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eddytoriale 156 (2 maggio 2013) Lupi e l'"Agenda urbana"
2 Maggio 2013
Eddytoriali 2013-
Dimentichiamo per un attimo (ma è molto difficile) l’insieme della situazione politica. Limitiamoci al governo del territorio: la realtà che per noi è, insieme, habitat dell’uomo (il nuovo contesto della condizione urbana) e patrimonio delle civiltà. Due segnali molto preoccupanti, si sono aggiunti a quelli che degli ultimi trent’anni si susseguono: l’attribuzione a Maurizio Lupi dell’incarico per la componente hard dell’urbanistica, le infrastrutture, e l’eredità che il governo Napolitano-Monti lascia al governo Napolitano-Letta



Maurizio Lupi

Maurizio Lupi è ben noto a chi frequenta eddyburg e, in generale, a chi si occupa dei temi cui questo sito è dedicato. E’ stato negli anni 90 l’ispiratore della politica urbanistica milanese fondata sulla privatizzazione delle decisioni e sul liberismo più sfrenato: quel modello di gestione urbanistica i cui germi Pietro Bucalossi aveva denunciato già negli anni 60 bollandoli con l’appellativo di “rito ambrosiamo”: un rito basato sulla deroga invece che sulla regola, sulla preminenza dell’interesse privato su quello pubblico. Con la “legge Lupi” si rovesciò il segno della faticosa ricerca di una nuova legislazione urbanistica compiutonel corso della XV legislatura proponendo una nuova disciplina.

La frase chiave della legge Lupi è la seguente: «Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi» (art. 5, comma 4). Di essa demmo a suo tempo il seguente giudizio sintetico: « una legge che privatizza l’urbanistica. Con essa si pone esplicitamente il bastone del comando nelle mani di quegli interessi che le amministrazioni pubbliche oneste (di sinistra, di centro o di destra che fossero) hanno sempre tentato di contrastare: quelli della proprietà immobiliare. Una legge, in sostanza, eversiva dei principi che non solo la sinistra e il centro, ma anche la sinistra liberale (non neo-) aveva definito e praticato.

Eddyburg ha un ampio dossier sulla legge Lupi e sulla discussione atttorno ad essa, E’ raggiungibile con questo collegamento: Tutto sulla legge Lupi. Documenta il contenuto e le ragioni della perversità della proposta, l’ideologia che le è sottesa e la prassi nefasta che ne consegue. Testimonia l’ampiezza del consenso che l’argomentata critica sviluppata da eddyburg ottenne. Ma rivela anche i successivi passi del cedimento che le forze politiche del centrosinistra, e in primo luogo degli eredi del PCI, operarono: perfino la vera e propria trahison des clercs che la cultura urbanistica ufficiale, quella che si riconosce nell’Inu. compì. [Piccola nota a margine. Nel dossier di eddyburg troverete anche una netta presa di posizione di Pier Luigi Bersani contro quella legge, definita “un disastro per il paese”] . La campagna lanciata da eddyburg, subito ripresa da associazioni prestigiose quali Italia nostra e WWF-Italia (non da Legambiente) ebbe successo, allora, grazie alla intelligente conduzione della discussione nella commissione del Senato. Ma già allora il clima politico e culturale, concimato da slogan quali "via lacci e lacciuoli" "più mercato meno Stato”, era cambiato rispetto a quello degli anni 60 e 70. Pagavano via via pedaggi più pesanti all’ideologia neoliberista aree della sinistra più ampie di quella craxiana.

Avevamo conosciuto gli anni dell’urbanistica contrattata che “Mani pulite” era riuscita a svelare ma non a sconfiggere (ma questo sarebbe stato compito della politica, non della giustizia). Anche il sistema capitalistico era cambiato: la rendita non era più un avversario del profitto imprenditoriale e del salario operaio, ma il fine stesso dell’economia. Invenzioni di apprendisti stregoni, come quello dell’esistenza di “diritti edificatori” inalienabili (se non a prezzi esorbitanti) e generalizzazione di pratiche ambigue e rischiose, come la “perequazione urbanistica” indussero le amministrazioni comunali e gli operatori dell’urbanistica, divenuti troppo spesso “facilitatori” degli interesse immobiliari, a modificare le loro scelte tecniche e amministrative. Tutto ciò trasformò il territorio, da habitat dell’uomo e patrimonio degli abitatori del pianeta, in macchina par fare quattrini. I tentativi di costruire la” "città dei cittadini" furono cancella da un progetto volto trionfalmente a costruire la “città della rendita. Di questetrasformazioni Maurizio Lupi fu l’attivo partecipe e la sua proposta di legge doveva essere il coronamento

L’Agenda urbana

Il corposo documento del Comitato interministeriale per le politiche urbane, intitolato “Metodi e contenuti delle priorità in tema di Agenda urbana” (d'ora in avanti: Agenda urbana)vuole essere, esplicitamente, il lascito in materia che il governo Napolitano-Monti lascia al governo Napolitano-Letta. Gli estensori non erano certamente consapevoli del carattere della continuità che lega i due gabinetti, né dell’egemonia che Silvio Berlusconi avrebbe esercitato nel tormentato passaggio. Non potevano quindi immaginare che tra i ministri più “pesanti “ ci sarebbe stato Maurizio Lupi. Ma tant’è. Peraltro se leggiamo con attenzione il documento, coordinato dall’ex Ministro per la coesione territoriale, Fabrizio Barca l’oggettiva coerenza nascosta dietro il succedersi apparentemente imprevisto degli eventi appare con l’evidenza dei fatti.

Un primo giudizio su quel documenti è stato espresso sinteticamente, anche su queste pagine da Maria Pia Guermandi, quando ha sottolineato che, secondo gli estensori di quel documento, « la maggiore innovazione che ha interessato l’urbanistica con riferimento al complesso della legislazione nazionale e a quella delle legislazioni regionali […] è la trasformazione del suo carattere fondamentale che è passato da una natura fortemente autoritativa-conformativa alla individuazione di modelli organizzativi basati sulla ricerca di accordi fra pubblico e privati e fra gli stessi soggetti pubblici letti, in alcuni casi, come derogatori della normativa vigente», osservando che siamo così «allo “sdoganamento” ufficiale della deregulation come pratica innovativa». In altri termini, l’innovazione alla quale si plaude e al cui rafforzamento si vuole tendere è una prassi in cui le decisioni sul futuro della città non sono più determinate dalle isituzioni democratiche elettive che determinano i limiti edificatori della proprietà (natura “autoritativa e conformativa”) ma dalla contrattazione tra pubblico e privato, nella quale il primo viene “letto” e usato, come l’attore che ha il potere di derogare la normativa vigente, cioè di infrangere le leggi che lui stesso (magari in periodi meno carezzevoli per la proprietà immobiliare) aveva stabilito.

Il documento non è privo di parti intelligenti e anche condivisibili, là dove ad esempio individua nodi problematici nell’attuale ordinamento dei poteri territoriali istituzionali (ma riduce il problema dell’”area vasta” alle sole dimensioni delle aree metropolitane e delle macro-regioni) e nella scarsa funzionalità dell’organizzazione territoriale e della mobilità. Ma i problemi sono visti tutti all’interno di una concezione della città (dell’habitat dell’uomo) che è diventata dominante: una concezione esclusivamente economicistica Capovolgendo il titolo dell’ultimo libro di eddyburg potremmo dire che per Agenda urbana la città è solo un affare.

La città ha come sua funzione principale quella di contribuire ad aumentare il PIL. « La potenzialità insita nell’esistenza di una grande concentrazione di capitale fisico, edilizio, intellettuale, sociale e di conoscenza nei centri urbani richiede di essere resa esplicita in un processo deliberativo ad ampia partecipazione»; ma ciò che alla fine conta è che «sia reso percepibile dai decisori economici e finanziari che devono insediare i segmenti delle loro organizzazioni disperse su base-mondo o garantire le necessarie aperture di credito.» (p. 3)

IL documento pone una questione che è certamente di massimo rilievo e definisce un obiettivò che non si può non condividere: «Un territorio deve puntare alla propria crescita economica attraverso la piena e sostenibile valorizzazione delle proprie potenzialità e prendendo in considerazione i bisogni di tutti i cittadini a cui, con riferimento a molteplici aspetti della propria vita (oltre e prima del reddito, la salute, il senso di sicurezza, l’istruzione, la qualità delle relazioni con gli altri, la qualità dell’ambiente, ecc.), deve esser garantito il raggiungimento e il superamento dei livelli socialmente accettabili e ambientalmente sostenibili». Si domanda poi: «Come è possibile declinare tale modello nelle città dove prevale la rendita urbana nemica dell’innovazione? Hic Rodhus, hic salta. E il salto, con qualche giravolta, è proprio nelle braccia di Maurizio Lupi.

Agenda urbana sintetizza gli ultimi anni del secolo scorso come caratterizzati da una doppia faccia: da un lato, «si produssero in quegli anni i primi tentativi di una politica delle città finalizzata all’obiettivo della qualità urbana, intesa come “rigenerazione” o, ancor meglio, come “riabilitazione urbana” finalizzata alla riqualificazione di parti di città caratterizzate da degrado fisico, economico e sociale, tenendo conto dei valori storici, ambientali e paesaggistici» Ma . «accanto a ciò si realizzarono pratiche di urbanistica negoziata in cui comuni con necessità di risorse finanziarie e privi di strumenti di programmazione strategica accettavano soluzioni edificative con dubbi effetti [sic]sullo sviluppo delle proprie città». Si prosegue riconoscendo che «gli anni successivi, dal 2000 in poi, sono stati caratterizzati, da un lato, dallo svuotarsi delle esperienze progressive e dal venir meno della partecipazione e del consenso sociale che le aveva accompagnate, dall’altro, dal prevalere della seconda tendenza. A questa dinamica ha contribuito senz’altro anche l’inadeguatezza del disegno di governance delle città» (p. 6). Governance (si veda la nostra analisi del termine) è un termine molto ambiguo, e forse per questo molto praticato nel linguaggio politico corrente. Ciò che è certo è che è alternativo rispetto a “government “: significa meno autorità e più accordo tra soggetti diversi; in teoria potrebbe addirittura significare, per adoperare il linguaggio gramsciano, meno forza e più consenso, “egemonia” invece che “dominio”. Ma nel concreto significa ben altro: significa che non contano più i vertici del potere formale ma l’insieme degli attori in quel determinato contesto: un contesto tutto pubblico (e allora la governance è il coordinamento tra i diversi settori delle pubbliche amministrazioni, in un contesto privato, oppure in un contesto pubblico/privato. E appunto a quest’ultimo tipo di contesto che ci si riferisce in Italia quando si parla di governance. Ma il contesto pubblico/privato (come del resto quello pubblico) non è, in Italia, un contesto nel quale tutti i soggetti siano dotati di uguali poteri e portatoreuguali interessi. Non mi sembra necessario spendere molte altre parole per affermare che nel campo della città e del territorio il potere che sono capaci di esercitare i grandi interessi immobiliari e quelli dei cittadini (o dei portatori di “interessi diffusi” sono di gran lunga minoritari.

E allora possiamo dire subito che il rilievo che nell'Agenda urbana vediamo una pericolosa risonanza dell’enfasi posta sulla governance con la franca dichiarazione del ministro Lupi di voler passare dall’urbanistica “autoritativa” all’urbanistica “negoziata”. Se la prima è l’urbanistica esercitata dalle istituzioni elettive della Repubblica, la seconda è quella per la quale il punto di partenza è costituito dalle decisioni d’investimento dei privati: di quei privati, ovviamente, che hanno l’interesse a ottenere una consistente e qualificata edificabilità nell’area di cui sono in possesso. Si tratta in sostanza di quella che ai tempi dell’indagine giudiziaria Mani pulite, che scoperchiò il pentolone di Tangentopoli, venne clamorosamente denunciata come “urbanistica contrattata”.

E’ proprio l’urbanistica contrattata che la legge proposta da Maurizio Lupi si proponeva di generalizzare e rafforzare. Ma il termine non piace neppure agli esensori del documento Agenda urbana. Essi infatti scrivono , proseguendo il testo che abbiamo sopra citato, «questa trasformazione dell’urbanistica è stata, in questo stesso periodo, fortemente avversata. Il superamento (della rigidità) delle prescrizioni del piano regolatore generale della legge fondamentale con il passaggio agli “accordi urbanistici” dell’urbanistica consensuale è stato qualificato con l’accezione negativa di “urbanistica contrattata” che, attraverso l’incremento della discrezionalità della pubblica amministrazione nell’esercizio del potere di trasformazione del territorio e della città costruita (una amministrazione ritenuta per definizione succube e ancillare degli interessi privati), si sia determinata verso l’ascolto e l’accettazione delle richieste private, ponendo in secondo piano, se non addirittura come scenario di sfondo, il conseguimento di più generali obiettivi di interesse pubblico.

«Non chiamiamola "urbanistica contrattata", non è smart»

Gli estensori del documento sanno che le parole hanno una storia e un senso. Essi perciò dichiarano, con disarmata innocenza, di scegliere i termini di urbanistica “concertata” o “consensuale” «piuttosto che quello di “contrattata”, proprio per evitare quel forte senso di negatività in esso contenuta. (p. 20).

Nel concreto, per regolamentare i rapporti tra pubblico e privato nello scegliere e premiare i progetti di trasformazione urbana da attivare bisognerebbe affidarsi- così invocano - al «rispetto del principio di lealtà che dovrebbe caratterizzare i rapporti pubblico-privato». Principio, che com’è noto alle cronache giudiziarie, domina nei rapporti tra immobiliaristi e gestori dei poteri pubblici; ciò si dovrà ottenere «contrattualizzando le modalità e le forme con cui amministrazioni pubbliche e soggetti privati individuano e pongono in essere progetti di trasformazione urbana». Passando cioè gioiosamente – ci sembra di capire – dal diritto pubblico al diritto privato.

Naturalmente «questo mutamento della prassi urbanistica, visto in termini positivi e innovativi (inizialmente avviato nell’ambito della produzione di edilizia residenziale pubblica), può rappresentare anche l’altra faccia della medaglia, quella della crisi dell’urbanistica, della sua incapacità di dare risposte convincenti alla necessità di modernizzazione della città, di tener conto, con analoga velocità, dei mutamenti socio-economici della realtà, delle diverse condizioni d’uso dello spazio urbano conseguenti al mutato rapporto tra politica e cultura»; e soprattutto, aggiungeremmo noi, tra economia e politica.

Definiti (ovviamente in modo più ampio di quanto abbiamo esposto nella nostra sintesi i cardini di una politica nazionale delle città si poneil problema di «individuare un luogo di allocazione di tale politica». La soluzione potrebbe essere una legge nazionale di principi sul governo del territorio: ma si porrebbe il problema di non contraddire le numerose legislazioni regionali «caratterizzate da un’attività legislativa più o meno intensa e sicuramente caotica rispetto agli esiti complessivi raggiunti». Forse la soluzione migliore potrebbe essere, suggerisce il documento, quella di «muovere dai reali processi di mutamento del territorio italiano, individuando i contesti più dinamici in considerazione della potenzialità competitiva del nostro paese nel contesto europeo e mediterraneo e concentrare su di essi sforzi di elaborazione, strumenti attuativi e risorse» Aumenteremmo quindi così, aggiungiamo noi, le differenze tra le diverse parti del territorio, premiando quelle più dotate e perciò “competitive” – parola magica, - nel quadro della concorrenza economica internazionale. Ci risiamo: in nome di una visione grettamente economicistica della città si sacrificherebbero i diritti( poiché di questo si parla quando si parla di legislazione) alle convenienze del mercato.

Una legge per salvare la perequazione

Sul punto il documento rimane aperto. Ma su una questione è chiaro sulla necessità di affrontare in termini di legislazione nazionale la questione de diritto di proprietà immobiliare «Appare indispensabile - si afferma - una legge adottata nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva statale in materia di “ordinamento civile”, che determini il contenuto del diritto di proprietà immobiliare sotto il profilo del suo contenuto minimo, ai fini della distinzione tra vincoli espropriativi e semplicemente conformativi, e sotto il profilo dello scorporo della facoltà di edificare» .

Abbiamo fatto un salto sulla sedia quando abbiamo letto “scorporo”. Con questa parola si alludeva, nel dibattito successivo alle sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968, alla separazione dello jus edificandi dalla proprietà dell’area e dell’appartenenza del primo al potere collettivo. Al principio, cioè, introdotto dalla legge 10/1977 da Pietro Bucalossi: il principio, secondo il quale la facoltà di edificare appartiene al pubblico il quale può concederla a privato in cambio di determinate garanzie. Sarebbe bello e utile, e secondo noi determinante per il futuro della città, riprendere il dibattito da quel punto: completare il tentativo di Bucalossi riscrivendo il capitolo dei diritti e dei doveri della proprietà immobiliare per stabilire, in modo generalizzato, che gli aumenti del valore commerciale degli immobili (aree ed edifici) derivante dalle scelte pubbliche, a partire da quelle della pianificazione, non appartengono al proprietario ma alla collettività. Ma è bastato proseguire di poche parole nella lettura del testo per ripiombare nello sconforto: si vuol parlare dello “scorporo” per escluderlo. Infatti ciò che si vuole è «dare un fondamento legittimo alle leggi regionali sulla perequazione».

Vergogna perpetua ricada su chi ha proposto, praticato e diffuso questa parola e la pratica che ne è scaturita. É ls generalizzata aplicazione di essa che è infatti ritenuto oggi, dagli autorevoli responsabili di quel documento la ragione per la quale si deve gettare ai lupi (questa volta con la minuscola) la coraggiosa innovazione di Pietro Bucalossi. Si afferma infatti: la perequazione, «è ormai pratica diffusissima sia con finalità di incentivo alla qualità ambientale e architettonica (c.d. premialità edilizia) e ancor più con finalità di compensazione, cioè come mezzo di acquisizione di aree senza esproprio, mediante cessione gratuita ottenuta attribuendo nuova cubatura (o nuova superficie di pavimento) da utilizzare su altra area. A parte i dubbi di legittimità di queste operazioni, é incerta la natura di questi c.d. crediti edilizi (diritti obbligatori o reali?), la loro durata (sono soggetti a prescrizione?), la tutela (sono da indennizzare in caso di cambiamento di piano?), la individuazione delle cosiddette “aree di atterraggio” (é ben diverso “atterrare” al cento o in periferia)». (p.21).

E’ questo il punto chiave dell’intera opera prodotta dal Comitato interministeriale per le politiche urbane: santificare, consolidare e porre al riparo dalle contestazioni costituzionali (e dalle volontà di cambiamento politico) l’invenzione dell’appartenenza privata dei “diritti edificatori”.

Sed de hoc satis. L’analisi critica di quel documento meriterebbe altri approfondimenti. Speriamo che arrivino; ne daremo conto. Qui vogliamo limitarci, in conclusione, a rilevare la continuità tra il documento che il governo Monti ha consegnato come lascito al suo successore e le idee più volte espresse dal ministro Maurizio Lupi. Quante crisi di governo, e quanti tentativi di ricostruzione della sinistra, bisognerà attendere per veder interrotta quella continuità? Non lo sappiamo né riusciamo a immaginarlo, ma la speranza è l’ultima a morire.

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