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Edoardo Salzano
Eddytoriale n. 155 (20 dic. 2012)
20 Dicembre 2012
Eddytoriali 2013-
«La sinistra pare proprio aver perso la sua identità quando si tratta di ripensare alla città e all’urbanistica. Fra le tante componenti che la crisi delle ideologie ha ridotto in pezzi che non riescono a ricomporsi, vi è sicuramente l'idea di città, o almeno una sua declinazione davvero progressista, orientata al bene comune».

Questa affermazione, espressa da Cristina Gibelli a proposito del nuovo PGT di Milano, ha una portata che travalica la dimensione, pur rilevantissima, della seconda capitale d’Italia. Quando si cimenta con le questioni che hanno a che fare con l’uso del suolo (e quindi con il ruolo della rendita immobiliare) anche la sinistra che ha la schiena dritta si rivela schiava della triade mattone-finanza- potere mediatico. Seppure in cuor suo (e nelle sue parole) prediliga “la città dei cittadini" o “la città come bene comune”, di fatto si limita ad addolcire, mitigare, depeggiorare la devastante realtà della “città della rendita”. Succede a Milano come a Napoli, a Cagliari come a Venezia (se quest’ultima può essere ancora definita di sinistra).

Abbiamo scritto in altra occasione della "vergogna napoletana” e non passa settimana senza che dobbiamo raccontare qualche ulteriore episodio della svendita dei patrimoni pubblici della Serenissima al Benetton o Cardin di turno, o al “libero mercato” che aspirerebbe a investire sulle sponde della Laguna. Questa volta parliamo di Milano, per tirare qualche conclusione di carattere più generale sulla sinistra al potere.

L’articolo di Cristina Gibelli, che compare qui accanto, documenta con efficace sintesi i passaggi e le scelte che hanno provocato forte delusione in chi aveva partecipato con speranzosa fiducia all’avventura elettorale di Giuliano Pisapia, e ai primi passi della sua giunta. Altri scritti ci sono giunti, da fonti diverse ma tutte meritevoli di credito, per documentare con dovizia di argomenti le ragioni di un giudizio profondamente critico del “nuovo” piano di governo del territorio ambrosiano. Spero che giungano anche altri scritti che argomentino le ragioni degli amministratori in carica.
Gli errori più gravi che emergono da ciò che abbiamo finora potuto esaminare sono, in sintesi, i seguenti:
- la pretesa di affrontare i problemi di assetto della città senza alcuna visione del sistema territoriale di cui è parte (quanti decenni sono passati invano dal generoso tentativo del Piano intercomunale milanese?);
- la sostanziale conservazione (qualcuno ipotizza addirittura un potenziale incremento) delle quantità della nuova edilizia rispetto alle immani dimensioni del piano Moratti;
- l’accettazione acritica delle infami pratiche di “perequazione” e “compensazione” urbanistica.
- l'oggettivo abbandono del principio, legittimato con tenaci lotte sociali negli anni '60 e '70, degli “standard urbanistici”, cioè di spazi pubblici come tali assicurati solidamente al possesso e all’uso della cittadinanza. Non ci sembrano “errori” da poco a fronte dei “depeggioramenti” sbandierati dalla giunta.

Se riflettiamo a queste critiche di merito tenendo conto dell’opacità nella quale si è svolta la preparazione e l’approvazione del PGT, non possiamo sfuggire a qualcosa che è ben più d’un sospetto: è un’ombra pesante che si getta su tutta l’area della sinistra, ivi compresa quella che - almeno nelle intenzioni dichiarate - si propone di essere radicale (nel senso di mirare alle radici dei problemi) e meno compromessa con i poteri dominanti.
Le due domande che ci poniamo sono allora le seguenti: (1) quali sono i poteri che governano oggi le città e i territori: quelli espressi dalle istituzioni democraticamente elette secondo le regole della democrazia rappresentativa, oppure quelli costituiti dai tre interessi, sempre più solidalmente legati tra loro, dalla grande proprietà immobiliare, del sistema finanziario, dei mass media? (2) rispetto a questo sistema di potere, rispetto alla triade mattone, banche, grandi media, sono complici o succubi solo i soggetti politici facenti capo al vecchio sistema dei partiti, arricchito dai partiti dei tycoons e del razzismo padano, oppure anche quelli che vogliono esprimere un’alternativa? I casi che abbiamo sott’occhio ci obbligano a dare risposte molto sconfortanti a entrambe le domande.

La “trahison des clercs”

Prima di concludere questa dolorosa nota dobbiamo formulare un’autocritica: anzi, una critica a quegli intellettuali che, professando il sapere e praticando il mestiere dell’urbanistica, hanno accreditato, o addirittura inventato, gli strumenti consentono ai portatori di interessi privati di scardinare i principi dell’interesse pubblico. Ci riferiamo a chi ha criticato la “urbanistica autoritativa”, a chi ha inventato i “diritti edificatori”, a chi ha dichiarato fuori moda gli “standard urbanistici" e ha gettato alle ortiche il metodo del rigoroso calcolo delle quantità di urbanizzazione necessarie per i fabbisogni sociali non soddisfacibili nei volumi già edificati e sui suoli già laterizzati.
Quello della trahison des clercs è un tema sul quale dovremo ancora tornare, nel tentativo di comprendere come e perché si sia dissolto il nesso tra la cultura e la pratica politica da un lato e, dall’altro, la cultura urbanistica, intendendo per questa la capacità di comprendere ciò che la città è, quali siano le forze e i meccanismi che ne determinano le trasformazioni, e quali i modi in cui queste incidano sulla vita delle persone. Su questo tema dovremo richiamare di nuovo l’attenzione dei nostri lettori. E probabilmente questo ci aiuterà a comprendere perché la sinistra, anche quella radicale, sia stata così debole nei confronti dei “poteri forti” rivelandosi portatrice suo malgrado d’una “incultura della città”.
Il ricatto della triade
Ma c’è un’ultima questione su cui non possiamo non spendere ancora qualche parola. Le vicende delle nostre città ci dicono chiaramente che le istituzioni, e in particolare i comuni, sono schiave del sistema finanziario. Le banche che finanziano giorno per giorno le amministrazioni pubbliche sono intrinsecamente legate agli interessi immobiliari e tutt'e due insieme, attraverso i mass media, informano e formano l’opinione pubblica. Perciò lo stesso potere delle maggioranze di sinistra (e della stessa sinistra radicale) è sotto ricatto: si sono dovuti stipulare o accettare in silenzio accordi, espliciti o impliciti, per ottenere il consenso necessario a governare. Questi impegni, si dice, vanno rispettati: i margini dei “depeggioramenti” consentiti dall’accordo di potere sono esigui, al di là non si può andare, pena il fallimento. Che fare allora? Scendere dal treno e lasciare che la locomotiva lo conduca verso il peggiore dei destini possibili? Oppure guidare il convoglio lungo i binari già tracciati da altri?

E’ un dilemma che per fortuna non ci tocca personalmente, ma pensiamo che l’ultimo arbitro debba essere la coscienza di ciascuno. Se però dobbiamo dare (come vogliamo) una risposta politica, il nostro giudizio è chiaro. Chi ha ottenuto i voti necessari per governare in nome di scelte radicalmente diverse da quelle contro le quali è sceso nell’arengo, non può governare proseguendo la vecchia politica, per di più nascondendolo ai suoi stessi elettori. Se la presa sulla società della triade proprietà-banche-media è così forte da esercitare un’egemonia non contrastabile, cederle oggi significa cancellare anche i germi di controegemonia che l’inizio dell’avventura aveva fatto emergere, a Milano e altrove.

A Milano, cedere oggi e proseguire il progetto urbanistico Moratti Masseroli, per non rischiar di perdere il consenso ottenuto nella vicenda elettorale, significa propter vitam vivendi perdere causas. Significa, nel concreto della società, disperdere i germi di speranza: quei germi che oggi forse sono troppo deboli per prevalere, ma che da domani saranno del tutto cancellati, o sostituiti dalla rabbia non incanalata.
Su questa nostra posizione la discussione, naturalmente, è aperta.

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