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L’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del 15 giugno del disegno di legge sul contenimento del consumo del suolo...>>>
L’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del 15 giugno del disegno di legge sul contenimento del consumo del suolo e il riuso del suolo edificato rende in parte meno stringente l’urgenza di contrastare la proposta di legge Realacci e altri (anch’essa recante Norme per il contenimento dell’uso del suolo e la rigenerazione urbana) che era all’origine dell’iniziativa di oggi.

Della proposta di legge Realacci mi limito perciò a ricordare solo i difetti essenziali:
- il contenuto contraddice vistosamente l’obiettivo dichiarato nel titolo. Nessuna norma della proposta persegue davvero il contenimento del consumo del suolo. Lo stesso contributo speciale per la rigenerazione urbana, previsto all’art. 2 a carico delle attività di trasformazione che determinano nuovo consumo di suolo, può paradossalmente tradursi – come ha osservato Anna Marson – in un incentivo ai comuni a promuovere nuovo consumo di suolo per poter disporre di finanziamenti da destinare al recupero. Il recupero pagato dall’espansione.
- tutti gli altri articoli incentivano, esplicitamente o implicitamente, il consumo del suolo. Gli istituti e i dispositivi previsti – perequazione, comparto, compensazione, incentivazione, diritti edificatori – sono quelli propri dell’espansione. Quelli propri dell’urbanistica romana degli ultimi venti anni, che ha previsto, o comunque consentito, l’incontrollato dilagare dell’edificazione in ogni segmento del territorio comunale. Istituti e dispositivi che la proposta Realacci tende a legalizzare e quindi a rendere obbligatori in tutti i comuni italiani.

Il disegno di legge governativo opera invece effettivamente nell’ambito dell’obiettivo dichiarato. Riprende, come si sa, il disegno di legge dell’ex ministro Mario Catania con gli emendamenti espressi dalle regioni e dagli enti locali, e rappresenta una buona base di discussione. Mi sembra particolarmente apprezzabile la norma transitoria, immediatamente efficace, sullo stop triennale al consumo di suolo.
Il giudizio positivo sul testo del governo non mi trattiene tuttavia dall’osservare con preoccupazione che detto testo determina un improprio, pericolosissimo e surrettizio trasferimento di competenze dal ministero dei Beni culturali al ministero delle Politiche agricole. Obiettivi del provvedimento sono infatti : la tutela del suolo non edificato, con particolare riguardo alle aree e agli immobili sottoposti a tutela paesaggistica (art. 1, c. 1)
- la priorità del riuso e della rigenerazione edilizia (art. 1, c. 2)
- il coordinamento delle politiche di tutela e di valorizzazione del paesaggio, di
- contenimento del consumo di suolo e di sviluppo territoriale sostenibile con la pianificazione territoriale e paesaggistica (art. 1 c. 3).
Il perseguimento dei suddetti obiettivi è però affidato a un apposito Comitato, che opera – nientemeno – presso la Direzione generale per la promozione della qualità agroalimentare del Dipartimento delle politiche competitive, della qualità agroalimentare e della pesca (art. 3, c. 7). Da non credere. Il paesaggio come la cucina. I Trulli di Alberobello come le orecchiette con le cime di rapa. Le colline di Fiesole come la ribollita. Le ville palladiane come la sarda in saor.
Come se un infausto destino perseguitasse il ministero dei Beni culturali. Che fa il ministro Massimo Bray? Mi sembra che si stia perfettamente allineando ai predecessori Lorenzo Ornaghi, Giancarlo Galan, Sandro Bondi. È appena il caso di ricordare che, se si fossero formati, e a regola d’arte, i piani paesaggistici, secondo il Codice dei beni culturali e del paesaggio, non avremmo bisogno di una legge ad hoc per fermare il consumo del suolo.

Mi restano da dire poche cose relativamente alla proposta eddyburg sulla salvaguardia del territorio non urbanizzato. Il ritmo frenetico assunto negli ultimi anni dall’espansione edilizia ha già drammaticamente alterato i connotati del paesaggio italiano, e siamo a un passo dal baratro dell’irreparabile. Siamo perciò convinti che non è opportuno, come propongono quasi tutti i provvedimenti in discussione, il ricorso a materie oggetto di legislazione concorrente, quelle cioè del c. 3 dell’art. 117 della Costituzione, per le quali spettano allo Stato i principi fondamentali e alle regioni le norme operative. Non è opportuno perché: richiede tempi incompatibili con le dinamiche in atto deve fare i conti con la prevedibile inerzia delle regioni, e in specie di quelle più gravemente afflitte da disastrosi fenomeni di crescita edilizia sono, com’è noto, inconsistenti i provvedimenti sostitutivi dello Stato.

S’impone, viceversa, secondo noi, il ricorso a materie di esclusiva competenza dello Stato, ovvero quelle del c. 2 dell’art. 117. Ciò significa che non dobbiamo assumere a riferimento la materia governo del territorio (oggetto di legislazione concorrente) ma la materia tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (oggetto di legislazione esclusiva dello Stato), che sarebbe subito estesa a tutti i comuni italiani.

La proposta di eddyburg, nell’imporre, illic et immediate, l’azzeramento in tutti comuni del consumo di suolo, fatte salve circostanze davvero eccezionali, riprende in parte gli emendamenti della giunta toscana alla legge regionale 1/2005 (grazie in particolare ad Anna Marson). È pertanto una proposta meno estrema e provocatoria di quanto potrebbe apparire. È infine evidente che lo spostamento dell’iniziativa dalle regioni ai comuni, obbligati da subito alla perimetrazione del territorio urbanizzato, determinerebbe condizioni ottimali per garantire la più ravvicinata e produttiva partecipazione di cittadini, e di loro rappresentanze di base, alla formazione dei provvedimenti.

4. Devo infine ringraziare quanti si sono prodigati per organizzare l’iniziativa di oggi. Per tutti ringrazio Anna Maria Bianchi e Cristiana Mancinelli Scotti.

Questo testo costituisce l'intervento di Vezio De Lucia a conclusione dell'assemblea di Roma, 19 giugno 2013

Forse una notizia abbastanza buona. In un recente incontro i presidenti delle due maggiori potenze industriali...>>>

Forse una notizia abbastanza buona. In un recente incontro i presidenti delle due maggiori potenze industriali mondiali, gli Stati Uniti e la Cina, si sono accordati per eliminare gradualmente, da ora al 2050, l’uso degli idrocarburi fluorurati, HFC, una classe di sostanze chimiche che stanno sostituendo i cloro-fluoro-carburi (CFC), responsabili della distruzione dell’ozono stratosferico, ma che si sono rivelate a loro volta responsabili del riscaldamento planetario.

Tutto è cominciato quando, nel 1928, il chimico Thomas Midgley (1889-1944) ha scoperto che certe molecole, nelle quali uno o due atomi di carbonio erano legati ad atomi di cloro e di fluoro, anziché ad atomi di idrogeno, come negli idrocarburi, avevano singolari proprietà tecniche. I CFC, non infiammabili, stabili chimicamente, privi di odore, si sono rivelati utilissimi come fluidi propellenti per i preparati commerciati in confezioni spray, le cosiddette “bombolette”, di deodoranti, di vernici e cosmetici, e come fluidi frigoriferi; anzi il loro uso ha determinato il successo dei frigoriferi domestici, tanto utili per conservare i cibi a lungo, e dei condizionatori d’aria che rendono meno afosa l’aria degli edifici e delle automobili.

Inoltre alcuni CFC sono risultati eccellenti per rigonfiare le materie plastiche e trasformarle nelle “resine espanse”, così importanti come isolanti termici per il trasporto dei cibi, come isolanti acustici e termici in edilizia, per produrre materassi, cuscini e poltrone per le case e le automobili. Un trionfo: peccato che, nei primi anni settanta del Novecento, il chimico messicano Mario Molina e il chimico statunitense Sherwood Rowland (1927-2012) si siano accorti che questi CFC, nel disperdersi nell’atmosfera raggiungono la stratosfera, lo strato di gas che si trova fra 10 e 30 chilometri di altezza, e qui decompongono l’ozono O3, l’altra forma del comune ossigeno O2. L’ozono stratosferico, pur presente in forma molto diluita, ha la proprietà di filtrare la radiazione ultravioletta biologicamente dannosa UV-B, proveniente dal Sole, impedendole di arrivare sulla superficie della Terra. Questa radiazione UV-B è responsabile di tumori della pelle e di malattie degli occhi negli umani, ma ha anche effetti nocivi su altri cicli biologici, tanto che alcuni pensano che la vita sia comparsa sui continenti e negli oceani, alcuni miliardi di anni fa, quando una parte dell’ossigeno della stratosfera ha cominciato a trasformarsi nel più benigno ozono.

La scoperta del rapporto fra CFC e diminuzione della concentrazione dell’ozono stratosferico ha assicurato ai due chimici un premio Nobel e ha indotto molti governi a vietare l’uso della maggior parte dei CFC con un accordo, il “protocollo di Montreal” del 1987. L’industria chimica si è subito impegnata a cercare dei surrogati, delle molecole nelle quali non fossero presenti atomi di cloro, ma solo atomi di idrogeno e di fluoro. Sono così nati gli idrocarburi fluorurati HFC, prodotti subito su vasta scala a partire dal 1990.
Da una trappola all’altra, però, perché gli HFC sono meno dannosi per lo strato di ozono, ma si comportano come “gas serra” contribuendo al riscaldamento globale e ai mutamenti climatici. Anzi contribuendo moltissimo perché un chilo di HFC trattiene l’energia solare nell’atmosfera come 1000 chili di anidride carbonica CO2, l’altro importante “gas serra”. Il “protocollo di Kyoto” del 1997, per il rallentamento dei mutamenti climatici, ha incluso gli HFC fra le sostanze il cui uso deve essere limitato. A questa nuova limitazione si sono opposti molti paesi, specialmente quelli in via di sviluppo o sottosviluppati che temevano l’aumento del prezzo dei frigoriferi e dei condizionatori d’aria se avessero dovuto essere impiegati altri fluidi frigoriferi meno dannosi per l’ambiente, ma più costosi. E’ così cominciata una lunga guerra fra interessi industriali, interessi nazionali, innovazioni chimiche. La Cina e l’India finora sono stati i paesi più contrari all’eliminazione degli HFC; da qui l’importanza del recente accordo fra Cina e Stati Uniti, ricordato all’inizio.

I due presidenti Xi e Obama hanno spiegato che la graduale eliminazione, da qui al 2050, dell’uso anche degli HFC rallenterebbe i mutamenti climatici come se, nello stesso periodo, nell’atmosfera venissero immessi 80 miliardi di tonnellate di CO2 di meno (attualmente ogni anno vengono immessi nell’atmosfera “gas serra” equivalenti a circa 30 miliardi di tonnellate di CO2 ). Un passo avanti, ma i problemi non sono finiti: nei frigoriferi e nelle resine espanse esistenti nel mondo e fabbricati negli ultimi decenni, ci sono ancora grandissime quantità, dell’ordine di milioni di tonnellate, sia dei cloro-fluoro-carburi CFC, vietati da tempo, sia degli idrocarburi fluorurati HFC in crescente uso; questi gas continuano a liberarsi quando i frigoriferi e i condizionatori d’aria sono smantellati e quando le resine espanse finiscono nelle discariche o negli inceneritori.

Da una parte occorre perciò sviluppare nuovi processi di smaltimento di tutti i prodotti che contengono questi gas nocivi; dall’altra parte occorre inventare nuovi agenti che svolgano le stesse funzioni dei gas vietati. Come si vede, nella corsa per evitare le violenze all’ambiente non c’è riposo, specialmente per i chimici e per una buona chimica.

L'Italia non è solo – in misura storicamente più rilevante che nel resto d'Europa – terra di città. E' anche regione di borghi, di paesi, piccoli e medi, disseminati >>>

L'Italia non è solo – in misura storicamente più rilevante che nel resto d'Europa – terra di città. E' anche regione di borghi, di paesi, piccoli e medi, disseminati lungo la dorsale appenninica e preappeninica e fin sulle Alpi, ma presenti anche, con caratteristiche proprie, nella Pianura padana. E una saliente caratteristica è la loro varia origine storica, che va da epoche remotissime sino all'Otto-Novecento, insieme alla diversità delle genti e delle colonizzazioni che li hanno plasmati. Si pensi a un centro come Bobbio, in Emilia Romagna, abitato in età neolitica, poi colonizzato dai Liguri, dai Celti, dai Romani; oppure Pitignano, in Toscana, parimenti attivo nel neolitico, colonizzato dagli Etruschi e successivamente romanizzato. E ancora, sempre per sottolineare l'antichità della fondazione e la varietà delle civilizzazioni – ma per cenni necessariamente avari e sporadici – si può ricordare, scendendo verso Sud, Norcia, in Umbria, centro d'incontro di varie etnie nel mondo antico, poi assoggettata ai Romani; Gerace, in Calabria, colonizzata dai Greci a partire dal VIII-VII secolo e poi divenuta bizantina.
Nel Lazio e in parte dell'Italia meridionale dominano i borghi di origine medievale del cosiddetto incastellamento -studiato dallo storico Pierre Tourbet – risultato dell'aggregarsi degli abitati intorno a un castello feudale, per proteggersi dalla incursioni saracene e poi normanne di quell'età turbolenta. Ma è solo per suggerire una idea della vetustà storica e della multiformità delle culture. Non sorprende, dunque, se un numero grandissimo di questi borghi possiede al suo interno e nei suoi immediati dintorni un patrimonio immenso di resti e di manufatti, che custodiscono la memoria millenaria d'Italia, l'operosità di innumerevoli generazioni di artigiani e artisti. In questi centri sono disseminati santuari, torri, casali, abbazie, chiese, pievi, palazzi signorili, necropoli, ville, mausolei, sepolcri, chiostri, affreschi, statue e dipinti, anfiteatri, aree archeologiche, cinte murarie, strade, porte, vasche termali, cisterne, acquedotti.
I resti, insomma, talora ben conservati, di una civiltà impareggiabile. Nel 1980 Federico Zeri curò l' VIII volume della Storia dell'arte italiana per Einaudi, dedicata ai Centri minori dove tanto tesoro è illustrato per ricchissimi esempi. Mentre le benemerite guide rosse del Touring Club, come ricordava Italo Calvino, costituiscono il “catalogo nazionale” dove così innumerevoli beni sono registrati nel loro contesto storico e territoriale.

Ora che cosa accade nella nostra civilissima Italia? Accade che una parte crescente di questi borghi sono a rischio di abbandono, o sono già divenuti dei centri fantasma. Si calcola che siano almeno 5000 in tali condizioni. Naturalmente, la tendenza in atto non è senza contraddizioni. Esistono territori montani, come il Mugello, in Toscana, dove la popolazione tende a crescere. Negli ultimi anni i paesi intorno a Roma si sono gonfiati di popolazione. A causa degli elevati costi dei fitti, molti cittadini che lavorano a Roma sono andati a vivere nei paesi vicini, eleggendoli quali dormitori rurali del loro pendolarismo. Ma la corrente prevalente è l'abbandono, lo svuotamento demografico, soprattutto lungo la dorsale appenninica e nelle aree interne.

A questa situazione da tempo si vanno opponendo con varie iniziative non pochi enti e gruppi, come l' Associazione Borghi più belli d'Italia, sorto nel 2001 per impulso della Consulta del turismo e dell'Anci, il Gruppo Touring Club, il Paesi Fantasma Gruppo Norman Brian (che si occupa della mappatura dei borghi) e varie altre associazioni a scala locale, come l'Azione Matese, impegnata a favore dei paesi del Massiccio del Matese. Ciò di cui queste associazioni e varie altre hanno bisogno, tra l'altro, è senza dubbio una visione territoriale più ampia delle aree interne italiane e della formazione di una rete veramente attiva di informazione, scambi e cooperazione. Le aree interne fanno oggi parte di un vasto progetto, necessariamente di lunga lena, avviato da Fabrizio Barca all'interno del Ministero per la coesione territoriale.
Si tratta di un disegno di riequilibrio demografico, sociale, ambientale che può offrire nel tempo vaste prospettive al lavoro italiano e alla valorizzazione delle immense risorse naturali ospitate in queste terre. L'agricoltura della biodiversità agricola e la sua trasformazione agroindustriale, la selvicoltura, l'allevamento, l'utilizzo delle acque interne, l'escursionismo, il turismo, l'agricoltura sociale, le fattorie didattiche, la produzione di energia su piccola scala, l'artigianato del riciclo costituiscono le leve potenziali della rinascita di queste aree dove è prosperata per secoli la nostra civiltà rurale. A condizione, naturalmente, che i servizi fondamentali ( scuole, ospedali, trasporti) riacquistino o conservino il loro ruolo irrinunciabile.
Ma i borghi possono svolgere una specifica funzione attrattiva. Al loro interno si custodiscono non solo i manufatti artistici che abbiamo sommariamente elencato, ma, assai di sovente, essi sono scrigni invisibili che custodiscono antichi saperi, dialetti, culture e letterature popolari, strumenti musicali tradizionali e canti antichi, conoscenze di erbe e piante, forme di preparazione e conservazione dei cibi, cucine multiformi. Ma in questi luoghi si conserva dell'altro. In realtà, il nostro immaginario colonizzato dal demone dell'utile ci impedisce di scorgere tanti invisibili tesori immateriali. Si ritrovano infatti in tanti borghi, talora intatti, modalità del vivere, ritmi quotidiani, un rapporto speciale con il tempo e la memoria, emozioni e modi di guardare, lentezze e assaporamenti della realtà circostante che nella città sono ormai perduti per sempre.
Una dimensione antropologica del vivere e del sentire, travolta dalla modernità, che si ritrova ancora conservata come per una miracolosa regressione in un altro tempo storico.
Perciò occorre stabilire un nuovo rapporto di curiosità e scoperta, creare un nuovo sguardo sul nostro passato - come da tempo va facendo Franco Arminio, anche sulle pagine del manifesto - mescolare l'antico con il presente: ad es. trasformando vecchi edifici in abbandono, riattivando antiche manifatture con nuove produzioni, o cambiandole in “manifatture delle idee”, cioé in sedi di nuovi centri di ricerca. Occorrerà dunque seguire e documentare le iniziative che vanno sorgendo nei borghi, perché essi segnano il sentiero di un nuovo possibile rapporto degli italiani col proprio territorio e con il proprio passato.
A tal fine trovo qui quanto mai opportuno soffermarmi, sia pur per pochi accenni, su una singola esperienza in uno degli angoli più difficili e fisicamente avversi della nostra Penisola. E anche impervi sul piano civile, a causa della criminalità endemica. Mi riferisco alle attività che dal 2010 va svolgendo l'Agenzia dei borghi solidali nei comuni dell'estrema Calabria come Pentedattilo, Roghudi (spezzato in due da una alluvione nel 1971) e Montebello, all'interno del progetto “i luoghi dell'accoglienza solidale nei borghi dell'area grecanica”. L'Agenzia, aggregazione di numerose altre associazioni, ha sede, a Pentedattilo – pittoresco paese sullo Jonio che scende a cascata da una rupe - in un edificio, Villa Placanica , sottratto alla mafia. E, tra le varie iniziative messe in cantiere, organizza campi di lavoro estivo nazionali e internazionali, il che porta centinaia di ragazzi provenienti da ogni dove negli ostelli presi in gestione nei borghi.
E' un modo per valorizare il patrimonio edilizio pubblico e privato in abbandono, per riportarlo a nuove funzioni e utilità. E in questi spazi si vanno aprendo anche le cosiddette Botteghe solidali. Nel frattempo, all'interno dello Spaziofiera di Roghudi nuovo e di Pentedattilo, sono all'opera botteghe artigiane che puntano a riscoprire e dare nuovo valore alle tradizioni manifatturiere grecaniche, offrendo nello stesso tempo lavoro a immigrati e cittadini svantaggiati. Si tratta di una esperienza agli inizi, condotta da giovani molto capaci e legati al proprio territorio per passione e sensibilità storica. Con un tenace sforzo di aggregazione vanno creando e diffondendo culture di solidarietà e di legalità e soprattutto mettono in moto rapporti interculturali e di cooperazione fra le persone: quelle forme di comunicazione e di scambio che erano già vive su queste terre quando nel Mediterraneo fioriva la civiltà greca e il mare era luogo di vicinanza e di dialogo fra popolazioni diverse.
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Nel servizio di un tiggì nazionale sul nuovo emirato della Costa Smeralda un onesto cronista... >>>

Nel servizio di un tiggì nazionale sul nuovo emirato della Costa Smeralda un onesto cronista ha spiegato in una manciata di minuti la realtà funesta dell’Isola. Il servizio è culminato in una frase scultorea pronunciata dal sindaco di Arzachena. Il sindaco ci ha spiegato come l’emiro del Qatar raccolga fiori mentre passeggia – dunque, tranquilli, il Creato è salvo – e ha affermato che in caso di cessione della Costa si tratterebbe di mettere in vendita, espressione mai udita prima da orecchie umane, “fette di ambiente”.

Neppure la civile testimonianza di un giornalista sardo che faceva da guida allo sbalordito inviato dal “continente”, ha attenuato la tristezza e la vergogna provocate dalla spaventosa espressione “fette di ambiente”. C’è qualcosa di demoniaco e, allo stesso tempo, da pizzicagnolo in questa faccenda dell’ambiente a fette. La Sardegna affettata come un salame mentre il sito della Regione e i suoi funzionari ce la mostrano siliconata e trionfante in 3D.

In questa diabolica autopsia dell’isola, la Gallura seziona per sé una fetta di 500.000 metricubi che sarebbero consentii dal nuovo Piano paesaggistico. Quello promesso dall’attuale Giunta metrocubica, sostenuto dall’eruzione intellettuale di “Sardegna Nuove Idee” con il puntello della vulcanica università di Alghero.

Già il Piano Casa in eterna proroga era riuscito nell’intento di distribuire metri cubi con il perfido articolo 13 che annulla ogni tutela. E quando la Corte lo dichiarerà anticostituzionale, già molto sarà perduto senza rimedio. Intanto i “mattoni per tutti” hanno aggravato la crisi dell’edilizia perché hanno inventato un fabbisogno inesistente, risposto a una richiesta fasulla, moltiplicato di conseguenza i senza lavoro, imbruttito l’isola sino all’insopportabile, alimentato illusioni e gonfiato una burla finanziaria che volge in tragedia.

Però nella diavoleide isolana non ci sono solo i luciferi che vogliono annichilire il Piano paesaggistico cancellando le norme. Un altro gruppo di diavoletti vuole destinare un quarto della superficie coltivata dell’isola alla cosiddetta Chimica Verde per coltivare e bruciare incommensurabili quantità di cardi. Altro veleno. I nostri azazelli manager vorrebbero fabbricare sacchetti per la spesa a partire dal cardo. Saremo i leader dei sacchetti. Grandioso! E quando ad altri verrà in testa di fare sacchetti che costeranno meno – proprio come è accaduto per il carbone, per l’alluminio e perfino per il pecorino – noi, sempre più intossicati e poveri, riprenderemo il nostro congenito lamento dopo aver perduto l’ennesima“fetta di ambiente” innaffiando improbabili cardi.

Però l’obiettivo è ancora più ambizioso. Miriamo all’annichilimento dell’intera agricoltura che, nella Sardegna in promozione 3D, è roba superata. E siamo già molto avanti.

In una parte laboriosa dell’isola dove c’è un’industria del latte e coltivazioni che permettono un reddito certo, dove c’è un turismo contrastante con quello delle “fette” galluresi, perfino i consiglieri del Pd, in armonia con Confindustria che considera il Paesaggio “materia prima” da consumare, volevano trivellare il suolo alla ricerca di metano. Condividevano, si vede, la filosofia della “fettina” e proponevano un mondo da incubo dove in una fetta si coltivano fragole e si allevano mucche mentre in un’altra si trafora la terra per estrarre metano. Un ciclo perfetto. Trivellati e trivellatori felici insieme. Abbiamo colpe storiche, ma non tutti le vediamo. Lo specchio mostra schifezze e noi diamo allo specchio la colpa delle schifezze.

Però qualcosa cambia. E il metano d’Arborea resterà nel sottosuolo ad alimentare le fiamme dell’inferno perché chi abita quei luoghi non vuole trapanare la sua patria, non considera merce la sua terra, è contro l’ambiente a “fette”. E si ribella.

Resta ancora molto da distruggere, e ci provano. Trivelle anche a Serramanna, Vallermosa minacciata da 3500 specchi che riflettono luce su una terribile torre di 200 metri, Villasor, Uta, Giave e Cossoine, Narbolia, Ulassai, Buddusò, Alà dei Sardi, il Limbàra, un elenco interminabile di “fette di ambiente” violate o insidiate dall’interesse di pochi che si sono dati un’opaca vernice di verde. Oggi la fiaba del metano e dell’energia a poco prezzo, ieri quella del cemento e quella dell’industria che ha fatto più vittime che addetti. Molti periti settori ci amministrano e vorrebbero affettarci, incuranti dei luoghi e di chi li abita, incuranti della malavita organizzata che ha messo le mani sull’energia, incapaci di immaginare “un’economia fisiologica”. Promettono paradisi e producono inferni. E guai, guai chiedere un piano regionale dell’energia: nessuno lo vuole perché nessuno sopporta regole.

Però, finalmente, c’è un po’ di luce. Qualche comunità non crede più ai pifferai, ha riflettuto, non vuole più fare la parte del piffero e comprende il valore di quello che ci resta, anche di brandelli, lembi, frammenti e avanzi dell’Isola.

questo articolo è imviato contemporaneamente a La Nuova Sardegna

Il 5 giugno scorso il Papa Francesco ha preso l’occasione...>>>

Il 5 giugno scorso il Papa Francesco ha preso l’occasione della quarantunesima “Giornata della Terra” per parlare di ambiente e di sprechi e lo ha fatto con parole che non ascoltavamo da molto tempo. Nell’udienza generale (il testo integrale si trova nel sito www.vatican.va) ha ricordato che la donna e l’uomo sono stati posti nel Giardino perché lo coltivassero e custodissero, coma si legge nel secondo capitolo del libro della Genesi, e ci ha invitato a chiederci che cosa significa coltivare e custodire: trarre dalle risorse del pianeta i beni necessari, con responsabilità, per trasformare il mondo in modo che sia abitabile per tutti, parole che già Paolo VI aveva usato nell’enciclica “Populorum progressio” del 1967.
Papa Francesco ha detto che non è possibile custodire la Terra se, non solo le sue risorse, ma addirittura le donne e gli uomini “sono sacrificati agli idoli del profitto e del consumo”, alla “cultura dello scarto”. Le ricchezze della creazione non sono di una persona, o di una impresa economica, o di un singolo paese, ma sono “doni gratuiti di cui avere cura”, destinati ad alleviare soprattutto “la povertà, i bisogni, i drammi di tante persone”. Il dramma più grave consiste nel fatto che un miliardo di persone manca di cibo sufficiente, in ogni parte di un mondo dominato dallo scarto, dallo spreco e dalla distruzione di alimenti. “Il consumismo, ha detto il Papa, ci ha indotti ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo. Ricordiamo, però, che il cibo che si butta via è come se venisse rubato dalla mensa di chi è povero”.

Finalmente parole dure, da una autorità ascoltata da cristiani e non cristiani, credenti e non credenti, che sintetizzano la fonte dei guasti ecologici: la violenza contro le risorse naturali è violenza contro gli altri esseri umani, contro il prossimo vicino, contro il prossimo lontano nello spazio e contro il prossimo del futuro che erediterà un mondo impoverito per colpa degli sprechi di oggi, dei paesi ricchi e egoisti. L’ecologia spiega bene l’origine della fame di troppi esseri umani: gli alimenti umani diventano disponibili attraverso un complesso e lungo ciclo che comincia dai raccolti di vegetali: patate, cereali, piante contenenti oli e grassi. Dei vegetali di partenza solo una parte, meno della metà, diventa disponibile sotto forma di alimenti e di questi una parte va perduta, per le cattive condizioni di conservazione e di trasporti dai campi e dalle fabbriche ai mercati.

Una parte delle vere e proprie sostanze nutritive viene destinata alla zootecnia che ”fabbrica” alimenti animali ricchi di proteine pregiate con forti perdite: occorrono circa 10 chili di vegetali per ottenere un chilo di carne; il resto va perduto come escrementi, come gas della respirazione degli animali da allevamento e come scarti della macellazione. Nei paesi industriali gli alimenti vegetali e animali, prima di arrivare sulla nostra tavola o nel nostro frigorifero, passano attraverso una lunga catena che comprende il trasporto attraverso i continenti o gli oceani, poi attraverso processi industriali di conservazione, trasformazione, inscatolamento, ciascuno con rilevanti perdite di sostanze nutritive che diventano scarti da smaltire come rifiuti.

Poi gli alimenti passano attraverso il sistema della distribuzione, anch’esso caratterizzato da sprechi, si pensi alle merci invendute o deteriorate o che superano i limiti di scadenza, che diventano anch’esse scarti e rifiuti. Alla fine le sostanze nutritive, stimabili in un quarto di quelle che la natura aveva prodotto, arrivano a casa nostra o ai ristoranti e anche qui si hanno altri scarti e sprechi: in media, nel mondo, 100 chili per persona all’anno. Indagini della FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, indicano in 1,3 miliardi di tonnellate all’anno il peso degli alimenti complessivamente sprecati, un terzo di quelli disponibili, circa un decimo delle sostanze nutritive, caloriche e proteiche, che la natura aveva prodotto con i suoi cicli ecologici.

Lo spreco alimentare è accompagnato da spreco di acqua, quella che l’intero ciclo del cibo richiede per l’irrigazione e per i processi di trasformazione: l’agricoltura infatti assorbe circa 10.000 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, una quantità enorme se si pensa che l’acqua dolce disponibile nel ciclo naturale ammonta a 40.000 miliardi di metri cubi all’anno

Non solo; l’enorme massa di scarti e rifiuti agricoli e alimentari si trasforma nei gas anidride carbonica e metano che sono responsabili del continuo, inarrestabile peggioramento del clima. Una grande battaglia scientifica e culturale per comportamenti rispettosi “del prossimo”, per diminuire gli sprechi alimentari, assicurerebbe acqua e cibo a chi ne é privo. La chimica e la microbiologia applicate agli scarti alimentari consentirebbe di ricavarne sostanze adatte per altri usi umani, con minori inquinamenti e minore richiesta di risorse naturali scarse: una ingegneria e merceologia della carità al servizio dell’uomo.

La salvezza, insomma, va cercata in un “serio impegno di contrastare la cultura dello spreco e dello scarto”, di “andare incontro ai bisogni dei più poveri”, di “promuovere una cultura della solidarietà”. “Ecologia umana ed ecologia ambientale camminano insieme”. Sono le parole del Papa che è anche un chimico.

I primi di giugno 2013 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei si è svolto un importante convegno sulla “società che invecchia”. ...>>>
I primi di giugno 2013 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei si è svolto un importante convegno sulla “società che invecchia”. Nella maggior parte dei paesi industrializzati il progresso è costituito, fra l’altro, dall’allungamento della vita media delle persone, anche se, nello stesso tempo, diminuisce la natalità, per cui aumenta il numero degli anziani, di coloro che hanno più di 65 anni, e diminuisce la parte della popolazione “giovane” e di quella attiva. Lo stesso fenomeno si sta verificando più o meno rapidamente anche nei parsi emergenti e in quelli poveri.
A mio modesto parere, nell’analisi della società che invecchia, troppo poca attenzione viene rivolta alle conseguenze ambientali e merceologiche del fenomeno. In Italia, per esempio, mezzo secolo fa, alla fine della seconda guerra mondiale e negli anni cinquanta e sessanta del Novecento, gli anziani erano una piccola frazione della popolazione totale e la vita media era relativamente corta. In quei tempi gli anziani spesso restavano nella famiglia con i figli, contribuivano all’economia familiare con la propria pensione e con l’aiuto nella vita domestica quotidiana. I loro bisogni di oggetti erano abbastanza limitati e così erano i loro consumi e i rifiuti della loro esistenza, e l’effetto negativo sull’ambiente.
Oggi le donne e gli uomini di oltre 65 anni, il 20 percento della popolazione italiana, oltre 10 milioni di persone, vivono molto più a lungo; in seguito ai matrimoni o agli spostamenti dei figli le famiglie degli anziani sono costituite da coppie o da singole persone che spesso si trovano in appartamenti troppo grandi, mentre le nuove famiglie dei figli hanno bisogno a loro volta di nuove case. Con l’effetto che l’aumento della vita media non fa diminuire, ma aumentare, la richiesta di abitazioni, il che è buono dal punto di vista dell’economia dell’industria edilizia e dei venditori di cemento e di infissi, ma ha effetti negativi ambientali perché fa aumentare l’occupazione dei suoli, la domanda di vie e di mezzi di trasporto; come conseguenza indiretta è aumentato il numero di autoveicoli privati, il che è stato buono per i venditori di automobili, ma ha fatto aumentare la congestione e l’inquinamento urbano.
I 10 milioni di anziani italiani sono anche loro ”consumatori” di merci e di beni materiali, ma completamente diversi da quelli della restante parte della popolazione adulta. Col passare degli anni nelle persone diminuiscono inevitabilmente le possibilità di svolgere alcune funzioni: camminare, vedere, udire, masticare. Solo di recente nella pubblicità, al fianco dell’offerta di oggetti alla moda, di auto e motociclette rombanti e veloci, ha cominciato a comparire l’offerta di scale mobili domestiche, di apparecchi acustici, di adesivi per dentiere, di creme e trattamenti per togliere le rughe, eccetera, “nuove” merci che impongono innovazioni, richiesta di nuovi materiali, occasioni di lavoro per prodotti finora in parte di importazione. L’ambiente può anche essere ostile per gli anziani la cui limitata mobilità può essere agevolata eliminando le barriere architettoniche, finora pensate soltanto per i disabili, le scalinate, superabili soltanto con fatica, interventi che offrono altre occasioni di lavoro.
Ma soprattutto gli anziani hanno bisogno di servizi e anche questi richiedono oggetti materiali. Prima di tutto hanno bisogno di servizi sanitari pensati considerando i particolari disagi degli anziani, e poi hanno bisogno di assistenza e aiuto personale per affrontare i lavori domestici e gli acquisti. Perfino la burocrazia e la diffusione dell’informatica può rappresentare un disagio per coloro che non hanno confidenza con i relativi strumenti. Servizi finora offerti, ma solo in maniera limitata, da associazioni o gruppi pubblici o privati; per chi può permetterselo esiste una offerta di assistenti familiari, le persone chiamate, con sgradevole termine, “badanti”, per lo più figure femminili, immigrate, la cui presenza comporta vari problemi economici, la comparsa di nuovi diritti dei lavoratori e doveri dei datori di lavoro, la necessità di spazi abitativi. Anche gli anziani, come tutti, hanno bisogno di alimenti, ma spesso differenti da quelli richiesti dal resto della popolazione. Queste brevi considerazioni suggeriscono la necessità, da parte dei governanti, di conoscere le necessità dei loro cittadini anziani, di considerare che il loro numero è destinato ad aumentare, e richiede mutamenti produttivi e sociali che possono avere effetti positivi, ma che possono anche avere conseguenze negative ambientali.
Le precedenti considerazioni riguardano un paese del “primo mondo” industrializzato, ma le società invecchiano rapidamente anche nei paesi del secondo mondo in via di industrializzazione e nel terzo mondo dei paesi poveri e poverissimi, qui con la disintegrazione delle comunità basate sull’agricoltura, nelle quali la presenza di anziani aveva addirittura un ruolo economico e produttivo, e la nascita di megalopoli nelle quali gli anziani sono destinati ad essere sempre più emarginati, specialmente nelle parti più povere di ciascun paese.

Credo che occorra un crescente impegno del mondo accademico, della ricerca e delle imprese, per l’analisi dei rapporti fra l’invecchiamento della popolazione e i crescenti consumi di merci, di beni materiali, di risorse naturali e i relativi effetti: positivi e negativi ambientali.
Luci e ombre nel programma del neo ministro per i beni e le attività culturali illustrato alle commissioni parlamentari il 23 maggio scorso...>>>
Luci e ombre nel programma del neo ministro per i beni e le attività culturali illustrato alle commissioni parlamentari il 23 maggio scorso.Apprezzabile la buona volontà di superare il consueto carattere general-generico di documenti analoghi anche molto recenti, intenzione che traspare più che dal testo in sè, dagli allegati finali, dove è finalmente possibile avere qualche dato sulle risorse economiche e di personale del Ministero, sulla loro ripartizione e sul loro andamento negli ultimi dieci – otto anni (non era scontato per un’amministrazione notoriamente omertosa).
Scontato invece che l’autocritica su quest’ultima stagione ministeriale da dimenticare, sia piuttosto debole: il documento risulta palesemente ispirato, in molti punti (paesaggio, rapporti internazionali, archeologia), da quella stessa dirigenza responsabile dell’attuale situazione di degrado sottolineata dall’insieme dei media e del mondo culturale, non solo italiano.
Però in un orizzonte storico e politico eccezionale quale è quello attuale, un’analisi meno edulcorata che non indulgesse in autoassoluzioni sarebbe non solo fortemente auspicabile, ma costituirebbe il primo indispensabile passo per ripartire. E per cominciare a delineare una politica culturale degna di questo nome: non solo quindi un elenco di buone intenzioni (talora contraddittorio), ma uno schema che individui pochi obiettivi di fondo, priorità d’azione chiare e risorse necessarie, affrontando alcuni nodi ineludibili.
A partire dalle risorse economiche: l’immagine che emerge dal documento del 23 maggio riguardo a questo tema è piuttosto quello di una navigazione a vista. I soldi non ci sono e non ci saranno (per tutta la legislatura?), ergo non resta che rivolgersi al soccorso di chi può: privati e fondi europei su tutti.
La grande penalizzata dei tagli di bilancio che hanno colpito il Mibac è la tutela, le cui risorse risultano decurtate negli ultimi 5 anni di oltre il 58%: impossibile, in questa situazione, esercitare quelle attività di manutenzione programmata che pure lo stesso documento correttamente individua come prioritarie operazioni di prevenzione del rischio sismico.
Ma la crisi incombe e molto prudentemente, nel documento, a parte l’evergreen dell’incentivazione della fiscalità di vantaggio, non si individuano altri percorsi. Eppure vi è un ambito dove il Ministero potrebbe, finalmente, cominciare ad esercitare una tutela efficace e addirittura elaborare una politica culturale vera e propria praticamente senza risorse aggiuntive: il paesaggio.
Il paesaggio ricorre in verità in più punti delle linee programmatiche, ma questa dispersione appare piuttosto indice di una mancanza di visione complessiva: consumo di suolo, tutela e qualità del paesaggio, centri storici sono parti di un tutto inscindibile e andrebbero ricollocati non pensando, come sembra di capire, a distinti provvedimenti normativi da elaborare ex novo o da riprendere, ma all’interno di quel processo imprescindibile che è la pianificazione paesaggistica, come normata dal Codice.
La costituzione, cui si allude nel documento, di un apposito gruppo di lavoro per la “manutenzione” del Codice alla cui presidenza – come trapela da varie fonti – sarebbe chiamato Salvatore Settis è un punto fermo che aiuta a sperare. I compiti di questo gruppo di lavoro, però, oltre che sugli aspetti accennati nelle linee ministeriali (normativa sui monumenti nazionali) dovranno essere prioritariamente rivolti proprio alla parte sul paesaggio, investita dagli innumerevoli attacchi ai fianchi portati soprattutto dalla Conferenza delle Regioni e dal mondo dell’imprenditoria edile.
Un esempio fra tutti: il provvedimento di autorizzazione paesaggistica, l’ultimo baluardo rimasto nelle mani delle organismi territoriali di tutela, le Soprintendenze. L’esercizio dell’autorizzazione paesaggistica, provvedimento necessario a qualsiasi trasformazione si voglia operare sul territorio in aree tutelate, in questi ultimi anni è stato oggetto di pressioni fortissime e bersaglio preferito di un complesso farraginoso – ma a suo modo perfettamente congruente – di norme ricadenti sotto l’etichetta passepartout di “semplificazione” : il grimaldello usato per operare una contrazione generalizzata degli spazi riservati al sistema delle tutele in nome di una fantomatica agevolazione della ripresa economica (le grandi opere, in particolare). Suona pertanto minacciosamente contraddittorio il documento di indirizzo, laddove afferma che “occorre semplificare alcune procedure eccessivamente burocratiche” (punto 2).
Ma ad oltre cinque anni di distanza dall’entrata in vigore dell’ultima versione del Codice, bisogna riconoscere che la legge, in mancanza di una volontà politica adeguata, non è stata sufficiente ad innescare un processo virtuoso di tutela e il disegno prefigurato è tuttora largamente incompiuto. Nessuna delle Regioni tenute alla pianificazione paesaggistica ai sensi del Codice si è dotata di un piano paesaggistico conforme al Codice stesso, un terzo risulta in uno stadio iniziale o addirittura non ha ancora attivato l’iter di copianificazione. Nulla si sa di quell’Osservatorio nazionale del paesaggio, istituito nel 2008 ai sensi dell’art. 133 del Codice per divenire il presidio di indirizzo e controllo dell’operazione di pianificazione e mai operativo.
Ancora più grave è l’ormai conclamata rinuncia - organizzativa, culturale, politica - da parte del Mibac a governare le operazioni della pianificazione, a partire dalla redazione delle “linee fondamentali sull’assetto del territorio” previste dall’art. 145, tuttora mancanti seppur indispensabili a garantire una cornice unitaria all’insieme del paesaggio nazionale. E se manca la cornice – imprescindibile – delle linee guida, manca anche una definizione puntuale del contenuto degli accordi di pianificazione, le regole e i criteri affinchè i piani possiedano le prescrizioni e le cogenze necessarie a tutelare l’identità dei paesaggi propri delle singole regioni.
Purtroppo, sotto questo punto di vista, il documento del ministro, non solo non riconosce (punto 10) la gravità dei ritardi accumulati e non accenna minimamente alle linee fondamentali, ma sembra addirittura ridurre l’attività della copianificazione alla semplice ricognizione dei vincoli. Si tratterebbe dello svuotamento definitivo del carattere innovativo della copianificazione: il tentativo di definire il destino del territorio italiano a partire da un confronto paritario – istituzionalmente – fra Stato e Regioni, ma chiaramente gerarchico – costituzionalmente – perchè mirato a salvaguardare, innanzi tutto, il paesaggio italiano, riconosciuto come patrimonio comune della collettività da anteporre a qualsiasi obiettivo economico.
Il testo programmatico conferma purtroppo la deriva interpretativa sposata, in una convergenza viziosa, da Ministero e Regioni, in virtù della quale la copianificazione si sta trasformando in una semplice operazione di maquillage normativo da un lato, e di compromesso al ribasso, nei contenuti: ampi, lirici preamboli e, a volte, accurate analisi dal punto di vista culturale e geomorfologico sono anteposte, esornativamente, ad un insieme di disposizioni quasi mai a valore prescrittivo, quasi sempre inutili ai fini della tutela, quando non palesemente in contrasto e pertanto incostituzionali.
Depotenziata la pianificazione paesaggistica, ben poco rimane in mano al Ministero per governare la partita della tutela del paesaggio, tanto che lo stesso testo ministeriale è costretto a debordare in spazi di pertinenza non propria, laddove invoca, per il contenimento del consumo di suolo, nuove norme urbanistiche, oppure quando rivendica per il progetto architettonico una funzione di panacea universale contro gli orrori delle periferie urbane, in nome di una qualità perseguibile con strumenti giuridici (ma una Dives Misericordia, chiesa pur di altissima qualità architettonica, non basta da sola a riqualificare l’anonima distesa cementizia di Tor Tre Teste).
L’incomprensione della funzione della pianificazione paesaggistica traspare del resto in tutto il documento, anche laddove, ad esempio (punto 14), si proclama la necessità della ratifica della Convenzione di Malta. Quel documento fu elaborato, nel 1992, in seno al Consiglio d’Europa per proporre, ai paesi sottoscrittori, un insieme di linee guida sulla protezione del patrimonio archeologico minacciato dai lavori edilizi e infrastrutturali (in particolare le grandi opere): la firma del Mibac manca da vent’anni non per casuale distrazione, ma perchè l’Italia, al contrario di molti paesi europei, non ha mai voluto inserire le attività di archeologia preventiva fra le operazioni indispensabili alla pianificazione territoriale. In questo modo scontiamo su questo tema vitale per la tutela del patrimonio archeologico un ritardo drammatico che è alla base della situazione di precariato diffuso che contraddistingue le ultime due generazioni di archeologi professionisti.
Il rilancio politico della pianificazione paesaggistica, in questo senso, non è quindi uno dei tanti punti possibili dell’azione governativa del Mibac, ma “il” punto fondativo di una riqualificazione dell’intero sistema delle tutele.
Sulla pianificazione paesaggistica, di inalterata attualità (purtroppo), v. Primo Rapporto sulla pianificazione paesaggistica in Italia, a cura di Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi, Roma, 2010.

Baristi e urbanisti a Cagliari diventano sinonimi...>>>

Baristi e urbanisti a Cagliari diventano sinonimi. La spensierata filosofia della birretta decide la forma e la vita della nostra città. Un piccolo ma metaforico episodio racconta un intero mondo uscito dai cardini ma con l’aperitivo in mano.

Accade che un bar, affidatario da vent’anni di uno degli spazi più belli della città, sulla terrazza del bastione di Santa Croce, conduca una florida attività pagando poco più di 1300 euro l’anno per l’uso del suolo. E che, con un’altra manciata di euro, il filantropico padrone del locale abbia commissionato un progetto a studenti e neolaureati di architettura per migliorare non il bastione medievale ma il bar, considerato un gioiello così raro da annullare il valore delle mura medievali.
Che prestigiosa collaborazione questa tra un bar e la facoltà di architettura, che promettenti architetti, che elevato concorso di idee e che idea abbagliante quella di considerare il bar la “perla” del bastione di Santa Croce.

Dell’illustre commissione fa parte il proprietario insieme a austeri cattedratici di architettura, tutti favorevoli a un’orrenda pedana nella quale, vicini al cielo e agli dei, si beve seduti guardando il golfo attraverso una lastra di vetro. Il risultato è un orrore che sfregia uno dei siti più importanti della città. Quel luogo è stravolto, quel cataplasma non verrà rimosso, offuscherà a lungo il panorama della torre dell’elefante. E la città sarà più povera.

Perfino la Sovrintendenza, conquistata dalla dottrina del long drink, ritiene la pedana, il gazebo e la vetrata in armonia con il luogo. Il sito è imbruttito, irriconoscibile, sfigurato, ma assicurano che è protetto. E questa sarebbe la tutela? Questo noi facciamo a un luogo bello e amato? Per il capriccio e il vantaggio di un singolo lo storpiamo sino a cancellarne ogni identità. E’ lecito? No, siamo certi che non lo sia anche se timbri e bolli sono in ordine, come succede spesso quando si distruggono paesaggi.

Se i teorici del cappuccino e brioche si fermassero a riflettere, comprenderebbero quanto sia iniquo consegnare un sito prezioso a chi lo altera profondamente per proprio vantaggio, capirebbero che un quartiere non si ripopola con qualcuno che ci va la notte, beve, usa il rione come un vespasiano e se ne va barcollando.

Quest’urbanistica della vodka è nociva come la gramigna. Rafforza l’idea malata che i luoghi pubblici non siano di tutti ma appartengano un singolo per un’originale usucapione e che i quartieri si debbano conformare a chi li frequenta come un paese dei balocchi. Consolida il principio insano che la fortuna di una città passi attraverso un uso etilico e fracassone dei luoghi più belli. Certo è piacevole nutrirsi in un buon ristorante o sedere al tavolino di un bel locale, tanto più se è seducente il fondale, ma gli ideologi del Martini confondono il tessuto sociale di un quartiere con gli avventori dei bar. E distruggono il fondale.

Il connettivo di una comunità è prima di tutto rappresentato da chi abita i luoghi, da chi ci va per studiare o lavorare. E quando nel cuore di una città chiudono scuole, uffici, ospedali e botteghe, quando ogni azione è sostenuta dall’idea della fabbrica del divertimento come motore dell’esistenza, impipandosi della mancanza di servizi elementari, quando la mistica del calvados vince su ciò che rende davvero viva e in salute una collettività, allora la città diventa una squallida e vuota scenografia di cartapesta.

Occupazione giovanile: è la “nuova” parola d’ordine del nuovo governo. Giustissimo...>>>
Occupazione giovanile: è la “nuova” parola d’ordine del nuovo governo. Giustissimo impegno per il quale è giustissimo investire pubblico denaro per incentivare l’assunzione di giovani disoccupati. Un aspetto poco spiegato è, a mio parere, che cosa potranno fare i nuovi occupati nell’agricoltura, nell’industria, nell’edilizia, nei commerci, nei servizi. Si parla di impieghi nell’economia verde, altra parola magica che indica molte attività che vanno dalle fonti di energia alternative e rinnovabili, alla creazione e alla cura di aree protette, alla ristrutturazione degli edifici per renderli capaci di consumare meno energia, o di resistere ai terremoti o alle calamità “naturali”.

Alcune delle proposte di impiego consistono in opportune opere di riparazione dei danni dovuti ad eventi disastrosi come alluvioni o frane, ma credo che grande attenzione i governanti dovrebbero anche rivolgere alla prevenzione di tali eventi, in genere prevedibili. Non a caso Albert Schweitzer (1875-1965), premio Nobel e grande pensatore e profeta della pace e dell’amore per la natura e per la vita, mezzo secolo fa avvertiva che l’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire e che tale incapacità è la vera causa dei guasti ecologici.

Secondo la mia modesta opinione, una fonte di occupazione giovanile potrebbe essere proprio una campagna di difesa del territorio per evitare l’erosione del suolo e gli ostacoli al moto delle acque nei fossi, torrenti e fiumi, origine delle esondazioni nelle valli, nelle pianure, perfino nelle città. Eventi che ormai in tutte le stagioni dell’anno distruggono edifici, raccolti, campi, case, fabbriche, strade, eventi che costringono le autorità locali a invocare lo “stato di calamità naturale” (che naturale non è) e a chiedere risarcimento allo Stato per miliardi di euro ogni anno. Soldi che potrebbero essere risparmiati in futuro se investiti oggi pagando giovani disoccupati per interventi e opere di prevenzione.

L’idea non è nuova: quando Franklin Delano Rooservelt fu eletto presidente degli Stati Uniti nel 1933, in piena crisi economica, con una spaventosa disoccupazione anche giovanile, in condizioni, purtroppo, simili a quelle odierne dell’Italia e di altri paesi europei, dieci giorni dopo l’insediamento alla Casa Bianca istituì un corpo di giovani lavoratori, i Civilian Conservation Corps CCC, destinati proprio al riassetto del territorio e alla conservazione dell’ambiente. Nell'estate del 1933 trecentomila americani dai 18 ai 25 anni, figli di famiglie disagiate, erano nei boschi, impegnati nei lavori di difesa del suolo che da molti anni erano stati trascurati. Negli anni successivi, fino al 1942, in varie campagne coordinate dal Servizio Forestale nazionale, due milioni di giovani americani piantarono tre miliardi di alberi, costruirono e ripararono 150.000 chilometri di strade collinari e campestri, ripulirono il greto dei torrenti, costruirono dighe e laghetti artificiali, scavarono canali per l'irrigazione, costruirono ponti e 3500 torri antincendio, ripulirono spiagge e terreni. Ai giovani impiegati nei CCC veniva assicurato vitto e alloggio e un salario, in parte trasferito alle loro famiglie bisognose.

Alcuni potrebbero obiettare che l’organizzazione di un simile servizio giovanile ambientale oggi in Italia comporterebbe immediati costi per lo Stato, le cui finanze sono già dissestate; tali costi di oggi sarebbero però molte volte inferiori a quelli futuri certi, che dovremo affrontare se continueremo a fare niente per la difesa del territorio. Per quanto riguarda gli incentivi con pubblico denaro per chi assume giovani lavoratori nelle attività produttive, agricole e industriali, sempre a mio parere, sarebbe giusto che tali incentivi fossero assegnati dopo una analisi di quello che le imprese si propongono di fare.

Troppe volte sono stati chiesti e ottenuti soldi pubblici per iniziative che sembravano di successo e che si sono presto rivelate fallimentari (ne sa ben qualcosa il nostro Mezzogiorno) perché i mercati erano già saturi o perché tecnicamente sbagliate, operazioni finite con profitti per pochi privati e danni per lo Stato, i lavoratori e l’ambiente. Una nuova politica di incentivi all’occupazione giovanile dovrebbe essere accompagnata da attente indagini per identificare quali processi e produzioni di merci ci consentono di diminuire le importazioni e di aumentare le esportazioni, e da un controllo sulla validità delle iniziative produttive e commerciali.

E’ ben vero che il mercato e le imprese devono essere liberi nelle loro scelte, ma ciò vale quando investono o perdono il denaro dei privati; quando invece le imprese operano con incentivi o contributi di pubblico denaro, qualche controllo pubblico sarebbe pur necessario su quello che viene prodotto, sulla localizzazione degli insediamenti, sulle precauzioni che vengono prese per evitare inquinamenti o discariche nocivi. Al di la delle valutazioni di impatto ambientale, ogni volta che c’entrano soldi di tutti sarebbe opportuno, come talvolta è stato, invano, proposto in passato, un pubblico scrutinio tecnico-scientifico e merceologico di che cosa viene prodotto e dove e come. Proporre lavoro in imprese sbagliate o fallimentari sarebbe un ulteriore tradimento dei nostri giovani concittadini disoccupati.

Lo so che i programmi elettorali sono come le promesse degli amanti che, come ci insegnava Catullo, sono scritte sull’acqua e nel vento >>>

Lo so che i programmi elettorali sono come le promesse degli amanti che, come ci insegnava Catullo, sono scritte sull’acqua e nel vento.
Però imbattersi, a pag. 47 del programma elettorale di Ignazio Marino, candidato sindaco di Roma, nella riproposizione articolata del progetto Fori, fa tornare a sognare.

Si tratta del progetto nato da un’idea di Leonardo Benevolo, voluto da Adriano La Regina, allora Soprintendente archeologo di Roma, che nel dicembre 1978 lanciò un drammatico appello sul degrado dei monumenti antichi nell’area centrale, dovuto all’inquinamento da traffico. Ciò che si proponeva era, in estrema sintesi, la chiusura al traffico e successiva eliminazione di via dei Fori Imperiali (la mussoliniana via dell’Impero, costruita per le parate militari fasciste) e la creazione di un grandioso parco archeologico che da Piazza Venezia giungesse a collegare Colosseo, Circo Massimo, e tutta l’area dell’Appia Antica. Un cuneo di verde e archeologia, natura e cultura che da Piazza Venezia potesse giungere fino ai piedi dei colli albani. Come l'ha più volte definita Vezio De Lucia, la pagina più straordinaria dell'urbanistica della Roma contemporanea.
L’idea fu subito sostenuta senza riserve da Antonio Cederna, Italia Nostra ed altri intellettuali e sposata, con grande energia, da Luigi Petroselli, divenuto sindaco nel settembre dell’anno successivo, il 1979.
Cederna in particolare la difese in ogni sede e, prima di altri, ne comprese il valore dirompente sul piano urbanistico: quel parco archeologico nel centro della città significava soprattutto dare forma ad un’altra idea di Roma, ripensarla facendo del suo passato archeologico non più solo una sfilata di monumenti per turisti, ma la riappropriazione della storia da parte dei cittadini romani.

Finchè Petroselli fu sindaco, il progetto conobbe progressi entusiasmanti: in pochi mesi l’eliminazione di via della Consolazione che spezzava in due il foro romano e quella del piazzale che separava l’arco di Costantino e il Palatino dal Colosseo. Ma dalla sua morte, nell’ottobre del 1981, cominciò un lento abbandono che neppure la tenacia polemica di Cederna riuscì a ribaltare. Nel 2001 il Ministero dei Beni culturali appose addirittura un vincolo sulla sistemazione littoria di via dei Fori Imperiali.

Eppure, nonostante la vittoria di chi si opponeva, in nome dei diritti degli automobilisti, ad un progetto così innovativo, il progetto Fori ha continuato ad aleggiare fino ai giorni nostri: sia per la suggestione che continua a provocare quell’idea di “sublime spazio pubblico”, come lo definì Leonardo Benevolo, sia perchè i problemi dell’area centrale a Roma si sono, se possibile, aggravati.

Lo spazio archeologico forse più importante al mondo è tuttora spezzato in due monconi incongrui dallo stradone fascista, tutta la zona è congestionata dai cantieri della metropolitana, e continua ad impazzare il suk di gladiatori, guide abusive, venditori di gadgets e souvenirs, camion bar e connessa umanità.

Naturalmente il traffico che ancora circonda il Colosseo non ha mancato di provocare danni sia all’anfiteatro che ai monumenti vicini: i milioni di Della Valle (se mai arriveranno) saranno utilizzati per rimediare soprattutto ai guasti da inquinamento.

L’area centrale è, come sempre, lo specchio della politica culturale e urbanistica del Campidoglio: cinque minuti bastano per avere la sintesi di questi ultimi anni di amministrazione della capitale, connotati dal degrado e dalla mancanza di una qualunque strategia per la città, il suo passato e il suo futuro.

Leggere nel programma di Marino le parole di Benevolo sul progetto Fori, risveglia antichi sogni. E non bastano i mugugni dei vecchi brontoloni – sempre Catullo – che subito hanno ribadito “l’impossibilità” del progetto: perchè mancano le risorse, perchè un parco di tali dimensioni sarebbe ingestibile, perchè altri sono i problemi, oppure semplicemente perchè ormai è passato troppo tempo.

La politica deve poter essere anche lo spazio della speranza.
Ripartire dal progetto Fori, anche se gradatamente, come saggiamente indica Rita Paris, archeologa candidata della lista civica per Marino, significa credere nella possibilità di un diverso destino per Roma. Significa riconquistare ai suoi cittadini, prima che ai turisti, uno spazio pubblico di enorme valore simbolico e sociale.
Significa realizzare il sogno di Cederna e Petroselli nei cui confronti Roma ha un debito enorme che bisogna cominciare ad estinguere.

La storia dettagliata del progetto Fori, la potete leggere oltre che su eddyburg, in due volumi recenti: E.Baffoni, V. De Lucia, La Roma di Petroselli, Roma 2011 e V. De Lucia, Nella città dolente, Roma 2013.
In eddyburg, in particolare:
V. De Lucia, Antonio Cederna, Luigi Petroselli, il progetto ForiV. De Lucia, L'Appia antica e il Progetto Fori

L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, blog "nessun dorma"

Rifiuti”: poche parole vengono ripetute con maggiore frequenza anche da ciascuno di noi, a proposito delle proteste per i sacchetti di immondizie che si accumulano nelle strade, contro le discariche o gli inceneritori o a proposito della raccolta differenziata. I rifiuti sono il risultato inevitabile di qualsiasi operazione di produzione agricola o industriale e di consumo delle merci. Per limitarci ai rifiuti solidi, in Italia si tratta di circa 180 milioni di tonnellate all’anno. 32 di rifiuti urbani, 50 di rifiuti industriali, 70 di rifiuti delle attività di cave, miniere e residui di costruzioni, 28 di altri rifiuti. Nel complesso la vita quotidiana di ogni italiano comporta la produzione, ogni anno, di circa 500 chili di rifiuti urbani, di circa 3000 chili di rifiuti totali, pari a cinquanta volte il peso di ciascuno di noi.

Per evitare l’uso inquinante delle discariche o degli inceneritori ai cittadini viene chiesto di effettuare una raccolta differenziata dei propri rifiuti domestici in modo da separare le componenti che potrebbero essere riciclati con minore effetto ambientale negativo, anzi con recupero di materiali economici, di “merci riciclate”, che altrimenti richiederebbero nuove materie prime tratte dalla natura. In generale però non viene adeguatamente spiegato in che cosa consiste il riciclo, un insieme di attività che coinvolge centinaia di aziende e diecine di migliaia di lavoratori, tecnologie talvolta raffinate e un grande giro di affari. Ciascuna delle frazioni di rifiuti, raccolti in maniera differenziata, viene dapprima ritirata da alcune imprese che effettuano una selezione per eliminare le componenti estranee: purtroppo infatti spesso molti cittadini, pur volonterosi, mettono alcuni rifiuti nel cassonetto sbagliato, rendendo talvolta impossibile il riciclo dell’intero contenuto.

Ciascuna frazione, abbastanza omogenea, di rifiuti (vetro, plastica, metalli, carta, eccetera) viene venduta (proprio così, esiste un vero commercio come se si trattasse di qualsiasi altra materia prima o merce) alle industrie che trasformano i rifiuti differenziati in nuove merci. Nella Comunità Europea ciascun rifiuto, dalla lampadina bruciata, alla bottiglia della conserva di pomodoro, al camion fuori uso destinato alla rottamazione, è classificato con un codice numerico CER (Catalogo Europeo dei Rifiuti, consultabile nel Testo Unico ambientale, il decreto 152 del 2006). Un rifiuto viene avviato allo smaltimento o al riciclo proprio sulla base di questo codice CER. Il riciclo è effettuato da industrie specializzate di cui sarebbe bene conoscere i processi se si vuole fare una raccolta differenziata veramente efficace.

Proprio in aprile una speciale commissione della Confindustria, l’associazione degli industriali, ha pubblicato lo studio: “Verso un uso più efficiente delle risorse” il cui testo è disponibile in Internet e che potrebbe essere utile in molti corsi universitari, dal momento che molte fasi della caratterizzazione e del riciclo dei rifiuti richiedono controlli chimici e fisici, in qualche caso molto delicati. Dal documento citato appare, per esempio, che nella produzione vitivinicola si forma oltre un milione di tonnellate di sottoprodotti dai quali potrebbero essere ottenuti gas combustibili o alcol etilico. Degli oltre sei milioni di tonnellate della carta e dei cartoni raccolti in maniera differenziata in Italia ogni anno, solo cinque entrano nei processi di produzione di nuova carta e in tali processi di riciclo si formano altri rifiuti: 400 mila tonnellate all’anno: fanghi di disnchiostrazione e di altro tipo, che finiscono nelle discariche o negli inceneritori.

Fra le materie più difficili da riciclare ci sono le materie plastiche; quelle in commercio sono di molti tipi diversi, ciascuna con composizione chimica e ingredienti diversi, per cui una gran parte della plastica, anche raccolta negli appositi cassonetti, finisce nelle discariche (1,6 milioni di tonnellate) o negli inceneritori spesso con effetti inquinanti dell’atmosfera. Le attività di demolizione degli edifici e delle costruzioni producono ogni anno circa 50 milioni di tonnellate di residui che, in gran parte, finiscono nelle discariche. La rottamazione e il riciclo delle varie componenti dei veicoli fuori uso comporta delicati problemi tecnici ed ecologici perché le varie parti dei veicoli delle varie marche hanno composizione chimica differente; comunque, nella rottamazione, oltre il 25 % del peso del veicolo finisce in un rifiuto, detto “fluff”, costituito da una miscela di materiali metallici come ferro e alluminio, materie plastiche, gomma, vetro, fibre tessili, vernici, di difficile smaltimento.

Gli inceneritori/termovalorizzatori dei rifiuti urbani, che tanto piacciono a molte amministrazioni locali, lasciano come residuo circa il 30 % di ceneri, in parte da smaltire in discariche speciali che non esistono in Italia, per cui devono essere esportate in Germania. Per farla breve: qualsiasi processo di trattamento e di riciclo dei rifiuti si lascia dietro inevitabilmente altri rifiuti e inquinamenti: lo stesso riciclo dei rifiuti richiede la soluzione di problemi chimici, tecnici, commerciali, argomenti di una vera e propria “Merceologia del riciclo”, il cui insegnamento e le cui conoscenze consentirebbero agli amministratori e agli imprenditori scelte meno costose e, a loro volta, meno inquinanti, capaci di creare nuova duratura occupazione: infatti, siate certi, la massa dei rifiuti da trattare aumenterà sempre.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

Il 18 maggio ci sarà la Notte dei Musei: la possibilità di visitare decine e decine di musei in tutta Europa >>>
Il 18 maggio ci sarà la Notte dei Musei: la possibilità di visitare decine e decine di musei in tutta Europa con aperture straordinarie fino a tarda notte e di assistere ad eventi, performances, concerti o visite guidate nelle istituzioni coinvolte.
Si tratta di un’iniziativa ideata nel 2005 dal Ministero della Cultura francese e poi rilanciata, a livello europeo, dal 2011 quale espansione della giornata dei Musei creata dall’ICOM nel 1977 che coinvolge oltre 30.000 musei in tutto il mondo.
L’International Museum Day è un appuntamento di grande importanza culturale che ogni anno si focalizza su di un tema preciso: quest’anno, 2013, è dedicato al museo come strumento del “social change”.

Il Mibac non aderisce al Museum Day, nessun museo statale è quindi presente. In compenso, molte istituzioni museali parteciperanno alla Notte europea dei Musei: l’appendice più dichiaratamente mirata all’infotainment, versione semplificata e glamour della vecchia didattica.
Non stupisce questa scelta da parte di un ministero che negli ultimi anni ha appiattito il concetto di fruizione del nostro patrimonio culturale sulla logica dell’evento e della valorizzazione turistica.

Senonchè, di fronte a problemi di organico sempre più gravi che limitano le attività quotidiane di musei e siti archeologici, persino quelli più celebrati come Colosseo (aperto, in alcuni giorni, con 8, dicasi 8, custodi in tutto) e Pompei, il Mibac ha annunciato nei giorni scorsi l’intenzione di ricorrere a volontari per garantire l’organizzazione dell’iniziativa.
Di fronte alle proteste subito esplose dei tantissimi professionisti precari del settore culturale, la decisione è poi stata difesa dal sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni con l’incredibile giustificazione che, poichè non ci sono le risorse, e in attesa di tempi migliori, non si può che fare così; i volontari diventano quindi, sic stantibus rebus, una necessità. Affermazioni perfettamente allineate con quelle che il successore di Borletti Buitoni al Fai va ripetendo all’unisono con la stampa benpensante e gran parte del mondo politico: la gestione del patrimonio culturale va lasciata ai privati (mentre la tutela, oscura, faticosa e sempre più costosa, rimane ovviamente in capo allo Stato).

Questa vicenda, oltre a ribadire l’approssimazione con cui il Mibac affronta le iniziative di valorizzazione, ne sottolinea anche la colpevole indifferenza nei confronti di chi, in situazioni spesso al limite della dignità, garantisce ormai da anni servizi e attività di primaria importanza nei musei, nelle biblioteche e archivi, sulle centinaia di scavi di archeologia preventiva o di emergenza.

Stiamo parlando delle migliaia di giovani (e spesso non più tali) laureati nell’ambito dei beni culturali, spesso plurispecializzati, costretti, in quanto precari e anche a causa della mancanza di regole dovuta all’inadempienza dell’alta dirigenza ministeriale, ad operare in condizioni professionali che la riforma Fornero ha spinto alle soglie dello sfruttamento: con retribuzioni orarie fra i 5 e i 10 euro lordi e un reddito annuo che non supera, nella maggioranza nei casi, i 10.000 euro lordi l’anno (la soglia di povertà secondo l’ISTAT).

Così, invece di affrontare, sul piano dell’azione politica, quello che è divenuto un vero e proprio problema sociale e in ogni caso una insufficienza di risorse umane interne che non potrà che avere pesanti ripercussioni sul piano della stessa tutela, al Collegio Romano ci si trastulla con gli eventi effimeri della Notte dei Musei.

La protesta dei professionisti precari dei beni culturali, sacrosanta, nei confronti non dei volontari in quanto tali, ma dell’ennesima dimostrazione di arroganza miope di un Ministero incapace di ribellarsi alla propria conclamata irrilevanza politica, è dilagata soprattutto sui social media (#no18maggio). Andatele a leggere quelle ragioni e quelle storie: pur in mezzo a tanta rabbia, prevale la passione per il proprio lavoro e la tenacia a continuare nel percorso intrapreso. Tanto che al posto di “generazione co.co.co.” è spuntata, su twitter, la definizione di “generazione pro.pro.pro.”, come protesta, progetto, proposta.
A questa #generazionepro è affidato l’unico futuro auspicabile per il nostro patrimonio culturale: forza ragazzi!

L'articolo è pubblicato, contemporaneamente, su L'Unità on-line, blog "nessun dorma"
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Beni culturali: tra l'inferno del precariato e l'arroganza della politica
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Non è chi non lo veda. Quanto è accaduto con la formazione del governo Letta costituisce un episodio che non ha precedenti nella storia dell'Italia repubblicana >>>

Non è chi non lo veda. Quanto è accaduto con la formazione del governo Letta costituisce un episodio che non ha precedenti nella storia dell'Italia repubblicana. Con la scelta di formare un esecutivo insieme al PDL, il Partito Democratico ha stracciato il proprio programma elettorale, rovesciato il patto sottoscritto con i propri elettori. Non solo. Aspetto poco rilevato dalle cronache, ha tradito con noncurante protervia il contratto solennemente sottoscritto con l'alleato della coalizione, Sinistra, Ecologia e Libertà, costretta a ingoiare i vincoli del fiscal compact imposto da quei superbi uomini di Stato che operano a Bruxelles e a Berlino, e a subire un repentino tracollo dei consensi del suo elettorato di riferimento. Il quadro non sarebbe completo se non ricordassimo, come altri hanno già fatto, che anche gli elettori del Popolo delle libertà sono stati traditi: anche costoro non avevano votato per una coalizione di governo col PD.
Ricordo questo per sottolineare che l'attuale esecutivo non solo si regge sui voti di meno della metà dei potenziali elettori italiani, ma lo fa rovesciando e tradendo il loro mandato politico. Davvero un evento unico nella storia d'Italia. E un colpo devastante alla credibilità della democrazia rappresentativa. Dunque, il governo Letta dà compiutezza anche simbolica al tracollo storico del sistema politico nazionale: i partiti sono una realtà a sé, chiusi nel proprio sopramondo, ormai disancorati da una società che subisce impotente le loro scelte. Sono diventati una specie di limbo: schiacciati in alto dai poteri ottusi e protervi dell'Unione Europea e pressati in basso dalle masse popolari, che covano ormai contro di essi solo odio e rancore. Quelle masse popolari che, se fossero state ascoltate e mobilitate, avrebbero potuto piegare le resistenze di una politica economica che ormai l'intero orbe terraqueo denuncia come sbagliata.

E' noto che, nel tracollo del sistema politico, la posizione del PD è diventata tragica. 101 parlamentari che tradiscono gli accordi del proprio gruppo e che non hanno il coraggio civile di manifestare la propria diserzione, hanno inferto una ferita immedicabile al corpo di un partito già lacerato da innumerevoli conflitti interni. Questo partito, che ha il compito di reggere l'attuale esecutivo, che ha messo docilmente il capo sotto la ghigliottina di Berlusconi, che rischia non solo di perdere le elezioni prossime, ma di esplodere per le proprie faide interne, oltre che per la sconfitta probabile, ha poche strade per uscire dal vicolo cieco costruito zelantemente con le proprie mani. Io credo che il prossimo congresso straordinario sia forse l'ultima occasione perché il Partito democratico mostri alla sinistra e al Paese la propria utilità politica, la propria necessità di esistere.

Ma perché questo accada occorre, a mio avviso, che questo congresso sia davvero straordinario, che non si costruisca e si svolga come al solito, con i signori delle tessere che ridisegnano le vecchie geografie oligarchiche al centro e in periferia. Io credo che ci sia una via d'uscita a tale vetusta prassi, la quale non sanerebbe i conflitti interni e riconsegnerebbe alla fine il partito a questo a o quel gruppo maggioritario, lasciando intatta la sua forma oligarchica.

Credo che costituirebbe non solo un risarcimento politico e morale, ma qualcosa di più, se i tre milioni del cosiddetto “popolo delle primarie” rivendicassero il diritto di partecipare ai congressi preparatori che si svolgeranno in tutti i territori del Paese. In queste sedi potrebbe essere messo alla prova quel progetto di “mobilitazione cognitiva”, di cui parla Fabrizio Barca nel suo recente documento: vale a dire la partecipazione alla vita dei partiti anche di chi non è iscritto, di chi è semplicemente portatore di idee, conoscenze, rivendicazioni, proposte. Un congresso che coinvolga i milioni di uomini e donne, che si sono messi in fila in tutta Italia per eleggere i leader del centro-sinistra, potrebbe immettere nel corpo svuotato del partito un'ondata di fermenti sociali e di conflitti materiali che solo potrebbe rimetterlo in vita. Ma quest'onda potrebbe travolgere utilmente anche i presidi di potere feudale che ancora immobilizzano questo partito non solo nel suo gruppo dirigente centrale, ma anche in periferia. Non bisogna dimenticare che il Partito democratico ha in tutto il Paese centri di potere clientelare detenuti da pochi dirigenti che spadroneggiano nel partito e nelle amministrazioni locali. Sono figure che interpretano la politica come affare, legate ai poteri economici e soprattutto alla rendita fondiaria, che hanno sfigurato l'immagine della sinistra italiana negli ultimi decenni.

Ebbene, hic Rhodus, hic salta, come si diceva una volta. Questo è il momento o forse non ce ne sarà più un altro. Credo che questo passaggio possa costituire un'ultima prova. E' assai probabile che, oltre un congresso in cui non esploda un rinnovamento profondo, non ci sia più né tempo, né spazio per un lavoro di lunga lena, come quello generosamente intrapreso da Fabrizio Barca dentro le maglie organizzative del PD. Temo che la disperazione sociale toglierà a milioni di italiani la capacità di attendere che questo partito diventi capace di intercettarne le angosce e di approntare qualche via d'uscita. Potrebbero rifugiarsi, come in parte hanno fatto, sotto le più varie e disperate insegne. Mentre c'è un arcipelago di forze di sinistra, portatore di idee e senza potere, che attende un vasto e generale sforzo di raccordo e unificazione: il solo, a quel punto, che potrebbe far rinascere quel partito democratico, popolare e riformatore che manca all'Italia da troppi anni.

Domenica scorsa, centinaia di storici dell’arte, architetti, archeologi, operatori a vario titolo dei beni culturali si sono ritrovati a L’Aquila >>>
Domenica scorsa, centinaia di storici dell’arte, architetti, archeologi, operatori a vario titolo dei beni culturali si sono ritrovati a L’Aquila per testimoniare attraverso un percorso lungo le strade abbandonate del centro storico e un incontro nella chiesa di San Giuseppe artigiano, una delle poche agibili in centro, che il problema della ricostruzione della città abruzzese è un problema di tutto il paese. L’iniziativa, nata da un’idea di Tomaso Montanari e da lui organizzata con appassionata tenacia, assieme soprattutto a Santa Nastro, ha conosciuto molti momenti di grande intensità e si è conclusa con l’orazione civile di Salvatore Settis che, rileggendo le vicende aquilane, a partire dalla costruzione delle new towns, vera e propria antitesi del concetto di città, ancora una volta ha additato nella nostra Costituzione il baluardo della cultura della tutela, fattore essenziale di aggregazione civile.

E’ un percorso, quello nel centro storico, che dovrebbe essere reso obbligatorio a tutti i nostri rappresentanti politici e ai giornalisti: a quattro anni dal sisma, L’Aquila è una città deserta e abbandonata. Le migliaia di impalcature che la rivestono, ossessivamente, implacabilmente, sono ancora là, più che a proteggere, a congelare in un abbraccio che si è fatto mortale. I timidi segnali di ripresa che consistono in qualche cantiere di restauro attivato negli ultimi mesi, sono ancora ben lontani dall’aver raggiunto una massa critica tale da innescare un processo virtuoso di rinascita.

D’altronde lo stesso sindaco Cialente, il giorno seguente, restituendo la fascia tricolore, ha scritto, al Capo dello Stato: «Ieri, 5 maggio, mille storici dell’arte italiani, si sono incontrati a L’Aquila per denunciare lo stato di abbandono del centro storico ed il fallimento della ricostruzione. Mi sono sentito mortificato come Sindaco, mortificato di dover mostrare ancora le nostre piaghe».

Al primo cittadino, come a tutta la classe politica locale, possono, in realtà, essere imputate molte responsabilità, ma è soprattutto sulle cause di questo fallimento che è opportuno interrogarsi.
Per quanto riguarda la ricostruzione del centro storico, certamente, uno dei problemi principali è quello dei soldi, che mancano, per i restauri e le ricostruzioni.
Ma forse ancora più grave è l’incapacità dimostrata sino a questo momento dagli organi di tutela di imporre politicamente la ricostruzione del centro storico – uno dei più importanti, dal punto di vista monumentale, in Italia - come l’elemento guida per la rinascita della città.

Così si è lasciato spazio e risorse all’esperimento delle new towns, prima, e recentemente si sono sostenute le avventurose affermazioni del documento OCSE che in sostanza ammette, con qualche restrizione di facciata (in senso anche letterale), ogni genere di trasformazione per il tessuto edilizio non monumentale.

E’ il ribaltamento di quanto la Carta di Gubbio, nel 1960, aveva affermato, ovvero sia il “carattere unitariamente monumentale dei centri storici”, all’interno del quale non esistono trasformazioni fra monumenti di pregio ed edilizia minore e per questo l’unica modalità d’intervento consentita è il restauro. Il centro storico non può essere perciò il luogo dove si realizzano nuove architetture (come si è fatto invece con l’Auditorium di Renzo Piano). Le nuove architetture sono destinate, come ci aveva insegnato Cederna fin da I vandali in casa, a riqualificare la periferia, anche a L’Aquila di pessima qualità edilizia ed architettonica.

Leonardo Benevolo ha recentemente definito la pratica del restauro conservativo nei centri storici come il più importante contributo della scuola italiana all’urbanistica del Novecento: questa lezione ha fatto scuola in Europa, ed è ormai un’acquisizione consolidata.

Non in Italia, dove, al contrario, viene continuamente rimessa in discussione in nome della “modernità”. E’ di queste ultime settimane lo slogan “dov’era, ma non com’era” che in sostanza oppone alla pratica del restauro filologico il 'progetto' del nuovo, come soluzione per la ricostruzione posterremoto di centri storici e monumenti in Emilia.

Quest’ossimoro della ricostruzione senza restauro è purtroppo appoggiato dalla stessa Direzione Regionale dell’Emilia Romagna, l’organo del Mibac che coordina le operazioni per quanto riguarda l’insieme del patrimonio culturale, che pare favorevole a consentire che molti dei monumenti danneggiati dal sisma di un anno fa, soprattutto se gravemente danneggiati, possano essere ricostruiti con forme e tecniche del tutto differenti da quelle precedenti.

Il caso emiliano rischia di non essere isolato: ancora qualche anno, forse qualche mese e gran parte degli edifici del centro storico aquilano non potranno più essere recuperati se non con operazioni di consolidamento e restauro costosissime, troppo costose per non far riemergere la tentazione del “dov’era, ma non com’era”.

La ricostruzione e rinascita del centro storico aquilano, non è solo una questione culturale nel senso settoriale del termine; come è stato ribadito da Vezio De Lucia nel convegno del 5 aprile, il centro storico deve tornare ad essere il perno territoriale per contrastare la tendenza dell’Aquila allo sparpagliamento e alla dissipazione del territorio, tendenza esplosa con le new towns e che rischia di trasformare L’Aquila in una sterminata periferia, per di più priva di servizi.

Anche per questo, come hanno scritto sui loro cartelli i tantissimi studenti di storia dell’arte presenti alla manifestazione del 5 maggio “non c’è più tempo per aspettare domani”.

Cari amici 5 Stelle, ho compreso in maniera definitiva che il vostro movimento correva verso il precipizio allorché Beppe Grillo auspicò un'alleanza di governo PD-PDL >>>

Cari amici 5 Stelle,

ho compreso in maniera definitiva che il vostro movimento correva verso il precipizio allorché Beppe Grillo auspicò un'alleanza di governo PD-PDL che lo avrebbe condotto a guadagnare il 100% dei consensi elettorali degli italiani. Da quella base amplissima, a suo dire, senza più opposizioni, sarebbe partita l'azione riformatrice che avrebbe cambiato l'Italia. Questo modo di ragionare è improvvido per più ragioni, su cui non mi soffermerò. Ma è anche privo di fondamenti storici. E' verissimo che il sistema politico italiano è al collasso, ma che cosa può venir fuori dalla sua definitiva distruzione non sta nelle disponibilità personali di Grillo. All'indomani della prima Guerra mondiale il sistema politico liberale si decompose, anche per effetto dell'ingresso delle grandi masse popolari nella scena politica.
Ma non furono né i socialisti né i popolari a ereditare il potere dai notabili liberali. La borghesia italiana trovò una soluzione insperata e imprevista nel fascismo, che regalò all' Italia vent'anni di dittatura. C'è nelle vostre file un grave errore di prospettiva e di valutazione, oltre ai mille altri deficit di cui son gremite le cronache. Senza dire dello stalinismo mediatico su cui si regge la vostra organizzazione. Quale prospettiva di democrazia suggerite col vostro stile di disciplina interna? Voi credete di incarnare un movimento storico in ascesa – e in parte lo siete – ma oggi rappresentate soprattutto, alle attuali dimensioni, un evento elettorale. La sproporzione tra i numeri dei vostri militanti e quelli dei vostri elettori (oltre 8 milioni) si spiega con un moto di protesta e di “rivolta elettorale “ di milioni di italiani letteralmente disperati di fronte all'inettitudine e all'egoismo affaristico del ceto politico nazionale. Ma quei voti disperati erano anche gonfi di speranza nella vostra capacità di cambiare al più presto anche la natura tortuosa, attendista, opaca dell'agire politico. Nei pochi mesi seguiti all'elezione voi avete mostrato di tenere più alla vostra purezza ideologica e alla vostra unità interna (con un egoismo non diverso da quello della “casta”) che alle sorti del Paese. E gli italiani che hanno potuto – gli elettori del Friuli Venezia Giulia - vi hanno inviato un messaggio che vi dovrebbe allarmare.

Ora, poiché con la formazione del nuovo governo, si è realizzato quanto Grillo sperava ( insieme a Berlusconi e a parte del PD, ma guarda un po'!) si apre per voi non la prospettiva di crescita che speravate, ma l' avvio di un accelerato declino. Vi spiego perché. La tentazione di credere che il governo in carica rinfocolerà i risentimenti degli italiani contro il sistema politico, accrescendo il consenso al vostro movimento, solo sulla base dalla vostra assenza dai giochi del potere, è un'illusione nefasta. Gli italiani chiedono certo trasparenza, ma anche qualcos'altro. Se voi spenderete i prossimi mesi di vita parlamentare solo per criticare le iniziative governative e le mosse dei partiti, alle prossime elezioni ( che possono essere decise a ogni momento da Berlusconi) sarete severamente ridimensionati. Tutto possono oggi tollerare gli italiani, tranne che lo spettacolo di 163 parlamentari impegnati a testimoniare la loro inutilità.

Servono a poco gli urli di protesta, se ignorate che la capacità di sopportazione degli italiani ora vi riguarda direttamente. Gli elettori oggi pretendono anche da voi quello che è mancato in questi ultimi 20 anni: una opposizione reale alle forze dominanti, fatte non di chiacchiere pubblicitarie, ma di azioni concrete. Perciò non solo la vostra crescita, ma la vostra stessa salvezza è affidata all' efficacia dell'azione parlamentare che saprete condurre nei prossimi mesi. Altrimenti non solo indebolirete una potenziale opposizione della sinistra in Parlamento – continuando a favorire il centro-destra, come avete fatto sin qui - ma molti di voi chiuderanno assai presto la loro avventura, accrescendo il tracollo delle rappresentanze popolari e democratiche alle prossime elezioni. Eppure, voi avete ancora la possibilità di dare un impulso nuovo all'opposizione in Parlamento. Io credo che voi potreste concentrare la vostra azione su un paio di temi rilevanti su cui tessere un'alleanza alternativa. Il primo è senza dubbio quello relativo al reddito minimo. Tale rivendicazione appare oggi -a parte il suo merito - una grande contromossa alla carta ricattatoria giocata da Berlusconi su tutto il fronte progressista, quella dell'abolizione e restituzione dell'IMU.
E' più efficace, contro la recessione, il reddito minimo distribuito a milioni di non abbienti, che lo trasformeranno immediatamente in spesa e consumo, o la restituzione di poche centinaia di euro a tutti i proprietari di prime case, fra cui ci sono milioni di abbienti, che neppure si accorgeranno del nuovo introito? Quanto consenso trasversale può far guadagnare il fornire un sostegno pur contenuto a milioni di giovani mai entrati nel mercato del lavoro, ai disoccupati di lungo corso? Il secondo punto riguarda la scuola e l'Università. Quest'ultimo tema riveste grande importanza strategica per le sorti future dell'Italia. Esso comporta, certo, una nuova strategia di investimenti, l'immissione di nuovi docenti, risorse per la ricerca, se non vogliamo che un grande paese industriale finisca alla periferia del mondo. Ma ci sono riforme da introdurre subito nell'Università che sono senza spesa. Si pensi alla cancellazione del nefasto 3+ 2, all'abolizione dei crediti, alla semplificazione della macchina burocratica e dell'organizzazione didattica, alla limitazione della durata dei rettori, ecc.
Alcune riforme come l'abolizione dell'ANVUR, nuovo carrozzone clientelare di italica fattura, farebbero risparmiare centinaia di milioni di euro, da destinare a borse di studio per studenti e neolaureati. E su questo terreno potreste legavi ai movimenti, ai giovani, agli studenti. E naturalmente potreste creare alleanze trasversali con i parlamentari di Sel, ma anche con i tanti parlamentari del PD disponibili a battaglie riformatrici e dotati anche di esperienza politica e del sapere istituzionale che a voi manca. Naturalmente, condizione perché questo si realizzi è che tutti voi cessiate di immaginare che la politica sia una pratica onanistica, sia pure di gruppo.

Articolo inviato contemporaneamente a il manifesto

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Fra tutti i compagni di viaggio che si potevano auspicare per il nostro disastrato patrimonio culturale, quello del turismo è sicuramente il più scontato. E il più pericoloso. Già in passato avevamo rilevato come un abbinamento di questo genere tende ad appiattire, inesorabilmente, la funzione dei beni culturali e paesaggio a quella di strumento al servizio delle rendite economiche derivate dai flussi turistici. Non solo: il turismo, prima industria a livello mondiale, ha un’impronta ecologica pesantissima e, se non governata, è causa di pesanti ricadute su monumenti, città e paesaggi, in termini di pressione antropica, degrado dei centri storici, speculazione edilizia: fenomeni ormai ben noti al Bel Paese. Insomma rischia di essere l’attività che vampirizza e distrugge la risorsa che la alimenta.

Intendiamoci, la legittimità e opportunità di un uso turistico del nostro patrimonio culturale non è in discussione. Il problema è piuttosto di governare un fenomeno con strumenti più efficaci di quelli finora adottati, considerate le caratteristiche quantitativamente espansive che lo connotano. L’uso a fini turistici del nostro patrimonio culturale è invece tuttora caratterizzato da elementi di improvvisazione e superficialità di analisi che tendono ad appiattirsi su di uno sfruttamento acritico, in cui una “valorizzazione” improvvisata sforna eventi e attività senza innovazione e senza strategia.

E soprattutto, il turismo deve tornare ad essere una fra le tante possibili attività di fruizione del nostro patrimonio culturale. Non la sola e predominante. Perchè oltre ai turisti ci sono i cittadini e coloro che aspirano a diventarlo e per i quali l’integrazione può e deve avvenire anche attraverso quello strumento formidabile di inclusione e coesione che possono diventare i nostri beni culturali.

Oltre e più che al turismo, quindi, occorrerà tessere stretti legami con altri settori, quali quello dell’istruzione, dell’integrazione, della coesione territoriale. E quello dell’ambiente, perchè una delle prime emergenze che si troverà ad affrontare il neoministro è quella del paesaggio, abbandonato da almeno tre ministri in un limbo di inazione politica gravissimo (v. su questo blog: Dopo lo tsunami, chi vuole il paesaggio?).Accanto a questa, il problema drammatico della carenza di risorse economiche (chiudere Arcus, subito!) e quello del personale. E qui, per trovare competenze ed energie, meglio guardare ai territori e uscire dagli ambienti asfittici e autoreferenziali di un centro ipertrofico e poco incline all’innovazione, come stanno ad esempio a dimostrare i fallimenti di ICCD e del portale CulturaItalia.

L’insieme di questi problemi può essere però ricondotto ad una causa fondamentale: ciò che manca da troppo tempo al Collegio Romano è la capacità di elaborazione di una strategia complessiva che parta da una visione finalmente aggiornata e democratica della funzione sociale del nostro patrimonio culturale. Insomma, una politica dei beni culturali e del paesaggio degna di questo nome che sappia restituire al Ministero un ruolo di rilevanza primaria all’interno delle dinamiche governative.

Non sarà facile, ma mentre scrivo queste righe si rincorrono ancora le notizie relative all’attacco compiuto davanti a Montecitorio. L’autore è un operaio edile rimasto disoccupato. Una delle tante vittime del crollo di un settore che nel nostro paese è stato, negli ultimidecenni, al servizio soprattutto della speculazione e della rendita edilizia. Eppure il nostro paese avrebbe immediato, urgentissimo bisogno di quelle opere di manutenzione del territorio e riqualificazione edilizia che costituirebbero la prima e più importante opera di tutela di paesaggi e città. Insomma un filone in cui il Ministero dei beni culturali e quello dei lavori pubblici e infrastrutture potrebbero collaborare su di un piano non di contrapposizione o sudditanza (del primo nei confronti del secondo), come avvenuto finora, ma di reale parità. A vantaggio del patrimonio culturale, del paesaggio, della chimerica “crescita”. E di tutti i cittadini.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a l'Unità, per il blog "nessun dorma"

E' difficile intervenire sul documento di Fabrizio Barca Un partito nuovo per un buon governo, in un momento nel quale il partito oggetto del disegno riformatore è andato in frantumi. E mentre quello speciale sopramondo che è la vita politica italiana è precipitato nel caos. Anche se non si può fare a meno di pensare che proprio in momenti drammatici come questi si possono generare gli ardimenti delle svolte risolutive. D'altra parte, quello di Barca vuole essere un progetto di medio-lungo periodo, com'è giusto, perciò la discussione può riguardare aspetti progettuali per cosi dire fondativi della sua proposta, lasciando sullo sfondo – ma solo fino a un certo punto – le spinosissime questioni immediate.

Di tali aspetti progettuali io privilegerei, per brevità, l'idea di separare nettamente il partito dallo Stato. Un “Partito-palestra”, scrive Barca, radicato localmente, fondato sul volontariato, «sfidante dello Stato stesso» e in grado di procurarsi dal basso le risorse necessarie alle sue attività. Si tratta di un punto di portata strategica. Come da tempo ha messo in evidenza la politologia internazionale, in quasi tutti i paesi avanzati il sistema politico si è andato configurando come un meccanismo di cartel party, un cartello controllato da due partiti dominanti. Nelle democrazie inglese e americana il bipartismo perfetto incarna pienamente tale modello, con due organizzazioni che fanno la stessa politica e competono per il controllo del potere. Questi partiti sono diventati nei decenni i gate keepers, come li chiamano Y. Meny e Y Surel. In Populismo e democrazia, «i guardiani che vietano l'accesso ai nuovi arrivati», impedendo loro l' accesso alle risorse pubbliche e tenendo lontane tutte le forze, i movimenti, le culture politiche minoritarie che vogliono entrare nelle istituzioni. Il PD è nato per incarnare questo modello in una fase storica in cui esso mostrava tutta la sua grave usura storica, il deficit crescente di democrazia che imponeva negli stessi paesi in cui era nato, dove pure aveva garantito, con alti e bassi, un qualche tasso di rappresentatività. Dunque la nascita del PD costituisce un tentativo tardivo e involutivo di “modernizzazione” del sistema politico, che ha creato molti più problemi di quanto non ne abbia risolti. Intanto, anche grazie al sistema elettorale maggioritario, ha finito con l'emarginare e cacciare dal Parlamento le varie culture politiche disseminate nel Paese che non trovano più rappresentanza. La sinistra radicale – formazione anche tatticamente utile in un Parlamento nel quale si vogliono vincere resistenze conservatrici - è stata messa in un angolo. Non senza responsabilità – questo è ovvio – da parte della medesima.

Un partito siffatto, nella fase storica in cui le risorse da distribuire con il welfare diminuiscono costantemente, che ha abbandonato gli ancoraggi con le realtà locali e dunque il supporto della militanza diffusa, vede nelle risorse finanziarie pubbliche (ma anche private!) lo strumento fondamentale per la competizione con il partito avverso. Diventate sempre più ristrette le basi del consenso popolare, anche per effetto delle scelte neoliberiste – promotrici delle virtù del mercato su quelle del governo dei fenomeni sociali – il PD diventa un partito che non promuove più azione sociale, ma produce messaggi e ha perciò bisogno di televisione e di tutti i costosi strumenti del marketing elettorale. Ma ha bisogno anche di potere e di danaro per tutti i suoi dirigenti a livello centrale e periferico. E tale necessità diventa, a sua volta, inevitabilmente, il fine dell'agire politico di un numero crescente di figure sociali, sempre più svincolate da obblighi di appartenenze ideologiche. Il lettore può agevolmente riempire tale schema con la cronaca politica e giudiziaria degli ultimi anni. Quanto la trasformazione di un partito di massa in una macchina elettoral-clientelare abbia devastato lo spirito pubblico nazionale, specie nel Sud, e favorito la crescita della criminalità, è intuibile. Senza dimenticare che tale partito competeva con una forza politica che faceva e fa della violazione delle regole dello Stato di diritto il suo marchio d'origine.

Si comprende, dunque, come la proposta di Barca va a colpire una struttura fondamentale della degenerazione di un potenziale partito di massa. Una questione normativa – dunque eminentemente tecnica - che ha riflessi politici e perfino morali di grande rilevanza. Io credo molto in questo approccio “tecnico” di Barca per una ragione fondamentale. I partiti e soprattutto i partiti della sinistra, hanno perduto ovunque il loro più straordinario collante interno: la religiosità del fine da raggiungere, che metteva a tacere gli egoismi e la riottosità dei singoli, e rendeva il collettivo sufficientemente coeso da reggere agli urti della lotta. Oggi questa coesione si è dissolta, anche per motivi storici generali e positivi. Le società occidentali si sono secolarizzate, la religione ha cessato di essere istrumentum regni – salvo nelle goffe sette sopravvissute nei partiti italiani – il pluralismo delle fedi costituisce la stoffa della soggettività delle grandi masse. Occorre che un partito di sinistra ritrovi il collante capace di surrogare la vecchia religiosità militante. E a tale fine le prediche morali servono a poco.

Ciò che è utile – oltre alla rappresentanza dell'interesse collettivo - sono le norme, la sapienza dei vincoli e delle sanzioni, il coinvolgimento partecipativo. Perciò la questione del finanziamento – affrontato da Barca - diventa rilevante. Io credo, ad esempio, che l'imposizione di un tetto egalitario di spesa a tutti i candidati, nella competizione elettorale, costituisca uno strumento fondativo per separare i partiti dai poteri economici dominanti. Per renderli autonomi e più legati agli interessi popolari, obbligati a cercarsi il consenso con la presenza militante nei territori. Non per nulla negli USA i due maggiori partiti, che raccolgono danaro per faraoniche campagne elettorali, sono alle dipendenze del potere economico-finanziario e la politica dei presidenti è una mediazione faticosa (nel migliore dei casi) che lascia intatti gerarchie e privilegi. Oggi possediamo la strumentazione tecnica - la rete - utile non solo per un monitoraggio costante degli eletti da parte dei cittadini militanti, ma anche per la veicolazione dei saperi, che si producono nei territori, all'interno del partito.

Quali sono questi saperi? Sono un impasto di conoscenze, valori, passioni che si esprimono nella cura dell'ambiente, nella difesa del paesaggio, dei beni culturali e monumentali, nella tutela dei beni comuni dell'acqua, dell'aria e della terra fertile,nella volontà di accesso al sapere, nella critica alle forme devastanti dell'urbanesimo neoliberista, nella ricerca del cibo senza da contaminazioni, nella rivendicazione dell'eguaglianza sociale, nella difesa dei diritti, dei valori dell'accoglienza e del dialogo con gli altri, nella difesa della pace e dei popoli sotto dittatura e privi di cibo, nella rivendicazione del ruolo protagonista delle donne, nella volontà di avere ascolto, di controllare chi detiene il potere e di squarciarne le opacità, di mantenersi costantemente informati sulle cose del mondo.

E' a questa cultura, che fa la sostanza più profonda di una nuova sinistra diffusa e maggioritaria nel Paese, che occorre dare forma organizzata e capacità di partecipazione. Nel gruppo dirigente PD non c'è quasi nulla di tutto ciò. Potrà entrarci con un lavoro sia pure di lunga lena? Qui la prospettiva deve fare i conti con il presente. Il PD è un partito impotente. Una delle ragioni non dette della mancata scelta di andare alle urne nel novembre 2011 è che esso non avrebbe retto alla prova per le proprie divisioni interne e sarebbe esploso, come un areo in volo.

Nessuno si è accorto, in questi ultimi anni, del silenzio fragoroso dei dirigenti di questo partito su episodi anche gravi della vita nazionale? La ragione è semplice: se qualcuno prende posizione si scatena la canea delle contrapposizioni. Ed è il caos. Ciò che è accaduto con l'elezione del capo dello Stato è l'ultimo suggello. Nel frattempo, questo partito fa mancare al paese una reale opposizione, una forza di sinistra, un rappresentanza degli interessi popolari sempre più colpiti dalle politiche recessive, esattamente ciò che sarebbe più vitalmente necessario per trovare uno sbocco alla crisi. La quale nasce, com'è noto, dalla iniqua distribuzione delle ricchezze. E' Grillo che ha supplito a questa assenza clamorosa. E allora? Non sappiamo se la collera popolare ci darà il tempo. Forse Barca potrebbe tentare una vasta ricognizione nelle periferie del PD per verificare se, almeno qui, il partito è ancora vivo e se può essere utilizzato, almeno in parte. Perché il suo gruppo dirigente, in quanto dirigente, è morto da un pezzo.

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Gentile Sindaco di Tertenia, le Amministrazioni che si sono succedute da molti anni alla guida di Tertenia hanno contribuito vigorosamente, senza tregua e senza rimedio ad annientare sia l’abitato che il territorio. E lo hanno fatto, indipendentemente dalla fede politica, con spaventosa ostinazione, sostenuti tristemente da gran parte della comunità. Insomma, le vicende del suo paese dimostrano ancora una volta come siano gli elettori, e non solo gli eletti, a determinare la fortuna o la sfortuna dei luoghi e della stessa comunità.

Possiedo varie foto, anche aeree, del territorio di Tertenia. Sono demoralizzanti. Dimostrano prima di tutto l’incapacità di sostituire un mondo felicemente legato al proprio passato con un mondo felicemente moderno. Quella che si vede oggi a Tertenia è una malattia della modernità che, oltretutto, si aggrava ogni giorno di più. Si vede nelle fotografie impietose la disseminazione metastatica – in un territorio e una costa un tempo bellissimi – di costruzioni orrende (ma se fossero belle sarebbe ugualmente uno sfregio), vuote, devastanti. Il paese ha perso ogni traccia della sua fisionomia. Robaccia che trasmette l’idea di un’infezione e ha spogliato la collettività della sua unica ricchezza. Paragoni, gentile Sindaco, le condizioni del suo territorio con quelle di altre zone dove il rispetto dei luoghi ha conservato campagne, monti e coste. Vedrà che, specialmente in altre regioni europee, ma anche in alcune parti della Nazione, le campagne sono campagne, i paesi sono paesi. Vedrà che non si dissemina la propria terra di costruzioni in anarchia. Vedrà che si restaura e conserva con amore e orgoglio. E vedrà che le costruzioni, nei luoghi civili, cercano l’armonia con i luoghi.

Tertenia e il suo territorio sono diventati irriconoscibili e intollerabilmente brutti. Eppure qualcuno si meraviglia oggi a Tertenia (ma anche in tanti luoghi violentati dell’isola) della diminuzione del turismo, di meno gente, di poche “presenze”. Qualcuno invoca la crisi come causa maligna e non ammette che la ragione dell’impoverimento economico – e non solo economico – è nell’atroce bruttezza di quello che anche lei, signor Sindaco, ha favorito.

E per rimediare qualcuno propone ancora più mattoni. Come se un intossicato pretendesse di guarire assumendo altro veleno. Qualcuno è perfino un fiero antiambientalista. La parola ambientalista, apparsa da pochi decenni nel vocabolario, è stata talmente mutata e svuotata di senso che è oggi difficile attribuirle un significato univoco. Così si sente parlare di ambientalismo isterico, di ambientalismo che fa stragi, di lobby ambientaliste (cito una sua dichiarazione, gentile Sindaco, che sarebbe umoristica se non fosse preoccupante), di ambientalisti affamatori, di ambientalismo terrorista e di ogni forma di depravazione ambientalista. Sempre con una nuova accezione negativa.

Mai, di ambientalismo come elementare dovere di chi sta al mondo. Mai, di ambientalismo come normale esercizio di civiltà e coscienza. Addirittura, capovolgendo la realtà, l’ambientalismo sarebbe responsabile della perdita del lavoro e dell’indigenza delle famiglie. L’ambientalismo e non l’uso folle della bellezza dei luoghi, delle risorse dissipate in nome di un feticcio della modernità.

Così, a sentire le sue dichiarazioni, tra i “colpevoli” ci sarebbero, oltre le “lobby ambientaliste”, anche i giudici che ordinano la demolizione di qualche casa. Dimenticando che abusive sono le costruzioni e non i magistrati che ne ordinano l’abbattimento.

Intere regioni sono in mano agli ayatollah del cemento che consumano ferocemente i suoli con la bugia del lavoro che esiste solo nelle promesse. Intere regioni sono state distrutte prima culturalmente, poi materialmente e moralmente. La cultura locale isolana è stata stravolta e confinata nel mirto e nel capretto arrosto mentre si vendeva il suolo dove si era nati. E lei ci racconta di lobby ambientaliste. Sono estremisti o lobbisti in Germania dove puntano a zero consumo di suolo? Estremisti in Francia dove il permesso di costruire è una faccenda seria – più semplice che in Italia, forse, ma incrollabilmente seria – mentre da noi è spesso un patto a due, tra chi amministra e chi imprende? Estremista il Piano paesaggistico sardo che resiste al vano tentativo dei pasdaran del mattone di indebolirlo?

Sarebbero, invece, “saggi mediatori” quelli che decidono di annientare un territorio perfetto cospargendolo di case orribili, di villaggi fantasma, di mattoni e cemento? Quella che si vede a Tertenia sarebbe “urbanistica a misura d’uomo”? Sarebbe “moderato“ chi ha permesso, in cambio di un po’ di lavoro mai ottenuto o durato quanto un sospiro, che venisse dissipata l’unica grande ricchezza del suo paese, ossia le sue campagne e le sue coste, favorendo, oltretutto, l’interesse di pochissimi? “Moderati” sarebbero i masanielli locali che attribuiscono sorprendentemente colpe ai giudici i quali applicano la legge e tutelano la comunità ordinando la demolizione di costruzioni abusive (e non prime case di giovani coppie), una piaga che vede la Sardegna ai primi posti in Italia? I magistrati sarebbero dei prevaricatori?

Sono pagine malinconiche e vergognose quelle della storia recente di Tertenia. E quando il rispetto del Creato viene considerato un nemico da chi governa una comunità, le pagine oscure sono di certo destinate a moltiplicarsi. Mi auguro sinceramente che una riflessione profonda muti radicalmente l’orientamento suicida della comunità terteniese. A Tertenia c’è ancora molto da distruggere. Ma si può capovolgere il senso di questa affermazione e sostenere che a Tertenia c’è ancora molto da salvare.

L'Unità on line, dal blog"Nessun dorma", 13 aprile 2013
Fra una settimana si voterà in Friuli Venezia Giulia per il rinnovo del Presidente e del Consiglio regionale.Questi sono quindi i giorni in cui i vari candidati sparano le loro cartucce più roboanti. È il momento, per intenderci, del “meno tasse per tutti”. Ma l’attuale presidente, Renzo Tondo, candidato del centrodestra, ha deciso di andare oltre: così, accanto alla quasi scontata proposta dell’abolizione della Tares (balzello sul quale la Regione non ha alcun ruolo, ma, si sa, tutto fa brodo), troviamo addirittura l’istigazione alla “disobbedienza civile”.

Scordatevi Dossetti e il suo tentativo di introdurre in sede costituente il diritto-dovere di ogni cittadino alla resistenza agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione stessa. Con Tondo voliamo ben più in basso: secondo i programmi elettorali del nostro, la Regione dovrebbe farsi carico “dell’assistenza legale ai cittadini e alle imprese che decidessero di contravvenire a precise indicazioni di leggi o decreti amministrativi palesemente contrari al buon senso” (sic! Virgolettato sul Quotidiano del Friuli, 11 aprile 2013)
E fra queste leggi contro il buon senso – udite, udite – Tondo cita quel Decreto n. 42 del 2004 che altro non è se non il Codice dei beni culturali e del paesaggio: il caposaldo su cui ruota il nostro sistema di tutela di cui, in particolare, si stigmatizza il provvedimento di autorizzazione paesaggistica. Naturalmente la cornice entro la quale queste inaudite affermazioni si inquadrano è quella di una maggiore semplificazione della macchina amministrativa e di una riduzione dell’odiata burocrazia, radice di tutte le nequizie.

In un precedente post di “nessun dorma”, avevo richiamato la recente vicenda della rivolta degli amministratori e politici friulani contro la locale Soprintendenza ai beni architettonici e al paesaggio, accusata di frapporre troppi vincoli e prescrizioni alle autorizzazioni paesaggistiche. Si noti bene che l’accusa nei confronti dell’organo di tutela non era quella di eccessiva burocrazia o di lentezza nell’espletamento delle pratiche, ma piuttosto del contrasto opposto allo “sviluppo” e quindi, in sostanza, di un esercizio “senza sconti” del proprio ruolo. Insomma, di fare il proprio mestiere a tutela del paesaggio in nome di tutti i cittadini italiani.

Non sorprende questa avversione alle regole della tutela paesaggistica in una Regione che, è notiziadi questi giorni, ha approvato l’ennesima variante urbanistica proposta dal comune di Osoppo per l’aumento della zona produttiva e quindi la costruzione di decine di capannoni, in barba all’opposizione di ampi strati della popolazione e di associazioni locali che la giudicano devastante per il territorio. Ma in questo caso l’aspetto più grave della vicenda è costituito dal vulnus inferto alle più elementari regole della democrazia: attraverso le sue dichiarazioni, Tondo prefigura una società dove le regole sono adattate e adattabili in base alle esigenze, preferenze, necessità dei singoli cittadini e da loro modificabili secondo l’ “oggettivo” criterio del buon senso (dei cittadini? dei vincitori delle elezioni? dei portatori di qualsivoglia interesse?) Chi parla non è solo un candidato fra gli altri, ma l’attuale Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia in carica che ha giurato fedeltà alla Costituzione di cui il Codice rappresenta l’espressione sancita dal Parlamento.
Nessuna giustificazione può esserci per un tale livello di degrado civile e politico: è evidente che si possano mettere in discussione leggi e norme, ma per sostituirvi altre norme e leggi che si ritengano più adeguate. In nessun caso un rappresentante delle Istituzioni, al più alto livello, può neanche immaginare di istigare i propri concittadini all’illegalità.

La mutazione genetica di matrice berlusconiana del “ciascuno padrone a casa propria” è arrivata all’ultimo stadio: non c’è neanche bisogno di creare leggi ad hoc, perchè è la legge stessa a diventare un optional trascurabile e ignorabile ogni qualvolta ostacoli il percorso verso l’affermazione degli interessi del singolo. Purtroppo è questo un atteggiamento condiviso, in pectore, da ampi settori dei nostri rappresentanti istituzionali, come si può leggere in queste affermazioni contenute in un documento dell’attuale governo: «E' possibile affermare che la maggiore innovazione che ha interessato l’urbanistica con riferimento al complesso della legislazione nazionale e a quella delle legislazioni regionali (caratterizzate da profonde diversità fra di loro) è la trasformazione del suo carattere fondamentale che è passato da una natura fortemente autoritativa-conformativa alla individuazione di modelli organizzativi basati sulla ricerca di accordi fra pubblico e privati e fra gli stessi soggetti pubblici letti, in alcuni casi, come derogatori della normativa vigente». (Comitato Interministeriale per le politiche urbane, Metodi e contenuti sulle priorità in tema di Agenda urbana, Roma, 20 marzo 2013, p. 19). Insomma, siamo allo “sdoganamento” ufficiale della deregulation come pratica innovativa. Dove l’innovazione diventa aristocratico sinonimo del buon senso.

Cittadini friulani, il 21 e 22 aprile, ribellatevi: non alle leggi, ma a tutti coloro che ne sono indegni rappresentanti.

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Sono quasi 5 anni dall'inizio della crisi che i vertici politico-finanziari d'Italia e d'Europa inseguono previsioni smentite dai fatti con sistematica cadenza >>>

Facciamo un po' di storia. Disporre gli eventi in profondità prospettica illumina di più chiara luce la scena del presente. Nel 2009, il presidente della BCE, Trichet, prevedeva una « ripresa graduale » dell'economia nel 2010 (Il Sole 8.11.2009). Ad aprile del 2011 Mario Draghi, prossimo presidente BCE, annunciava la sua « fiducia nella ripresa» per l'anno in corso, dal momento che nel 2010 nessuno l'aveva avvistata.(Corriere della Sera 18 .4. 2011).Nel gennaio 2012, Mario Monti preannunciò una crescita del 10% del Pil italiano per effetto delle liberalizzazioni del suo governo. Qualcuno se ne ricorda? E nell'estate predisse: « l'economia riparte nel 2013» (Il Sole, 21.9.2012). Oggi Mario Draghi promette «Ripresa nel 2014» ( La Repubblica 7.3.2013).Vedremo quali saranno i prossimi vaticini.

Sono dunque quasi 5 anni dall'inizio della crisi che i vertici politico-finanziari d'Italia e d'Europa inseguono previsioni smentite dai fatti con sistematica cadenza. Sul piano della veridicità gli annunci, di cui ho fornito solo qualche esempio, non si discostano molto dalla profezie dei cartomanti, che un tempo richiamavano folle di creduli nelle fiere di paese. Ma i vaticini dei cartomanti erano innocui, non pretendevano di predire l'andamento economico delle società. E invece l' economia è l' unica scienza, insieme alla meteorologia, che si arroga il diritto non solo della previsione a breve, ma addirittura della profezia. Con quali risultati è sotto gli occhi di tutti.
Non voglio tuttavia indugiare nella derisione. Anche se essa è culturalmente e politicamente necessaria. Occorre che la disistima, il discredito, l'irrisione delle capacità tecnico-scientifiche di queste figure, nuovi padroni delle nostre vite, diventi diffuso, popolare, senso comune universale. Il radicamento di un progetto alternativo di società, la sua emersione politica, passa attraverso l'annichilimento di qualsivoglia aura scientifica del discorso economico neoliberista. D'altro canto, è evidente che quei messaggi di prossima ripresa sono pura ideologia, forme di copertura di una feroce lotta di classe con cui i gruppi dirigenti europei tentano di uscire dalla crisi col miglior risultato possibile: la resa senza condizioni della forza lavoro e la riduzione al minimo del welfare.

Le cronache recenti hanno tuttavia mostrato un aspetto inquietante dell'economia, un tempo regina delle scienze sociali e oggi ridotta al rango di tecnologia della crescita: vale a dire un puro dispositivo di calcolo, privo di pensiero, svuotato di cultura e valori, che tende a replicare dei meccanismi. Com'è noto, ai primi di quest'anno, il capo economista del FMI, Olivier Blanchard – confermando uno studio del World Economic Outlook dell ' ottobre 2012 – ha scritto in Errori previsionali di crescita e moltiplicatori fiscali, che i modelli della troika per i programmi di aggiustamento dei paesi UE si fondavano su un moltiplicatore sbagliato. E' straordinario! « Uno sbalorditivo mea culpa», l'ha definito il Washington Post. Qui tuttavia non si tratta semplicemente di stupirsi dell'errore. L'errore fa parte del procedimento scientifico, così come la sua onesta ammissione.

Quel che è clamoroso è l'assottigliarsi oligarchico del sapere e del potere economico-finanziario che governa le nostre società. Il destino economico e sociale di milioni di cittadini europei, la vita di tutti noi, sono stati affidati alla fondatezza di un calcolo finanziario. Un suo errore ha deciso l'immiserimento e la disperazione di un numero incalcolabile di persone. E allora?Il potere politico, quell'insieme di saperi e volontà istituzionali, chiamato a rappresentarci per nostra designazione - a vale a dire i partiti politici – dove erano, dove sono? Che fine fa la democrazia quando, sulla base di un calcolo di pochi “esperti”, si decide della nostra vita? A chi si è consegnata la civiltà europea, le sue culture secolari, le sue opinioni pubbliche mature?
Sappiamo che ai primi del 2013 il nostro debito pubblico ha sfondato i 2000 miliardi, passando dal 120% del PIL del 2011, quando si è insediato il governo Monti, a quasi il 129% di oggi. Nel frattempo apprendiamo che, nell'anno della riforma Fornero, sono stati licenziati 1 milione di lavoratori.
Ebbene, io chiedo: che cosa si attende a prendere coscienza che è in atto a Bruxelles e in tanti gruppi dirigenti nord europei, un disegno ormai evidente di emarginazione economica dei paesi mediterranei nella gerarchia dell' Unione? Che cosa si attende a prendere atto che l'attesa della ripresa, con i presenti vincoli di politica economica imposti dalla UE, è un'agonia senza speranza?Lo ripetiamo da tempo. Luciano Gallino ha mostrato l'impossibilità “econometrica” di uscire dalla trappola in cui i vincoli europei ci tengono legati. Ma ammettiamo pure che la situazione si stabilizzi, che ci sia finalmente la tanta auspicata “ripresa”. Perché l'economia si può “riprendere”, nel senso che almeno una parte delle imprese possono riprendere il loro processo di accumulazione.
Nel prossimo decennio, tuttavia, la società continuerà a impoverirsi e a spappolarsi. E che modello di paese prevarrà? Con la scuola e l' Università messe ai margini, la ricerca in un angolo, i nostri beni culturali in svendita, è evidente che le chances competitive dell'Italia sarebbero affidate all'estrema flessibilità della forza lavoro e ai bassi salari. Con ai piedi i ceppi del fiscal compact l'Italia dovrà ritagliarsi, in Europa e nel mondo, un destino di irrimediabile marginalità.

Ebbene, il bivio che nessuna acrobazia ideologica e nessuna menzogna può più occultare è davanti ai nostri occhi. Dovrebbe essere chiaro anche ai ciechi istitupidi che ci hanno condotto fin qui: o spezziamo tali vincoli o l'Italia si avvierà in un sentiero di immiserimento e di ingovernabile disgregazione sociale. E' molto probabile che essa sarà accompagnata in questa deriva da altri paesi e che l'Europa si frantumi in un caos esplosivo di nazionalismi xenofobi. Le capacità di governo delle attuali oligarchie hanno dato tali prove, da autorizzare le più fosche previsioni. Possiamo accettare che un grande paese industriale venga messo in ginocchio dall'ottusa ortodossia di un pugno di tecnocrati? Ci rassegniamo alla fine del grande progetto dell'Unione?

Ebbene, io credo che ci sia una sola e obbligata strada per evitare questo scenario. Può apparire la via più estrema, ed è la via più ragionevole. Perché i creditori stranieri, che posseggono circa il 50% del nostro debito, hanno più possibilità di essere ripagati da un 'Italia che riavvi i propri meccanismi economici, che non da un paese che affonda. Un paese fallito cancella i suoi debiti, o li rinegozia al ribasso. Personalmente non credo che abbiamo oggi la forza di imporre un audit, una revisione storica della composizione del debito. Ma occorrerà una qualche forma di rinegoziazione, perché il debito è un problema mondiale. Abbiamo tuttavia la forza per imporre la violazione del patto di stabilità in tutti i comuni per spese indirizzate agli investimenti. Ricordo che, con singolare ottusità e protervia, si è finora impedito anche ai comuni senza debiti di utilizzare le proprie risorse.

Ebbene, in tutti i comuni d'Italia, sede secolare del potere popolare, deve essere avviata una rivolta coordinata contro il patto di stabilità. Uno moto organizzato che si accompagni a progetti economici riguardanti gli aiuti alle imprese, gli interventi sul territorio, la scuola, la mobilità e in una parola il progetto di conversione ecologica che li racchiude. Ci sono due propellenti che possono rendere vittoriosa l'iniziativa. Il primo riguarda la rabbia incontenibile che cova nel fondo della società italiana. Il secondo è l'individuazione del “nemico”: l'oligarchia tecnocratica che domina l'Europa.

Chi oggi vuol salvare ciò che di storicamente importante rappresenta ancora l'Unione deve far leva sulla rabbia democratica e sull'orgoglio nazionale per sconfiggere una politica suicida. Un'onda di popolo incontenibile deve sollevarsi contro le mura della cittadella oligarchica. Ma questa è anche l'occasione perché la sinistra smetta di fare politica al vecchio modo, come accordo fra gruppi e si metta alla testa delle iniziative popolari. La sinistra radicale, i movimenti, potrebbero trovare una nuova carica di energia politica guidando la ribellione, trovando consenso nei ceti più vari, e cooperando con le amministrazioni per rimettere in moto le languenti economie locali. O questo grande compito di riscatto nazionale l'assume la sinistra o lo faranno i populisti a modo loro, e probabilmente l'Europa si disintegrerà. E nessuno può prevedere ciò che accadrà alla democrazia. Ricordo che, per una volta, una politica di sinistra contro l'austerità godrebbe dell'occhio benevolo degli USA.

(articolo inviato contemporaneamente a il manifesto)

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L’enciclica “Pacem in terris”, appariva cinquant’anni fa, in un periodo di grandi tensioni internazionali...>>>

L’enciclica “Pacem in terris”, appariva cinquant’anni fa, in un periodo di grandi tensioni internazionali. Le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, si confrontavano duramente in una gara rivolta ad avvertire il possibile avversario della propria potenza militare, soprattutto nucleare. Dopo l’esplosione sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, nel 1945, delle prime due bombe atomiche, bombe “piccole”, con una potenza distruttiva equivalente a quella di “appena” 15.000 tonnellate di tritolo, peraltro sufficienti a uccidere centomila persone, le due superpotenze avevano costruito bombe nucleari sempre più potenti; ormai non si trattava più soltanto delle bombe a fissione a uranio o plutonio, ma di bombe H a fusione, con potenze distruttive equivalenti a quelle di milioni di tonnellate di tritolo, o megaton, come si diceva allora.

Fra l’agosto e il settembre 1962, prima della crisi cubana dell’ottobre, l’Unione Sovietica aveva fatto esplodere nell’atmosfera ben sette bombe H di potenza fra 20 e 10 megaton. Nel corso del 1962 erano state fatte detonare nell’atmosfera complessivamente 100 bombe nucleari, circa metà americane e metà sovietiche. Missili intercontinentali avrebbero potuto portare tali bombe su qualsiasi città del mondo e in quegli anni gli arsenali mondiali contenevano circa 40.000 bombe nucleari. Nelle grandi città americane gli abitanti costruivano rifugi antiatomici, anche se era ben chiaro che sarebbero serviti a poco in caso di un bombardamento reale; lo mostravano alcuni film che circolavano in quegli anni sessanta. In tutto il mondo si stavano moltiplicando dei movimenti che chiedevano la pace e il disarmo nucleare, inascoltati dai governanti americani e sovietici per cui la pace poteva essere assicurata soltanto facendo sapere all’avversario che un attacco nucleare sarebbe stato seguito da un contro-attacco ben più disastroso. La chiamavano deterrenza.

L’11 aprile 1963, cinquant’anni fa, Giovanni XXIII, quando era già ammalato e sapeva vicina la morte che sarebbe arrivata il 3 giugno successivo, raccolse tutte le forze per far sentite la sua autorevole voce con l’enciclica “Pacem in terris” rivolta non solo ai cattolici, ma a tutti gli uomini di buona volontà; un messaggio che voleva indicare come raggiungere la pace secondo giustizia e rispetto reciproco, l’enciclica della “dignità umana”. Con questo titolo nei giorni scorsi l’evento è stato ricordato a Roma in una grande assemblea di centinaia di associazioni e gruppi.

L’appello del Papa alla pace seguiva di pochi mesi il momento forse più alto della tensione internazionale, quell’ottobre 1962 nel quale l’umanità è stata alla soglia della III guerra mondiale, questa volta nucleare. L’Unione Sovietica aveva inviato dei missili con testata nucleare nell’isola di Cuba, a pochi chilometri dal territorio degli Stati Uniti. In un frenetico scambio di messaggi il presidente americano Kennedy cercò di convincere il segretario generale sovietico Krusciov a ritirare tali missili, minacciando come ritorsione una guerra nucleare. In quelle ore il Papa Giovanni XXIII ebbe un ruolo fondamentale (peraltro omesso nel film “Tredici giorni” che racconta tali eventi), Attraverso contatti segreti fu deciso che la tensione si sarebbe allentata se il Papa lo avesse chiesto pubblicamente. Il 25 ottobre 1962, a mezzogiorno, Giovanni XXIII inviò attraverso la radio un messaggio in francese che fu ripreso da tutti i giornali anche nell’Unione Sovietica; un bellissimo appello di poche righe che si chiudeva con l’appassionata invocazione “Pace ! Pace !”.

L’intervento del Papa fu determinante per la decisione di Krusciov di ritirare i suoi missili da Cuba in cambio dell’impegno americano di ritirare i propri missili dalla Turchia e dalla Puglia. Si proprio: la Puglia fu inconsapevole parte in quella tensione, con i trenta missili Jupiter con testate nucleari puntati, dalle campagne murgiane, verso i paesi comunisti. Passata la crisi cubana, tuttavia, le esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera continuarono anche nei primi mesi del 1963 e questo spinse Giovanni XXIII a scrivere l’enciclica di mezzo secolo fa, l’invocazione della pace, il bene che tutti gli uomini di buona volontà chiedono, o almeno dovrebbero chiedere.

La “Pacem in terris” ricordava che la pace è compromessa da tensioni internazionali le cui radici affondano negli stridenti contrasti fra i popoli dovuti alla violazione di molti diritti fondamentali: il diritto ad un tenore di vita dignitoso, alla alimentazione, a cure mediche, a servizi sociali, all’istruzione, al lavoro, a condizioni di lavoro non lesive della sanità fisica e ad una retribuzione conforme alla dignità umana. In quegli anni su una popolazione mondiale di poco più di tre miliardi di persone, circa due miliardi vivevano in paesi da poco liberati dalla condizione coloniale o in condizioni di miseria e sottosviluppo e aspiravano, anche con la violenza, a conquistare quei diritti che il Papa riconosceva come fondamentali e naturali.

Fra questi il diritto di consentire ai poveri, nei paesi industrializzati e in quelli sottosviluppati, di migrare verso condizioni migliori, di non essere oggetto di discriminazioni razziali, quelle che allora sopravvivevano perfino nei civilissimi Stati Uniti, i diritti di parità delle donne e il diritto delle classi lavoratrici a progredire. L’enciclica continuava elencando “i segni dei tempi”: diritti dei deboli ma anche doveri dei governanti e dei poteri pubblici di soddisfare i bisogni fondamentali dei loro cittadini secondo il fine del “bene comune”, la ragion d‘essere dei poteri pubblici. Poiché tutti gli esseri umani sono uguali e non esistono esseri inferiori e superiori per natura, i poteri pubblici hanno il dovere di assicurare servizi esenziali, trasporti, comunicazioni, acqua potabile, abitazioni, assistenza sanitaria, istruzione. E giustizia: a questo proposito il Papa cita la frase di Sant’Agostino: “Abbandonata la giustizia, a che si riducono i regni se non a grandi latrocini ?”.

Un lungo capitolo dell’enciclica “Pacem in terris” è dedicata al disarmo e ai pericoli della moltiplicazione delle armi di distruzione di massa, specialmente nucleari; se alcuni paesi le hanno, altri possono essere tentati a possederne anch’essi, con pericoli concreti per la sopravvivenza della vita sulla Terra. Da qui il fermo invito dell’enciclica alla messa al bando delle armi nucleari. Quanto è stato ascoltato l’invito alla pace fra le persone e i popoli, dopo cinquant’anni ?

Come conseguenza dell’appello di Giovanni XXIII e della grande paura che cominciava a pervadere il mondo, nell’autunno dello stesso anno 1963 Kennedy e Krusciov firmarono un accordo che vietava le esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera; quelle esplosioni che da quindici anni stavano immettendo nell’aria e nelle acque una quantità insopportabile di elementi radioattivi a vita lunga che entravano nelle catene alimentari e finivano nelle ossa e nel corpo di tutti i terrestri, amici o nemici. Secondo l’accordo le esplosioni sperimentali avrebbero potuto continuare soltanto nel sottosuolo (ma la Francia continuò le esplosioni di bombe nell’atmosfera nel deserto del Sahara fino al 1975), poi vennero altri accordi per diminuire io numero delle bombe nucleari esistenti nel mondo, ma nel frattempo altri paesi si sono dotati di armi atomiche: Cina, Israele, India, Pakistan, fino alla piccola Corea del Nord, al punto che oggi gli arsenali mondiali contengono ancora 20.000 bombe nucleari. Altro che “bandite le armi atomiche” !

Quanto agli altri inviti alla giustizia, all’equa distribuzione dei beni e dell’uso della terra, in questo mezzo secolo sono aumentati le produzioni e i consumi dei popoli ricchi ma anche lo sfruttamento delle risorse naturali, della “terra”, dei paesi poveri che sono diventati ancora più poveri; molti poveri premono alle frontiere dei paesi ricchi e vengono respinti; aumenta la discriminazione etnica e anche questo fa aumentare le tensioni internazionali. In mezzo secolo non c’è stata una nuova “grande guerra”, ma soldati in armi sono diffusi in tutti i continenti per reprimere, con guerriglie e conflitti infiniti, nell’interesse delle grandi potenze o delle società multinazionali, le ribellioni locali ispirate alla domanda di maggiori diritti e di giustizia. Quanto lontana la pace sulla Terra !

Si è cominciato tre decenni fa con i parcheggi sotterranei, inventati da un’amministrazione di sinistra, e si è continuato intensamente >>>

1 - Si è cominciato tre decenni fa con i parcheggi sotterranei, inventati da un’amministrazione di sinistra, e si è continuato intensamente con le giunte di Formentini, Albertini, Letizia Moratti oscillanti fra leghismo e centrodestra. Sono stati presi di mira gli spazi urbani più belli, soprattutto le piazze monumentali e/o alberate, i giardini, certe strade tranquille. Localizzazione preferita il centro storico, la parte di città all’interno della circonvallazione dei bastioni spagnoli, quasi che si volesse, anche, contrastare qualsiasi ipotesi di moderazione del traffico, giacché i garage, giustificati come utili ai residenti, funzionano in buona parte come parcheggi a rotazione per le provenienze extra-moenia e richiamano le auto come una lampada le farfalle notturne.
Luoghi amati dai milanesi per la loro affabilità hanno subito inaudite violenze. Lunghe citazioni servirebbero a poco a chi non conosce Milano. Mi limito a segnalare, fra due centinaia di casi, due fra quelli più scandalosi: il primo dei parcheggi realizzati in pieno centro monumentale, Piazza Borromeo (chiesa, palazzo, tipiche case milanesi), sei piani sotterranei, superficie completamente stravolta dalle rampe e dal forte rialzo per metà piazza, necessario a quei tempi per garantire diverse provvidenze tecnologiche; uno degli ultimi, tuttora in costruzione, quello di Piazza Sant’Ambrogio, pressoché addossato al fianco della basilica. È questo il parcheggio che l’attuale amministrazione non ha potuto o voluto cancellare a causa, si è detto, di obblighi contrattuali fra impresa di costruzioni e municipio. Sant’Ambrogio non ha fatto il miracolo richiesto.
Per qualche altro luogo, incredibilmente prescelto nonostante l’altissima qualità urbana e architettonica, la giunta comunale è riuscita ad ottenere la cancellazione o, per ora, la sospensione del progetto. Come Piazza Lavater, uno spazio contraddistinto da numerosi e grandi celtis (bagolari) sottoposto a un progetto di distruzione dell’inusuale bellezza arborea, però difesa con lotta indefessa dai residenti alla fine vincenti. Come, poi, i due casi di certo noti fuori dei confini milanesi tanto sarebbe stata assurda, spaventosa la realizzazione: il silo sotto la darsena dei Navigli a Porta Ticinese (proprio di sotto all’acqua del “Porto di Milano”, non si vorrà credere) e quello di Piazza Fontana, lo spazio a poche decine di metri dall’abside del Duomo ruotante attorno all’incantevole fontana del Piermarini e al cerchio dell’alberatura.
Onore all’amministrazione comunale per questi successi, ma resta la gran quantità di profonde ferite apportate alla città da una politica insensata e nessuno potrà guarirle.
2 – Come a far da contrappeso allo sconvolgimento di suolo e sottosuolo, vige da oltre tre lustri la politica edilizia del “riutilizzo abitativo” dei sottotetti in origine non abitabili. La quale, sempre più allargata a modalità esecutive liberiste, ha prodotto non solo orribili fastigi su bei palazzi dell’Ottocento e del Novecento ma si è risolta infine in liberi sopralzi di uno e due piani specialmente nel centro storico, memorabili per incoerenza e bruttezza. Dieci anni fa i casi accertati erano circa 4.500; quanti saranno ora che nessuna strada o piazza fra le più pregiate dal punto di vista storico e urbanistico-architettonico è stata risparmiata? Persino la più famosa strada di Milano, Via Dante, che apre l’eccezionale prospettiva verso il Castello, la strada di palazzi ottocenteschi sorta attraverso la pianificazione e il coordinamento delle sue parti architettoniche, non ultima la comune altezza di gronda, presenta ormai diversi sopralzi accettati nelle loro stupide differenze, quasi a porre l'accento su una sorta di liberismo architettonico sbeffeggiante l’esigenza estetica originaria tutta rivolta all’unitarietà.
“La distruzione della linea del cielo milanese”, questo il titolo di un mio articolo apparso in eddyburg il 10 dicembre 2003, poi completato da altre informazioni sotto lo stesso titolo parte seconda il 24 giugno 2004. Sono passati dieci anni, è cambiata l’amministrazione comunale ma niente è cambiato sotto il cielo. La giunta di sinistra non ha voluto ostacolare questo volo di corvi sui bei tetti tegolati milanesi. Anzi, pare favorirlo poiché ora i sopralzi non si riferiscono necessariamente alla presenza di sottotetti, si chiedono uno o due piani in più, in qualsiasi situazione si presenti il palazzo in causa, e si ottengono. Non escludo che abbia funzionato una delle false motivazioni originarie dei legislatori regionali, l’opportunità di “contenere il consumo di suolo” (locuzione che ormai fa raggrinzire la pelle tanto è frusta, inflazionata dall’uso a sproposito).
Ma quale risparmio di suolo. Nell’ultimo decennio, mentre imperversa la devastazione della città storica, spacciata per moderna “densificazione” (altro termine insopportabile), vi si affiancano grandi interventi del tutto privi di definizione e coordinamento urbanistici, per lo più in forma di bizzarri grattacieli e comunque invadenti spazi ben altrimenti restituibili alla forma della città. Così la Milano una volta ricca di senso urbano e sociale è accompagnata verso la sua disintegrazione (City Life – area della vecchia Fiera, Garibaldi Repubblica, l’Isola, Montecity Rogoredo, Pioltello ex Alfa, Cascina Merlata, la Stephenson dai desiderati cinquanta grattacieli, aree presso la zona dell’Expo, l’Expo stessa preludio della futura speculazione immobiliare garantita ai proprietari dei suoli agricoli, diverse altre aree sparse qua e là ma sempre contrassegnate da volumi immensi, irrilevante essendo l’eventualità che restino vuoti.

3 – Ultimo attacco alla bellezza urbana. Un ordine del giorno proposto in Consiglio comunale dalla minoranza di centrodestra, condiviso dal sindaco, da tutto il centrosinistra e dai Consigli di zona vuole imporre la sostituzione con l’asfalto delle antiche pavimentazioni in grossi masselli di pietra (pavé) e mette in discussione persino le strade in cubetti di porfido oltre a quelle, poche e magnifiche, ancora dotate dei ciottoli di fiume e delle grandi lastre di granito per il trottatoio e i marciapiedi non rialzati. Riguardo ai masselli, largamente predominanti, i giunti fra le lastre e le frequenti sconnessioni sarebbero un grave pericolo per le biciclette e soprattutto per le motociclette che, come ho già segnalato in Eddyburg, sfrecciano a sciami dappertutto a forte velocità e invadono anche ogni spazio improprio come i marciapiedi e i portici. L’abolizione delle lastre sembrava inizialmente limitata alle zone fuori dal centro storico per il quale esiste un vincolo della soprintendenza.

Ma i proponenti, forse accortisi della scarsa o nessuna presenza lì di questo tipo di pavimentazione, ora speculano sulla parola “centro” e accetterebbero la conservazione dei masselli solo all’interno della cerchia del Naviglio, il piccolo nucleo “centrale” poco abitato e dominato dalle attività commerciali e finanziarie oltre che dal turismo. Ma poiché è proprio il pavé a identificare una parte rilevante dello spazio compreso fra la cerchia del Naviglio e la cerchia spagnola, è qui che si concentrerà la trasformazione della bellezza lapidea in bruttezza e brutalità dell’asfalto. È sorprendente la mancanza di opposizione a tale programma da parte sia della politica di sinistra sia della cultura urbanistica e architettonica. Nella narrazione di storie milanesi, per l’epoca in cui circolavano biciclette ben più di adesso, come in tutte le città di pianura, non ci sono accenni a proteste contro il fondo stradale ora tanto colpevolizzato.
Perché non scegliere la soluzione più logica e conveniente: una manutenzione accurata della superficie, in particolare riguardo alle sconnessioni e alla verifica dei giunti con eventuale sigillatura. Manutenzione mai effettivamente eseguita a regola d’arte negli anni correnti. Quanto alle motociclette, il mezzo di trasporto che sembra stare più a cuore agli amministratori e alla polizia locale tanto è diffuso l’abuso di comportamento accettato se non favorito: perché non stabilire un basso limite di velocità che ostacoli quell’impressionante correre per il centro come fosse un autodromo in tempo di gare? È questo, non il pavé, il vero pericolo per gli stessi motociclisti e per tutti gli altri utenti della strada.

Milano, 4 aprile 2013
Il risultato delle elezioni politiche sancisce non solo il trionfo del movimento Cinque Stelle...>>>

Il risultato delle elezioni politiche sancisce non solo il trionfo del movimento Cinque Stelle, ma anche l'ennesima sconfitta della linea politica di D'Alema che per decenni ha inseguito la destra sul suo terreno, cercano di posizionare il partito appena un po' alla sinistra del presunto avversario (ma in realtà confondendo e condividendo ampiamente la materia). Una linea che nei fatti si è incarnata nel Monte dei Paschi, nei fondi gestiti da Gamberale, nelle varie leghe delle cooperative affamate di grandi opere, nelle autostrade tirreniche colluse con Mattioli, nello sviluppo inteso come tanti soldi per le infrastrutture e niente per Università e ricerca. Una linea che alla Camera ha trionfalmente portato il Pd a un 25% di voti dal 37% del bistrattato Veltroni.

Il movimento Cinque Stelle fa capo a un leader che spesso esprime idee deliranti, come l'uscita dell'Italia dall'euro, è rappresentata da una serie di dirigenti nazionali di qualità mediocre, tutti a ripetere la giaculatoria che incalzeranno i partiti affinché mantengano le loro promesse... ( anche quelle più bieche e contraddittorie?). Ma la base è un altra cosa. Oltre agli elettori inferociti e disgustati da partiti che navigano negli scandali, nella corruzione e nel malaffare, ci sono tanti giovani impegnati per una diversa politica. Ci sono i No Tav della Valle Susa e in no Tav in generale; ci sono gli antagonisti alle grandi opere distruttive; i protagonisti del referendum sull'acqua; la gente che si batte contro le lobby degli affari, contro una politica dei rifiuti fatta di inceneritori e discariche; contro la cementificazione; a favore di un ambiente vivibile; ci sono gli studenti impegnati a sostenere un'Università migliore e a chiedere occasioni qualificate per chi entra nel modo del lavoro. C'è, una parte di quel 20% di cittadini che fanno società locale, che difendono il territorio, che si associano in comitati e che non sono rappresentati dai partiti di sinistra, spesso antagonisti nelle amministrazioni locali. Una potenzialità sociale e anche elettorale snobbata dagli strateghi del Pd; a parole perché esprime valori 'nimby', ma in realtà perché è antagonista al potere della casta: alimentato e collegato agli interessi delle banche grandi finanziatrici di opere pubbliche mai realizzate o realizzate solo in parte, con gran spreco di denaro pubblico per progetti affidati ad amici. (si veda il buon documento in proposito nel sito di Legambiente)..

Le proteste e le rivendicazioni sacrosante della base grillina sapranno tradursi in programmi e in politica a livello nazionale? Questa è la grande incognita, perché il rischio è che i neo deputati e i neosenatori, del tutto impreparati rispetto ai compiti parlamentari, perdano la bussola e non riescano a darsi una politica a prescindere da urla e schiamazzi. Ma se il movimento Cinque Stelle saprà darsi veramente una politica ambientalista e proporre un modello di sviluppo alternativo a quello delle 'grandi opere finanziate dalle banche', se ciò avverrà, si aprirebbe per il PD una scelta fondamentale. Con Berlusconi e Monti, per un governo di neoliberismo all'italiana e una spartizione di risorse fra potentati di varia natura: il mondo del project financing in salsa nostrale. Oppure con tutto ciò che di nuovo e progressivo può (ripeto: può) rappresentare il movimento Cinque Stelle, nelle sue articolazioni e nel suo vero significato di innovazione (il nuovo tanto evocato come slogan elettorale, tanto temuto nei fatti).

La vittoria del movimento Cinque Stelle non è solo di Grillo, ma anche di un'Italia impegnata e molto migliore di quella che ci ha finora governato. Un'occasione anche per una parte del PD, più giovane, inserita nella società e non solo nelle amministrazioni, per dare una svolta radicale alla politica del partito; e forse anche per far sì che la sinistra risalga la china dopo la batosta elettorale.

Di ritorno da una straordinaria mostra padovana su Pietro Bembo, ne suggerisco caldamente a tutti i lettori...>>>

Di ritorno da una straordinaria mostra padovana su Pietro Bembo, ne suggerisco caldamente a tutti i lettori la visita. Non solo perchè l’esposizione “Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento” ha rare qualità culturali: rappresenta l’esito di una ricerca scientifica esemplare, restituito con eleganza e sobrietà in un efficace allestimento che si snoda nelle piccole stanze del Palazzo del Monte di Pietà, a Padova. Quest’ultima divenne la città di elezione del veneziano Bembo, uno dei più grandi intellettuali di quell’inquieto, straordinario periodo fra Quattrocento e Cinquecento che vide, anche grazie alla sua attività, l’affermarsi di una civiltà, quella rinascimentale, divenuta modello per tutto l’Occidente.

In questi tempi di mostre strombazzate come “imperdibili” , che si risolvono quasi sempre in sfilate mal organizzate di capolavori veri e presunti, con attribuzioni fantasiose e banalità assortite, nell’iniziativa padovana si percepisce immediatamente lo spessore di una ricerca durata alcuni anni e finalizzata a illustrare, non solo un personaggio, ma attraverso di lui e del suo milieu culturale, una fase di importanza cruciale per la storia europea.

Anche la mostra padovana ospita, in realtà, non pochi capolavori assoluti, dai ritratti di Giorgione, Raffaello, Tiziano, ad aldine di incomparabile nitore tipografico, al sorprendente gessetto di Michelangelo, a gemme e ritratti della Roma imperiale, medaglie rinascimentali di Valerio Belli e Danese Cattaneo, e lo stupefacente arazzo su cartone di Raffaello con la conversione di Saulo, ciascuno dei quali varrebbe di per sè la visita. Ma niente è scelto per il valore intrinseco del singolo pezzo, bensì ognuno degli oggetti rimanda a molteplici altri, presenti e non all’interno del percorso, in una fitta rete di precisi richiami di assoluta coerenza (“proprietà” la chiamano i tre curatori), perfettamente funzionale all’obiettivo complessivo. Attraverso la ricostituzione di una delle più importanti figure del nostro Rinascimento e della sua collezione, museum ante litteram, si rivela, stanza dopo stanza, oggetto dopo oggetto, il progetto del Bembo, di costruzione di una nuova idea dell’Italia a partire dalla cultura, letteraria e artistica.

In un momento di gravissima crisi politica, segnato dalla morte del Magnifico e dall’invasione dell’esercito francese, un gruppo di intellettuali, fra i quali Bembo occupa una posizione di preminenza anche per il prestigio da tutti riconosciutogli, seppe costruire una nuova visione culturale, che a partire da uno studio scientifico del passato potesse fornire alla politica le armi per un “rinascimento”. Anche se sul piano politico il sogno della rinascita si infrangerà, irrimediabilmente e simbolicamente nel 1527 con il disastroso sacco dei lanzichenecchi, su quello culturale, quella visione trionferà in Europa, facendo dell’Italia, delle sue città e dei suoi artisti, il modello di riferimento imprescindibile nei secoli a venire.

Come suggeriscono i curatori, allora, questa mostra apparentemente lontana dalla nostra attualità, molto ci racconta di una crisi profondissima come quella italiana di questi giorni, di queste ore. E ci insinua anche il dubbio che allora come ora, prima che politica, questa crisi sia culturale.

Simbolo spietato di questa eclissi, è l’attuale situazione di degrado del nostro patrimonio culturale,ribadita nei giorni scorsi dalle denunce di alcuni funzionari del Mibac, ormai impossibilitati ad esercitare anche le più elementari funzioni di tutela per mancanza di risorse.

Nella mostra padovana, la lettera manoscritta di Raffaello e Baldassarre Castiglione, reduci da una gita a Tivoli assieme al Bembo e altri amici, ci riporta ad una delle primissime espressioni di quella necessità di cura dei monumenti antichi di cui Raffaello sarà interprete massimo nel ruolo di Soprintendente, creato per lui da Leone X. In quella lettera del 1519 c’è la supplica al papa perchè “quello poco che resta [...] non sii estirpato e guasto dalli maligni et ignoranti”.
Allora come ora.

(questo articolo viene inviato contemporaneamente anche a l'Unità)

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