la vegetazione e gli ostacoli che le ingombrano e che rendono le valli più esposte alle frane.

Vorrei fare la modesta proposta di istituire un Servizio Idrogeologico Nazionale che tenga sotto continuo controllo lo stato dei corsi dei fiumi, proceda alla pulizia e manutenzione di tutte le strade percorse dall’acqua nel suo moto verso il mare, dei fossi, dei torrenti e dei fiumi maggiori al fine di rimuovere gli ostacoli incontrati dalle acque e di tenere aperte le vie naturali del loro scorrimento, che predisponga la liberazione dei fiumi e canali che sono stati “intubati” e coperti per guadagnare spazio per strade e edifici. Quando un flusso più intenso di acqua incontra queste prigioni artificiali, l’acqua “si arrabbia” e torna violentemente in superficie e porta distruzione e morte.

La istituzione di un Servizio Idrogeologico Nazionale consentirebbe la creazione di diecine di migliaia di posti di lavoro; capisco che è forse difficile trovare dei laureati che accettino di camminare lungo i torrenti e i canali, di controllare e identificare gli ostacoli al moto delle acque, di pulire i tombini nelle città, ma ci sarà pur gente che ha voglia di farlo considerando che questo servizio è il più importante, anzi unico, sistema per evitare disastri futuri. So bene quanto sia difficile questo progetto ma so anche quanta ricchezza e lavoro potrebbero essere mobilitati e quanti costi monetari e dolori futuri potrebbero essere evitati.

Infine all’ingresso dei vari ministeri dell’ambiente, delle infrastrutture e delle loro agenzie e uffici periferici che parlano di sostenibilità e di resilienza, proporrei di scrivere l’ammonimento di Albert Schweitzer: “L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per distruggere la Terra”.

So di dire un’ingenuità. Ma è la sola cosa che resta a chi legge ogni giorno le estenuanti prove di dare vita, a sinistra, ad una coalizione diversa dal PD. I temi non mancano: le disuguaglianze che si allargano sempre di più, la povertà che rischia di diventare miseria di strati sempre più ampi della popolazione, la minaccia ambientale fattasi urgentemente concreta, le sorti della scuola e della università, la precarietà diffusasi come un virus, la mancanza di lavoro per tanti giovani soprattutto del sud, eccetera. La lista è lunga e non basterebbe un articolo solo per elencarla. Il PD ha ampiamente dimostrato di non essere all’altezza di affrontare simili problemi; di più: li ignora affaccendato dai giochi interni di potere che raccontano ogni giorno le cronache politiche. E intanto cresce la sfiducia delle persone stanche di non ricevere risposte ai problemi che le assillano quotidianamente. Si diffonde l’idea del tanto peggio tanto meglio, qualcosa almeno accadrà. Prendiamo, a caso, Roma. E’ diventata una città irrappresentabile, nel senso che per descriverla occorrerebbe uno scrittore di fantascienza alla Philip Dick o alla George Orwell. E i cittadini si sono rassegnati a questo calvario quotidiano per recarsi al lavoro o per spostarsi da un punto all’altro della città, in attesa che qualcosa di peggio accadrà.

Qualche giorno fa ho partecipato a una riunione alle Officine Zero, una delle tante fabbriche dismesse, nella zona di Portonaccio. Un tempo in questa fabbrica si riparavano i vagoni letto, fiore all’occhiello delle ferrovie italiane, come sa chi abbia viaggiato su di uno di esso almeno una volta nella sua vita. I treni della TAV hanno reso inutile questo glorioso esercizio e un giorno sono stati letteralmente tagliati i binari che dalla stazione Tiburtina portavano a questi capannoni, lasciando morire, oltre gli impianti, una sapienza di lavoro costituita da tappezzieri, meccanici, elettricisti, falegnami. Le tracce di questa sapienza sono state raccolte da un gruppo di giovani che hanno creato un virtuoso contesto di lavoro che ospita abili espulsi dal lavoro e giovani che tentano, in un mare di difficoltà, di ripristinare un ciclo produttivo moderno. Insomma, una visione del mondo diversa. Invitati a visitare gli impianti, erano arrivate illustre personalità istituzionali che hanno, come don Abbondio, parlato in un gergo incomprensibile dei tanti problemi istituzionali che si sarebbero dovuti affrontare. Ho pensato che se una cosa del genere fosse successa in un paese liberale qualche avveduto manager avrebbe valorizzato questa esperienza cogliendone gli aspetti innovativi. Di cose così ce ne sono molte in città, ignorate dalla politica ufficiale che, se mai se ne interessa, è solo per destinare aree come questa al prossimo centro commerciale.

Ho citato questo caso solo per dimostrare come la politica ufficiale distrugge quotidianamente risorse, occasioni di lavoro, saperi, inseguendo vanamente quel modello di crescita che ci ha trascinato in questa crisi, senza nemmeno curiosità per quelle esperienze innovative che potrebbero fornire una risposta al tema del lavoro e della innovazione (vera). Qui la distanza tra la realtà e la visione dei nostri governanti si fa abissale: non sanno vedere nulla che non ha a che spartire con le loro faccende di potere, chiusi e ciechi all’interno del Palazzo. Che altro si aspetta da una sinistra (quella impropriamente rappresentata dal PD) che non è capace di vedere quanto di innovativo si muove, nella più assoluta solitudine, nella nostra società e che lancia segnali inascoltati di nuove modalità di lavoro, nuove forme di socialità, nuovi modi di stare insieme?

Mi piacerebbe, è questa l’ingenuità, che venisse finalmente redatto un programma di pochi punti da parte della sinistra non PD nelle sue varie forme, per liberare le persone dal vincolo asfissiante del “questo è l’unico possibile mondo che ci è consentito” e restituire loro fiducia in se stesse e nel futuro che ci è stato espropriato. E’ possibile? Alle elezioni prossime non vorrei ritrovarmi a votare per il meno peggio, come spesso ho fatto insieme a tanti compagni. Il giorno delle elezioni vorrei uscire di casa sorridendo: questa volta so chi, e cosa, votare.

La contestazione ecologica, la protesta in difesa dei diritti fondamentali, quelli di essere circondati dalla natura incontaminata, da acque pulite, di respirare aria senza veleni, di acquistare cibi sani e sicuri ... (segue)

La contestazione ecologica, la protesta in difesa dei diritti fondamentali, quelli di essere circondati dalla natura incontaminata, da acque pulite, di respirare aria senza veleni, di acquistare cibi sani e sicuri, vede contrapposti vari soggetti che chiamerei, schematizzando come segue.

Ci sono gli inquinatori (soggetti che privano altre persone di tali diritti nel nome, come dice Papa Francesco, del “dio denaro”, della “logica del profitto”); gli inquinati, coloro che sono privati dei loro diritti; lo “stato”, nelle sue forme di amministratori e autorità locali o nazionali, che dovrebbe, se gli stesse a cuore il “bonum publicum”, difendere gli inquinati ma che spesso strizza un occhio agli inquinatori; e infine chi protesta per difendere i diritti, propri o quelli di altri, alcuni dei quali non sanno neanche di esserne privati --- e spesso riesce nel suo intento.

Negli anni settanta i fabbricanti di preparati per lavare (gli inquinatori) hanno scoperto che, addizionando ai loro prodotti dei fosfati, il lavaggio riusciva meglio e loro riuscivano a vendere più prodotti e a guadagnare di più. I fosfati finivano con le acque di lavaggio nelle fogne e poi nel mare; dopo alcuni anni la concentrazione nell’Alto Adriatico dei fosfati provenienti dalle fogne delle città della Valle Padana era così elevata da nutrire e far moltiplicare le alghe che privavano di ossigeno l’acqua marina e facevano morire i pesci. I turisti venivano così privati del diritto di fare il bagno in acque trasparenti e abbandonavano la Romagna, i pescatori venivano privati del diritto di trarre un salario dalla pesca perché non c’erano più pesci. Lo stato è rimasto silenzioso e distratto fino a che non sono intervenuti coloro che hanno protestato, persone che non erano né turisti né pescatori e che parlavano “nel nome del mare” e del diritto di tutti ad averlo pulito.

Come spesso capita, alcuni volonterosi “scienziati” cercavano di dimostrare che il fosforo non “faceva male” al mare, ma alla fine la difesa dei diritti è prevalsa. I contestatori ottennero, nelle piazze e in Parlamento, delle leggi che imponevano ai fabbricanti di aggiungere meno fosfati ai loro preparati per lavare: le fabbriche hanno cambiato la composizione dei loro prodotti, le massaie hanno potuto lavare ugualmente bene, l’invasione di alghe nel mare è scomparsa, i pesci sono tornati e i pescatori hanno ripreso a pescare.

Questa è una delle battaglie, vinte, ricordate in un recente libro di Michele Boato, Quelli delle cause vinte, Mestre, Libri di Gaia, 2017. Un’altra delle battaglie aveva lo scopo di fermare la diffusione della plastica inquinante in una delle sue forme più invadenti, quella dei molti miliardi di sacchetti per la spesa che ogni anno finiscono nell’ambiente in Italia. Comodissimi per trasportare la spesa dal negozio alla casa, dopo meno di un’ora di vita vengono buttati via e sono fonti di fumi inquinanti se bruciati negli inceneritori, restano indistruttibili se finiscono nei fiumi, sul terreno o nel mare. Già trenta anni fa è nato un movimento di protesta di ambientalisti e di cittadini che hanno chiesto la loro eliminazione o almeno delle azioni per scoraggiarne e diminuirne l’uso. Vincendo la dura opposizione dei venditori di plastica e di sacchetti, finalmente la protesta ha ottenuto dal Parlamento una legge che imponeva una imposta che ne faceva aumentare il prezzo nei negozi; così i consumatori sarebbero stati indotti ad usarne di meno o a riutilizzare quelli già acquistati o ad usare sacchetti duraturi.

La legge prevedeva che fossero esentati dall’imposta gli shoppers “biodegradabili”, un termine già allora tutt’altro che chiaro. Subito alcuni furbastri fabbricanti inquinatori riuscirono a far certificare, da compiacenti laboratori, come biodegradabili sacchetti che non lo erano affatto. Finalmente la protesta è almeno riuscita ad ottenere che gli shoppers in commercio siano più leggeri e “contengano” meno plastica, almeno un po’ decomponibile col tempo, pur auspicando ancora la diminuzione del loro uso e l’uso di sacchetti di tela a vita lunga o almeno che i sacchetti usati siano impiegati per la raccolta dei rifiuti.

Ma non sempre coloro che, nel nome del profitto e dei propri affari, impediscono ad altri soggetti di godere dei loro diritti, sono veri e propri inquinatori. Talvolta sono privati, come quelli che si propongono, per soldi, di permettere ai turisti di raggiungere le vette delle montagne o di sciare, cose di per se lodevoli, con mezzi e strutture che comportano il taglio dei boschi, la modificazione dei versanti, l’alterazione di delicati ecosistemi. O quelli che costruiscono strutture turistiche lungo le coste, beni collettivi per eccellenza, o alterando delicate zone naturalistiche con il compiacente silenzio delle autorità locali.

Il libro di Boato racconta, anche con testimonianze dirette, le molte imprese dannose o abusive che sono state fermate grazie alla mobilitazione di associazioni ambientaliste e naturalistiche e della parte responsabile della popolazione locale. Talvolta, infine, sono le stesse amministrazioni pubbliche che, facendo credere di risolvere problemi di pubblica utilità - smaltimento dei rifiuti, approvvigionamento di energia - lo fanno con soluzioni sbagliate e inquinanti, quelle più profittevoli per potenti interessi finanziari privati. Così sono proprio alcuni amministratori pubblici che sostengono la necessità di smaltire, nei loro territori, i rifiuti mediante inceneritori, studiati per far guadagnare i gestori degli inceneritori stessi, operazioni ecologicamente e economicamente dannose perché comportano la distruzione di materiali che potrebbero essere riciclati, anzi con la creazione di nuovi posti di lavoro.

La protesta ha messo in evidenza che gli inceneritori producono fumi e ceneri nocivi per le persone, l’agricoltura e l’ambiente naturale ed è riuscita a fermare alcune sconsiderate imprese. Gli inquinatori speculano anche con le fonti di energia rinnovabili, di per se auspicabili se ottenute nel rispetto dell’ambiente. Invece si è assistito alla diffusione di centrali eoliche o solari che deturpano il paesaggio, collocate dove astuti proprietari hanno affittato i loro terreni per godere degli incentivi statali; alla fabbricazione di biocarburanti ottenuti consumando prodotti agricoli sottratti all’alimentazione umana e con processi inquinanti.

Un capitolo del libro è dedicato alle lotte contro quegli “inquinatori” che, alterando e manipolando gli alimenti con le frodi, compromettono il diritto dei cittadini al cibo sicuro e nutriente. Un tema al quale Michele Boato aveva già dedicato un prezioso libro: Dalla parte dei consumatori. Anche qui abili frodatori sono riusciti, nel corso di oltre mezzo secolo, a sfuggire alle leggi italiane ed europee che stabiliscono norme perché gli alimenti siano sicuri e genuini. Il controllo della sicurezza è affidato a laboratori di analisi che sono costretti a elaborare sempre nuovi metodi di analisi per svelare frodi sempre più raffinate che approfittano dei commerci, resi possibili dalla globalizzazione, per importare prodotti agricoli o alimenti poco genuini.

Ma c’è un altro diritto umano fondamentale che è sempre in pericolo, compromesso adesso in maniera sempre più grave dalla diffusione degli strumenti resi possibili dalla scoperta della fissione del nucleo atomico: il diritto alla pace e ad un futuro meno radioattivo. Anche la protesta contro le armi nucleari e le centrali nucleari ha visto impegnati i protagonisti del libro di Boato, che sono riusciti a far cancellare gli assurdi programmi nucleari governativi degli anni settanta e ottanta, e a ostacolare l’invadenza di armi nucleari americane nel nostro territorio. Bombe e strutture militari nucleari americane che sventuratamente fanno dell’Italia, insieme a Germania, Belgio, Olanda, Turchia, un paese semi-nucleare al fianco dei nove paesi dotati di bombe nucleari.

Purtroppo per questa fedeltà alla NATO il governo italiano si è rifiutato di aderire al recente Trattato per il Bando totale delle Armi Nucleari, firmato di recente da molti paesi membri delle Nazioni Unite e addirittura già ratificato per prima dalla Santa Sede. Una iniziativa per cui i promotori hanno ricevuto quest’anno il premio Nobel per la Pace.

Il libro Quelli delle cause vinte offre una ventata di speranza nel futuro, necessaria in un paese spesso pigro e disincantato nel rivendicare i propri diritti. Con impegno e fatica è possibile correggere molte storture della nostra società, ma per vincere non servono le chiacchiere o i salotti televisivi. Occorre, lo ricorda l’autore, l’umiltà di andare in mezzo alla gente, ascoltare le persone, aprirgli gli occhi, spiegargli in quale modo sono violati i loro diritti, aiutarle a riconoscere “chi è il nemico”. Il libro invita a mettere in pratica, con coraggio, il messaggio lanciato anni fa da Edward Thompson: “Protest and survive”, ”Protestate se volete sopravvivere”. E alla fine (spesso) si vince.

Quando sbarchi all'aeroporto di Berlino-Schoenefeld, i chilometrici e scomodi corridoi ti accolgono con manifesti cubitali che reclamizzano le bellezze di Potsdam, le terrazze e i padiglioni dei suoi parchi, le sale magnifiche dei suoi palazzi (segue).

Quando sbarchi all'aeroporto di Berlino-Schoenefeld, i chilometrici e scomodi corridoi ti accolgono con manifesti cubitali che reclamizzano le bellezze di Potsdam, le terrazze e i padiglioni dei suoi parchi, le sale magnifiche dei suoi palazzi. Ma Potsdam, per chi vi arrivi dalla capitale oltrepassando il Ponte delle Spie o in tram costeggiando il Wannsee, non è solo il favoloso castello Sanssouci di Federico II di Prussia (1712-1786), le pagode cinesi e la memoria di Voltaire; non è nemmeno solo il castello di Cecilienhof, dove nell'estate del 1945 Stalin, Truman e il subentrato Attlee si riunirono per l'ultima volta a disegnare il futuro dell'Europa. Potsdam è anche una città vera, piccolo ma importante capoluogo del Brandeburgo, una città antica della quale i palazzoni di stampo sovietico denunciano il passato di avamposto della Repubblica Democratica Tedesca (1949-1990).

Impossibile, per esempio, non vedere da lontano l'alta mole dell'hotel Mercure, che al tempo della DDR si chiamava Interhotel e rappresentava il meglio degli alberghi dell'est: ebbene, il Mercure - finito nelle mani della catena francese, e dunque non nella disponibilità del Comune - pare oggi l'unico edificio provvisoriamente al riparo dalla furia iconoclasta intesa a "riqualificare" il centro città. "Riqualificare" vuol dire, in primo luogo, rimuovere le tracce del passato recente, specialmente quello socialista, anche a costo di ricreare dei falsi architettonici maestosi, e riallacciarsi d'emblée al periodo della grandeur prussiana. È qui che un'operazione in apparenza solo urbanistica ("Genuinamente di qui. Impulsi per una città che cresce" è lo slogan sui cartelloni) assume una caratura ideologica.

In Germania, il problema è naturalmente di più vasto respiro: il Paese gestisce ancora con imbarazzo tanto l'eredità architettonica nazista (si pensi al difficile recupero dell'enorme area dei raduni di Norimberga, più volte in passato minacciata di distruzione e ancor oggi in preda a un incerto futuro) quanto quella comunista (il parco Treptow di Berlino, ancora regolarmente visitato dai capi di stato russi, mantiene viva tutta la forza propagandistica dell'Unione Sovietica, con slogan e iconografie che ad alcuni - specie a Berlino - potrebbero dar noia).

Ma ora il centro del contendere è la piazza di Potsdam: gravemente danneggiata dalle bombe alleate e dall'artiglieria russa, essa appare ormai tutta nuova fiammante. Su un suo lato, ha riaperto da pochi mesi, in forma di museo, il Palais Barberini, la copia conforme di un edificio che Federico II fece erigere come copia conforme del Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, a Roma (ma c'è chi maligna che il nome fosse da intendere come segreto omaggio a un'amante del sovrano). Passato nella sua storia da residenza reale a sala da concerto a deposito, raso al suolo il 14 aprile del 1945, il Palais è stato appena ricostruito ex novo e riportato agli antichi fasti da un mecenate privato, l'imprenditore del software Hasso Plattner (capo della SAP, l'impresa europea più grande del settore), il quale vi ha allocato la propria collezione d'arte, promettendo di offrire, a rotazione, mostre di alto profilo; la prima, che va dagli Impressionisti a Nolde, è senz'altro notevole. La facciata del Palais dialoga pertanto adesso sia con il barocco castello cittadino (anch'esso ricostruito dal nulla, grazie anche ai soldi dello stesso Plattner, e riaperto nel 2014 per ospitare il Parlamento del Land del Brandeburgo), sia con il vecchio Municipio in stile palladiano, sia con la grande chiesa neoclassica di San Nicola che ha proprio dinanzi, eretta negli anni '30 dell'Ottocento in uno stile più degno di un tempio greco che di uno cristiano.

Una vista della piazza, a destra l'edificio della Fachhochschule
(foto dell'autore)

Una veduta della piazza con Palais Barberini in fronte
(foto dell'autore)

In questo magniloquente concento di antiche forme, pochi forse avranno cuore di ricordare che proprio in San Nicola e in questa piazza il 21 marzo del '33 si tenne, nell'ambito della solenne presentazione ufficiale del nuovo Parlamento al presidente Hindenburg (il famigerato "Potsdamer Tag"), la messa che consacrò l'alleanza tra la Chiesa luterana e il potere nazista appena insediato (una splendida mostra su Lutero e il Nazismo, alla Topographie des Terrors di Berlino, ne offre la documentazione fotografica). "Potsdam costruisce una Sinagoga" risponde oggi un grande manifesto che campeggia 200 metri più in là, dando sostanza di slogan all'auspicio della locale comunità ebraica; ma da 6 anni ancora non si sa bene se, quando e dove tale sinagoga dovrebbe sorgere.

Oggi la memoria che la borghesia cittadina (e di riflesso il Comune) vuole rimuovere, è anzitutto quella della DDR; il rischio da evitare, nella logica celebrativa del potere unitario, è quello dell'Ostalgie, la nostalgia per il vituperato regime della Germania Est. E allora l'ultimo superstite, l'intruso da eliminare, è l'edificio modernista della Fachhochschule (Istituto superiore di formazione professionale) che ancora occupa l'angolo nord della piazza, con le sue finestre strette e le colonne snelle, gli interni in legno e le sobrie decorazioni sulle porte, molto più nuovo e smaliziato dell'ideologia che lo produsse (e infatti, a rigore, è molto simile al Centro Pastorale Cattolico costruito nel '62 da Mies van der Rohe a Des Moines in Iowa). Esempio straordinario dell'architettura dei primi anni '70, tirato su come funzionale polo di aggregazione per gli studenti, ospita oggi qualche ufficio residuo, centri d'ascolto per famiglie, il progetto "Higher Education for Refugees", una galleria d'arte; ma, délabré e provato dal tempo, sembra in larga parte votato all'abbandono.

L'edificio della Fachhochschule (foto dell'autore)
La cupola della chiesa di San Nicola e in primo piano un
dettaglio della facciata del'edificio Fachhochschule
(foto dell'autore)

L'idea di raderlo al suolo per ricostruirvi case in stile anticato, espungendo da una piazza composita l'eredità più recente e apparentemente più scomoda, non piace a tutti: 15mila cittadini hanno firmato una petizione contro l'abbattimento degli edifici di epoca comunista; sul sito "potsdamermitteneudenken.de" si raccolgono idee per trasformare la Fachhochschule in uno spazio di condivisione e di ricerca; i centri sociali più vivi organizzano una resistenza, denunciando tra l'altro l'oscenità delle architetture "di sostituzione" (il brutto cubo grigio del Bildungsforum eretto di fresco in piazza dell'Unità, a pochi metri; la triste stazione ferroviaria). Ma lo spirito dei tempi va in senso contrario. Sfuggita ai fantasmi del XX secolo (il Passo del secolo di W. Mattheuer, nel cortile del Palais Barberini, mostra un uomo che fa a un tempo il saluto nazista e il pugno chiuso), aleggia di nuovo, prepotente dopo la mega-mostra del centenario (2012), l'ombra di Federico II, le cui spoglie mortali furono traslate proprio a Potsdam nell'agosto del 1991 in una controversa cerimonia notturna alla presenza di Helmut Kohl - all'epoca, un migliaio di contestatori antimilitaristi, che ricordavano l'analogo omaggio di Hitler in quel fatale marzo del '33, erano stati dispersi dalla polizia.

Oggi il culto degli Hohenzollern, come osservano anche i visitatori più distratti di Berlino, presiede al rifacimento ex nihilo del loro castello, proprio dinanzi al Duomo della capitale: un monumentale falso architettonico volto a riempire "come una volta" la defunta piazza Marx-Engels, creata nel 1950 dopo la demolizione del castello vero (danneggiato dalla guerra), e contornata negli anni '70 dal parlamento della DDR, che dopo la caduta del Muro venne prima bonificato dall'amianto e poi - al termine di una sapiente campagna mediatica - definitivamente raso al suolo nel 2008.

Mentre in Italia si congela a tempo indeterminato il disegno di legge sullo Jus soli, Trump è in difficoltà: forse i “dreamer” non verranno deportati. Manifestazioni popolari, contromisure adottate a livello locale e statale, preoccupazioni espresse dalle università e dalle grandi imprese globalizzate stanno affossando la sua iniziativa per cancellare DACA, la misura di protezione dei giovani figli di immigrati introdotta da Obama. Un bell’avvertimento per il governo italiano e, in particolare, per il suo Ministro degli Esteri!

Il presidente americano, con l’usuale feroce cinismo che lo caratterizza, in settembre ha invitato il Congresso ad abolire DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals), il programma adottato durante la presidenza Obama che consentiva a 800.000 giovani, immigrati illegalmente nell’infanzia con la loro famiglia e cresciuti negli USA ma ancora privi di documenti, di vivere, studiare, lavorare, accedere ai servizi sanitari, ottenere la patente di guida, etc. Il programma riguarda i cosiddetti dreamer: i giovani che, grazie a DACA, hanno potuto uscire dall’illegalità, anche se ancora in attesa di una legge per il pieno riconoscimento di cittadinanza (un diritto di cui gode invece chi nasce in America, a differenza dell’Italia). I dreamer sono una frazione insignificante degli 11 milioni di emigrati illegali che vivono e lavorano negli Stati Uniti. Ma anche su di loro Trump ha voluto accanirsi: respingendo i giovani nei paesi di origine delle loro famiglie, si affabulava in campagna elettorale, si sarebbero liberati posti di lavoro e si sarebbe attenuata la disoccupazione per i ‘veri americani’.

Il progetto di abolizione di DACA, pienamente coerente con il programma elettorale e l’evidente accento razzista dell’ideologia presidenziale, ha però già incontrato notevoli ostacoli: e infatti non è ancora stato approvato dal Congresso e, probabilmente, sarà abbandonato.

Sottostanti a questa ennesima probabile sconfitta del presidente ci sono diversi motivi. Il primo, e principale, è rappresentato dall’opposizione manifestata dalla maggioranza della popolazione di molte grandi città: da tutte le cosiddette “città santuario” e, soprattutto, dalle grandi città nelle quali la presenza di dreamer è cospicua - in primis le grandi città californiane dove risiede almeno un quarto degli 800.000 giovani presi di mira e dove la solidarietà espressa nelle molte manifestazioni popolari è stata imponente.

Ci sono poi le contromisure adottate o proposte dalle amministrazioni locali. Ad esempio, San Francisco, prima fra le città santuario - che sono ormai centinaia in tutto il paese - ha immediatamente cancellato l’accesso al suo sistema informativo per tutti i dati relativi agli immigrati illegali residenti. Il Consiglio comunale di Los Angeles, una città abitata per il 46% da popolazione di origine ispanica e che ospita più del 30% dei dreamer della California, sta discutendo su come costituirsi in città santuario proprio in risposta all’abolizione di DACA.
Fra le proposte in discussione: fare della città una “Dreamer Arrest-Free Zone”(un luogo nel quale è proibito arrestare i dreamer); preparazione di una lettera personale di presentazione scritta da avvocati incaricati dalla amministrazione e da esibire in occasione di qualsiasi contatto dei giovani DACA con gli agenti federali dell’ICE (United States Immigration and Customs Enforcement); sostegno legale gratuito e, come a San Francisco, blindatura delle informazioni sui residenti illegali.

Anche gli Stati stanno reagendo: già 15 hanno avviato un procedimento legale contro Trump e, in particolare, alcuni si sono recentemente autoproclamati “Stati Santuario”. Di nuovo, lo Stato della California è in prima linea: il Parlamento ha approvato un disegno di legge che vieta di fornire informazioni sullo status degli immigrati e blocca l’accesso ai database statali; e il 13 settembre è stata adottata la legge AB-291 (Housing: immigration) che vieta ai proprietari di case in affitto di fornire informazioni sui loro inquilini alle autorità federali che si occupano di immigrazione, e di sottoporre gli inquilini a ricatti e intimidazioni: pena multe elevatissime.
Ma l'opposizione nei confronti delle politiche disumane di Trump sta diventando bipartisan: anche il governatore repubblicano dello stato dell'Illinois ha approvato recentemente un disegno di legge che protegge dal rischio di venire incarcerati semplicemente perchè immigrati.

E infine ci sono le università e i business leader. Di nuovo, in particolare in California, uno stato che deve la sua formidabile ricchezza alla presenza di università di eccellenza in campo scientifico e tecnologico che sfornano laureati di altissima competenza, a un settore industriale molto avanzato e a un mercato del lavoro flessibile - è il modello ‘Silicon Valley’, fondato sulla presenza non soltanto di un vasto bacino di laureati di qualità, ma anche di manodopera a basso costo e non sindacalizzata costituita prevalentemente da latinos -, le università si sono tutte schierate a sostegno di DACA. La presidente delle università della California ha denunciato una misura che “distruggerebbe il futuro di alcuni dei più brillanti studenti del paese” - migliaia di studenti universitari e di laureati – e annunciato il rafforzamento delle misure di sostegno economico e protezione degli studenti. Infine, le grandi imprese globalizzate high tech si sono tutte schierate contro l’abolizione di DACA: in particolare, apponendo la loro firma a una lettera inviata a Trump dai CEO delle 400 più importanti imprese americane.

Non sono dunque soltanto la grande solidarietà “dal basso” e la risposta a tutela dei diritti di cittadinanza da parte di alcune amministrazioni locali e statali, ma anche la forte pressione esercitata dalle grandi imprese globalizzate ad alto contenuto di conoscenza a militare a favore dell’apertura e della multietnicità.

Trump sarà costretto a rimangiarsi il suo progetto? Pare di sì, anche se la promessa di "liberarsi degli immigrati illegali" fatta in campagna elettorale gli ha garantito il voto della destra xenofoba e dei lavoratori dei settori dell’industria più tradizionale e in inesorabile declino: e i suoi elettori più entusiasti sono delusi e lo stanno ricoprendo di insulti.

Per arginare i danni di immagine prodotti dalla ennesima sconfitta, il presidente sembra orientato a rilanciare, con il solito linguaggio sopra le righe, il blocco delle opportunità migratorie annunciando un “massive border security upgrade” (un imponente potenziamento della protezione dei confini) e riproponendo come priorità il progetto del famigerato muro che dovrebbe essere costruito lungo tutto il confine fra gli Stati Uniti e il Messico. Ma anche la costruzione del muro, malgrado l'inquietante valore simbolico che gli è stato attribuito dalla amministrazione Trump, non sarà facile. Perché, rapidamente abbandonata la provocatoria, e assurda, pretesa di farlo pagare al Messico, dovrebbe essere il governo americano a finanziarlo con costi elevatissimi. E anche perché si dovrà affrontare un ulteriore, e spinoso, problema: soltanto un terzo dei terreni coinvolti nel progetto di un muro lungo 2.000 miglia è attualmente di proprietà pubblica. L’esproprio dei terreni di proprietà privata che si renderebbe necessario per poterlo realizzare sta già suscitando molte opposizioni (in particolare in Texas, da parte dei proprietari di grandi aziende agricole e campi da golf - questi ultimi, fra l'altro, costituiscono una lucrosa attività anche del presidente in carica e della sua famiglia!): una decisione che sembra incompatibile con il programma di un governo che fa della tutela della proprietà privata un dogma e che potrebbe di nuovo scontentare il suo elettorato.

È una vicenda, quella dei numerosi fallimenti di un presidente razzista, impreparato e narcisista, che dimostra come la negazione dei diritti di cittadinanza nei confronti di coloro che hanno ormai profonde radici nel paese nel quale vivono, studiano e lavorano non paga.

È un segnale importante anche per il nostro paese dove ieri, 26 febbraio, l’ineffabile Ministro degli Esteri ha dichiarato che occorre congelare il disegno di legge sullo ius soli che, è bene ricordarlo, riguarda anche i figli nati in Italia da genitori immigrati, e non soltanto i dreamer come negli Stati Uniti. Come ci ha insegnato Hanna Arendt: «il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa»: umanità alla quale non sembra appartenere Angelino Alfano.

(segue)

Dopo oltre undici anni dall’articolo Abusivismo o no, questa è l’urbanistica italiana [1], conseguente a un intervento di De Lucia contro chi risuscitava l’«abusivismo di necessità», ora ritorno non alla brughiera come Clym ma all’ugualmente desolato campo dell’incolto casalingo. Qualcuno, mentre l’edilizia, appunto abusiva e no, continua a crescere inconcepibilmente in ogni luogo, ci ha investito nuovamente con la falsificazione estrema dell’abusivismo giustificato da un supposto impellente bisogno di povera gente.

Brevi note qua e là

1.- Da un buon dizionario: «Abusione», termine letterario dismesso, sta per «abuso», ma più risonante. Infatti suona come qualcosa di gonfio, abbuffante. Propongo di inserirne la propensione fra le distinzioni delle classi italiane per le parti di esse che, diverse, si uguagliano per vari conformismi e soprattutto per tendenza a fare dell’illecito o dello smoderato una norma di comportamento: nel modo di operare contrario alle leggi e alla disciplina, specialmente nel campo edilizio.

2.- Abusivus è il termine del tardo latino (XV secolo) per indicare un fatto o un detto impiegati senza averne il diritto. «Abusivismo» è voce moderna; sempre secondo i dizionari sarebbe apparsa solo nel 1961. Ma Pier Paolo Pasolini nel suo viaggio del 1959 lungo le coste d’Italia da Ventimiglia a Trieste aveva già notato i segni di un imminente sconvolgimento del territorio a causa di una continua tempesta edilizia scoppiata dal dopoguerra. Pochi anni dopo il film Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963) sancirà la già avvenuta rovina di Napoli attraverso una sfrenata anarchica speculazione edilizia. Appena tre anni e dovremo assistere sbalorditi alla frana di Agrigento, nuova prefazione al romanzo nero del territorio italiano in centomila pagine.

3.- Ogni processo economico sociale aveva fatto la propria parte. La linea rispettosa delle leggi ma non della storia e della cultura produceva un’extra large urbanistica, brutale, volta a sostenere una possibilità edificatoria di cinque, dieci volte superiore a quella di una previsione attendibile basata sulla ricerca scientifica storico-sociale. Intanto, ben prima della novità terminologica anzi con un anticipo di oltre tre lustri, la curva irriguardosa di leggi, norme, buone consuetudini fondava l’anti-urbanistica privata ma anche scandalosamente pubblica indirizzata, fuori del quadro legale, alla decuplicazione della rendita fondiaria. L’accompagnava un’edilizia mala e brutta capace di mobilitare il profitto verso altezze sconosciute ai pur banditeschi impresari di casacce per operai delle Manchester o Londre descritte da Marx-Engels.

4.- Subito dal dopoguerra, specie nelle città vittime dei bombardamenti inglesi e americani, l’urgenza della ricostruzione, in ambito di concessioni o autorizzazioni già esse dotate di ricchi premi di cubatura su basi di normative pasticciate, provocò un caratteristico abusivismo a metà mediante l’«interpretazione». C’erano maestri di questa insidiosa maniera, sicché ulteriori esorbitanti maggiorazioni delle superfici e delle volumetrie erano accettate dall’ente pubblico (insieme alle spaventose brutture).

5.- A Milano la ricostruzione, tempo e luogo della speranza degli architetti razionalisti per realizzare un’architettura sociale nuova, in questo senso fallì. La fine dell’anno 1948 celebra tre anni di attività edilizia dominata da imprenditori e impresari del tutto disinteressati agli scopi sociali ed estetici dell’architettura, non meno cinici dei costruttori detti al punto 3. Sarà Piero Bottoni nella rivista Comunità di maggio-giugno dell’anno successivo a lamentare che «la ricostruzione basata essenzialmente su scopi speculativi ha ripetuto ingigantendoli tutti gli errori delle architetture precedenti». Intanto il decano Enrico Griffini già nel fascicolo di dicembre 1948 di «Edilizia moderna (nn. 40-41-42) aveva attaccato duramente gli abusi nei sopralzi anche totali di edifici risparmiati dalla guerra «...conseguenza di decadenza morale e civile…». E concludeva: «tutto il problema edilizio è oggi deformato dalla speculazione con abusi di ogni genere a dispetto delle Sovrintendenze, delle leggi, dei decreti… Domina la norma del ‘fatto compiuto’» [2].

6.- Il grande quadro urbanistico edilizio di Milano, all’epoca, è uno specchio di abusivismo generalizzato giacché spesso nemmeno la preesistenza di edifici monumentali teoricamente intoccabili fermava il caterpillar demolitore. Fra una miriadi di casi ricordiamo lo scandalo della distruzione di San Giovanni in Conca, chiesa medievale, per far spazio a colossi di uffici incardinati sul nuovo stradone, ultimo tratto della infida “Racchetta” (la maltrattata e deformata facciata della chiesa fu rimontata altrove!). Antonio Cederna, sconfitto da poteri avvinti troppo forti, non perdonerà mai a Milano tale peccato mortale. Lui che, lo vedemmo increduli, riuscì a salvare la Chiesa borromeica di San Raffaele, vicina al Duomo, dal fiero pasto come dell’Ugolino cucinato da Municipio e Curia in onore della Rinascente, che voleva mangiarsela. Una prospettiva di «Abusione» elevata al cubo.

7.- La logica del fatto compiuto specie nei sopralzi postbellici fuorilegge denunciati da Griffini provvide a generare la spirale di uno specifico dna milanese che continuò a svolgersi senza interruzione fino a fissarlo come in acciaio, imprimendo una violenta malformazione del volto urbano più rovinosa che in ogni altra città stante la buona qualità dell’architettura urbana. Come e più che a Roma venne a erigersi al di sopra della gronda, senza opposizioni istituzionali e senza avvertimento dei cittadini a cui pur capitava di muoversi col naso all’aria, un’altra città residenziale a pezzi e bocconi. Sregolata ma completa delle dotazioni necessarie per vivere bene (anche giardini, serre, boschetti), noncurante quando la esibizione di sé eccedesse il troppo. Il milanese, quel tipo di milanese (e il commuter milanesizzato) si sapeva che tutt’al più avrebbe mugugnato, gran filosofo dei fatti suoi.

8.- Così non poteva che accadere, al tempo di una retrograda «modernizzazione», dopo il periodo classico delle sanatorie di tutti gli abusi edilizi (e delle evasioni fiscali) comprendenti la città soprana postbellica e successiva, la festa della costruzione di fertili cubature oltre gronda secondo specifica legislazione regionale, consenziente il Comune. Siamo nell’ultimo decennio del secolo breve (o lungo?) e scatta la normativa per gli «interventi finalizzati al recupero dei sottotetti». Che man mano diventerà sempre più larga, più generosa verso progettisti e costruttori, lontanissima dallo spunto originario fino a confondersi con un progetto globale di sopralzare la città senza guardare in faccia a nessuna architettura, fosse anche quella magnifica di palazzi storici in strade perfette per disegno urbanistico. La giustificazione più barbina: quella di evitare ingombro edilizio sul terreno libero (solito slogan menzognero «no al consumo di suolo»), intanto che un’impressionante espansione calcolabile in milioni di metri cubi spesso in forma di grattacielo, cominciata per grazia del sindaco Gabriele Albertini (a capo di un centro destra dal 1997 al 2006), era proceduta e procede di pari passo pesante con la deturpazione della città storica.

9.- In eddyburg abbiamo attaccato questa maniera, un secondo «rito ambrosiano» non meno difficile da contrastare, a cominciare dall’inizio del millennio. Primo articolo nel 2003, seguito da un secondo l’anno seguente [3]; poi diversi interventi ogni volta che la permissione relativa ai sottotetti diventava tutt’altro, per esempio applicazione alle case con la copertura piana e, per chiudere una fase piena di riconosciute ambiguità e contorcimenti giuridici, spiattellamento della verità: vocazione dell’autorità ad accettare progetti di «innalzamento urbano» (se così si può dire) per un certo numero di piani in qualsiasi edificio e qualsiasi altezza abbia. La linea del cielo milanese cambia tuttora ogni giorno.

10.- L’abusione provocatoria. Ne consideriamo emblema la vicenda, raccontata oltre dieci anni fa, di un edificio milanese in una strada del super-centro, via San Paolo. Sei piani esistenti, cresciuti rapidamente a otto senza che il Comune intervenisse. Il quotidiano la Repubblica svelò lo scandalo che valse cinque milioni di guadagno netto. Quei due non furono demoliti. Una multa? Chissà [4].

11.- Unico abusivismo di necessità autentico eppure non propriamente un abuso, quello del dopoguerra e per tutti gli anni Cinquanta nei comuni dell’hinterland milanese. Chi non ricorda le Coree? I sindaci regolarizzavano gli edifici in base a progetti minimi «di sanatoria» presentati da geometri locali; ma alcuni sorsero con progetti, pur poverissimi, corredati di licenza edilizia regolare e tempestiva. È il momento di rileggere o leggere per la prima volta Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati. Magari aggiungendo la ricerca «Immigrazione e habitat nell’hinterland milanese 1948-1960» [5].

[1] In eddyburg, 10 maggio 2006. Poi in L’opinione contraria. Articoli in eddyburg.it. Giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2006, pp.157-163.
[2] Vedi, per gl’interventi di Bottoni e di Griffini, L. Meneghetti, Note (e meno note) cronologiche sulla ricostruzione a Milano, dedicate agli studenti nel cinquantenario della sua conclusione (1948), in Quaderni di Architettura, 22, settembre 2000, p. 77 e p. 81-82.
[3] L. Meneghetti, La distruzione della linea del cielo milanese, in eddyburg 10 dicembre 2003, poi in Parole in rete. Interventi in eddyburg giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005; Idem, 2, in eddyburg 17 giugno e idem, p.119.
[4] Dettagli in L. Meneghetti, Nuovi abusi vecchio abusivismo, in eddyburg, 2 novembre 2008, poi in Promemoria di urbanistica, architettura, politica e altre cose, Maggiolo, Santarcangelo di Romagna 2010, p. 35.
[5] F. Alasia / D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli, Milano 1960. Seconda edizione accresciuta, 1975. – L. Meneghetti, Immigrazione e habitat nell’hinterland milanese 1948-1960, clup, Milano 1984. Collaboratori alle indagini in luogo, L. Aloi e M. Migliavacca.

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Non sono passati molti mesi, era il marzo di quest’anno, quando i Della Valle presentavano al pubblico il rendering del nuovo stadio di Firenze, suscitando gli incontenibili entusiasmi della stampa locale: “Tokyo in confronto sembrerà Sorgane”, mentre i turisti “visiteranno la periferia nord fiorentina con lo stesso sguardo sognante che indossano (sic) quando passano su Ponte Vecchio”, solleticati dall’aria “molto sexy” di questa arena. “Il nuovo stadio della città, non avrà nulla da invidiare a quelli di Monaco, Bilbao, Bordeaux, Nizza” E ancora: le “morbide volute” dello stadio gareggeranno con “le guglie aguzze” del Palazzo di Giustizia “in una gara ideale di architetture contemporanee” “Costruiremo un tempio sopraelevato che ci permetterà di superare i nostri limiti”, sarà uno stadio da Rinascimento”[1].

Presentato il rendering dello stadio (non un progetto, si badi bene) già si stappava lo champagne per l’inaugurazione. Vi era ed è, beninteso qualche piccolo problema da risolvere. Lo stadio o meglio, la “Cittadella Viola”, con outlet, alberghi e varie attività commerciali, secondo l’accordo tra i Della Valle e l’amministrazione fiorentina, dovrebbe sorgere su un’area di circa 30-40 ettari attualmente occupata da Mercafir, i mercati all’ingrosso della città; questi, a loro volta, dovrebbero trasferirsi sulla vicina area di Castello, di proprietà Unipol, che nel corso dei decenni ha visto declassare le proprie destinazioni da centro di ricerca scientifica, a polo espositivo, a quartiere residenziale e infine, appunto a mercato.

Una bazzecola, per il Sindaco Nardella e l’Assessore all’urbanistica Perra che ne hanno già annunciato l’inaugurazione per il 2021. Una bazzecola che tuttavia richiede la demolizione, la bonifica e lo smaltimento di milioni di metri cubi di costruzioni esistenti, l’acquisto dell’area di Unipol e la costruzione del nuovo mercato all’ingrosso. Chi paga tutto ciò? Non certamente i commercianti, propensi a trasferirsi in strutture più moderne purché a costi zero. Non certamente Unipol, disposta a vendere i propri inappetibili terreni, ma non a regalarli. In teoria, tutti i costi dovrebbero essere sostenuti dai Della Valle che, tuttavia, si imbarcherebbero in un’operazione senza alcun senso economico.

Ma non si tratta solo della non fondatezza economica dell’operazione. Se questa andasse in porto, sulla periferia nord ovest di Firenze, nel delicato innesto con la piana, sarebbero situati la Cittadella Viola, con stadio, mega-outlet e attività varie, il nuovo Mercafir, il nuovo aeroporto, il Polo universitario, il costruendo inceneritore di Case Passerini, più le attività e i supermercati esistenti o di progetto, ognuno di questi grande attrattore di traffico; tutte funzioni gravanti sul principale ingresso dall’area metropolitana verso Firenze, il nodo di Peretola già attualmente e sistematicamente congestionato.

Invece di decentrare nell’area metropolitana si vuole accentrare sul capoluogo, creando una situazione infrastrutturale non risolvibile; aggravata in futuro dall’aumento del traffico in entrata per la realizzazione della terza corsia autostradale, stante il fatto che non può essere aumentata la capacità di assorbimento della viabilità interna della città; uno scenario da incubo, quando tutti gli attrattori entrassero in pieno esercizio, ad esempio, in una domenica di partita in casa. Senza contare l’abnorme concentrazione di attività in un quartiere già critico e di difficile abitabilità. Nessuna persona di buon senso può pensare che uno scenario di questo genere sia praticabile; nessuno, a meno che non sia sprovveduto o in cattiva fede.

Ora, dei Della Valle si può pensare tutto, meno che siano degli sprovveduti. I patron della Fiorentina sanno benissimo che realizzare la Cittadella Viola nell’attuale area Mercafir sarebbe un’operazione assolutamente antieconomica e non gestibile; ma anche il Comune di Firenze dovrebbe essere stato avvertito da qualche tecnico sull’irrealizzabilità dell’operazione. Perché, allora, continua il balletto degli annunci e delle schermaglie? La risposta è che nessuna delle due parti, dopo tanti titoli trionfali su Firenze che riduce Tokio alla stregua della periferia di Sorgane (chi sa se i Giapponesi sanno di cosa si tratta), dopo avere paragonato le forme del nuovo stadio all’ottagono del Battistero, vuole assumersi la responsabilità di rendere palese agli ingenui tifosi che si tratta solo di un bluff, in cui ciascuno cerca di addossare all’altra parte la responsabilità di un fallimento (per fortuna solo) annunciato: i Della Valle che vogliono vendere la Fiorentina, con il pretesto dell’impossibilità di costruire la Cittadella Viola, causa i soliti ostacoli burocratici; il Sindaco Nardella, terrorizzato che venga imputato al Comune di Firenze il fallimento dell’operazione. Fino a quando, inevitabilmente, le carte dovranno essere scoperte.

[1] Cito da Antonio Fiorentino, su La città invisibile, 14 marzo 2017

il manifesto dell’11 agosto 2017, a firma Costantino Cossu, un’intervista a Edoardo Salzano in merito al tentativo in corso di stravolgere il piano paesaggistico regionale... (segue)

il manifesto dell’11 agosto 2017, a firma Costantino Cossu, un’intervista a Edoardo Salzano in merito al tentativo in corso di stravolgere il piano paesaggistico regionale e riaprire il capitolo della urbanizzazione selvaggia delle coste sarde. Come già nel caso di Roma – il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle – anche in Sardegna si tenta di fare carta straccia dell’urbanistica delegando alla Giunta, o al consiglio comunale (come proposta di modifica) la facoltà di concedere autorizzazioni a costruire in deroga al piano, in presenza di “progetti di particolare rilevanza economica e sociale”. Come se non bastasse, si tenta anche di approvare una norma che consentirebbe di “adeguare” attrezzature alberghiere (sempre sulla costa) con aumenti di cubatura così da renderli più adatti alle nuove esigenze turistiche.

Non entro nel merito del problema. Le risposte di Salzano dicono tutto e bene. Leggendole non posso fare a meno di pensare che queste risposte, semplici e radicali al tempo stesso, dovrebbero trovare un posto d’onore nei manuali della nostra disciplina. Un disciplina che gioca sempre più al ribasso. Fatta, nel passato, anche di esempi e storie gloriose, ma che ormai è completamente asservita ai poteri forti dell’interesse economico e diventata nemica proprio di ciò che avrebbe dovuto tutelare: le coste, il paesaggio, i beni ambientali, le città. Essa ha subito una vera e propria mutazione genetica, rinnegando la sua storia di impegno riformista a favore dei più deboli e del loro diritto alla città, per mettersi al servizio dei distruttori di ambiente.
Purtroppo sono sempre di meno le voci di chi, come Salzano, tentano di difenderne le istanze originarie, l’impegno a salvaguardia dei beni comuni, in nome di una presunta modernizzazione che somiglia sempre di più a una furia devastatrice, una vera e propria hybris che sconvolge qualsiasi ragionevolezza.
Nei giorni scorsi è stata ricordata la tragedia avvenuta nella miniera belga di carbone di Marcinelle l’8 agosto 1956, quando i migranti eravamo noi. E’ bene che qualcuno racconti e ricordi delle storie di lavoro e di incidenti nell’ambiente di lavoro in questo tempo in cui sembrano cancellate dal vocabolario l’“odiata” espressione “classe operaia”, che sapeva tanto di comunismo, e la stessa parola “operaio” viene usata il meno possibile, come se gli operai fossero scomparsi in questo mondo così moderno.
La storia della catastrofe di Marcinelle - fu proposta in una vecchia miniserie RAI del 2003, Marcinelle, qualche volta trasmessa da quale televisione privata - è un concentrato di eventi; l’incidente avvenne in una miniera dell’Europa appena uscita dalla seconda guerra mondiale, nella quale il grande flusso del petrolio e del gas naturale era appena all’inizio e il carbone era la principale fonte di energia, così come lo era per tutto il mondo. A dire la verità, con tutti i progressi che ci sono stati, il carbone è ancora oggi il principale combustibile fossile; nel mondo milioni di minatori estraggono, ogni anno, circa settemila milioni di tonnellate di carbone e lignite dalle viscere della terra, risorse nascoste a centinaia e migliaia di metri di profondità. Ogni giorno milioni di persone scendono dalla superficie del suolo nelle strette gallerie sotterranee in cui il nero carbone viene staccato, pezzo per pezzo, dalle pareti della miniera, viene caricato su nastri trasportatori e carrelli e viene poi portato in superficie con gli ascensori.
Il carbone è un materiale fossile nero, relativamente fragile, che genera, durante la frantumazione, polveri che vengono respirate dagli operai, anche se sono muniti di maschere e filtri (agli operai italiani nel Belgio furono dati soltanto dopo l’incendio di Marcinelle) e che causano malattie polmonari dopo pochi anni di lavoro. Il più grande nemico dei minatori è il metano, il “grisou”, un gas infiammabile che è rimasto intrappolato, nel corso di migliaia di secoli, “dentro” i giacimenti sotterranei di carbone e che continua a liberarsi nell’aria delle gallerie a mano a mano che nuove superfici vengono a formarsi con la continua asportazione del carbone.
Per l’illuminazione delle gallerie oggi sono disponibili lampade elettriche, ma nel passato per molti decenni, le uniche lampade disponibili erano lampade a fiamma libera che provocavano esplosioni quando la concentrazione di metano era superiore ad una soglia di sicurezza; soltanto nel 1816, ad opera del grande chimico Humphrey Davy (1778-1829) sono state inventate le lampade di sicurezza da miniera, poi continuamente perfezionate.
Per essere respirabile l’aria delle gallerie, a centinaia di metri di profondità, deve essere continuamente ricambiata; fra cattiva ventilazione, polveri, scarsa illuminazione e fatica fisica, il lavoro dei minatori del carbone è fra quelli più usuranti e pericolosi che ci siano. Rispetto alle condizioni di lavoro delle miniere dell’Ottocento e a quelle descritte nel telefilm, peraltro girato in una vera miniera in Polonia, oggi le condizioni di sicurezza sono un poco migliorate, anche se gli incidenti continuano a verificarsi e comportano un sacrificio di migliaia di vite umane ogni anno, in Cina, Stati Uniti, India, Australia, Russia, Sud Africa, eccetera. Non bisognerebbe dimenticarlo perché l’elettricità che consente di accendere le lampadine, i televisori, le lavatrici, i frigoriferi, prodotta nelle centrali termoelettriche a carbone italiane, è “pagata” dalla fatica di qualche operaio in qualche miniera in qualche parte del mondo; c’è un “contenuto di dolore” in ogni bolletta dell’elettricità.
Erano ancora infami le condizioni di lavoro nelle miniere del Belgio negli anni quaranta e cinquanta del Novecento; in Belgio in quegli anni non c’erano abbastanza minatori e il governo belga strinse con quello italiano, nel marzo e giugno 1946, un accordo con cui l’Italia incoraggiava l’emigrazione nel Belgio di operai per le miniere e in cambio il Belgio assicurava la vendita a prezzi di favore all’Italia, affamata di energia. Merce lavoro in cambio di merce carbone necessaria per la ripresa delle nostre industrie e fabbriche. Negli anni successivi migrarono nel Belgio oltre 50 mila operai (dovevano essere giovani, in buona salute e dovevano restare per almeno un anno nel freddo lontano paese); venivano dalla Sicilia, dove erano state chiuse le miniere di zolfo, dalla Calabria, dalla Puglia, dalle Marche; un anno di lavoro di un operaio italiano nelle miniere del Belgio “valeva” per l’Italia circa una tonnellata di carbone a basso prezzo. Gli operai italiani nel Belgio vivevano in condizioni miserabili, in povere baracche; in questo viaggio della speranza alcuni avevano portato le famiglie, altri avevano portato la struggente nostalgia delle famiglie lontane a cui mandare il povero salario. La condizione degli immigrati era ancora più triste per l’ostilità che la popolazione locale manifestava per questi “stranieri” di lingua e abitudini diverse, che non portavano vantaggi economici; alcuni locali pubblici vietavano l’accesso “ai cani e agli italiani”.
Nella miniera di uno di questi paesini, Marcinelle, vicino Charleroi, avvenne l’incendio e il crollo delle gallerie che è costato la vita a 262 minatori, di cui 136 italiani e che destò, in quel lontano 1956, una enorme impressione in Italia e nel mondo. L’incidente fu provocato dalla arretratezza delle strutture, dalla mancanza di manutenzione, dall’egoismo dei proprietari che avevano già deciso di chiudere la miniera e volevano sfruttare fino all’ultimo le riserve di carbone e il lavoro dei minatori.
Dovremmo interrogarci più spesso sull’ambiente non solo nelle nostre città o nei nostri fiumi, ma anche nelle fabbriche, nei cantieri, nelle miniere e nelle cave, negli stessi campi in cui i lavoratori sono esposti a sostanze tossiche e a pericoli; e spesso questi lavoratori sono immigrati, circondati da ostilità, come lo erano gli italiani nel Belgio. Non dimentichiamolo perché c’è qualche famiglia, in qualche lontana parte del mondo, che mangia del pane che ha “dentro di se” il dolore dei parenti lontani, in Italia, come, appena pochi anni fa, molte famiglie siciliane e calabresi mangiavano del pane che aveva “dentro di se” il dolore dei minatori italiani lontano, nel Belgio.

che, ribaltando la decisione del Tar, concedono il via libera... (segue)
Due vicende, di ambito apparentemente diverso hanno caratterizzato gli ultimi giorni. Da un lato le sentenze del Consiglio di Stato che, ribaltando la decisione del Tar, concedono il via libera all'istituzione del Parco Archeologico del Colosseo, decretando lo smembramento definitivo di quella che era la storica Soprintendenza Archeologica di Roma. Sui problemi giuridici aperti dalle sentenze v. soprattutto i commenti su Emergenza Cultura, ma occorrerà ritornarci, per la gravità delle implicazioni che si estendono ben al di là del caso specifico, fornendo una legittimazione all'uso o meglio abuso della decretazione come modalità di sottrazione dell'attività dell'esecutivo ad ogni controllo preventivo in materia di pubblica amministrazione.

Le sentenze del CdS legittimano quindi - nel metodo e nel merito - la costituzione del Parco, decisa dal Ministero come un semplice atto regolatorio interno, quasi che la dissoluzione definitiva dell'unità archeologica di Roma e lo sconvolgimento amministrativo che comporta sul centro - fisico, culturale, urbanistico - della città sia questione da trattare fra le mura del Collegio romano senza alcun confronto con la città. Anche per questo, per l'evidente vulnus al principio di leale collaborazione istituzionale, il Comune di Roma aveva fatto ricorso, accolto dal TAR e poi respinto dal Consiglio di Stato (sentenza 3665/2017) con motivazioni acrobatiche su cui occorrerà ritornare. La creazione del Parco, un recinto che ritaglia, contro la storia antica e recente, senza alcuna idea se non quella dell'isolamento di littoria memoria, un complesso monumentale parte integrante di un organismo urbano complesso come quello romano, è stato l'ennesimo episodio di quel centralismo velleitario che connota questa stagione governativa.

La riforma costituzionale bocciata dal referendum ne era stata l'espressione più compiuta, con il tentativo di annullare 45 anni di regionalismo - senz'altro non privo di problemi - a vantaggio però di una neocentralità appiattita sul potere esecutivo. Lo spirito della riforma Renzi-Boschi era stato anticipato, nel 2014, dallo SbloccaItalia. Anche in quel caso, innumerevoli erano le "scorciatoie" concesse al governo centrale: "esemplare", in questo senso, l'art. 33 con il quale si sottraeva al Comune di Napoli la competenza urbanistica per quanto riguarda l'area di Bagnoli.

Proprio quella vicenda ha trovato qualche giorno fa un esito in qualche modo inaspettato: dopo mesi di contrasto durissimo - da parte del Comune e ancor più della città attraverso i molti comitati e associazioni - si è arrivati ad un accordo che azzera le molte, illegittime distorsioni del piano urbanistico vigente, ipotizzate in questi ultimi vent'anni. Ripristinate le dimensioni del parco urbano a 120 ettari, ripristinata l'integrità della linea di costa originaria della spiaggia di Coroglio, con l'arretramento dell'edificio abusivo di Città della Scienza, annullati gli aumenti di cubatura.
Certo persistono ancora molti problemi e lo stesso accordo non è esente da ombre e ambiguità, come testimonia il dibattito su eddyburg. Insomma, la battaglia per restituire alla città e al godimento di tutti una delle sue aree paesaggisticamente più belle, è ancora lunga.

Ma l'accordo è un buon punto da cui ripartire e soprattutto ha un valore simbolico che non può essere sottovalutato: è la dimostrazione del potere istituzionale di un'urbanistica pubblica interpretata al meglio. La variante su Bagnoli del 1996 ha dimostrato una capacità di resilienza che dovrebbe far riflettere. Capacità certo agevolata dalla cialtroneria politica e amministrativa con cui si è cercato di aggirare le previsioni del prg e che si è nutrita, al contrario, di un consenso popolare via via più tenace. Quel piano regolatore ha resistito, a dimostrazione anche della debolezza politicamente e socialmente intrinseca degli attuali approcci urbanistici, che rinunciano ab origine ad una visione ampia dell'organismo urbano, inchinandosi - a prescindere - agli interessi di parte.

Qualche anno fa, nel 2013, in un libretto sul rapporto fra le politiche di sinistra e l'urbanistica degli ultimi decenni (La sinistra e la città), gli autori, Roberto Della Seta ed Edoardo Zanchini, definirono Bagnoli come "simbolo del fallimento dell'urbanistica italiana" (p. 76), confondendo rozzamente fra progetto urbanistico e sua ritardata realizzazione.

Ma l'urbanistica ha tempi lunghi e già Antonio Cederna ci aveva insegnato a non arrenderci, mai. La resistenza contro un governo del territorio che rinunci a perseguire l'interesse pubblico e la difesa della legalità è stata anche la lezione della migliore stagione di Italia Nostra. Tuttora attualissima.

L'accordo su Bagnoli - nella sua imperfezione e migliorabilità - è una base da cui ripartire.
Anche per quanto riguarda Roma e quest'ultima vicenda del Parco del Colosseo, la cui istituzione, lungi dall'avere alcun effetto innovativo, costituisce invece la cristallizzazione - a puro scopo di speculazione turistica - della situazione di devastante incompiutezza dell'area archeologica centrale.
E soprattutto un ostacolo forse non casuale alla realizzazione del più grande progetto urbanistico che abbia interessato Roma moderna, il progetto Fori.

Come insegna Bagnoli, la buona urbanistica ha lunga vita.

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