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Per quanto possa essere interessante l'offerta di prodotti di discreta qualità a basso costo, l'evoluzione urbanistico-commerciale della Chinatown milanese presenta ben altri spunti, sicuramente utili per tante altre città italiane alle prese coi medesimi problemi

Deve essere venuto un mezzo colpo apoplettico a quelli della Lega Nord qualche anno fa, quando in risposta ad una delle loro mosse sbrigative per affrontare ogni diversità, o che tale sembra, è sceso in campo il Console della Repubblica Popolare Cinese, seguito da una dichiarazione ufficiale del governo di Pechino. Forse i lettori si ricorderanno: c'era un quartiere di Milano con problemi di traffico e convivenza fra attività piuttosto ingombranti, commercio all'ingrosso e al dettaglio, e l'amministrazione di centrodestra era partita col piede sbagliato, usando con la comunità cinese certi metodi che di solito passano purtroppo inosservati quando interessano altre minoranze. Il fatto è che non solo il governo cinese tiene molto ai suoi connazionali all'estero, e li tutela con decisione se necessario, ma quel quartiere, quella comunità, sta lì probabilmente da prima che arrivassero in città dalla pedemontania brianzola o orobica tanti lumbard del giorno d'oggi. Dopo Rossi, il secondo cognome più diffuso di Milano è Hu, tanto per dire. Ergo andateci piano.

Porta Volta (Cesare Beruto 1880)
La stampa è sempre a caccia di curiosità, specie d'estate, e così sono stati in molti sui giornali in questi giorni a raccontare con toni assai esotici dell'iniziativa commerciale dei gemelli bocconiani Hu, l'Oriental Mall in via Paolo Sarpi, ovvero l'asse centrale della zona in cui l'ex amministrazione di centrodestra aveva fatto quella figuraccia. Certo il formato del grande magazzino è abbastanza innovativo da giustificare qualche interesse, ma forse non sufficiente per mettere in ombra l'altra novità: il progetto di costruzione di una galleria a coprire via Paolo Sarpi, il vero passeggio, il vero mall, del quartiere, oggi prevalentemente pedonalizzato. Che in questo modo verrebbe ad assomigliare un pochino di più ai suoi lontani cugini della grande distribuzione suburbana a indirizzo automobilistico, se non altro nelle forme esteriori. Ma non è giusta neppure questa definizione, e vediamo perché.

L'area terziaria di Porta Nuova
Veduta (in giallo via Sarpi)
La galleria coperta è soltanto uno degli aspetti, di un processo abbastanza lungo e per nulla lineare, di trasformazione di un'ampia zona urbana. L'asse di via Sarpi è la spina portante di una zona che collega trasversalmente due direttrici già ben individuate nel piano ottocentesco di Cesare Beruto, il corso Sempione e l'uscita dal centro storico verso il Cimitero Monumentale. In più, come si intuisce osservando una veduta aerea della zona, anche l'asse di via Sarpi non esaurisce la questione, proseguendo idealmente anche oltre il casello di Porta Volta (progettato tra l'altro da Beruto dieci anni prima del piano) lungo la linea degli ex bastioni, fino a raggiungere un altro importante polo commerciale: il grande Eataly che si insedierà in Piazza XXV Aprile. Zona questa ancora a tessuto tradizionale, ma in diretto contatto con le espansioni terziarie dette Quartiere Porta Nuova, ormai note in tutto il paese per via dei voluminosi e pubblicizzati grattacieli, meta di veri e propri pellegrinaggi turistici e di un curioso flusso di movida serale giovanile.

L'ingresso del grande magazzino
Spazi della nuova movida giovanile
Facendo le debite proporzioni, il percorso coperto di via Sarpi, con la sua offerta commerciale mista, etnica e non, con la coesistenza ben governata di mobilità dolce, carico-scarico merci, residenza e servizi, si potrebbe anche configurare come una specie di “Galleria Vittorio Emanuele del Terzo Millennio”. E non sono certo giustificati i timori che dietro la novità del nuovo formato Oriental Mall si possa nascondere quel tipo di colonizzazione urbana intravisto o sospettato con lo sbarco dei grandi marchi nel tessuto tradizionale, standard a parcheggi inclusi. Si tratta, del resto coerentemente col tipo di quartiere e di ragionevole accessibilità, di null'altro che di un grande magazzino, pur oltre la classica offerta di abbigliamento accessori casalinghi. E che quindi si rivolge a un pubblico non auto-munito, magari di tipo turistico, o direttamente agli abitanti del quartiere che apprezzano alcuni prodotti anche di consumo quotidiano.

E del resto la forte reattività sociale alle questioni del traffico, della congestione, del rischio di uno stravolgimento in negativo di questa parte consolidata di città, cuscinetto fra zone di profonda trasformazione, era già emersa nel caso delle attività all'ingrosso. Allora si era iniziato un processo, magari contraddittorio, di trasferimento delle ditte e marchi a maggiore impatto verso aree a destinazione industriale o logistica. Ora, avanzando gradualmente il formato dello urban mall all'aria aperta, rivolto prevalentemente alla mobilità dolce e pubblica, ci sarà probabilmente tempo sia per adattare gli esercizi esistenti al nuovo contesto e tipo di concorrenza, sia per eventuali interventi pubblici di tutela, promozione, controllo. Un processo che val la pena di seguire, e che può servire da modello (o monito, chissà) per tante altre aree semicentrali italiane alle prese con l'annosa questione dell'invadenza automobilistica, e della correlata, nel bene e nel male, vitalità commerciale.

Alcune descrizioni del piano per la galleria e dell'Oriental Mall qui su Eddyburg

Progetti di riorganizzazione di un quartiere “etnico” milanese, nella prospettiva Expo, propongono idee nuove per il commercio in città. La Repubblica e Corriere della Sera, 23 luglio 2013 (f.b.)

la Repubblica
Un tetto di cristallo su Paolo Sarpi, architetti al lavoro per la “gallery”
di Laura Asnaghi

È il progetto di cui si parla in questi giorni nei negozi lungo la strada, da sempre cuore pulsante della Chinatown di Milano. Il progetto è ambizioso e prevede la creazione di una “gallery” trasparente, con tetto apribile, lungo tutta la via. Il tutto con spese a carico di uno sponsor, per ora “top secret”. Tra i promotori del piano c’è Giovanni Berni, rappresentante dell’associazione “Sarpi Doc”, che gestisce una storica panetteria, all’angolo con via Lomazzo.

«L’obiettivo non è riqualificare solo la strada e darle una veste commerciale più in sintonia con l’Expo — spiega — ma si tratta di rilanciare tutta la zona che diventerà, nel giro di breve tempo, un polo strategico». Berni ricorda che intorno a PaoloSarpi graviteranno, tra gli altri, il nuovo palazzo Feltrinelli, gli atelier della moda di via Ceresio, da Dsquared (già funzionante) a quello di Neil Barrett (in costruzione). E sempre in zona ci saranno tutte le nuove costruzioni a ridosso della fermata del metrò al Monumentale. «Tutto questo è destinato a dare impulso al quartiere, ma per essere un vero polo di attrazione, dobbiamo attrezzarci — spiega Berni — Il progetto preliminare della galleria di vetro è allo studio e a fine agosto, se ne potrà parlarecon le carte alla mano».
Sulla riqualificazione della zona Sarpi è stato creato una tavolo a cui siedono sia i rappresentanti di zona Centro che di zona 8. «Sappiamo di questo progetto e siamo interessati — spiega Fabio Arrigoni, il presidente del Consiglio di zona 1 — È un piano complesso che coinvolge il Comune, commercianti, la comunità cinese e i residenti. Per la prima volta a Milano si parla di una strada che vuole diventare anche galleria. Il piano è ambizioso, lo valuteremo con cura».
Un pool di architetti è all’opera e dovrà tracciare una gallery «che non sia troppo invasiva e armonizzi con l’estetica della strada», una via sulla quale si affacciano 180 negozi, di cui molti cinesi con vendita all’ingrosso, e che, nel giro di poco tempo avrà anche il primo “Oriental mall”, un nuovo shopping center creato con capitale cinese. Dopo le vacanze il progetto preliminare della galleria di cristallo sarà visibile e a settembre si aprirà il confronto tra le parti.

Corriere della Sera

Supermercato e Mall della moda. L'idea cinese nel centro di Milano
di Jacqueline Hu e Maria Silvia Sacchi

I volantini di uno dei due supermercati stanno arrivando nelle case in questi giorni. Ma la pubblicità era iniziata prima: solamente, però, sui giornali cinesi venduti in Italia.
Con un grande investimento nato dall'unione di capitali di alcune famiglie cinesi in Italia unite da legami di parentela o di amicizia di vecchia data (ognuna con esperienza in un settore diverso) sta, infatti, per nascere quello che potrebbe essere il primo vero concorrente cinese della grande distribuzione made in Italy.

Lo spazio è l'ex Ovs di via Paolo Sarpi a Milano dove oggi sarà inaugurata questa nuova formula a metà tra un tradizionale supermercato e un mall della moda. The Oriental Mall sarà composto da cinque piani, di cui tre fuori terra. Due i supermercati presenti al suo interno (il primo sarà un Iper Hu, il secondo un Hu Food). Al piano terra, molti corner diversi con abbigliamento, gioielleria, bigiotteria, con marchi sia cinesi che italiani, accessori e giochi per bambini con logo (stile Disney Store), high-tech, pasticceria, bar. Il secondo piano — la preparazione è ancora in corso — sarà dedicato interamente al wellness, con sala yoga, centro di bellezza con massaggi tradizionali e trattamenti estetici, sala da tè e punto di ristoro con possibilità di pasti veloci sia di cucina cinese che italiana. Trattative, infine, sono in corso con alcuni marchi di lusso made in Italy per i turisti cinesi. Già, perché lo scopo è attirare, appunto, oltre ai consumatori italiani, anche i turisti che dalla Cina arrivano in Italia.

A spingere l'iniziativa soprattutto i giovani rappresentanti delle famiglie cinesi, tutti sui trent'anni, imprenditori e dalle esperienze internazionali. In particolare Cristophe e Stephan Hu, nati in Francia e cresciuti tra Milano e Roma (già importatori all'ingrosso con la World Mart) gestiranno la parte alimentare a piano terra, la Hu Food, supermercato con anche banco di macelleria e pesce freschi. La famiglia Jin e la signora Zheng Wei Yan titolari del marchio Iper Hu con all'attivo 11 mercatoni nel Nord Italia apriranno al primo piano un punto vendita omonimo. Altri investitori sono le famiglie Wu e Jiang Sen che arrivano dalla ristorazione: noto il Dining Wok, raffinato ristorante multietnico nel centro commerciale Bennet di Cantù, e tra poco (con la partecipazione della famiglia Hu) nel centro commerciale Auchan di Rescaldina.

Gli ideatori e i realizzatori a livello pratico di tutto il progetto sono i gemelli Michele e Francesco Hu, laureati all'università Bocconi di Milano, nati come broker assicurativi e mediatori finanziari nel 2003, che hanno iniziato dando credito alla comunità cinese tramite convenzioni nazionali con istituti di credito italiani. Ora si occupano di gestire grandi patrimoni immobiliari, con fondi o acquisto di quote dirette o indirette in investimenti di media e grande struttura. «Crediamo che sarà un successo», dice Michele Hu. Per questo stanno già valutando due nuovi centri a Torino e Firenze.

La scala sovracomunale è la dimensione adeguata per la soluzione sostenibile di tantissimi problemi di efficienza ed equità, come hanno ben capito i sindaci dell'est milanese nella loro lettera aperta sul rilancio delle iniziative per la Città Metropolitana

il naviglio Martesana a Vimodrone

Qualche volta per fortuna i temi dell’agenda politica intrecciano le istanze dei territori, e in questi casi sono formidabili occasioni per riforme che, partendo dalle reali esigenze degli attori locali, diventano esperienze per ridisegnare i tradizionali percorsi di governance. L'istituzione delle città metropolitane, di cui nei termini attuali si parla dagli anni Novanta, e che salvo colpi di mano dell’ultima ora vedrà finalmente la luce il prossimo gennaio, rappresenta un’importante occasione, per la regione urbana di Milano, di risolvere pluriennali (a dir poco) problemi di governance a scala vasta, soluzione sinora impedita dalla frammentazione del quadro istituzione e delle competenze fra i diversi livelli di governo. Nei territori dell’est Milanese, nella zona denominata e conosciuta come Adda-Martesana, il contesto politico/amministrativo, sommato ad alcune condizioni contingenti di carattere insediativo, rende strategico il tema del governo metropolitano se si vuole avviare una stagione di cooperazione intercomunale: indispensabile non solo per sopravvivere ai tempi della spendig review, ma anche per elaborare una visione efficacemente condivisa di sviluppo locale.

MM2 Villa Fiorita

Le pratiche di collaborazione tra le amministrazioni comunali di quest’area vantano in tempi recenti una storia quasi ventennale. La più significativa è certamente quella che ha portato all’elaborazione del Piano d’area, strumento di coordinamento urbanistico approvato nel 2006 da tutti i 27 consigli comunali della zona. Un'esperienza nata dall'iniziativa di amministrazioni lungimiranti che, di fronte ai nuovi processi di natura economica (la delocalizzazione a partire dagli anni '80, poi l'attuale crisi economica dal 2008), territoriale (progressiva disponibilità di aree dismesse), infrastrutturale (grandi opere in progetto) e sociale (mutamento delle dinamiche demografiche), hanno avviato un percorso volontario di pianificazione associata. Il Piano Adda-Martesana prevedeva di ricostruire un’identità territoriale chiara e riconoscibile, carattere venuto meno nel corso del tempo, attraverso strategie che sapessero coniugare in particolare il miglioramento dell’accessibilità e la valorizzazione del sistema ambientale.

Naviglio e MM2 a Cassina de' Pecchi

La cooperazione sovracomunale ha però scontato le debolezze dello strumento esclusivamente volontario: con l’avvicendarsi delle giunte il dialogo si è di fatto interrotto. Una stagione di localismi ha condotto all’elezione di diversi sindaci da liste civiche cittadine, con orientamenti politici vari ma tutte accomunate da un approccio tutto rivolto entro i propri confini amministrativi: una sorta di leghismo di fatto, miope, autoreferenziale e di corto respiro. Molte di queste esperienze amministrative hanno fortunatamente già evidenziato a tutti i propri limiti, identificabili anche negli effetti tangibili, in quanto la parzialità dei processi decisionali ha generato anche frammentazione di natura territoriale. Insediamenti residenziali, commerciali e terziari (soprattutto legati alle attività di logistica) previsti come urbanizzato in espansione, che rompono la continuità del sistema agricolo ed ambientale; o aree di trasformazione localizzate in modo indipendente dal sistema infrastrutturale pubblico esistente.

Sono i più ricorrenti esiti sul territorio locale di questa stagione, resi possibili dalle politiche urbanistiche lombarde, che fanno della deroga e della deregulation le proprie parole d’ordine. Analizzando le dotazioni territoriali di quest’area sono due gli elementi principali: un ambiente di qualità e un’offerta di infrastrutture che determina un’alta accessibilità. In particolare l'articolato sistema di mobilità fa di questo territorio un organico corridoio insediativo, la cui gestione, soprattutto in chiave di accessibilità derivata, non può che rappresentare una delle principali sfide a scala metropolitana.
In questo contesto si inserisce la lettera firmata pochi giorni fa da 23 primi cittadini dell’Adda-Martesana (Basiano e Masate, Bellinzago Lombardo, Bussero, Cambiago, Cassano d’Adda, Carugate, Cernusco sul Naviglio, Gorgonzola, Gessate, Grezzago, Inzago, Liscate, Melzo, Pessano con Bornago, Pioltello, Pozzo d’Adda, Pozzuolo Martesana, Rodano, Settala, Trezzano Rosa, Trezzo sull’Adda, Vignate e Vimodrone) che chiedono al Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, la convocazione, urgente e non più prorogabile, di una conferenza metropolitana dei Sindaci. Al fine di elaborare un processo condiviso di governance a partire dalle quattro materie fondamentali (pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali, coordinamento della gestione dei servizi pubblici locali, mobilità e viabilità, promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale) che, per legge, saranno di competenza della città metropolitana dal gennaio 2014.
La lettera rappresenta un’iniziativa politica importante, riassume i percorsi di cooperazione intercomunale di fatto già in corso come, ad esempio, alcune proposte legislative elaborate tramite il neo-gruppo interparlamentare “Amici dei Comuni, Città e Città metropolitane” a promuovere collaborazione fra Comuni compresi nei territori delle future città metropolitane. Senza un quadro normativo e istituzionale adeguato, i contenuti della nota sarebbero destinati a rimanere un (buon) elenco di intenzioni, difficilmente convertibili in programmi operativi o azioni di governo concrete. Ma la scadenza di gennaio rende questa un’occasione imperdibile per avviare una vera riforma dei processi di governance di scala vasta, che a partire dalle funzioni fondamentali sappia esplorare e governare i processi di trasformazione economici, sociali e territoriali ad una scala pertinente, e tutelare l’interesse della collettività, al riparo dai rischi di un inadeguato localismo.
Centro storico di Gorgonzola

Una buona metafora e sintesi dei problemi e potenzialità dell'intero spicchio orientale dell'area metropolitana, è quella costituita dall'asse insediativo a forte infrastrutturazione delle tre città lineari lungo il naviglio Martesana, la strada Padana Superiore, binari e stazioni della Linea Metropolitana 2. Per molti versi, basta un colpo d'occhio allenato a cogliere l'altissimo valore urbano e ambientale del sistema (sviluppato su una ventina di chilometri circa), le forti potenzialità di integrazione e sviluppo, e insieme le innumerevoli occasioni perse, di sicuro per colpa di prospettive di respiro insufficiente.

Piazzale della stazione a Bussero

Fra gli aspetti positivi di forte integrazione, sia interna che col nucleo metropolitano centrale di Milano città, è il sistema lineare del naviglio e relativo percorso ciclabile, e qui non a caso è evidente il ruolo dell'unico ente che sinora ha svolto pur in modo parecchio lacunoso un ruolo di governo sovracomunale, ovvero la Provincia. L'asse della mobilità dolce rappresenta forse il più importante interessante e continuo trait-d'union est-ovest fra i territori, e su di esso si attestano sino a costruire potenzialmente una entità continua sia i nuclei residenziali di parecchi quartieri urbani, sia i corridoi secondari locali di comunicazione con altre zone a nord e sud a varia destinazione, sia e soprattutto la struttura articolata del verde pubblico. Una rete a dimensione e qualità variabile, che comunque lega direttamente la città centrale, i comuni di prima cintura, la fascia suburbana-esurbana e sfocia nella valle dell'Adda.

Per contrasto, un elemento che potrebbe essere potenzialmente di unione ma che non si rivela affatto tale è l'asse della Padana Superiore, in questo spicchio della regione urbana evidentemente in bilico fra i due ruoli che la storica arteria via via svolge nel lungo percorso trasversale da Torino a Venezia: strumento di convergenza dei flussi di traffico e smistamento sia a scala locale che territoriale, asse di arroccamento comunale. In particolare, specie nei punti di strozzatura dove la strada è costretta ad attraversare direttamente gli abitati anche con traffico pesante, essa costituisce una linea di cesura, anche se fra funzioni segregate. In altri tratti recupera il proprio ruolo di scorrimento, ma su distanze talmente brevi da risultare del tutto superfluo. Inconsistente, e forse in modo desiderato e in parte pianificato, il rapporto con gli altri due assi della mobilità metropolitana nell'area.
La pista ciclabile verso Inzago

Terzo e ultimo elemento dell'insediamento lineare continuo, la linea della MM2 che collega nel tratto extra-milanese la fascia della tangenziale est a Gobba con l'inizio della fascia esurbana a Gessate. Oltre a svolgere col fascio dei binari un ruolo di margine a volte positivo, a volte meno auspicabile, la linea della metropolitana interagisce naturalmente con territorio negli ambiti delle stazioni e relativi quartieri. Qui appare più che mai evidente la frammentazione nel tempo e nello spazio di strategie locali a dir poco differenziate, e soprattutto prive di qualunque consequenzialità: si va dalla buona integrazione nel tessuto urbano, con però qualche difficoltà a servire le zone circostanti per problemi di accessibilità, al classico modello della stazione terminale suburbana, poco più di una piattaforma circondata da parcheggi. Con una unica, interessantissima quanto carente eccezione, manca del tutto un rapporto chiaro tra stazioni della metropolitana e attività economiche, sino al caso limite di un grosso office park che dista pochi metri da una delle stazioni, ma che per la collocazione in altro comune ne è totalmente tagliato fuori.

Questi brevi cenni alle forme insediative, ai loro problemi, alle loro potenzialità, solo per mettere in luce cosa possa significare qui il governo a scala metropolitana della pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali, il coordinamento della gestione dei servizi pubblici locali, della mobilità e viabilità, la promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale, così come previsti dalle leggi. Sapranno le istituzioni, nazionali e locali, rispondere davvero alla sfida? Sapranno coinvolgere davvero i cittadini, ormai ampiamente inseriti nel sistema della “patria metropolitana” che va oltre l'ambito localistico? Sembrano esattamente queste, le preoccupazioni e le urgenze espresse dai sindaci nella loro lettera aperta al collega della grande città centrale, su cui in particolare pesa la responsabilità di farsi carico di un ruolo guida e di stimolo verso il governo centrale. Per non trovarsi di nuovo nella situazione degli anni '70-'80 quando, varati i comprensori alla fine di un lunghissimo e contraddittorio processo di riforma istituzionale, la loro incerta situazione dal punto di vista delle competenze e della rappresentatività ne decretò il rapido accantonamento.

Con le grandi trasformazioni urbane del tutto proiettate sullo scenario globale e sganciate dagli interessi locali, diventa sempre più essenziale passare dalla contrattazione all'applicazione intelligente e trasparente di regole condivise. Corriere della Sera Milano, 2 luglio 2013 (f.b.)

Una volta c'erano i Ligresti e i Cabassi. L'Ingegnere, il Sabiunàt, soprannomi che già da soli raccontavano un mondo del mattone nelle mani di proprietari-costruttori. Oggi ci sono i fondi americani come Hines, sovrani come quello del Qatar, italiani come Idea-Fimit, le assicurazioni Generali e Allianz azioniste di Citylife, Risanamento in mano alle banche e così via. La metropoli immobiliare che riscrive la geografia e lo skyline, che attende l'Expo e moltiplica i cantieri oggi è finanza, industria che ha separato la filiera fra chi possiede, vende e costruisce, istituti di credito che finanziano progetti e talvolta ne diventano anche i "padroni".

A Milano, ancor più che altrove, il mondo dei vecchi Re del mattone è tramontato. Con qualche passaggio «storico». Come è avvenuto per la Torre Velasca, un simbolo della città: Ligresti ha cercato di venderla prima del crollo del suo impero. L'impresa non è riuscita e ora il grattacielo «con le bretelle» è passato alla compagnia della lega delle coop, l'Unipol. Un corollario del salvataggio che ha visto il gruppo bolognese di via Stalingrado comprare dai Ligresti una Fonsai "spolpata" per benino. Solo un dettaglio, che certo non rientrava negli obiettivi dell'acquisizione: anch'esso descrive però un mondo in rapido cambiamento. L'area ex Fiera, Porta Nuova-Varesine-Garibaldi, Sesto San Giovanni con l'ex Falck, Santa Giulia Nord e Sud, Porta Vittoria, Via Ripamonti: palazzi e grattacieli, uffici e appartamenti, sono i grandi cantieri che stanno ridisegnando Milano. Con investimenti stimati complessivi intorno ai 9-10 miliardi, per circa due terzi finanziati dalle banche. Prospettive che si orientano intorno all'Expo fra auspici e timori, e che guardano a una metropoli che sta dimostrando vitalità europea nonostante l'11% degli uffici in città sia sfitto, quota che sale al 30% nell'hinterland e al 40% in periferia, e un terzo degli spazi vuoti non risulti più idoneo alla funzione "direzionale".

Fra i cantieri centrali destinati al maggior impatto sulla città c'è Citylife. Anche in questo caso si è consumato un passaggio storico nel luglio di due anni fa quando Salvatore Ligresti, che molto aveva puntato su quell'impresa, getta la spugna, vende a Generali ed esce appunto da Citylife, la società titolare del progetto di riqualificazione dell'area dove sorgeva il polo fieristico milanese. Il Leone di Trieste sale dunque quasi al 67% del capitale e la parte restante è detenuta da Allianz. A Milano è il cantiere delle tre supertorri progettate dagli archistar Arata Isozaki, Daniel Libeskind e Zaha Hadid, confermate nei giorni scorsi. Generali con ogni probabilità trasferirà il quartier generale milanese e gli uffici nel grattacielo «Storto» di Hadid, Allianz farà lo stesso nella torre Isozaki, la più alta di Milano. Gli investimenti previsti sono pari a oltre 2 miliardi, finanziati per due terzi dalle banche: Intesa Sanpaolo, Unicredit, Bpm, Crédit Agricole, Mediobanca e Hypotekenbank. È previsto che l'area, destinata nei piani ad abitazioni per 164 mila metri quadri, uffici per oltre 100 mila, shopping e servizi per 20 mila e il terzo parco pubblico della città (168 mila metri quadri), ospiti 10 mila residenti e 4.500 persone che (soprattutto attraverso la linea che avrà fermata al centro dell'area) affluiscano ogni giorno per lavoro. Le prime 400 abitazioni, secondo l'operatore, saranno consegnate a settembre. È stata poi accordata una variante con maggiore flessibilità nelle tempistiche con la possibilità di costruire la parte residenziale nei pressi del Vigorelli entro il 2023. Il costo medio delle abitazioni, sempre secondo l'operatore, è compreso fra 6 mila e 8.500 euro al metro quadro con punte fino a 12 mila.

Altro progetto destinato a cambiare lo skyline cittadino è quello Porta Nuova-Garibaldi-Isola, gestito da Hines Italia, controllata dal colosso americano Hines con una partecipazione dell'imprenditore Manfredi Catella, amministratore delegato della società. Il progetto, dal quale sempre Ligresti è uscito a fine 2011 vendendo a Hines, è stato sotto i riflettori delle cronache anche finanziarie per due ragioni: l'ingresso del fondo sovrano del Qatar e la destinazione a Unicredit del grattacielo. Il 18 giugno è stato firmato il closing e Qatar holding è diventato investitore diretto al 40% nei tre fondi di investimento immobiliare di Porta Nuova, sottoscrivendo quote di nuova emissione, mentre il restante 60% resta agli attuali sponsor. Unicredit ha trasferito lì il quartier generale in febbraio e oggi oltre la metà della parte destinata a uffici dell'area è locata. Il calendario dei lavori prevede diverse fasi: la prima di Porta Nuova Garibaldi è quasi completata, la seconda sarà ultimata per l'Expo mentre la parte Porta Nuova Varesine e Isola sarà realizzata nel 2014. Anche qui è previsto un parco di 90 mila metri quadri e anche qui l'investimento stimato è di circa 2 miliardi, per l'80% finanziato da banche (quota destinata a scendere al 60% con l'ingresso del fondo sovrano). Il prezzo al metro quadro medio del venduto della parte residenziale (400 abitazioni in tutto) secondo l'operatore, si colloca in una media di 9 mila euro al metro quadro.

E poi c'è Santa Giulia di proprietà di Risanamento. Altra storia travagliata, altro capitolo di un tramonto. Luigi Zunino l'ha coperto di 3 miliardi di debiti, la Procura di Milano ha chiesto il fallimento ma alla fine il Tribunale ha detto sì all'accordo con le banche creditrici (Intesa, Unicredit, Montepaschi, Banco Popolare e Bpm) che sono diventate le azioniste principali della società, mentre una minoranza del 25% è rimasto alle holding in liquidazione dello stesso Zunino. Che ora ambirebbe a un'Opa, finanziata a debito. Nelle scorse settimane dopo i lavori di bonifica è stata dissequestrata l'area di Santa Giulia Sud. In questa parte è stata realizzata l'edilizia convenzionata, mentre vanno completati i palazzi Sky. Per la terza torre Sky i lavori dovrebbero partire entro l'estate e l'investimento si aggira sui 50 milioni. Per l'Nh hotel ci vorranno circa 24 mesi e risorse per altri 50 milioni. Per l'area Nord ex Montedison deve essere presentato un progetto definitivo, in base al quale verrà messo a punto la bonifica. Poi potranno essere avviati gare d'appalto e lavori. Per questa parte Risanamento sta trattando in esclusiva con Idea Fimit ma per il momento un accordo ancora non c'è. Il progetto originale dell'archistar Norman Foster è stato ampiamente rivisitato.

Si può andare avanti con Beni Stabili. Società che in passato è stata di Bankitalia, Bastogi, Romagnoli, istituti di credito e oggi fa capo a Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica. I principali cantieri sono le tre torri Garibaldi (investimento: 270 milioni) e Via Ripamonti (lavori da settembre 2013 a dicembre 2019), con un impegno di 490 milioni, il cantiere comprende il perimetro Via Ripamonti, Università Bocconi e Stazione di Porta Romana, con riqualificazione di un'area industriale attraverso uffici e «light industry» per circa 100 mila metri quadri. Beni Stabili ha emesso un bond convertibile da 225 milioni e la componente di debito bancario è scesa al 51%. Quasi la totalità dell'offerta è business.

Infine c'è Porta Vittoria (Danilo Coppola): nell'area della ex stazione si lavora a residenze, un centro commerciale, un albergo, uffici per una superficie complessiva di 142 mila metri quadri. Parte commerciale esclusa, è stata decisa la vendita in blocco. L'iniziativa, (che l'operatore valuta in 600 milioni), è finanziata per oltre 200 dalle banche, principalmente Banco Popolare, e i lavori dovrebbero essere conclusi nel giugno 2014.

Fra investimenti, progetti, archistar, skyline c'è la città che cambia. Fra prospettive e spazi vuoti. Fondamentale, in tutto questo, è la condivisione fra le parti privata e pubblica. Che si traduce spesso in un negoziato fra i «padroni» del mattone e l'amministrazione che deve salvaguardare le esigenze dei vari «stakeholder», a cominciare dai cittadini. Secondo il vicesindaco con delega all'Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris, «in questo periodo la regia pubblica acquista maggiore importanza. Negli interventi le opere di urbanizzazione e quelle pubbliche devono avere la precedenza nella realizzazione. Solo così ci può essere la garanzia della conclusione con l'idoneità rispetto al contesto e l'appetibilità del mercato». Un modo forse un po' tecnico per dire che nella metropoli che riscrive se stessa, anche il mercato dipende dalla vivibilità che può essere assicurata dall'esistenza di spazi pubblici adeguati. E poi c'è un appello: «Gli operatori si dedichino anche al recupero e alla riqualificazione del patrimonio esistente. Solo in questo modo è possibile rimettere in moto il mercato, curando la bolla esplosa qualche anno fa». Una bolla che anche osservatori specializzati come Nomisma o Scenari immobiliari ritengono al momento superata da cenni di ripresa. Ma che tuttavia può ripresentarsi. L'asimmetria fra domanda e offerta è un fatto che, soprattutto se si esagerano aspettative e si mitizzano traguardi, può diventare un grande problema in poco tempo.

Le trasformazioni urbanistiche della città, va da sé, dovrebbero anche nei casi più perversi essere determinate dall'evoluzione economica e sociale, ma la cosa ahimè non dipende per nulla da variabili che la città è in grado di gestire da sola. Corriere della Sera Milano, 1 luglio 2013 (f.b.)

Dal dopoguerra a oggi il dibattito accademico (e poi mediatico) sull'urbanistica e, in generale, sulla forma della città ha occupato prima gli addetti ai lavori, quindi l'economia, la finanza e i grandi eventi, fino a esaurirsi in una serie di auspici che, in qualche maniera e con non tanta chiarezza, si collegano oggi a Expo. La verità è che, nel frattempo, Milano ha cambiato pelle tante volte, perdendo la sua vocazione industriale e sostituendola con i servizi fino alla finanza, che ha continuato a sostenere l'edilizia finché ci è riuscita. E mentre Milano cambiava pelle, cambiava anche il suo paesaggio: capannoni abbandonati o spesso lasciati a metà, depositi vuoti, centinaia di fabbriche chiuse.

Il paradosso è che nei decenni si sono accumulate generazioni e generazioni di manufatti e di capannoni, con una logica «consumistica», da mass market; quasi un «usa e getta permanente» che ha occupato una buona parte del territorio, con effetti paesaggistici devastanti e un'ininterrotta filiera che accompagna le nostre periferie, seguendo le direttrici e le autostrade che portano fuori dalla città.

Ora, la vera domanda che si pone è collegata al problema reale del Millennio: il lavoro. O meglio la sua mancanza. Che fare quindi di questi manufatti? La verità è che tutto questo sistema è stato in piedi fino a che il lavoro è stato il collante fra compratori e acquirenti, fra produttori e consumatori. Nel momento in cui decresce la popolazione attiva (e diminuiscono anche le sue garanzie) e quella non attiva vive molto più a lungo (mentre la città implode) la vera domanda viene ancora una volta elusa. Quali lavori serviranno ancora, che tipo di economia si potrà immaginare? Si continuerà a usare crisi e crescita come sinonimi di tempo brutto e tempo bello. Il premier inglese Cameron ha fatto fare un'indagine su quali potrebbero essere i lavori del 2030 (praticamente dopodomani).

Vengono fuori lo smaltitore (non l'analista) di dati, lo specialista di contenuti verticali, figure senza tempo come gli insegnanti associati a figure virtuali come gli avatar e tanti altri profili e scenari che andranno comunque verificati. Se esisterà energia, nel senso più ampio del termine, sarà data dalla conoscenza, dalla capacità di metabolizzare la qualità e la quantità dei saperi, per applicarne poi i risultati. Potrebbe anche accadere che i paradigmi vengano rovesciati, per cui si studierà sempre e si lavorerà solo part time. Pasolini, già 40 anni fa, parlava di liberazione dal lavoro grazie alla tecnologia, intuendo che l'industrializzazione italiana sarebbe passata attraverso l'incremento dei beni privati e non delle infrastrutture pubbliche (scuole, ospedali, ferrovie) e che questo non avrebbe portato un vero benessere.

Il traguardo del lavoro si preannuncia difficile, alla fine di un percorso che prevede formazione, mediazione, prevenzione e informazione a ciclo continuo. E dei nostri capannoni, che occupano città e territori limitrofi senza soluzione di continuità, che ne faremo, in uno scenario siffatto? Li raderemo al suolo, intitolando a Pier Paolo Pasolini i parchi che sorgeranno dalle loro ceneri? O continueremo a parlare di crisi e di crescita, a fasi alterne?

Uno dei più interessanti progetti per il rinnovamento urbano legati all'Expo, che pur nella sostanziale estraneità al tema ambientale centrale può far molto per un futuro più sostenibile. Corriere della Sera Milano, 15 giugno 2013, postilla (f.b.)

Milano è l'unica metropoli europea che, pur essendo collocata in un'area strategica come la Pianura Padana e con una rete di vie d'acqua così importante, ha rinunciato a essere una città d'acqua con tutte le conseguenze strutturali e simboliche che ciò ha comportato.
I lavori di chiusura dei Navigli iniziarono nel 1929 a partire dalla Cerchia per concludersi negli anni 60 con l'interramento del canale Martesana lungo via Melchiorre Gioia. Le motivazioni furono molteplici.

L'igiene urbana — i Navigli venivano utilizzati come fognature a cielo aperto — e lo «slancio verso la modernità» — leggasi motorizzazione di massa — che vedeva nelle vie d'acqua un ostacolo alla circolazione in città. Tutte ragioni pratiche e superabili — come dimostra l'esperienza di tante città europee — che hanno, però, cancellato una traccia fondamentale e peculiare di Milano.
Un progetto di riapertura dei Navigli, dunque, ha il grande vantaggio di ristabilire una connessione — storica, urbanistica e identitaria — tra la metropoli di oggi e quella del passato. Tuttavia non può essere vissuto come un semplice restauro, ma deve rappresentare un «ritorno al futuro». Un modo per realizzare una nuova Milano a misura d'uomo e di bicicletta, in cui a fianco di quella delle auto possa affiancarsi, e via via sostituirsi, una mobilità dolce in una nuova città più «pulita» fatta di isole pedonali e piste ciclabili.

I Navigli sono uno strumento con cui Milano potrà acquisire una nuova immagine rafforzando la sua centralità nell'area metropolitana e padana e arricchendo le sue relazioni con tutti quei territori che vivono ancora le vie d'acqua come parte integrante del proprio paesaggio urbano o rurale. La loro riapertura testimonierebbe la saldatura tra storia e sviluppo e si concilierebbe bene l'idea di una «città verticale» — a misura di ascensore e di cui constatiamo i limiti — con quella orizzontale, a misura d'uomo.

Il nuovo «paesaggio milanese» sarebbe un forte elemento di attrattività turistica non solo per gli stranieri (oggi il 63 per cento dei 9 milioni di presenze annue), ma anche per gli italiani. Tutti interessati a una città che fa della contaminazione — tecnologia e tradizione — un elemento di distintività, costituendo un esperimento eccezionale per una via italiana alle smart cities. Per i milanesi, la città d'acqua rappresenterebbe un elemento innovativo di riconoscimento, di incontro, di «pausa» urbanistica.

Questo progetto è espressione dell'essenza stessa del turismo che non è un bene, ma un prodotto di sistema. Esiste e acquisisce valore solo quando si afferma una relazione virtuosa tra tutte le componenti di un territorio: da chi governa le risorse culturali e paesaggistiche, agli attori economici e alla cittadinanza. L'operazione navigli, infine, può essere vissuta come legata a Expo 2015. Non lo è nella realtà, essendo indipendente, ma riflette il clima culturale nel quale l'Expo 2015 dovrebbe svilupparsi. Se c'è un elemento, infatti, che mette assieme il concetto di nutrizione e di energia, questo è proprio l'acqua, che gode già di tutte le attenzioni delle scienze umane e, in particolare, dell'antropologia culturale. I due progetti sono contemporanei e pertanto, nell'immaginario e nelle eredità che l'Expo 2015 può lasciare, quello di una «città dei navigli» sarebbe un segno duraturo di grande attrattività per il turista che viene a Milano, come lo è il Duomo che oggi è visitato da oltre 3 milioni di persone ogni anno.

(Franco Iseppi è presidente del Touring Club Italiano)

postilla

Parola di non-conservazionista a oltranza: il ripristino del sistema d'acqua centrale di Milano (magari presupposto per qualcosa di più ampio a scala metropolitana) è davvero potenzialmente un'operazione post-moderna. Così come nel segno della modernità ottimista e progressista erano state, tutto sommato, le varie iniziative urbanistiche parallele alla tombatura dei Navigli nella prima metà del '900, quando fra city terziaria, sventramenti auto-oriented, architetture in tema, pareva che il tessuto urbano della tradizione fosse da consegnare legato mani e piedi alla pura nostalgia, al folklore di qualche appassionato. A ben vedere anche un paladino della storia dell'arte e del restauro come Gustavo Giovannoni, in alcuni passaggi poco noti e citati, definiva la sua cosiddetta “teoria del diradamento edilizio” come ripiego temporaneo strategico di fronte alla modernità, in attesa di tempi migliori a cui quasi fatalmente ci avrebbero condotto gli sviluppi tecnologici, ad esempio quelli legati alla telefonia o alle scienze dei nuovi materiali da costruzione. Oggi queste idee le conosciamo come sostenibilità, mobilità dolce, smart city e, purché gestite in una logica progressista di politiche urbane integrate, potranno davvero realizzare ciò che promettono: efficienza, bellezza, e magari anche un po' di giustizia, che con le altre due non sempre si accompagna. Ma questo è compito della politica e della società, non certo di qualche antica via d'acqua ripristinata fra tante speranze (f.b.)

Emerge chiarissimo il cumulo di miserie dietro ai "sogni" di Umberto Veronesi per la sua mega-cittadella sanitaria privata. Si spera, con poca convinzione, che il professore finalmente prenda le distanze. Articoli di Simona Ravizza, Andrea Senesi, Alessandra Corica, Alessia Gallione, Corriere della Sera e la Repubblica ed. Milano, 13 giugno 2013 (f.b.)

Corriere della Sera
«Sconto dal Comune o Cerba a rischio»
di Simona Ravizza, Andrea Senesi

A quindici giorni dalla scadenza della convenzione è tutto o quasi da rifare. Del Cerba — la cittadella ospedaliera che deve nascere in fondo a via Ripamonti a due passi dallo Ieo (Istituto europeo di oncologia) — rischiano di rimanere solo i rendering ingialliti dal tempo.
La riunione della commissione Sanità della Regione di ieri è servita a fotografare la distanza che separa gli attori in scena. Da una parte gli avvocati rappresentanti per la curatela fallimentare della Im.Co di Ligresti, che deteneva i terreni del Parco Sud; dall'altra le istituzioni, la Regione e soprattutto il Comune.

Tutto da rifare. L'accordo di programma firmato nel 2009 non è più economicamente sostenibile, dicono i curatori fallimentari. A cominciare da quei 92 milioni di oneri d'urbanizzazione che andrebbero pagati al Comune. «Troppi per trovare un soggetto che si faccia carico di proseguire il progetto», dice l'avvocato Umberto Grella. La cifra andrebbe ridotta più o meno a un terzo. «Sono accordi basati su valutazioni economiche e finanziarie risalenti al 2003, durante il boom del mercato immobiliare e ora non più sostenibili né per un soggetto pubblico né per un soggetto privato», aggiunge il consulente legale per il fallimento della Im.Co.

Secondo Grella gli oneri di urbanizzazione andrebbero quindi rinegoziati e poi dilazionati. Da rivedere anche la questione della manutenzione del parco che secondo l'accordo sarebbe a carico del nuovo proprietario delle aree per 30 anni, la possibilità di realizzare housing sociale (il Comune vorrebbe che le case fossero assegnate solo a medici e infermieri) e la necessità di impiantare in via Ripamonti negozi e supermercati (Palazzo Marino è contrario a nuovi centri commerciali). «Se il Comune ha davvero a cuore il futuro del Cerba dovrebbe sedersi a un tavolo e rinegoziare».

Secca la replica dell'assessore all'Urbanistica Ada Lucia De Cesaris: «Qui non si tratta di fare generici richiami alla collaborazione o alla ragionevolezza, ma di intraprendere azioni per tutelare il concreto interesse pubblico». Secondo il Comune la strada è una e una sola: «I patti vanno rispettati e non è accettabile modificare un progetto scientifico, snaturandolo, con la previsione di housing sociale e, addirittura, di una media struttura di vendita, ossia un centro commerciale». Pessimista anche il consigliere pd Carlo Borghetti: «Al momento non mi sembra che ci siano le condizioni per una modifica del piano integrato che possa vedere d'accordo la curatela fallimentare e il Comune di Milano».

La vicenda dovrebbe avere un epilogo entro il 28 giugno, data di scadenza dell'accordo di programma. Altrimenti? L'ipotesi più immediata è quella del ricorso al Tar da parte dei curatori fallimentari. Ma sul medio periodo è già pronto un piano B. «Potremmo vendere alla Regione le aree per realizzare lì la Città della salute».

la Repubblica
Scontro sul futuro del Cerba
di Alessandra Corica

È SCONTRO tra Comune e banche sul futuro del Cerba. I curatori fallimentari di Ligresti hanno chiesto a Palazzo Marino di ridurre gli oneri sui terreni da 92 a 30 milioni di euro, per far partire la costruzione del polo di ricerca accanto allo Ieo. Netto il no dell’assessore De Cesaris: «Non si tratta di fare richiami alla collaborazione o alla ragionevolezza, ma di rispettare i patti e tutelare l’interesse pubblico». Se entro il 28 giugno banche e Comune non troveranno un accordo, il progetto rischia di naufragare.

Un braccio di ferro. Con una stretta di mano finale molto difficile. Sempre più vicina la rottura tra Palazzo Marino e banche sulla partita del Cerba. Ieri i curatori fallimentari (che rappresentano i creditori di Ligresti, tra cui ci sono i maggiori istituti bancari del Paese) lo hanno detto senza giri di parole: o gli oneri sui terreni si riducono a un terzo, e passano da 92 milioni di euro a 30, oppure l’accordo non si fa. «La cifra andrebbe ridotta — spiega Umberto Grella, consulente legale della curatela — perché si basa su valutazioni fatte nel 2003, prima della crisi. Oggi stipulare una fideiussione del genere, da pagare in un’unica tranche, è impossibile. Se il Comune ha a cuore il progetto dovrebbe negoziare».

Un appello che però non viene accolto in piazza della Scala. Dove l’assessore Ada Lucia De Cesaris puntualizza che «non si tratta di fare richiami alla collaborazione o alla ragionevolezza, ma di rispettare i patti e tutelare l’interesse pubblico. Un obiettivo che dovrebbe stare a cuore proprio ai curatori, visto che tra i creditori c’è anche il Comune ». Il tutto, mentre il tempo stringe. E il 28 giugno, termine in cui scadono i 90 giorni che il Comune con una diffida ha dato ai curatori e alla Fondazione per trovare un accordo, si avvicina: se entro quella data non verranno firmati alcuni atti integrativi all’Accordo di programma, il progetto rischia di naufragare. «Ma se dovesse accadere, ci rivolgeremo al Tar», minacciano le banche.

La partita del Cerba è legata a quella del crac di ImCo e Sinergia, le due immobiliari di Ligresti, fallite l’anno scorso con un buco di 460 milioni di euro, di cui 330 di debiti con le banche, compresa un’ipoteca di 120 milioni sui terreni del Cerba. Che allo stato agricolo valgono 3 milioni di euro: l’edificazione farebbe schizzare la cifra oltre i 200 milioni. Un affare conveniente per gli istituti bancari, che non solo sono tra i creditori di Ligresti, ma sono anche soci della Fondazione Cerba, che patrocina il progetto del polo di ricerca. La cui realizzazione è stata messa in forse dal crac: per cercare di salvare l’operazione, i curatori hanno chiesto al Comune alcune modifiche al progetto iniziale, per avviare comunque la costruzione del polo, che con isuoi 1,3 miliardi di euro di valore rappresenta il cuore del patrimonio di ImCo e Sinergia. Oltre alla riduzione degli oneri, la curatela ha proposto di mantenere allo stato agricolo la zona verde e di realizzare 40mila metri quadri di housing sociale (400 alloggi, che permetterebbero l’entrata nella partita di Cassa depositi e prestiti) e un centro commerciale. Proposte, però, ritenute irricevibili dal Comune, anche per il no dei curatori a trattare su un altro immobile di Ligresti, la cascina Campazzo, di cui Palazzo Marino vorrebbe la cessione.

Per discutere ancora della situazione, il 18 giugno si riunirà la Segreteria tecnica. Tra i nodi, anche la mancanza (a un anno dal crac) del concordato fallimentare, e di un soggetto che stipuli con il Comune gli atti per portare avanti il Cerba. «Ma il concordato — dicono i curatori — sarà presentato entro luglio, da una società che ha già scritto a Comune, Regione e Provincia». Ovvero, Visconti srl, società nata a marzo e capitalizzata proprio dalle banche creditrici di Ligresti. Sul fronte politico, la Provincia (tra i firmatari dell’Accordo di programma) sottolinea «l’importanza per Milano della ricerca. Abbiamo sempre sostenuto il progetto — ricorda il presidente Guido Podestà — Per questo avevamo proposto di realizzare la Città della salute su quei terreni». Per il Pd l’obiettivo non deve essere «risolvere i problemi urbanistici, ma potenziare ricerca e cura. Questi problemi — dicono i consiglieri Carlo Borghetti e Sara Valmaggi — non vanno quindi sottovalutati, ma non devono far perdere di vista il nodo centrale della questione».

L’eredità scomoda del crac Ligresti
di Alessia Gallione


L’impero è crollato sotto una valanga di debiti. Ma l’eredità di Salvatore Ligresti e di quel monòpoli fatto di terreni nel Parco Sud, cascine, cantieri aperti e palazzi realizzati da anni ma ancora problematici, è un’eredità pesante. Macerie lasciate in città dall’ex re del mattone. E molti fronti ancora aperti su cui si continua a combattere. Perché — dai fascicoli che si trascinano da anni a quelli appena inaugurati — per questioni legate alle vecchie proprietà della vecchia galassia legata all’ingegnere di Paternò ci sono una ventina di contenziosi urbanistici con il Comune. E Palazzo Marino, soltanto per oneri di urbanizzazione mai versati o obblighi dimenticati, pretende 10 milioni di euro.

Passano gli anni, ma l’obbiettivo sembra rimanere quello: il Parco Sud. È lì, su quella distesa di verde tutelata ai confini della città, che Ligresti ha sempre sognato di costruire. Aree potenzialmente d’oro, che il Pgt ha blindato. Ed è proprio per conquistare quel tesoro (che non si può spendere) che i curatori fallimentari della Imco hanno impugnato davanti al Tar il Piano per chiederne l’annullamento. Epoche diverse,interessi diversi, visto che in questo caso c’è un buco da 460 milioni da colmare. Ma lo stesso traguardo: passare all’incasso. E questa è soltanto una delle cause ancora aperte legate all’impero dell’ex re del mattone. In tutto, tra oneri mai versati, richieste di danni, piani decaduti, abusi edilizi, sono ancora una ventina i contenziosi sopravvissuti alle macerie. Con Palazzo Marino che, complessiva-mente, aspetta di ricevere almeno 10 milioni di euro.

È una mappa che comprende un po’ tutta Milano, quella disegnata dalle proprietà che Ligresti ha accumulato nei decenni. Un’eredità un tempo suddivisa in due tronconi: il ramo assicurativo con Fondiaria Sai e quello strettamente immobiliare con la cassaforte Sinergia che racchiudeva Imco e decine di altre società. Proprietà e problemi che, oggi, sono suddivisi tra la Unipol e i curatori fallimentari. Partiamo dai beni in mano a questi ultimi che, per recuperare quei 460 milioni, hanno continuato o apertoex novo diversi contenziosi. Perché i guai sopravvissuti al crac non riguardano solo i terreni del Cerba. A due passi dalla futura cittadella della scienza e dal Parco Sud ci sono le aree di Macconago. È per sbloccare quel vecchio piano edilizio (insieme ad altri due progetti) che Ligresti, nel 2009, dichiarò guerra a Palazzo Marino quando governava Letizia Moratti. Tutto rientrò in extremis e la possibilità di far venir su le case di via Macconago sembrò concretizzarsi: l’aula dette il via libera. Eppure, già sull’orlo del baratro, Ligresti non firmò mai la convenzione per il piano che — dopo una diffida delComune — è decaduto nel 2012. Per resuscitare quel quartiere da 60mila metri quadrati, i curatori hanno fatto ricorso.

Nell’elenco c’è di tutto: dalla cascina Campazzo ai presunti abusi edilizi per un centro sportivo. La causa più vecchia va avanti dal 2001. Per un progetto datato 1993 in zona stazione Centrale, piazza Scala pretende 2 milioni di oneri di urbanizzazione. Altri 2 milioni, invece, sono i danni che Palazzo Marino pretende per una vicenda preistorica: vicino a delle case Ligresti si era impegnato a cedere alla città un’area che, poi, vendette a un altro privato. Il carico da novanta, però, èarrivato con il ricorso dei curatori contro il Pgt che svaluterebbe troppe proprietà: dal Forlanini al Parco Sud, è vietato cementificare. Tra i cantieri c’è una torre che sta venendo su vicino a Porta Nuova. Per passare alla parte oggi in mano a Unipol, si arriva a uno dei simboli della città abbandonata: la Torre Galfa.

In questo caso l’atteggiamento verso l’amministrazione sembra essere più conciliante, visto che i proprietari avrebbero chiesto un incontro con Palazzo Marino per sanare vecchi guai. Questa parte dell’eredità è altrettanto strategica perché, tra l’altro, comprende molte delle cosiddette aree d’oro del Parco del Ticinello. Un ramoscello d’ulivo è rappresentato anche dalle case di via dei Missaglia: per anni gli inquilini sono stati in guerra con l’ingegnere perché le sue società non avrebbero adempiuto ai patti sull’equo canone e l’edilizia convenzionata. Oggi si cerca di aprire un tavolo, con il Comune come mediatore.

Nuovo capitolo nella saga metropolitana di riorganizzazione dei poli ospedalieri dentro la cosiddetta Cittadella della Salute, i cui volumi e localizzazione paiono molto più importanti di organizzazione funzioni e contenuti. Articoli e interviste di Alessandra Corica e Rodolfo Sala, la Repubblica Milano, 31 maggio 2013 (f.b.)

Città della salute, Mantovani frena “Ritardi a Sesto, si può fare altrove”
di Alessandra Corica

Una frenata brusca. Per certi versi, inaspettata. E che adesso apre un grosso punto interrogativo sul futuro. Si riaccende la polemica sulla Città della salute: ieri l’assessore regionale alla Salute Mario Mantovani, in visita al Neurologico Besta, ha fatto vacillare le certezze sulla costruzione dell’ospedale nelle ex aree Falck. «C’è una convenzione con il Comune di Sesto San Giovanni ed è già partita la presentazione dei progetti — ha detto il vicepresidente della Regione — Non nascondo, però, che i problemi sono molti. E che non sappiamo se le bonifiche dureranno mesi, anni o secoli». Nulla di sicuro, quindi. Tranne che per l’istituto Carlo Besta, come ha sottolineato il suo presidente Alberto Guglielmo, «è fondamentale avere risposte in tempi brevi: la programmazione non è nostro compito, la Regione ci dica dove andare ». Ora il derby tra Milano e Sesto San Giovanni per accaparrarsi il sito del nuovo ospedale potrebbe ricominciare. «Per adesso c’è la certezza — ha detto Mantovani — di trasferire il Besta, ristrutturarlo e migliorarlo. Se però dovessimo riscontare che in quella sede (le aree Falck, ndr) ci sono troppi problemi, decideremo cosa fare. Siamo a Milano, di posti ce ne sono tanti».

Quella della Città della salute è una questione aperta da anni: la prima volta in cui se ne parlò era il 2000. Da allora le ipotesi su dove — e come — costruire la cittadella si sono moltiplicate, da quella di realizzarla a Vialba (unendo il Besta, l’Istituto dei tumori e il Sacco), fino alla querelle tra Milano (che offriva l’area dell’ex caserma Perrucchetti) e Sesto San Giovanni. I due Comuni si sono contesi la localizzazione della cittadella fino a giugno 2012, quando la Regione ha scelto (sembrava in via definitiva) le ex aree Falck. «Una decisione — ha commentato però Mantovani — presa dalla passata amministrazione. Noi non sappiamo quanto questo, sul piano ambientale, sia possibile: stiamo valutando». La situazione, a onor del vero, è complicata: il sito (200mila metri quadri sugli 1,3 milioni che compongono l’intera area) dovrebbe essere concesso dal Comune di Sesto, che a sua volta dovrebbe riceverlo dalla proprietà privata. Ovvero Sesto Immobiliare spa, cordata guidata da Davide Bizzi che lo ha comprate nel 2010 da Risanamento spa: proprio ieri però l’azienda ha annunciato di aver chiesto l’annullamento dell’acquisto e la restituzione dei 345 milioni sborsati, «considerando le gravi omissioni e reticenze delle controparti nella trattativa».

Anche la bonifica del sito dovrebbe essere a carico del gruppo Bizzi. Un fatto, questo, che un anno fa contribuì a far pendere l’ago della bilancia su Sesto: in questo modo le operazioni prima di costruire non sarebbero state un problema del Pirellone. Ora, però, anche su questo si aprono interrogativi: il ministero dell’Ambiente ha fatto numerosi rilievi al progetto Bizzi. Che, per questo, ha deciso di appellarsi al Consiglio di Stato con un ricorso che non verte sulla bonifica per l’ospedale, ma sul resto dell’area. Risultato, i primi rallentamenti. Perché, anche se ancora non è stato posto un mattone, rispetto al programma il ritardo è già di tre mesi. Unica certezza, i fondi necessari. Molti. Perché con i suoi 450 milioni di euro (di cui 330 regionali) la Città della salute è stata la partita più importante dei 17 anni del governo Formigoni. Che, non a caso, nel 2011 prese in mano la questione sciogliendo il consorzio di Besta, Int e Sacco incaricato di sviluppare il progetto. E lo affidò alla vicina - e controllata - Infrastrutture Lombarde.

“Progetto ormai stravolto con tutti quei finanziamenti ristrutturiamo quel che c’è”
intervista a un top manager della sanità

«PORTARE avanti questo progetto, adesso e a queste condizioni, è assurdo». È netto Alberto Scanni, ex direttore generale dell’ospedale Sacco e dell’Istituto dei tumori, sull’ennesima querelle nata intorno alla Città della salute. «La cittadella aveva un senso per unire il Besta, l’Int di via Venezian e l’ospedale Sacco. Quando però questa ipotesi è tramontata, l’intera operazione non ha avuto più ragion d’essere. Piuttosto, meglio utilizzare i fondi per ristrutturare gli attuali istituti».
Scanni, lei faceva parte del Consorzio Città della salute, che sotto la guida di Luigi Roth riuniva Besta, Int e Sacco e aveva avviato uno studio di fattibilità per realizzare l’ospedale.

«Non solo uno studio di fattibilità: il progetto era quasi pronto. Avevamo anche trovato un modo
per risolvere il problema di viabilità che rende complesso raggiungere il quartiere Vialba: allo studio, in collaborazione con il Comune di Milano, c’era l’ipotesi di realizzare un metrò a cielo
aperto che partisse dalla Fiera, si ricongiungesse con la linea gialla e migliorasse i collegamenti tra la zona e il resto della città».

Cosa è successo?

«Il Consorzio è stato sciolto dalla Regione nel 2011, l’ipotesi di Vialba è tramontata e con essa la presenza del Sacco nel progetto. A quel punto il Pirellone ha deciso di andare avanti comunque, e di realizzare la cittadella soltanto con Besta e Istituto dei tumori. Ma senza un ospedale generalista, e senza il contributo dell’università, un piano simile genere non ha molto senso».

Perché?

«Il Besta e l’Istituto di via Venezian hanno una storia diversa, portano avanti attività e ricerche diverse: non possono essere sovrapposti».

Però sia il neurologico di via Celoria sia l’Int hanno denunciato più volte le carenze delle loro sedi.

«Gli ambienti hanno assolutamente bisogno di un rinnovo. Proprio per questo i fondi che servirebbero per realizzare la Città della salute potrebbero essere spesi meglio».

Come?

«Quand’ero direttore generale in via Venezian, feci spostare alcuni laboratori di ricerca nella sede di via Amadeo lasciando vuota un’ala della struttura principale: si potrebbe usare una parte dei fondi per ristrutturare quell’ala dell’edificio, risolvendo così i problemi dell’Istituto dei tumori».

E con via Celoria come la mettiamo?

«Stesso discorso: con il resto dei soldi si potrebbe sistemare l’attuale sede o, ancora meglio, costruirne una nuova, magari ricorrendo al contributo di privati con il project financing».

In questo modo, però, tramonterebbe per sempre il sogno dell’“ospedale modello”.

«Ma il progetto della Città della salute è nato, diversi anni fa, con l’intento di costruire un polo dedicato alla sanità e alla ricerca. Senza il contributo di un ospedale universitario questo non è possibile: meglio usare i finanziamenti per fare altro».

Il Comune: “Riapriamo il tavolo”

L’ultimo atto nella storia infinita del maxi ospedale di Formigoni
di Rodolfo Sala

«Adesso — spiega — dicono che su quel progetto ci sono delle complessità; lo si sapeva dall’inizio, noi l’avevamo fatto presente, ma Formigoni non ci ha voluto ascoltare». Quindi? «È arrivato il momento di fermarci, mettiamoci tutti assieme e valutiamo le reali esigenze della sanità lombarda e della città di Milano, per capire quali siano le priorità». Insomma: «Non è tardi per cambiare destinazione, certo bisogna anche tenere conto degli impegni presi. Ma io non cambio idea: spostare il Besta e l’Istituto dei tumori è un errore».

Sembrano dunque riaprirsi i giochi sulla storia infinita della Città della salute. Un progetto sulla cui bontà le istituzioni locali si sono sempre dette d’accordo. La materia del contendere riguarda la localizzazione. Con la Regione targata Formigoni ostinatamente ancorata all’idea di realizzare sotto il cielo di Sesto San Giovanni l’unificazione dell’Istituto dei tumori con il Besta, finalmente accorpati in un polo sanitario d’eccellenza domiciliato in un’area industriale dismessa, l’ex Falck. Idea caparbia, quella del Celeste; e ovviamente condivisa dagli amministratori “rossi” della ex città delle fabbriche, ansiosi di dare finalmente una destinazione a quegli spazi vuoti. Formigoni ha fatto di tutto per lasciare immaginare che dietro la sua proposta ai partner si nascondesse in realtà una decisione già presa. Nonostante gli altolà che fin dall’inizio la giunta di Milano, con il sindaco in prima fila, aveva opposto, invitando la Regione a non ridurre il problema della localizzazione della Città della salute a «un’asfittica questione tecnica urbanistica », come ebbe a scrivere Giuliano Pisapia all’allora governatore nel maggio dello scorso anno, quando ormai la rottura tra Regione e Comune si era consumata.

Ma bisogna partire dall’aprile del 2009 per ricostruire una vicenda che, ridotta all’osso, racconta il tentativo di mettere insieme sanità lombarda, banche e interessi immobiliari. Dunque, quattro anni fa si costituisce, sotto la guida del formigoniano Luigi Roth, un consorzio tra Istituto dei tumori, Besta e Sacco (poi escluso dai finanziamenti), con il compito di avviare uno studio di fattibilità in vista della realizzazione di un unico polo sanitario nella zona di Vialba. Salta tutto nel 2011: ci sono problemi logistici e, soprattutto, a Vialba c’è un corso d’acqua di cui nessuno sembrava sapere nulla, e che impedirebbe al progetto di andare avanti.

Ecco allora che si fa avanti Giorgio Oldrini, all’epoca sindaco di Sesto: il posto giusto per la
Città della salute è l’ex Falck, area di proprietà di un’immobiliare che nel 2010 l’aveva rilevata dal costruttore Luigi Zunino. L’immobiliare fa capo a Davide Bizzi, che vuole ovviamente investire nel mattone (il piano di intervento contempla un milione di metri quadri tra residenze, alberghi, uffici, servizi e un megacentro commerciale, con un valore di mercato stimato attorno ai 4 miliardi). E la Città della salute, in tempi di crisi del mercato immobiliare, potrebbe costituire il quid che manca per risolvere il problema dell’invenduto. I soliti maligni puntano subito il dito contro gli interessi convergenti di costruttori vicini a Comunione e Liberazione e delle Coop rosse di Bologna, che
sono in cordata con Bizzi. Formigoni e gli amministratori sestesi non hanno dubbi: la Città della salute si farà lì, i 450 milioni che servono verranno coperti dalla Regione (330) e dallo Stato (40); gli altri 80 arriveranno dai privati.

Ma a Milano storcono il naso. E avanzano la candidatura dell’ex caserma Perrucchetti come sede del nuovo polo sanitario. C’è un problema: il ministero della Difesa non vuole cedere quello spazio, e Formigoni acchiappa l’occasione al volo. Fa la voce grossa, e nella primavera del 2012 lancia un ultimatum a Pisapia: un pugno di settimane per dire sì o no al progetto da realizzare a Sesto, e chissenefrega se Pisapia chiede tempo, «mantenendo al tavolo sia il Comune di Sesto sia quello di Milano ». Il Celeste non ne vuole sapere e il 30 maggio del 2012 (a due settimane dalla scadenza dell’ultimatum di Formigoni), Palazzo Marino si sfila, abbandonando il progetto. Ieri l’uscita di Mantovani. Che potrebbe rimettere tutto in discussione.

Dal 1 gennaio 2014 dieci grandi città italiane (Roma, Torino, Milano, Bologna, Venezia, Genova, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria) ai sensi della legge 135 del 2012 diventeranno “città metropolitana” con contestuale abolizione delle rispettive Province

Dopo la prima e timida comparsa della dicitura città metropolitana nell’ordinamento giuridico italiano (con la Legge 142 del 1990 sul riordino delle autonomie locali), ora sembra essere giunto finalmente il tempo del grande passo. I processi di internazionalizzazione economica in atto, infatti, pongono nuove e pressanti domande anche nei confronti delle politiche pubbliche, soprattutto in termini di dotazione infrastrutturale, di sostegno allo sviluppo locale, di strategie di marketing territoriale, di politiche per la riconversione della base produttiva, di miglioramento della qualità ambientale, di attenzione alle nuove emergenze sociali e di accesso ai fondi e ai finanziamenti comunitari. Senza soffermarsi ulteriormente sul ritardo con il quale il nostro Paese si è deciso ad affrontare questi temi rispetto allo scenario europeo né sull’estrema necessità di un livello di governo che sappia elaborare politiche di scala territoriale e quindi rispondere in modo efficace alle nuove sfide dell’economia globale, si ritiene utile entrare nel merito del percorso intrapreso dall’area milanese per l’istituzione dell’organismo metropolitano.

La regione urbana milanese è certamente una delle realtà territoriali italiane più complesse, nella quale la vivacità storica del proprio tessuto produttivo l’ha resa uno dei più importanti motori di sviluppo dell’economia italiana, in cui si concentrano funzioni e attività che sono alla base di processi economici di dimensione europea. Nonostante alcune ricerche abbiano attestato, a partire dalla metà degli anni Novanta, una progressiva perdita di competitività del territorio milanese rispetto ad altre aree europee dove, grazie ad accorte politiche di livello locale e metropolitano, si è saputo attrarre imprese multinazionali e aumentare il livello di competitività internazionale, Milano rimane un sistema territoriale fondamentale per il nostro Paese.

Numerosi studi (*) dimostrano come la perdita di appeal dell’area milanese sia da imputare non solo alle difficoltà, che comunque esistono, del tessuto economico, ma anche alla debolezza delle politiche pubbliche e in particolare di quelle legate alla pianificazione e all’ambiente, che ne comprometterebbero, nel medio e lungo periodo, la competitività complessiva. La mancanza di sinergia tra attori istituzionali ed economici, un sistema della mobilità (soprattutto quello relativo al trasporto pubblico) poco efficiente e bassa qualità urbana rappresentano le principali debolezze del sistema.

Investimenti volti a migliorare la connettività e la vivibilità, politiche per la riduzione dell’inquinamento e della congestione, strumenti volti a minimizzare tendenze di diffusione insediativa che compromettono le qualità ambientali, incentivi per i settori della ricerca e dell’innovazione necessitano di una regia istituzionale capace di elaborare uno scenario di sviluppo che sappia coniugare la dotazione territoriale con le dinamiche economiche e sociali. Per attuare tutto questo la città metropolitana appare, anche a Milano, il livello di governo più adatto.

In questo quadro locale però i principali nodi da sciogliere sembrano riguardare, ancora una volta, questioni di natura squisitamente amministrativa e politica. La legge di stabilità approvata nello scorso dicembre ha, di fatto, sospeso il ruolo della Conferenza Metropolitana, organo che avrebbe dovuto riunire tutti i sindaci dell’attuale territorio provinciale e deliberare lo Statuto provvisorio del nuovo ente entro il 31 ottobre 2013.

Dal prossimo 1° gennaio 2014 la Provincia di Milano verrà di fatto soppressa e il Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, diventerà il Sindaco metropolitano fino all'adozione dello Statuto, lasciando senza però norme precise sull’attribuzione di competenze e sul funzionamento del nuovo ente. In un contesto come quello italiano, dove la sovrapposizione delle competenze tra diversi enti rappresenta una delle prime cause di inefficienza della pubblica amministrazione, ciò appare come un forte ostacolo a un serio processo di riforma della governance locale.

La città metropolitana rischia così di diventare solo un ulteriore livello amministrativo, dalle competenze piuttosto vaghe, che sostituirebbe l’attuale struttura provinciale.

A ciò si aggiunge l’atteggiamento ambiguo del Comune di Milano che, se da una parte ha affidato alle principali università milanesi studi e ricerche sui diversi settori, dall’altra sembra essere scarsamente in grado di esercitare un ruolo da leader nei confronti dell’hinterland, limitandosi a gestire l’intero processo in un’ottica fortemente milanocentrica, poco rispettosa delle risorse e delle potenzialità che l’area metropolitana, nel suo complesso, può offrire. Questi problemi rischiano non solo di compromettere l’intero processo di riforma istituzionale ma anche di far apparire la “questione metropolitana” come un tema distante dai cittadini e dalla loro vita quotidiana.

Eppure per l’esercizio delle funzioni attribuite obbligatoriamente al nuovo ente, tra cui la pianificazione territoriale e la mobilità, è necessaria una forte azione di coordinamento tra le amministrazioni e di coinvolgimento della cittadinanza.

E’ necessario che Milano superi le logiche localistiche ed accentratrici portate avanti finora (anche nel proprio Piano di Governo del Territorio è assente qualunque riferimento alla dimensione metropolitana) e si decida ad assumere un ruolo di coordinamento nei confronti delle amministrazioni dell’hinterland. Si tratta di elaborare una serie di politiche di natura integrata in grado di:

- indirizzare uno sviluppo del sistema insediativo che punti sulla riqualificazione delle aree dismesse, soprattutto di quelle localizzate a ridosso delle principali infrastrutture esistenti, per limitare il consumo di nuovo suolo, così da scongiurare nuovi interventi di urbanizzazione (residenziali, commerciali o terziari) che rompono la continuità del sistema degli spazi agricoli ed ambientali residui così come nuovi insediamenti a ridosso delle principali reti stradali (esistenti e in progetto) che rischiano di generare un’urbanizzazione continua e ampliamenti dei nuclei esistenti che, realizzati secondo una logica dell’addizione, non tengono conto del rispetto del limite dell’urbanizzato;

- estendere e rafforzare tutto il sistema di mobilità. L’intermodalità diventa determinante per garantire l’interscambio tra tutte le linee trasportistiche: più i diversi sistemi di trasporto saranno interconnessi, più facile e veloce sarà muoversi sul territorio. In quest’ottica il potenziamento e la riqualificazione dei nodi del trasporto pubblico dovrà essere prioritario. Le diverse modalità di trasporto esistenti (ferroviarie, automobilistiche, ciclabili e pedonali) se rafforzate e messe in rete consentiranno alle persone e alle merci di muoversi in modo più efficiente sia alla scala locale che a quella sovra locale;

- valorizzare il sistema ambientale esistente. La capacità di coniugare spazio costruito, densità, popolazione e infrastrutture con una buona dotazione di spazio aperto naturale consentirà di migliorare la qualità della vita e la vivibilità dell’intera regione urbana;

- ideare un sistema di incentivazione per sostenere il campo della ricerca e dell’innovazione, che rappresenta una potenzialità latente, non pienamente sfruttata della metropoli milanese, e che necessita di un indirizzo pubblico, capace, al contempo, di attrarre risorse economiche private e di promuove modelli virtuosi di partnership pubblico/privati, creando maggiori sinergie tra il mondo della formazione e ricerca e quello della produzione;

- promuovere un modello di sviluppo sostenibile, secondo le linee guida elaborate dagli organismi dell’Unione Europea (come la Carta di Lipsia del 2007), che dia priorità alla qualità dello spazio pubblico, all’efficienza energetica, all’innovazione, alla coesione sociale, al trasporto pubblico e al mercato del lavoro locale.

Solo in questo modo la futura città metropolitana potrà definire obiettivi di sviluppo coerenti e realistici per l’intera area urbana ed elaborare una visione di scala vasta condivisa, che sia all’altezza delle sfide internazionali alle quali Milano è chiamata a rispondere.

(*) In particolare si fa riferimento allo studio elaborato dall’OCSE, Territorial Reviews - Milan, OECD Publishing, Paris, 2006

Nota: su Eddyburg abbondano i contributi sul tema della sovracomunalità e dell'ente di governo, per individuare almeno un quadro generale basta digitare "Città Metropolitana" nella finestrella del motore di ricerca interno, in alto nella homepage (f.b.)

Utile iniziativa di divulgazione e sensibilizzazione degli spazi aperti metropolitani, che restino tali, fruibili a tutti, produttivi, nello spirito della greenbelt. Corriere della Sera Milano, 20 maggio 2013 (f.b.)

Un viaggio alla scoperta della campagna lombarda per valorizzare una delle aree agricole più vaste d'Europa: 47 mila ettari di coltivazioni attorno a Milano, 925 mila in tutta la regione. È «Via Lattea», il progetto del Fondo ambiente italiano che dal 2011 promuove il patrimonio rurale locale con visite alle cascine, ai borghi storici e alle vie d'acqua. Ieri mattina in piazza Duomo è stata inaugurata, davanti a una colorata mongolfiera, la terza edizione, che sarà più lunga e più ampia rispetto alle precedenti: le iniziative del Fai non riguarderanno più solo il Parco Agricolo Sud Milano ma si estenderanno a tutta la regione, con un programma di gite in bici, a piedi e in barca che durerà fino a settembre.

A presentare l'iniziativa c'erano Giulia Maria Crespi, presidente onoraria del Fai, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia e l'amministratore delegato di Expo Giuseppe Sala. «Dobbiamo far sapere ai milanesi che attorno alla città c'è tutto questo verde — ha spiegato Giulia Maria Crespi —. Un'area agricola che dà lavoro, attira turismo e fornisce ossigeno ma che rischia di essere distrutta dai condoni edilizi». Una battaglia, quella contro le sanatorie sull'abusivismo, che sta molto a cuore alla presidente Crespi: «Mi auguro che promuovere la bellezza e la ricchezza della campagna lombarda serva a convincere i politici, locali e nazionali, a evitare i condoni».
Dall'anno scorso anche Expo si è unita al Fai nell'organizzazione di «Via Lattea»: «L'iniziativa è molto in linea con i nostri valori perché promuove il lavoro delle persone e la qualità del territorio — spiega il commissario unico dell'esposizione Giuseppe Sala —. Esattamente quello che stanno facendo i Paesi partecipanti, lo vediamo nei progetti che ci presentano. Per questo abbiamo sposato "Via Lattea" l'anno scorso e intendiamo accompagnarla fino al 2015».Entusiasta anche il sindaco Pisapia, che con il Comune ha patrocinato l'iniziativa: «È importantissimo far sapere ai milanesi e a tutti gli italiani che Milano è la seconda città agricola del Paese e che la Lombardia è la prima regione per superficie coltivata: questa è una ricchezza che non possiamo disperdere. E che dobbiamo collegare ai temi di Expo».
Che l'agricoltura sia una ricchezza per il territorio lo dimostrano i dati della Camera di Commercio di Milano, sponsor di «Via Lattea»: in Lombardia un visitatore su quattro arriva esplicitamente per godersi la campagna. Trekking, passeggiate, visite ai parchi naturali, itinerari enogastronomici, gite culturali: le vacanze all'aria aperta piacciono sempre di più, soprattutto agli stranieri (il 58% dei turisti «green», divisi tra inglesi, francesi e tedeschi). Le province preferite per il relax bucolico sono Varese (58%), Como (42%) e Lecco (41%). A Milano solo il 12% arriva per motivi legati alla natura: un progetto per far scoprire il Parco agricolo e le cascine, quindi, non può che essere utile.

Le micidiali strategie speculative della lunga surreale stagione di urbanistica private-oriented crollano, lasciando la città devastata e il futuro tutto da costruire, ci sono prospettive? Intanto il loro regista è diventato ministro delle Infrastrutture. Articoli di F. Ravelli e A. Stella, La Repubblica, Corriere della Sera, 17 maggio 2013, postilla (f.b.)

la Repubblica
Milano la città dei grattacieli “mancati”
di Fabrizio Ravelli

MILANO — «Non ci dormo la notte», confessa Ada Lucia De Cesaris, assessore all’Urbanistica e vicesindaco, che pure ha fama di donna tostissima. Poltrona scomoda la sua, di questi tempi. Prima le è toccata una dura battaglia per mettere un argine alla delirante colata di cemento concepita dalla giunta di Letizia Moratti, e per far passare un Pgt (Piano di gestione del territorio, quello che si chiamava piano regolatore) che fosse un po’ più vicino alla realtà di Milano. E adesso la crisi: il ballo del mattone è finito, la città dei nuovi grattacieli e dei grandi progetti arranca. Non passa giorno che nell’ufficio del vicesindaco non si presenti un costruttore che alza bandiera bianca. «Hanno fatto tutto l’iter, che è durato un paio d’anni. Hanno pagato gli oneri. Arrivano e dicono: non lo faccio più. Quest’anno ho restituito più di 22 milioni di euro di oneri di urbanizzazione». In questo scenario cosa resta dei mega-progetti che nei prossimi anni puntano a cambiare lo skyline di Milano?

PROGETTI RIDIMENSIONATI

L’ultimo segno, fortemente simbolico, della crisi è stata la notizia che dei tre grattacieli dell’area City Life — là dove c’era la vecchia Fiera Campionaria — se ne farà per ora uno solo. Resiste quello progettato da Arata Isozaki. Gli altri due, di Daniel Libeskind e Zaha Hadid, sono rimandati a tempi migliori, se verranno, mentre non si parla più del museo di arte contemporanea. Il progetto Santa Giulia a Rogoredo, dopo le disavventure giudiziarie dell’immobiliarista Luigi Zunino, è impantanato fra bonifiche del terreno — mai fatte, o fatte in maniera truffaldina — e rinunce: non vedranno la luce gli appartamenti ipertecnologici concepiti da Norman Foster. Al Portello — che è forse l’intervento messo meglio — sono alle prese con il famigerato tunnel progettato ancora ai tempi della giunta Albertini, che doveva convogliare il traffico delle autostrade verso i capannoni della Fiera: peccato che la Fiera Campionaria non esista più, e che il tunnel — costato una montagna di quattrini — sia lì in attesa di un’idea per il suo riciclo. Anche a Porta Vittoria, nell’ex-area ferroviaria, le rovinose sorti del costruttore Danilo Coppola stanno rallentando il progetto, e ancora si aspettano i fondi dello Stato per la Beic, la biblioteca europea di informazione e cultura.

Certo, i nuovi grattacieli vengono su come funghi nell’area Garibaldi-Porta Nuova. Poche settimane fa c’era una folla a curiosare nella piazza Gae Aulenti, fra specchi d’acqua e pietre grigie, sotto la mega-sede di Unicredit progettata da Cesar Pelli, che con i suoi 230 metri di altezza (antenna compresa) è l’edificio più alto della nuova Milano. Così come grandi folle si erano riversate a visitare il Palazzo Lombardia, 161 metri, progetto di Pei-Cobb-Freed e Partners, il sogno della megalomania di Roberto Formigoni. I milanesi sono fatti così: dagli qualcosa di nuovo da toccare con mano e accorreranno in massa. Anche i video e le visite guidate agli appartamenti-pilota erano molto seguiti. Ma, con questi chiari di luna, sarà ben difficile piazzare le nuove bellissime “residenze” a 10 o anche 12 mila euro al metro quadro.

EDILIZIA IN CRISI

Il mercato è in crisi, i prezzi scendono, migliaia di posti di lavoro nell’edilizia sono a rischio. «L’occupazione nell’edilizia è in caduta libera — dice Luca Beltrami Gadola, costruttore, fiero oppositore della giunta Moratti — La crisi è drammatica. Basta guardare ai dati della Cassa edile, che pure si riferiscono solo alle assunzioni regolari, e non illuminano tutto il nero del settore. E se si vanno a vedere gli sfratti e le aste giudiziarie degli immobili, viene freddo». «Sì, il mercato non va bene — ammette Mario Breglia di Scenari Immobiliari, società di ricerca — Ma i numeri significativi non sono tanto quelli dei nuovi progetti. Ogni anno si scambiano 20 mila case, e quelle nuove sono 2 mila. E, per esempio, City Life e Porta Nuova rappresentano 3-400 alloggi. Il vero tema, a Milano, è lo svuotamento degli uffici. Il nuovo terziario si costruisce solo se è già venduto. Ma in 2-3 anni dovremmo avere 1 milione di metri quadri che verranno dismessi. Il mercato soffre perché l’economia va male, e i grandi investitori hanno difficoltà a trovare risorse. E in tempi di sofferenza, il mercato cambia: si comprava sulla carta, ora si aspetta di vedere l’immobile finito». Ma si può imputare solo alla crisi il freno messo al ballo del mattone? Quali sono gli altri fattori in gioco?

PREVISIONI DISSENNATE

La crisi pesa, ma conta anche la pianificazione sbagliata. Il Pgt della giunta Moratti, coordinato dall’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli, era fondato sulla previsione di una Milano (nel 2030) da 2 milioni di abitanti, poi ridimensionata a 1 milione e 700 mila. Vale a dire, quasi 500 mila residenti più di adesso. Uno studio curato dai docenti del Politecnico Matteo Bolocan Goldstein e Luca Gaeta dice questo: le previsioni del Cresme (centro ricerche economiche, sociologiche e di mercato) fissano la popolazione di Milano nel 2019 fra 1 milione e 329 mila e 1 milione e 335 mila, con un fabbisogno di 282 mila alloggi, 28.200 all’anno. Ma bisogna tener presente anche le 190 mila abitazioni che finiscono sul mercato per morte dei proprietari anziani. «Il piano Moratti — spiega la ricerca — era dimensionato per circa 1 milione e 600 mila abitanti, con il presupposto che l’offerta crea domanda, che il volume edificabile è una variabile indipendente e genera popolazione futura». Una previsione che, usando un eufemismo, si può definire dissennata.

La giunta Pisapia s’è trovata sul tavolo un Pgt che prevedeva 26 nuovi quartieri, e ha deciso — sempre per usare un eufemismo — di “riequilibrare”. Ha tagliato drasticamente l’indice di edificabilità da 2,70 a 0,70, e ha cancellato il criterio di “perequazione” che avrebbe permesso ai proprietari di aree del Parco Sud di “densificare” ulteriormente i loro progetti in altre zone della città. Si trattava, in poche parole, di fare un enorme favore a Salvatore Ligresti, che nell’area di via Stephenson (periferia Nord-Ovest, a ridosso dell’Expo) avrebbe tirato su (con altri) qualcosa come 50 nuovi grattacieli. «Come nelle favole — aveva scherzato l’assessore Masseroli — il rospo di via Stephenson potrebbe diventare un principe se a baciarlo sarà la principessa Pgt». Ora questo progetto, che qualcuno fantasiosamente aveva accostato alla Défense parigina, pare accantonato. Ma quali sfide restano in campo? Quali opportunità? Di cosa ha bisogno il mercato delle costruzioni?

CASE LOW COST

Il mercato residenziale, dove pure i prezzi scendono, non ha poi certo gran fame di abitazioni a 10 mila euro al metro, quanto di case e anche affitti abbordabili dalla classe media, dalle giovani coppie, dagli anziani. È quella che si chiama — genericamente — residenza sociale o social-housing, e che nel Pgt Moratti vedeva alcuni progetti possibili all’interno degli ex-scali ferroviari. Sono alcune aree sterminate, il cui futuro — vista la crisi — è ancora in alto mare. Il vicesindaco De Cesaris lavora perché la residenza sociale trovi spazio nel futuro di Milano: «Le scelte che abbiamo fatto trovano conferme, perché riequilibrano, e ci permettono di agire senza gigantismi. Negli scali ferroviari il Pgt precedente prevedeva alcuni obblighi di residenza sociale. Noi stiamo proponendo di ridurre alcuni piani, mantenendo però l’attenzione a quel che chiede il mercato, cioè case a basso costo e in particolare ad affitto moderato».

Mica facile, fino a quando gli investimenti saranno condizionati solo dall’alta redditività. Che è poi il criterio che ha contribuito ad aggravare la crisi. Al centro c’è l’idea di città che deve stare alla base della progettazione, e che deve essere un’idea lungimirante: i Pgt lavorano sull’arco dei decenni. «Bisogna partiredall’ideacheivaloricresconoperlaqualitàurbana complessiva — dice Giancarlo Consonni, docente diUrbanisticaalPolitecnico—Laqualitàladetermini. Invece si fanno super-appartamenti, si fanno specie di bunker di lusso, quando il vero valore è la città. E la città è quel che trovi quando esci di casa». Al professor Consonni i nuovi progetti non piacciono: «Trovo fallimentare l’intera area Garibaldi- Porta Nuova, che sembrava trionfale e ora mostra la corda ».Un’areacheporta il peso di una pianificazione duratadecenni, da quando la si immaginava come nuovo Centro direzionale, e che l’inserimento di molta residenza — però di lusso, smisurata in altezza oppure bassa ma sovrastata da grattacieli alti 150 metri — non ha sostanzialmente modificato.

Ora si cerca, in qualche modo, di adattarsi alla crisi, o anche di trasformarla in opportunità. Il Comune spera di convincere gli imprenditori a ridurre i propri profitti, magari riconvertendo con l’aiuto dell’amministrazione il terziario sfitto in residenza accessibile. Un modello — fatto di incentivi fiscali e credito facilitato — già adottato in Inghilterra. La crisi, a volte, può servire. Basti pensare che il Parco Sempione, l’area verde più grande dentro Milano, fu un regalo del crack della Banca Romana, a fine Ottocento. C’era un progetto di lottizzazione per abitazioni di lusso, finirono i quattrini e spuntarono gli alberi.

Corriere della Sera Gli emiri sul tetto di Milano: il Qatar compra i grattacieli
di Armando Stella

MILANO — Porta Nuova, provincia araba di Doha. Non sarà il paesaggio di Cala di Volpe, l'incontaminata dreaming Sardegna da cartolina, ma anche questa è «diversificazione degli investimenti». Architetture vertiginose. La Milano proiettata verso l'Expo, rigenerata nel tessuto e rimodellata nelle forme: torri tagliate come diamanti; un Bosco verticale da abitare; il nuovo quartier generale Unicredit e un'ambiziosa Biblioteca degli alberi, quando verrà. Gli emiri erano già rimasti affascinati dalla Costa Smeralda e ne avevano conquistato i resort. Ora hanno raggiunto la terraferma. Operazione in grande stile: sono saliti sul tetto di Milano. Il fondo sovrano Qatar Holding ha ufficializzato ieri l'acquisto del 40 per cento di Porta Nuova, il piano di sviluppo immobiliare da oltre due miliardi di euro che sta rivoltando e costruendo su 290 mila metri quadrati del centro città, nei quartieri Garibaldi-Repubblica, appena oltre la cerchia monumentale dei Bastioni spagnoli: «Il progetto — è l'annuncio, o forse l'auspicio — imprimerà una trasformazione radicale per il Paese e creerà valore per tutti i soggetti coinvolti». In sintesi: il Qatar scommette sul real estateitaliano augurandosi che si riprenda, e renda. Intanto, suggerisce Manfredi Catella, «va colto il segnale di fiducia» trasmesso da questa partnership: «Agli occhi del mondo — riflette l'ad di Hines Italia, società capofila di Porta Nuova — è arrivata un'immagine di Milano vincente, competitiva, solida e affidabile».

Le prime voci sullo shopping di grattacieli griffati (Cesar Pelli e Stefano Boeri tra le firme) s'erano diffuse un mese fa, dalla Londra dei magazzini Harrods (altro business di Doha), ed erano pessimiste: «Il Qatar è in trattativa per acquistare alcuni edifici del distretto Porta Nuova, visto che la crisi economica italiana spreme (squeezes, ndr) il promotore americano Hines...». L'iniezione di risorse assicurata dall'emiro Hamad Bin Khalifa Al Thani consente al gestore italiano di «rafforzarsi e riprendere slancio»: «La società — rimarca Catella — si conferma come un'importante piattaforma domestica d'investimento e gestione per conto di investitori nazionali e internazionali». Il centro di Milano non è la Costa Smeralda, qui il fondo sovrano non ha acquistato un blocco di palazzi: «Resta minoritario e partecipa al progetto». La prospettiva è di lungo periodo. Il crollo del settore immobiliare ha stressato i calendari, rallentato le vendite (uffici e appartamenti sono stati collocati per metà) e fiaccato le imprese (la ditta del Bosco ha appena lasciato il cantiere: troppi debiti, sostituita). C'è da lavorare, insomma.

La notizia dell'accordo ha avuto l'effetto d'un tranquillante sugli scambi dei titoli immobiliari in Borsa. Riprende Catella: «Il territorio è la risorsa naturale più importante che abbiamo. Territorio nel suo significato più ampio: paesaggio, turismo, qualità, salute, università... Solo valorizzando le nostre ricchezze possiamo riattivare un motore strategico per la ripresa del Paese». L'aveva detto con parole analoghe, a novembre, l'ex premier Mario Monti: «Chi pensasse che queste operazioni di acquisizioni, di investimenti esteri in Italia siano modi per svendere società o beni italiani, farebbe un grandissimo errore...». Sei mesi fa il fondo strategico di Cassa depositi e prestiti aveva firmato con Qatar Holding per una joint venture da 2 miliardi di euro. La società mista ora c'è. La sede è in corso Magenta al 71. Sono tre chilometri dalla zona di Garibaldi-Repubblica.

Il fondo sovrano aveva già investimenti enormi nell'eurozona: Barclays plc e Credit Suisse, Harrods e London Stock Exchange, Lagardere e Porsche. In Italia, fino a ieri, un meraviglioso pezzo di Sardegna e gli affari con Cassa depositi e prestiti. Ora si sono aggiunti i grattacieli di Porta Nuova. Ma nei dossier dell'emiro compaiono anche aziende del settore alimentare e della moda. I prossimi obiettivi.

Postilla

Pare che tutto sia finito bene, le solite Borse tirano il sospirone di sollievo, l'ultimo chiuda la porta eccetera, e invece no, non è proprio finito tutto bene, come ci conferma da anni la discussione sulle nuove strategie di politica estera sviluppate dal Qatar, e da molti paragonate ad una vera e propria "jihad virtuale". Che va ben oltre la pura acquisizione di maggioranze azionarie, come ho provato a riassumere brevemente tempo fa in questa nota dal titolo L'Urbanistica come Alternativa all'Esercito (f.b.)

Se non fossimo in Italia apparirebbe del tutto surreale il dibattito fra un Comune e una Provincia sulla cementificazione di un'area verde urbana con elevato valore sociale. La Repubblica Milano, 16 maggio 2013 (f.b.)

Una volta era il recinto dove si aggiravano i pazienti del «Pini», il vecchio manicomio di Milano. Oggi è un parco con attività sociali ed eventi culturali per gran parte dell’anno. In futuro potrebbe ospitare un grande giardino condominiale. Questo, almeno, nei piani della Provincia, che ieri ha presentato un progetto da 600 alloggi che interessa parte della zona verde di via Litta Modignani, ad Affori. Ma è subito scontro con il Comune, che dice «no alla cementificazione di un’area che oggi ha un forte valore paesaggistico ma anche sociale». Sono anni che i comitati di quartiere denunciano il rischio della colata di cemento sul grande polmone verde rimasto dopo la chiusura dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini.Ieri mattina a Palazzo Isimbardi il presidente Guido Podestà è uscito allo scoperto annunciando il suo Piano casa, un progetto che prevede la cessione di terreni di proprietà della Provincia a imprese che costruiranno circa mille appartamenti a Milano e altri 600 tra Pioltello, Melegnano e Rozzano. Tutte case costruite secondo i criteri dell’housing sociale, cioè a prezzi agevolati e destinati a categorie socialmente deboli. Il problema è che oltre la metà degli alloggi in città (l’altro lotto sarà a Cimiano) dovrebbero sorgere in via Litta Modignani, su una porzione di parco che gli abitanti e le associazioni sperano rimanga verde. «Il nostro Piano rilancerà l’economia locale e affronterà l’emergenza abitativa del territorio — ha spiegato Podestà — Saranno case destinate a categorie deboli: giovani, persone in difficoltà, forze dell’ordine. Vogliamo fare un intervento non speculativo, ma basato sulla qualità». Ma dal Comune arriva l’altolà, appena è chiaro che la Provincia intende mettere a bando e assegnare i terreni prima della fine dell’anno «valutando i progetti non in base al prezzo ma sulla qualità architettonica e la sostenibilitàsociale dell’intervento».Dal Comune il vicesindaco e assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris mette subito le mani avanti: «Non se ne parla di cementificare quell’area, vi sono importanti attività che vogliamo salvaguardare, come il Giardino degli aromi e la sperimentazione dell’Istituto Pareto. Invito la Provincia a riconsiderare il progetto e a valutare le diverse altre aree che ha a sua disposizione per realizzare l’housing sociale, che comunque l’amministrazione di Milano valuta positivamente». Da Palazzo Isimbardi incassano e rilanciano: «L’area è di nostra proprietà, misura 155mila metri quadrati, ma le case sarebbero su una piccola porzione di una zona oggi recintata e incolta, un posto dove vanno a dormire gli sbandati. Inoltre quell’area è inserita nel Pgt del Comune e considerata edificabile, quindi non ci sono ostacoli », spiegano i tecnici dell’assessore all’Urbanistica della Provincia Franco De Angelis. Spiegazioni che vengono contestate una per una da De Cesaris: «L’area oggi è aperta e perfettamente fruibile dal pubblico. Non abbiamo potuto cambiare le indicazioni del Pgt su Affori, ma prima di avviare qualsiasi nuovo bando serve un accordo di programma che, oltre alla Provincia, coinvolga Comune e Regione».

Il diavolo insegna a fare le pentole, non i coperchi: a proposito della Giunta Pisapia e dell’approvazione “obbligata” del PGT

Una delle ragioni ripetutamente sbandierate dalla Giunta milanese per portare ad approvazione in tutta fretta un PGT, che è la fotocopia blandamente edulcorata del precedente piano di governo del territorio Masseroli/Moratti, è stata l’inesorabile scadenza del 31 dicembre 2012, prescritta ai Comuni dalla legge urbanistica lombarda (12/2005) come termine ultimo per l’approvazione dei nuovi strumenti urbanistici. Si paventavano altrimenti accadimenti drammatici; addirittura un rischio di ‘commissariamento’ da parte di una Regione in cui i Comuni sono afflitti da ben altri tipi di commissariamento…

Ma questo rischio lo sapevamo tutti che non lo si correva. Infatti, alla scadenza prevista, su 1544 Comuni della Lombardia soltanto 988 risultavano avere PGT approvati (meno di due terzi), ma ben 337 risultavano con PGT soltanto adottati e ben 219 solo avviati. La neonata Giunta Regionale Maroni sta provvedendo a tranquillizzare i ritardatari: infatti ha approvato il 16 aprile un progetto di legge che ripristina l’efficacia dei previgenti PRG, rinviando la data fatidica al 30 giugno 2014. E anche l’opposizione ha presentato un suo progetto di legge che accorcia di poco i dilatati tempi di consegna.

Eddyburg ha espresso critiche molto puntuali nel merito del ‘nuovo’ PGT milanese: in particolare l’eccessiva fretta, la scarsa trasparenza, l’approvazione unanime in Consiglio Comunale.
Già durante e subito dopo la campagna elettorale che ha visto la vittoria a Milano della sinistra, ascoltando molti esponenti del PD proporre di non modificare il Piano delle Regole (le regole di Masseroli, compresa la perequazione estesa) erano sorti dubbi sulla volontà di vera riforma.

Che dire oggi? Che si è persa una grande occasione di ripensare Milano ‘daccapo’; di ripensare al futuro di una grande metropoli in una dimensione davvero europea, e non inseguendo con compiacente adattatività i grandi interessi immobiliari che ne comprometteranno ulteriormente attrattività, qualità e vivibilità.

Forse non si è trattato soltanto di fretta, ma di una ulteriore conferma della incapacità di ‘questa sinistra’ (direbbe Nanni Moretti) di amministrare e pianificare per il bene comune e, soprattutto, con una visione.

Suggeriamo a chi non ha condiviso le critiche al PGT avanzate su eddyburg, e soprattutto agli amministratori milanesi e ai loro consulenti, di rileggersi, senza fretta appunto, l’Eddytoriale n. 155 e di guardarsi attentamente allo specchio.

Corriere della Sera Milano, 7 maggio 2013 (f.b.)

Partiamo da un dato di fatto: se c'è una metropoli in Italia che può aspirare a diventare una smart city, una cosiddetta città intelligente, questa è Milano. Senza sollevare antagonismi, né conflitti. Non è una gara, ma un impegno collettivo che trova le sue radici nel senso stesso dell'aggregazione cittadina: mettere insieme arti, mestieri, servizi e solidarietà per creare un ecosistema vivibile. A Milano molto è stato fatto fino ad oggi. Il codice genetico di base — fatto di una storica voglia di fare, una cultura a tratti aspra ma sempre liberista e aperta, una banda larga ampia e competitiva e una geografia comoda e «pianeggiante» — è ben predisposto all'azione. Ma molto c'è ancora da fare. Una città intelligente, al di là dei mantra tecnologici, è una città che funziona meglio per tutti, una città più efficiente in cui i servizi inseguono i cittadini e non il contrario. I trasporti pubblici si adattano ai flussi e alle esigenze delle persone e non il contrario (come troppo spesso accade).

Il servizio BikeMi delle biciclette pubbliche è un esempio banale ma efficace di come una città possa essere flessibile, attuale, moderna. Talvolta con poco. Ma pensiamo a cosa potrebbe accadere con una gestione integrata dei dati della popolazione meneghina, da quelli sulla sanità a quelli sui rifiuti e sugli spostamenti quotidiani. Immaginiamo di mescolarli insieme ai flussi periodici di «immigrazione» — un capitolo che con l'Expo entrerà nella vita di tutti i cittadini diventando fonte di guadagni monetari e culturali per la città ma anche origine di stress.

La gestione digitale deve essere un mezzo per abbattere le inefficienze e non, come troppo spesso avviene per un malinteso senso del cambiamento, un obiettivo. Ora se sapientemente usati gli «open data», sulla falsariga di ciò che sta già accadendo in città come Londra e New York, possono darci un diagramma della vita pulsante di Milano. Gli «open data» sono quella massa enorme di dati che, grazie alla gestione affidata a instancabili server e computer, può farci vedere il problema da un'angolazione diversa, avvicinandoci a una soluzione. Ma — accettiamolo — è difficile che questa possa sempre giungere dall'alto.

La più grande lezione della stagione dei social network è l'impatto significativo che l'intelligenza «collettiva» può avere sull'individuo laddove la nostra storia, fino ad oggi, sembra fatta più di contributi di singoli geni — basti pensare a Leonardo da Vinci. Per questo un miglioramento della vita condivisa potrebbe venire dal contributo che i cittadini potranno dare sui dati aperti: la massa da sempre si oppone alla trasparenza. E gli «open data», senza un'applicazione che li renda utili, sono come una lampadina senza corrente elettrica (un esempio? A New York uno studente ha incrociato i nomi dei ristoranti con le segnalazioni dell'ufficio d'igiene permettendo al tuo smartphone di avvisarti se stai entrando in un locale a rischio). App4Mi, l'iniziativa che sarà annunciata oggi a Palazzo Marino, ideata dal Comune con il contributo del Corrieree di Rcs, nasce proprio da questo spirito. La smart city può prendere forma solo dall'unione delle forze di giovani, studenti, sviluppatori, designer, imprenditori. In una parola scontata ma piena di significato: da un ritrovato senso della «cittadinanza».

Nota: sulla smart city esiste anche la possibilità di Criteri di Valutazione, appunto per evitare la riduzione a gadget privatistico e fine a sé stesso (f.b.)

Corriere della Sera Milano, 6 maggio 2013 (f.b.)

Il sogno di un Central Park nella città della Madonnina riparte dagli ex Gasometri della Bovisa. Quel luogo — soprannominato «La Goccia» per la forma che prende, delimitato com'è dalle tratte ferroviarie — per oltre un secolo è stato uno degli epicentri dello sviluppo industriale, sede dal 1905 degli impianti che hanno fornito gas e illuminato la metropoli e sono oggi meravigliosi esempi di archeologia industriale in abbandono, è da qualche anno oggetto di un accordo di programma (non ancora chiuso) per nuovi insediamenti. Programma di sviluppo che un movimento nato dal basso, da qualche mese, sta mettendo con forza in discussione.

I cittadini di Bovisa, consiglieri di zona 9, architetti, urbanisti, tecnici delle bonifiche, urbanisti chiedono che in quell'area grande come cento campi di calcio, dove c'è un bosco centenario (oltre duemila gli alberi ad alto fusto censiti dal Corpo forestale dello Stato) non crescano nuove case ma natura. E sperano che invece di «investire energie in bonifiche costosissime si cerchino nuove strade come quelle del biorisanamento, dove è il verde a divorare gli idrocarburi», spiegano Leonardo Cribio (Rifondazione) e Vincenzo Agnusdei (M5S). Sono alti i costi della bonifica stimati per quell'area industriale, che ospitò un'infinità di fabbriche chimiche e metalmeccaniche: da 60 a 80 milioni di euro. Tredici li ha già versati il Politecnico, che lì ha messo radici tempo fa e spera di ampliarsi con un campus.

Altri 10 arrivano dal governo centrale, la metà stanziati lo scorso autunno nell'ambito del «Piano nazionale per le città». Entro l'estate gli uffici del settore Bonifiche del Comune dovrebbero concludere «l'analisi di rischio» degli inquinanti, mappati in anni di carotaggi. «Si faccia un gruppo di lavoro», dice il neonato comitato La Goccia, presente al tavolo del verde, riunitosi a Palazzo Marino. Con loro, la voce autorevole di Giuseppe Boatti, già docente del Politecnico. «Nella Goccia c'è un'area verde grande come il Parco Sempione — spiega —. Bovisa ha una potenzialità enorme, è un nodo al centro di una rete verde: al di là c'è il parco Verga e, oltre Villa Scheibler, il parco delle Groane. Verso il centro s'aggancia allo scalo Farini e con la destinazione a verde prevista si potrebbe realizzare una dorsale di 5 chilometri dalle Groane alla selva di grattacieli di Porta Nuova». Senza contare il polmone verde dell'ex Paolo Pini (oggetto anch'esso di piani edilizi), anello di congiunzione con il parco Nord. Il sogno di un Central Park meneghino non s'accontenta più di vivere sui social network.

Corriere della Sera Milano, 3 maggio 2013, postilla (f.b.)

L'isola ciclopedonale più estesa di Milano sorvola via Melchiorre Gioia su un ponticello «ad ali di gabbiano», ma la leggerezza si ferma alla metafora: sono serviti una «sfida d'alta ingegneria», un trasporto straordinario notturno e la gru più grande d'Europa per muovere queste 400 tonnellate di acciaio e allacciare i due tronconi nel paesaggio di Porta Nuova. La passerella — lunga 68 metri, larga 5,4 — sarà aperta al pubblico solo all'inizio del 2014, dopo le rifiniture e i collaudi tecnici, ma da ieri anticipa il futuro sostenibile promesso al quartiere: un unico e ininterrotto percorso pubblico senz'auto tra le Varesine, la piazza circolare dei grattacieli, il Bosco verticale e il nuovo corso Como residenziale. In totale: 160 mila metri quadrati di città libera dal traffico.

Ecco il triangolo della mobilità dolce: Repubblica, Garibaldi, l'Isola. «Con quest'intervento prosegue il processo di ricomposizione dei quartieri storici di Milano», sottolinea Manfredi Catella, l'amministratore delegato di Hines Italia, la società capofila nel piano di riqualificazione urbanistica. Il ponte (in ritardo di sei mesi, progettato da Arup e realizzato da Omba, il profilo snello e impianti per l'illuminazione notturna) è l'anello di collegamento tra le torri Unicredit e la stecca delle Varesine. Una tappa di passaggio simbolica e strutturale: «La posa della passerella — intervengono il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris e l'assessore Carmela Rozza — rappresenta un ulteriore passo in avanti per la realizzazione delle opere pubbliche nell'area di trasformazione di Porta Nuova». In cantiere, ad osservare gli operai, c'era ieri anche l'assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran: «La mobilità nuova è qui».

La passerella è una tappa, si diceva. Il cronoprogramma dell'operazione Porta Nuova annuncia da subito una serie di altre scadenze. Entro maggio aprirà il primo negozio nella piazza-podio intitolata a Gae Aulenti: è la gelateria Grom. Il mese prossimo sarà presentato il centro espositivo firmato dallo studio Grimshaw (l'edificio a forma di armadillo) ed entro l'estate sarà completata l'istruttoria amministrativa per la Casa della Memoria all'Isola. Quanto alla Biblioteca degli alberi nel parco da 85 mila metri quadri, progettato da Petra Blaisse come «moderna versione di un giardino botanico», le bonifiche inizieranno a fine anno: «Il primo lotto — annuncia Catella — sarà consegnato ai cittadini entro il 2014». Al posto del Centro culturale Varesine, stralciato dalle carte, sarà «rapidamente allestita» una piazza pubblica. Scomparso dalla mappa anche il museo della Moda (o Modam): il Comune investirà le risorse degli oneri di urbanizzazione per altri interventi nel quartiere.

Infine, l'aspetto commerciale. La crisi del mattone ha rallentato il collocamento delle residenze (in tutto sono 380) e degli uffici. Le vendite, iniziate nel 2010, proseguiranno per altri due-tre anni: ci sono circa 180 appartamenti liberi. Riempite le casette di corso Como (95 alloggi abitati su 100), Hines metterà sul mercato a fine anno le ville urbane alle Varesine e gli ultimi piani delle torri Solaria e del Bosco verticale.

Postilla

La prima parte delle osservazioni a margine, ovviamente è di sollievo: la grande operazione dei grattacieli firmati non finisce qualche metro sopra il livello stradale, lasciandoci impantanati nella solita valle di lacrime urbana sottostante. C'è anche un “progetto di suolo” per contestualizzare l'intervento anche nella fascia del cosiddetto plinto urbano. E va bene. Ma non può non saltare all'occhio come il meccanismo sia identico ad altri progettoni urbani, come quello recente del Portello, a rigoroso orientamento automobilistico stile anni '60: mancano solo la brillantina, il gomito fuori dal finestrino e la sigaretta doppio filtro ostentati come distintivo di modernità. Sovrappassi, sottopassi, passerelle, in sostanza percorsi segregati, anziché quell'integrazione vera che fa città del terzo millennio. Aggiungiamoci la rigida destinazione terziaria, e si finisce per apprezzare soprattutto la vicinanza del vecchio quartiere Isola, un po' acciaccato ma almeno dotato di qualità urbane vere: possibile che la nostra esperienza della modernità debba essere forzatamente caricaturale? (f.b.)

Sul medesimo tema delle costose opere infrastrutturali invece di una forse più adatta pianificazione e organizzazione, si vedano i precedenti articoli sul Tunnel di Monza, e sull'area di riqualificazione all'ex Alfa Portello

Ricostruire la Grande Milano, dall'essere concepiti caso per caso secondo le esigenze degli investitori, anziché quelle del territorio

In questi ponti primaverili segnati dal tempo incostante, pazzerello come dicono gli smemorati dell'anno scorso, le uniche uscite praticabili salvo eroismi sono quelle del genere mordi e fuggi. Il 25 aprile a differenza di altre volte (basta guardare le foto delle manifestazioni dal dopoguerra: soprabiti e ombrelli ovunque) uno squarcio di cielo azzurro almeno sulla padania ha riacceso la voglia di passeggiare, dopo la claustrofobia invernale. Passeggiare ovunque, anche dentro certi spazi improbabili come i cosiddetti ambiti di riqualificazione urbana.
La zona a uffici dalla sopraelevata
Milano in questo campo è da sempre all'avanguardia. Intendo sia il campo della voglia di passeggiare che quello della riqualificazione urbana. In epoca moderna, almeno da quando negli anni gloriosi (?) delle ultime amministrazioni di sinistra, come si diceva una volta, si iniziava a squarciare idealmente il velo grigio di muraglie, ciminiere, raccordi ferroviari e stradoni a cul-de-sac dismessi da lustri, ma restati lì in attesa di chissà che cosa. Gli anni in cui l'amministrazione comunale sperimentava in un modo o nell'altro strumenti urbanistici nuovi per assecondare la nuova città in ascesa. Gli anni in cui Gabriele Basilico immortalava, nel suo museo fotografico in tempo reale, la vera natura di monumento alla storia sociale, di quei capannoni ancora incombenti, ma già consegnati al passato. A tutti restava la voglia di varcare quelle soglie ideali di grandi isolati, oltre le erbacce e la cosiddetta “nostalgia delle ciminiere”.
Poi si scoprì che, come sospettava qualcuno, dietro l'entusiasmo per il cosiddetto post-industriale c'era molto vuoto culturale e voglia di arraffare a più non posso. Ci fu la stagione di Mani Pulite, che insieme a tanto altro rallentò (e giustamente, da molti punti di vista) le trasformazioni urbanistiche, rendendo evidente come anche i più fascinosi rendering spesso servissero solo a nascondere miserie, dietro a promesse di futuri scintillanti. Alla fine però, nel bene e nel male, qualcuno di questi progettoni pubblico-privati inizia a prendere forma e spalanca almeno in parte i propri spazi ai cittadini, un po' come quelle tenute nobiliari di cui a fine '700 crollavano i cancelli arrugginiti, lasciando finalmente scoprire l'idea di parco urbano a chi soffocava nei quartieri storici. All'ex Alfa al Portello, per esempio, dove col sole della giornata di festa si è precipitata una piccola folla, tra il curioso e discutibile parco a spirale ascendente, e la cosiddetta “piazza”. Ovvero il centro commerciale all'aperto, che per l'occasione vedeva attivissimi i chioschi di gelato, come davanti ai classici sagrati italiani della tradizione, salvo lo sfondo di ipermercato, marchi e insegne globalizzati.
La collinetta del parco a spirale ascendente
Qui ci sarebbe da fare una piccola divagazione a proposito del dibattito su negozi aperti si, negozi aperti no, nei giorni festivi. Nel senso: cosa ne sarebbe, di posti così, se gli esercizi commerciali abbassassero le saracinesche? Ma si tratta (come scopro tutte le volte che provo a toccare l'argomento) di un tema arroventato da ideologie varie, e che non sta al centro di queste note. La Piazza Portello coi suoi negozi aperti il 25 aprile, stavolta serve solo da portale di ingresso nell'universo della riqualificazione sperimentato direttamente. Una riqualificazione che per ora pare assumere un sapore piuttosto stantio, anni '60 per intenderci. Vediamo perché. Se si va un pochino oltre quella piccola e in fondo caricaturale finta piazza, poco più di una versione all'aperto del classico atrio da centro commerciale, si inizia a capire meglio il senso del cosiddetto automobile-oriented-development.
L'area del Portello è infatti tagliata e delimitata dal sistema di arterie a scorrimento veloce che comunicano direttamente con la rete delle Tangenziali. Poco oltre la piazza commerciale, anche al netto dal disagio indotto dai soliti eterni new jersey a convogliare i pedoni dentro una specie di condotto da animali al macello, il paesaggio si presenta eloquente. Siamo, né più né meno, in un ambiente che ricorda da vicino un'area di sosta autostradale, più che una vera e propria parte di città, le cui componenti sono al massimo un residuo della storia, come le ciminiere della nostalgia. Un albergo, un fast-food che più a orientamento automobilistico non si può, e poi la barriera invalicabile (un muro assai più efficace di qualunque recinzione di fabbrica) delle varie corsie di accesso a svincoli e sottopassi. Solo arrivando in cima al curioso parco a spirale, che ricorda vagamente il dipinto della Torre di Babele, si intuisce il contesto in cui si cala il quartiere, ad esempio rispetto all'altra più grande zona a parco del QT8 col Monte Stella, di cui la spirale vorrebbe essere una specie di impropria citazione.
La passerella di collegamento interno al quartiere
L'altra fetta della riqualificazione, quella più vistosa nelle architetture, con edifici massicci a destinazione terziaria, sta oltre il tracciato della sopraelevata Serra-Monte Ceneri, e ci si arriva a piedi, partendo dalla striscia albergo e fast-food, attraverso un percorso quanto mai triste e acciaccato, rasente il controviale per le auto. Da questo asse si può guardare lo spettacolo, in sé accattivante, della nuova passerella pedonale che collega scavalcando le otto corsia la zone di uffici alla collinetta del parco. E anche in un giorno di festa, con tutti i milanesi, residenti e non, probabilmente alla ricerca di qualcosa di diverso da uno spostamento in auto, si intuisce senza statistiche alla mano in che luogo si sta. La vecchia fabbrica Alfa Romeo aveva un proprio sistema di collegamento tra le zone dei due insediamenti, su un lato e l'altro della sopraelevata. Oggi a svolgere un ruolo del genere c'è appunto il ponte pedonale e ciclabile, elegante e gradevole. Ma fuori da lì, il collegamento tra le due fette della zona di riqualificazione non esiste. E per forza.

Si può solo sgattaiolare da un lato all'altro, nei punti in cui la sopraelevata lo consente, ma unico trait-d'union resta quel ponte di tipo autostradale, manco fossimo nei vecchi Autogrill. La sopraelevata, osservata nell'altra prospettiva, quella giusta, quella appropriata, non è affatto una barriera, ma un elemento di unione: nel senso che unisce la città alle Tangenziali, che fa entrare e uscire flussi ingenti di traffico, da e verso l'anello delle circonvallazioni esterne, o i raccordi autostradali anche fisicamente vicinissimi. Ora, di recente sono comparsi dei bei disegni dove, citando la famosa High-Line di Manhattan, si ipotizzava una ricucitura delle due porzioni del quartiere, quella terziaria e quella residenziale, commerciale, a parco, trasformando l'asse della sopraelevata in una specie di sistema a boulevardcon passeggiate su vari livelli e organizzazione a verde urbano. A New York l'hanno fatto, si sostiene, perché non anche qui? Una sciocchezza.

La sopraelevata oggi (dal sito Urban File)
Si badi: non una sciocchezza la proposta in sé. Quello che manca è la contestualizzazione, e che contestualizzazione! Perché tutto quel piano di riqualificazione urbana, il quale ha una sua coerenza - e per forza con le ingenti cifre che ci hanno investito – pare ahimè uscito dal tavolo da disegno di un architetto che la domenica era andato a guardare in prima visione Il Sorpasso di Dino Risi, con Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant. Ovvero, se si eccettuano le forme e i materiali degli edifici, le tecniche di rappresentazione, magari il ruolo di verde e spazi pubblici, siamo ancora dalle parti del movimento moderno, dei cantori della velocità, della metropoli fatta di grandi distretti intersecati da expressways. Non accade per particolare perversione dei progettisti, ma perché la città è saldamente organizzata in quel modo: cosa potremmo dire ad esempio a chi arriva dalla direzione dell'asse Comasina SS35 diretto verso gli svincoli A4-A8 di Certosa? E naturalmente a tutti coloro che dopo aver pagato il pedaggio alla barriera, si stanno immettendo nella viabilità ordinaria. Gli diciamo la prossima volta prendete il treno?
La sopraelevata diventa un boulevard-passeggio
Certo che si, glie lo possiamo dire di sicuro, di prendere il treno. Ma con le dovute premesse. Che ci sia un'ottimo sistema di collegamenti pubblici (magari col complemento della mobilità dolce con spazi adeguati) a scala urbana e tendenzialmente metropolitana. Che per chi è costretto in qualche modo a spostarsi col veicolo individuale esistano valide alternative di percorso e/o facili interfaccia. Che, infine, questo genere di accessibilità si adatti alle forme specifiche organizzative del quartiere così com'è, coi suoi volumi e funzioni che da soli smistano una quantità enorme di flussi in entrata e uscita. Fare il percorso inverso, ovvero prima convertire a viale alberato e passeggio la sopraelevata, magari va bene se giochiamo a Sim City, giusto per assistere all'ecatombe, e divertirsi un po' tra amici. Perché, prima di dire facciamo anche noi la High-Line, sarebbe meglio capire cos'è, la High-Line, e guardare solo le figure non basta. O no?

Nota: i limiti del quartiere Portello sono per molti versi conseguenza della genesi urbanistica della riqualificazione urbana milanese, tutta orientata alla cosiddetta "attuabilità" dei progetti, ovvero ad un approccio sostanzialmente parziale e privatistico, come quello delineato dal documento di inquadramento Ricostruire la Grande Milano, già ampiamente criticato su queste pagine sin dalla sua pubblicazione. Si veda ad esempio questo articolo di Edoardo Salzano da Urbanistica n. 118, 2002

Corriere della Sera Milano, 28 aprile 2013 (f.b.)

Trenta centimetri di scavo, poco più d'una buca nel fango, fine delle ricerche, oltre non si scende. Cemento. Il paesaggio rigoglioso di via Mac Mahon è un'illusione ottica e un refuso storico: «Gli olmi sono cresciuti su una piattaforma impermeabile; sono deboli; instabili; rischiano di crollare». Bisogna sforzarsi d'immaginare la strada in sezione, come una torta a strati. L'aiuola, i filari e i binari del tram sono appoggiati su un «solettone», un corridoio murario, un sottopavimento che da piazza Diocleziano si allunga in via Mac Mahon per quasi un chilometro e mezzo. Le radici degli alberi non sono libere di espandersi nel sottosuolo, devono accontentarsi di 25-30 centimetri di terriccio e arrivate al fondo sbattono, si torcono e riaffiorano come varici in superficie.

Lo certifica un'indagine condotta per Atm da un'équipe della Facoltà di Agraria della Statale ed è sulla base di questo report che il Comune ha deciso di tagliare col passato. Gli olmi sono pericolanti. Saranno abbattuti e ripiantumati. I dirigenti Atm di lungo corso sostengono che «l'intervento di messa in sicurezza della massicciata è irrinunciabile e non più procrastinabile». Per due ragioni. La prima: «Le radici degli alberi ostacolano e rendono insicure le corse del tram 12». La seconda: «L'eliminazione del solettone di cemento è comunque indispensabile per favorire una crescita sana delle specie arboree». E non da oggi. Il «dossier Mac Mahon» venne sottoposto alla giunta dell'ex sindaco Moratti nel 2008 e da allora è stato di volta in volta rinviato: troppo costoso e invasivo, la gente non capirebbe.

Soluzione tampone: l'Atm ha istruito i macchinisti e rallentato la marcia dei Carrelli («A passo d'uomo»), ma l'ordine di servizio non ha cancellato gli ostacoli sul percorso né ha ridimensionato l'allarme. A gennaio la dirigenza Atm ha ribadito al sindaco Pisapia l'urgenza del piano di riqualificazione e ottenuto un sostanziale via libera. Il Comune ha ripreso il progetto, l'ha alleggerito (in tecniche e costi) e l'ha presentato il 15 aprile al Consiglio di Zona 8. Le reazioni, prevedibili: protestano i residenti («No allo scempio»), s'inalberano gli ambientalisti («Prima di arrivare all'incredibile recisione di 170 alberi, robusti e rigogliosi, si dovrebbero tentare diverse soluzioni alternative»), partono raccolte di firme e inviti alla mobilitazione per fermare la strage degli olmi.

Non è sempre stata così, la via Mac Mahon. All'alba del Novecento, quando venne edificato il quartiere, gli alberi adornavano i marciapiedi davanti ai palazzi; vennero spostati e ricollocati al centro della strada solo negli anni Venti-Trenta, quando il municipio e l'azienda di trasporti realizzarono il tracciato tramviario. Il tappeto di cemento c'era già allora, grezzo e ingombrante, venne semplicemente nascosto dalla terra e coperto dai filari. L'hanno riscoperto gli agronomi della Statale nel 2008, durante la campagna di ottanta carotaggi commissionata da Atm. La prima e unica ricerca scientifica sulla «precaria condizione» degli olmi.

La Repubblica Milano, 27 aprile 2013 (f.b.)

UN ALBERO per ogni neonato. A ciascuno il suo, con tanto di informazioni alla famiglia sulla sua collocazione. A Milano, dove negli ultimi tempi si viaggia su una media di 11mila nascite all’anno, vorrebbe dire aggiungere ogni anno un’area verde grande come il parco Ravizza. È l’impatto in città della normativa nazionale che impone a Palazzo Marino, come ad altri Comuni con oltre 15mila abitanti, di rispettare il rapporto di una nuova pianta per ogni bimbo nato in città. Un piano piuttosto corposo da gestire, che il Comune sta iniziando ad affrontare. Da capire c’è soprattutto la destinazione più adeguata di questo nuovo verde, trovando gli spazi, dentro o fuori la città.

La missione della legge nazionale è provare a contrastare, almeno in parte, la perdita di zone verdi nel Paese, che secondo l’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale (Ispra) è di otto metri quadrati al secondo. La norma esiste in realtà da oltre vent’anni, dal 1992, ma non è mai stata applicata. Fino a quest’anno, quando a febbraio è entrata di fatto in vigore con alcune modifiche. L’obbligo non riguarda solo le nascite ma anche i bambini adottati e il limite di sei mesi dalla nascita (o adozione) per piantumare. Così Milano ha iniziato a fare i conti con tutto questo verde da smistare in giro per la città. La legge è in sintonia con il Dna della giunta: «Lo spirito è in linea con la nostra missione di estendere ogni anno il verde in città», osserva l’assessore al Verde, Chiara Bisconti.

Oggi a Milano ci sono 22 milioni di metri quadri di verde pubblico, 17,79 per abitante, quattro in più rispetto a dieci anni fa. Ma se per un Comune piccolo è tutto più semplice, per Milano inserire ogni anno almeno 11mila nuovi alberi ad alto fusto potrebbe creare qualche problema. «Il rovescio della medaglia — puntualizza Bisconti — è che l’applicazione nei Comuni grandi e ad alta natalità ha qualche criticità che stiamo cercando di risolvere. La città è già abbastanza verde e bisogna trovare gli spazi». L’Anagrafe è al lavoro assieme al Demanio. Le ipotesi sono allo studio. Si sta sondando innanzitutto se dal conteggio totale degli 11mila si possa sottrarre qualcuno dei 7-8mila alberi, per lo più platani e olmi, che l’amministrazione arancione assicura di piantare ogni anno in città. Anche se in realtà, di questi, più della metà, 4.500, sono in sostituzione di fusti malati o arrivati a fine vita e dunque non ex novo. Da individuare ci sono più che altro grandi assi stradali, magari intorno alle tangenziali, che possano accogliere gli alberi che inizieranno a spuntare almeno dopo l’estate. Oppure spingersi fuori. «Magari ragionando su compensazioni in Comuni limitrofi in un’ottica di città metropolitana », aggiunge Bisconti.

Di sicuro c’è che l’Anagrafe dovrà dar conto a ogni famiglia sulle coordinate dell’albero del neonato. Toccherà al Comune provvedere anche a un censimento annuale di tutte le piantumazioni. Inoltre, a due mesi dal fine mandato, nel caso di Pisapia nel 2016, il sindaco dovrà
tracciare un bilancio arboreo tirando le somme sugli alberi piantati nelle aree pubbliche urbane da inizio a fine mandato. A vigilare, promette di pensarci il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, ministero dell’Ambiente.

Corriere della Sera Milano, 25 aprile 2013, postilla (f.b.)

La Città della Salute e il Cerba sono al duello finale. Entro il mese di giugno, per motivi tecnico-amministrativi, dev'essere definito il futuro dei due mega poli scientifici. Il loro destino appare intrecciato: i dubbi sull'opportunità di realizzare entrambi i progetti, nell'aria già da un paio d'anni, appaiono più forti che mai nel Pirellone del dopo Formigoni. Due giorni fa si è chiuso il primo bando di gara per la costruzione dell'Istituto dei Tumori e del neurologico Besta nell'ex area Falck a Sesto San Giovanni. È un'opera da 450 milioni, di cui 330 milioni da finanziare con soldi della Regione Lombardia. I giorni di cantiere previsti sono 1.350. La fase che si è appena conclusa è quella di pre-selezione, utile a individuare sul mercato chi è disponibile a realizzare i lavori: a Infrastrutture Lombarde, che tiene le fila del progetto per il Pirellone, sono arrivate dieci offerte di imprese ingegneristico-finanziarie italiane e estere. Sull'argomento sono in programma nei prossimi giorni anche i consigli di amministrazione dell'Istituto dei tumori e del Besta.

Contemporaneamente sembra navigare con il vento in poppa l'altro mega polo scientifico, quello sognato dall'oncologo Umberto Veronesi: il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata (Cerba), destinato a sorgere sui terreni del Parco Sud, già di proprietà di Ligresti. In una lettera appena arrivata al governatore Roberto Maroni e al sindaco Giuliano Pisapia, le banche creditrici del fallimento delle società di Salvatore Ligresti (Im.co e Sinergia) comunicano di essersi costituite in una società, la Visconti srl: gli istituti di credito, che devono rientrare dai 330 milioni di euro messi a rischio dal fallimento Ligresti, sono pronti a realizzare il Cerba. L'intenzione è di conferire le aree del Parco Sud — salvo ovviamente il via libera del Tribunale fallimentare — a un fondo di investimento immobiliare che sarà gestito da Hines sgr di Manfredi Catella (autore anche del progetto di Porta nuova). La costruzione del Cerba è a carico dei privati. Le cifre in gioco superano il miliardo di euro.

Ma tra gare d'appalto, riunioni di cda e lettere delle banche, quel che più conta è la politica. E dal Pirellone ieri è arrivato un segnale importante. Fabio Rizzi (Lega), alla guida della Commissione Sanità, ha stilato un calendario di convocazioni: l'8 maggio sono attesi in Regione i vertici dell'Istituto dei tumori e del Besta, mentre per il 15 maggio è in programma un'audizione sul Cerba. È una riapertura della discussione sulla reale utilità dei due progetti — come già Rizzi aveva anticipato al Corriere — in un'ottica di programmazione sanitaria e di sostenibilità dei costi in tempi di crisi. «Tutte le procedure pubbliche, finché non sono aggiudicate, possono essere revocate», fanno intendere al Pirellone. Stefano Carugo, responsabile della Sanità del Pdl, ammette: «Bisogna rivalutare complessivamente la sostenibilità dei due grandi progetti». Il dibattito s'annuncia di fuoco. Sara Valmaggi e Carlo Borghetti del Pd invitano alla cautela: «Sono già stati siglati protocolli di intesa e sono in corso procedure esecutive ben definite. Besta e Tumori non sono semplici presidi ospedalieri, in gioco c'è il futuro della ricerca pubblica lombarda». Ma la partita appare appena iniziata.

Postilla
Non è il caso di farla troppo lunga (il lettore può risalire nel tempo delle opinioni espresse in questo sito semplicemente consultando articoli e postille, in entrambe le edizioni di eddyburg e). Solo due precisazioni su quanto l'articolo necessariamente sorvola:
1 – la Questione Scientifico-Sanitaria come hanno più volte sottolineato i diretti interessati operatori, medici e manager, pare evaporata di fronte a quella urbanistica, territoriale, come se la salute collettiva si valutasse in termini di spazi, metri cubi su metro quadro, localizzazioni degli interventi; che nulla hanno a che vedere in sé e per sé con le sedi, che volendo già esistono e si potrebbero riorganizzare, magari con progetti edilizi alternativi a queste mega opere.
2 – la Questione Ambientale-Localizzativa, che comprende da un lato la secca alternativa (su cui in teoria non dovrebbero esistere dubbi) fra il consumo di spazi aperti a man bassa, specie di pregio e agricoli periurbani, e il recupero di superfici dismesse già urbanizzate; dall'altro sul versante più propriamente ambientale l'occasione di restituire alla città angoli degradati, oggi inaccessibili, proprio sfruttando l'occasione economica di poli scientifici in grado di riqualificare non solo urbanisticamente l'area metropolitana.
E concludendo sull'evocata questione metropolitana: nessuno ricorda che fra pochi mesi le concorrenze fra campanili per aggiudicarsi questa o quella fetta di trasformazioni di prestigio dovrebbero venir meno, con l'istituzione della Città Metropolitana di Milano? Beh, pare proprio che le forze politiche ed economiche considerino quella scadenza solo occasione di manovre subacquee o poco altro. Un modo di ragionare da cosiddetta metropoli europea? (f.b.)

la Repubblica e Armando Stella dal Corriere della Sera Milano, 21 aprile 2013 (f.b.)

la Repubblica Case basse, più verde e meno lusso così la crisi ridisegna Santa Giulia
di Zita Dazzi

È un nuovo masterplan, ed è firmato ancora una volta dall’archistar Norman Foster per Santa Giulia bis, la seconda parte del quartiere a due passi da Rogoredo, quella rivolta verso nord. Un progetto ambizioso, anche se ridimensionato dalla crisi negli investimenti, nei costi finali degli alloggi e nelle altezze complessive degli edifici. Il Comune ha già ricevuto un piano di massima, al quale ne seguirà a breve uno definitivo. E sulla base di quel che già si vede nei rendering e nei plastici, il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris arriva a prevedere che i lavori partiranno entro un anno, di pari passo alla bonifica ambientale su 35mila metri quadrati di verde oggi sotto sequestro giudiziario.

Un intervento urbanistico ed edilizio avviato in era Moratti che potrebbe essere completato per il 2018, con abitazioni per altre 10-12mila persone, in aggiunta alle quasi 5mila che già vivono nella zona sud dell’insediamento. Molte le novità annunciate ieri ai cittadini, alla presenza del vicesindaco Ada Luisa De Cesaris, in un incontro pubblico nella sede di Risanamento Spa, la società proprietaria dell’area Santa Giulia. Nel nuovo insediamento — oltre alle palazzine residenziali con alloggi e uffici il cui costo finale sarà molto inferiore agli 8mila euro al metro quadrato preventivato nel 2005, quando venne realizzato il primo progetto — vi saranno un’arena per spettacoli e manifestazioni sportive, un museo dei bambini in collaborazione col museo della Scienza e della Tecnologia, una biblioteca, una mediateca, una chiesa, un cinema multisala, oltre a un’area commerciale pedonale collegata con un ipermercato.

Verranno costruite piste ciclabili che attraverseranno tutto il quartiere e lo collegheranno all’Idroscalo e al resto della città. «Sarà una vera green city secondo i più avanzati criteri della sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Tutta la vita del quartiere ruoterà attorno a un
grande parco con al centro un lago » ha spiegato l’ingegner Alessandro Meneghelli, direttore della progettazione, cercando di tranquillizzare quanti abitano nei palazzi che oggi si affacciano sul lato sud del parco e che hanno scoperto, nel plastico, alcuni nuovi palazzi che ostruirebbero la vista sul verde. «Saranno palazzi da 4, massimo 5 piani, mentre le case attuali sono di 8» ha replicato Meneghelli, aggiungendo che «il progetto definitivo prevede anche un ponte ciclopedonale per collegare via Merezzate con l’altra parte del parco e il completamento della Paullese fino a via Salomone».

Il vicesindaco De Cesaris si è prodigata per tranquillizzare gli abitanti: «Mi sembra un buon progetto, rispettoso dell’ambiente e diverso da quello originale che l’amministrazione aveva ereditato. Il cuore del quartiere è il parco, elemento di connessione e socializzazione. Ci sono molte strade pedonali che collegano le corti residenziali al verde, ai servizi e all’area commerciale ». I cittadini hanno tempestato di domande sia la De Cesaris sia i vertici della società costruttrice: c’era molta curiosità ma anche il timore di ennesime delusioni. «Tutto ciò — ha aggiunto il vicesindaco — ci permette di far ripartire già dal prossimo autunno la bonifica, in attesa che la magistratura concluda la sua inchiesta che comunque procede su canali indipendenti. Poi, col progetto esecutivo, verificheremo le volumetrie e chiederemo ai costruttori le modifiche che interessano ai cittadini, comprese quelle riguardanti le case affacciate sul parco».

Corriere della Sera Parco e Museo dei bambini Progetto per Santa Giulia
di Armando Stella

Un parco grande poco meno del Sempione, un laghetto, un museo tecnologico per i bambini, un'arena coperta, case e negozi, il cinema e l'Esselunga, cioè il sogno della periferia modello promesso nel 2005, avvelenato dai rifiuti tossici e messo sotto sequestro dal tribunale. E tuttavia: non sepolto né dimenticato. Il progetto per Santa Giulia può ripartire dal punto in cui s'era arenato. La zona Nord di Rogoredo, l'area ex Montecity. L'immobiliare Risanamento ha presentato ieri una nuova ipotesi d'intervento per riprendere e completare il piano di riqualificazione interrotto: verde, acqua, museo, case e il resto. L'ha fatto alla vigilia dell'assemblea degli azionisti (29 aprile) e quasi in fondo alla trattativa per la vendita a Idea Fimit (in scadenza il 30 aprile).

Il masterplan, che sarà ufficializzato entro l'anno, ridisegna oltre 600 mila metri quadri di città: «Il parco da 300 mila metri quadri — spiega Davide Albertini Petroni, dg di Risanamento — sarà il vero elemento di cerniera». Tempi di realizzazione previsti: 8-10 anni. Il museo smart per i bimbi è stato studiato da Fiorenzo Galli, direttore del «Leonardo da Vinci» in via San Vittore: «Potrebbe nascere una collaborazione». Ad ascoltare Risanamento, ieri, il comitato di cittadini e il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris. Che dice: «È un passo avanti, usciamo dalla fase emergenziale». Risanato l'asilo e il parco Trapezio, il Comune sta cercando ora di sbloccare i lavori per il terzo palazzo Sky e due aree da 9 mila metri quadri.

La Repubblica Milano, 18 aprile 2013 (f.b.)

TAGLIARE gli alberi per salvare il tram. 180 olmi che segnano l’intero percorso di via Mac Mahon, tipico “viale alberato con tramvia” del paesaggio milanese lungo un paio di chilometri. L’assessore alla Mobilità e all’Ambiente Maran ha comunicato la dolorosa scelta un paio di giorni fa. Gli alberi vanno tagliati perché le radici si sono sviluppate sotto le rotaie provocando gibbosità e deformazione dei binari. E non c’è modo – se non, s’immagina, troppo costoso – di salvare la linea del tram 12, considerata strategica dall’amministrazione.

Com’è ovvio un gruppo di residenti della via e del quartiere si è immediatamente mobilitato, protestando vivacemente contro il sacrificio degli alberi. Ugualmente si leggono proteste e commenti arrabbiati sul profilo Facebook dell’assessore, che con apprezzabile coraggio ha avviato un confronto con i cittadini anche sui social media. Ma il destino degli olmi, par di capire, sarebbe segnato. Vista la quantità degli alberi, il trauma dell’intervento e la posta in gioco, invece sarebbe bene tenere aperta la discussione e non dare per scontata una soluzione non solo “molto difficile” e senz’altro sgradevole per l’assessore e la giunta, ma anche sbagliata. In fondo si tratta di decidere quali sono le priorità, ovvero quali sono i valori in gioco. Quanto valgono 180 olmi piantati quasi settanta anni fa?

PER qualcuno quegli olmi non valgono nulla, visto che si possono ripiantare altre essenze, magari dalle radici meno invasive. Per molti altri tantissimo, se si considera che estirparli significa cambiare radicalmente il panorama, l’ambiente, la vivibilità e persino la memoria di un’intera zona di Milano. Stavolta gli alberi non sono ammalorati. Sono sani e svettano imponenti segnando il profilo di un importante asse viabilistico della città. Siamo sicuri che, strategicamente, non convenga pensare a un adattamento del trasporto pubblico alle alberature piuttosto che il contrario? C’è chi, per esempio, suggerisce di trasformare la linea 12 in un collegamento di bus. Chi in una linea filoviaria, meno inquinante. E perché non considerare l’ipotesi di alzare il piano di scorrimento dei tram, lasciando spazio sufficiente per la convivenza fra radici e binari?

Certamente per ogni possibile soluzione esistono controindicazioni che vanno esaminate con attenzione e scrupolo. Anche dal punto di vista dei costi, naturalmente. Però non si può partire dal principio che l’onere economico – o la convenienza aziendale – sia la bussola di ogni scelta. Non si può almeno finché non si quantifica il danno che si arreca alla città e ai suoi residenti col taglio di centinaia di alberi. D’altronde, per più di sessant’anni, tram e olmi hanno convissuto in via Mac Mahon.

Ma non sono gli alberi ad essere diventati, improvvisamente, insostenibili. Semmai si sta dimostrando insostenibile la vecchia tecnologia di posa e di esercizio dei binari. Infine va ricordato che via Mac Mahon non è l’unico “viale alberato con tramvia” di Milano: ci sono via Cenisio, viale Certosa, via Stelvio, via Giambellino... E, ahinoi, un bel tratto della circonvallazione dei bastioni spagnoli, dove negli anni scorsi la rimozione dei vecchi alberi ha portato a un panorama quasi desolante. Ecco, assessore Maran, provate per una volta a pensare che sostenibilità non è la parola magica del futuro, ma un vincolo per il presente.

Le persone di religione islamica residenti a Milano sono ormai decine di migliaia, ma non dispongono di edifici idonei .>>>
1. Le persone di religione islamica residenti a Milano sono ormai decine di migliaia, ma non dispongono di edifici idonei per il loro culto religioso. Di recente l’associazione islamica turca Millî Görüş ha avviato lavori di adeguamento di un capannone in una zona periferica della città, ma la diffusione della notizia ha subito suscitato una reazione contraria. Secondo le cronache giornalistiche dello scorso mese di marzo un noto uomo politico, già vicesindaco nelle precedenti giunte Albertini e Moratti, avrebbe richiesto il sequestro dell’immobile e avrebbe anche proposto un referendum di zona per decidere se rilasciare le autorizzazioni alla realizzazione della moschea. Per contro risulta che l’attuale assessore comunale all’educazione non abbia posto veti in linea generale alla realizzazione di moschee, purché costruite nel rispetto delle norme sull’edilizia. Intanto però, sempre secondo le cronache della stampa di informazione, i lavori sono stati sospesi per irregolarità edilizie, non essendo stato chiesto al Comune il cambio di destinazione d’uso dell’immobile.

Certamente lo scopo di culto religioso non costituisce una giustificazione per irregolarità edilizie, eppure l’episodio di cronaca merita qualche riflessione di carattere generale.

2. La Costituzione della Repubblica italiana tutela la libertà di religione, ma questa libertà acquista miglior risalto se essa viene considerata in un contesto più ampio.

Il 6 gennaio 1941 il presidente degli Stati Uniti d’America, Franklin Delano Roosevelt, pronunciava il suo discorso al Parlamento sullo stato dell’Unione passato alla storia come "il discorso delle quattro libertà", poiché prefigurava un mondo fondato sulle quattro essenziali libertà umane, la libertà di parola e di espressione, la libertà religiosa, la libertà dal timore (del nemico esterno), la libertà dal bisogno. Roosevelt confermava così il carattere basilare della libertà di religione che giusto centocinquant’anni prima, nel 1791, sempre negli Stati Uniti d’America aveva ricevuto tutela, ma anche grande risalto, col primo dei dieci emendamenti alla Costituzione federale che costituiscono il Bill of Rights, la Dichiarazione dei diritti.

Dopo la seconda guerra mondiale la libertà di religione è stata tutelata dalla "Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo" approvata dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, dalla Convenzione europea del 1950 per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dal Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York nel 1966. Essa, inoltre, ha cominciato a vivere nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ed è passata infine nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nella prima versione del 7 dicembre 2000 (Carta di Nizza) e poi in quella adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo.

Ma anche la Chiesa cattolica ha definitivamente superato il Sillabo del 1864. La dichiarazione del Concilio Vaticano II su "La libertà religiosa", la Dignitatis Humanae, ha affermato che «la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa», la quale «si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana (…). Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società».

La libertà religiosa, da qualsiasi lato la si consideri, è dunque un diritto fondamentale della persona umana. Su questo punto la Costituzione è limpida: «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa» (art. 19), senza alcun riferimento al requisito della cittadinanza. E d’altra parte non vi è dubbio che la libertà di religione comprende anche il diritto a costituire e mantenere luoghi di culto, come riconosciuto nel 1986 a Vienna dalla CSCE, la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa e, nel 2000, dalla risoluzione 55/97 approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

3. Cosa bisogna attendersi dunque dal Comune di Milano in tema di luoghi di culto per le confessioni religiose che non ne dispongono? Semplicemente il rispetto della libertà di religione che è un diritto fondamentale della persona umana e quindi non può essere ostacolata da decisioni amministrative arbitrarie e neanche da decisioni di democrazia diretta come quelle referendarie: i diritti fondamentali della persona proprio in quanto tali non sono disponibili da parte di una maggioranza politica.

Non solo lo Stato, ma anche il Comune ha il dovere di farsi promotore dell’attuazione in concreto dei diritti delle persone e dei valori costituzionali, seguendo l’indicazione della Corte costituzionale, per la quale «il principio di laicità implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale» (sentenza 203/1989).

E, del resto, il partito del sindaco milanese Pisapia, Sinistra ecologia libertà, nel capitolo "Diritti" del suo programma afferma: «Per noi, la sinistra, scegliere il primato della laicità e della libertà degli individui è un fondamento della propria identità politica e civile».

Non è difficile svolgere questa affermazione generale. Come è stato ricordato da ultimo, con felice sintesi, dalla costituzionalista Giuditta Brunelli, la laicità «ha una precisa funzione: tutelare la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, i quali in nessun modo possono subire discriminazioni o acquisire privilegi sulla base della loro appartenenza confessionale (essendo la laicità, tra l’altro, dissociazione tra cittadinanza e appartenenza religiosa). (..) La costruzione dei rapporti tra Stato e fattore religioso (…) è destinata a conformare in concreto rapporti sociali fondati sul libero esercizio da parte dei singoli della loro libertà di coscienza, in un contesto di eguale rispetto di ogni scelta individuale».

Non si dimentichi, infine, che già nel 2008, proprio a Milano, in occasione delle celebrazioni di Sant’Ambrogio l’arcivescovo Tettamanzi aveva manifestato il proprio favore per la realizzazione di luoghi di culto per le confessioni religiose diverse dalla cattolica. Quella presa di posizione aveva suscitato la dura contestazione di un esponente politico locale: ma l’arcivescovo si era espresso in piena sintonia con la dottrina ufficiale della Chiesa, con la Costituzione, con gli atti internazionali di tutela dei diritti umani.

La finalità di culto non può essere una giustificazione per violare la disciplina dell’attività edilizia. Ma vale sicuramente, e ancor di più, anche la proposizione inversa: la disciplina dell’attività edilizia non deve diventare un pretesto per violare un diritto fondamentale come la libertà religiosa. E dunque dal Comune bisogna attendersi che si faccia parte attiva perché, nel rispetto delle leggi, ma anche adeguando se del caso la propria disciplina urbanistica, tutte le persone possano disporre di luoghi di culto, secondo le necessità delle diverse confessioni religiose. Anche i poteri comunali di governo del territorio devono essere usati per concorrere al pieno riconoscimento delle libertà fondamentali. La libertà religiosa non costa alle finanze pubbliche e la garanzia del diritto delle minoranze religiose rende tutti più liberi.

Con questo intervento Alberto Roccella, tra i più lucidi e competenti giuristi nel campo del diritto urbanistico, inizia la sua collaborazione come "opinionista" di eddyburg. Lo ringraziamo

Corriere della Sera Milano, 7 aprile 2013 (f.b.)

Milano Quartiere Adriano - foto F. Bottini

Cemento e fango, grattacieli e abbandono. Il quartiere Parco Adriano, sulla carta quartiere modello a cominciare dal nome, lotta per non rimanere un pezzo di città fantasma. La storia di questa incompiuta s'arricchisce ogni giorno di un dettaglio. Ed ecco il manifesto davanti a uno sterrato reso acquitrino dalla pioggia: «Questa è la nostra piscina». Non è semplice conservare la speranza quando «per prendere un mezzo pubblico devi camminare per un chilometro, quando Atm e la Zona 2 storcono il naso alla supplica dei residenti di far entrare l'autobus 58 nel quartiere», perché «s'allungherebbe il tempo di percorrenza», o quando «non avendo né nidi né scuole materne ed elementari, ogni mattina ti fai in quattro per portare un figlio al nido a Precotto e il più grandicello alle elementari dall'altra parte della città».

Con i loro bimbi le famiglie di Parco Adriano raccontano di aver fatto «saltare gli equilibri dei quartieri vicini. Nidi, materne, elementari, medie sono tutte sature». In quel deserto urbano, dove solo un anno fa le strade hanno avuto un nome, i quattromila abitanti già insediati sono rimasti al buio per tre settimane. Furti di rame a ripetizione e in grande stile hanno spento i lampioni che «ci facevano sentire parte della città». Solo quelli. Per fermare, una volta per sempre, l'assalto ai tombini, gli uomini di A2A hanno dovuto coprire ogni accesso di terra.

Quartiere Adriano - foto F. Bottini

Sono i destini di due PII (piani integrati di intervento) che s'incrociano in questo spazio immenso - mezzo milione di metri quadrati - situata a Nord est della metropoli, al confine con Sesto San Giovanni, dove un tempo sorgevano i grandi impianti della Magneti Marelli. L'idea di trasformare l'area industriale in una città da vivere è del 2001. La convenzione firmata con il Comune di cinque anni più tardi. Due PII, “Adriano-Marelli” e "Adriano-Cascina San Giuseppe”, e diversi operatori. La metà dell'area doveva diventare parco. La crisi ha azzoppato un progetto che a vederlo sulle mappe disegnava la «città ideale».

I residenti sono sul piede di guerra. Voci della richiesta di variante di un operatore, che vorrebbe spalmare le tre torri non ancora costruite in orizzontale (per ridurre i costi) hanno fatto alzare gli scudi: «Case orizzontali, fine del parco» è l'equazione. Ma l'assessore all'Urbanistica, Ada De Cesaris, che ha ereditato questa incompiuta insieme ad altre questioni che scottano in città, spiega che il quartiere un vigilato speciale: «Un operatore ha cominciato i lavori per realizzare il polmone verde. All'altro abbiamo dato un ultimatum». L'altro è il Gruppo Pasini di Sesto. La trattativa prosegue. Il Comune ha «avviato il processo di escussione delle fideiussioni bancarie», ma la partita è delicata. Interesse di tutti non è togliere ossigeno all'operatore. Un fallimento avrebbe ricadute pesanti per il futuro del quartiere, consegnandolo all'immobilità a tempo indefinito.

In via Gassman abitano famiglie di giovani con bimbi piccoli. Nessuno vuole un futuro incerto. Tra le ipotesi allo studio c'è la ricerca di un investitore che possa rilevare la Rsa del Villaggio San Giuseppe, una volta chiuse le urbanizzazioni (impegno che Pasini s'è assunto). Ma l'assessore De Cesaris sta studiando anche l'ipotesi di «intervenire noi direttamente nella realizzazione di questa

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