che l’INU ha assunto nel processo di assoggettamento dell’Italia all’egemonia del finanzcapitalismo.
Premesse
Nell’esprimere apprezzamento per il tentativo di promuovere finalmente l’approvazione di una legge quadro sul governo del territorio - attesa da numerosi decenni, di seguito vengono svolte alcune considerazioni. In generale, nel disegno di legge (ddl) in materia di governo del territorio, si riconosce l’esito di un ventennio di riforme, promosso dall’INU (Congresso di Bologna, 1995). Il ddl fornisce alle Regioni la opportuna “copertura”, relativamente a questioni come la perequazione urbanistica, la compensazione, la scomposizione del piano in componenti strutturali e operative.
Nel merito del portato del ddl, però, si ravvisano elementi critici, sia di sostanza che di forma. Si deve rilevare che, al di là dei titoli (Titolo I: Principi fondamentali in materia di governo del territorio, propriet‡ immobiliare e accordi pubblico privato”, Titolo II “Politiche urbane, edilizia sociale e semplificazione in materia edilizia”) e della finalità generale (la legge intende occuparsi dell’intero territorio che “in tutte le sue componenti, costituisce bene comune, unitario e indivisibile”), mancano i contenuti fondamentali per il governo di tutte le componenti del territorio: insediamenti e infrastrutture, paesaggio e beni architettonici, aree agricole, aree naturali da tutelare, assetto idrogeologico e prevenzione da eventi sismici. Il ddl enuncia principi giuridici generali (sussidiarietà,
adeguatezza, differenziazione, consensualità, partecipazione, proporzionalità, concorrenza, leale collaborazione, semplificazione e non aggravamento dei procedimenti) ma affronta prevalentemente il tema dei diritti edificatori e il ruolo della proprietà privata degli immobili.
Si deve anche rilevare che la possibilità di costruzione in deroga ai Piani, di modificare le destinazioni d'uso, di trasferire immobili in altra area senza specificare che essa debba avere destinazione “conforme”, oltre alla discrezionalità data a premialità e compensazioni, renderebbe la
pianificazione un atto quasi superfluo, ma utile alla commercializzazione dei metri cubi individuati nei Piani. Conviene, inoltre, prestare attenzione alle disposizioni che possono farsi rientrare tra quelle concernenti la disciplina della proprietà fondiaria o tra le norme di frontiera tra la disciplina stessa e la disciplina relativa al governo del territorio, nonché ad alcune disposizioni aventi ad oggetto la conformazione edificatoria mediante l’esercizio delle funzioni di pianificazione. A tal proposito si rileva che l’esigenza di assicurare “il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata la sua appartenenza e il suo godimento” (art. 8) risulta indispensabile in applicazione di principi costituzionali relativi alla proprietà stessa, che comunque, però, ne affermano la “funzione sociale”.
Inoltre, deve essere considerata una più chiara affermazione del principio secondo cui l’edificabilità discende dai piani e solo dagli stessi. Infine, ma non ultima per rilievo, vi è la verifica di allineamento con la riforma proposta del Titolo V della Costituzione. Appare opportuno considerare che, in un futuro più o meno prossimo, potrebbe intervenire l’approvazione definitiva della riforma del Titolo V della Costituzione e con essa una modifica dell’art. 117 della Costituzione in forza della quale non si avrebbero pi˘ materie di competenza legislativa concorrente e rientrerebbe tra le competenze legislative statali la materia “norme generali sull’urbanistica”. Ci si chiede quale sorte potrebbe avere il progetto di legge in considerazione se, a monte della sua approvazione, prima da parte del Consiglio dei Ministri e poi da parte del Parlamento, intervenissero l’approvazione definitiva e l’entrata in vigore della suddetta riforma del titolo V della Costituzione.
A tal proposito è da evidenziare che non risulta chiara la distinzione tra “principi fondamentali”, la cui approvazione, per le materie di competenza concorrente di cui all’attuale comma terzo dell’art. 117, solo compete (rectius dovrebbe competere) oggi allo Stato, e le materie indicate nel suddetto progetto di riforma del Titolo V, come “norme generali sull’urbanistica” etc. Il progetto in considerazione non contiene, peraltro, solo principi fondamentali relativi alla materia “governo del territorio” (che, se va in porto la suddetta riforma del Titolo V della Costituzione, ridiventerebbe la materia “urbanistica”). Come gi‡ la lettura del primo titolo del progetto suggerisce di far rilevare, esso contiene anche principi fondamentali “in materia di … proprietà immobiliare e accordi pubblico privato”. Anzi si riscontrano nello stesso anche principi fondamentali e norme relative ad altre materie:
- norme rientranti nella disciplina della proprietà fondiaria appartenenti alla materia “ordinamento civile”,
- norme riconducibili alla materia, avente contorni non ben definiti, di cui all’art. 117, comma 2, lett. m) ovverosia la materia “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”
- alcune norme da assumere come norme relative oppure relative anche alla tutela dell’ambiente.
L’occasione offerta dalla considerazione del progetto ministeriale Ë da cogliere per indicare un’omissione di principi border line tra l’urbanistica e l’ambiente, relativi alla valutazione ambientale strategica di piani. In particolare sorprende l’esclusione del principio di sostenibilità dal novero dei principi per l’esercizio delle funzioni di pianificazione indicati nel terzo comma dell’art. 2. Forse, però, è stato (erroneamente) ritenuto sufficiente il cenno allo “sviluppo economico sostenibile” contenuto nel comma precedente.
In sostanza, l’INU è convinto che ormai non serva affinare un modello e che per l’urbanistica contemporanea, utile alle citt‡ del futuro, occorra cambiare strumenti per gestire i processi. I temi rilevanti del dibattito contemporaneo sulle condizioni urbane sono la cura nell’uso delle risorse, da salvaguardare e da mobilitare, un’etica dei beni comuni, una rigenerata efficienza a base degli stili di vita, la creazione delle condizioni di convivenza in spazi diversamente percepiti e vissuti, una concreta risposta alle tensioni verso felicità e sicurezza.
Si deve notare, invece, una prevalenza assorbente della componente edilizia nel testo. Il ddl si intitola “Principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana”; si articola in due titoli, di cui il primo suddiviso in tre capi. Di questi il II e III capo del Titolo I e, di fatto, tutti e 5 gli articoli del Titolo II (in tutto: 13 articoli su 20) sono dedicati a garantire la proprietà e l’iniziativa privata, dentro i procedimenti di formazione dei piani, ma anche fuori (v. art 16 comma 7, che consente gli interventi di rinnovo urbano in assenza di strumenti operativi ) e persino “contro”: è facile prevedere gli effetti paralizzanti sull’iniziativa pubblica che possono infatti derivare dall’applicazione dell’art. 12 (trasferibilità e commercializzazione dei diritti edificatori, con indennizzo da parte del Comune in caso di loro limitazione).
D’altra parte, anche nella I parte della legge, gli interessi della rendita sono esplicitamente e legittimamente riconosciuti come parte in causa nei procedimenti di pianificazione (art. 1 comma 4). Lo sbilanciamento porta anche a una distorsione di strumenti che potrebbero rivelarsi utili, come la
concorsualità nella messa in opera delle scelte di pianificazione, con l’integrazione dei valori collettivi (efficienza ambientale, salvaguardia dei paesaggi) nel conto economico. Ci si riferisce agli artt. 1 e 7, che sanciscono il diritto del privato a partecipare alla elaborazione degli strumenti di
pianificazione urbanistica sia generali che operativi; all'articolo 8 relativo all'obbligatoria compensazione di limiti posti alla proprietà privata, di cui si è già detto; all'articolo 12 che impone il risarcimento al privato, in caso di variante al Piano, dei mancati guadagni dei cosiddetti “diritti edificatori”, che il Comune stesso ha gratuitamente elargito attraverso una destinazione urbanistica (con premialità, compensazioni, perequazioni) e che deve pagare risarcendo un presunto mancato guadagno.
Quanto alle politiche pubbliche territoriali, il loro compito, secondo la legge, è graduare gli “interessi in base ai quali possono essere regolati gli assetti ottimali del territorio e gli usi ammissibili degli immobili” (art. 3) con gli obiettivi di favorire “la crescita inclusiva, lo sviluppo economico sostenibile e la coesione sociale e territoriale” (art 2 comma 2) e assicurare “il razionale uso del suolo” (comma 4). Tutto qui. La restante parte del Titolo I è dedicata a rinominare gli atti e i documenti di programmazione e pianificazione ai vari livelli amministrativi, senza precisarne i contenuti, e ad elencare le “dotazione territoriali essenziali” che le Regioni dovranno determinare caso per caso nella prospettiva dell’eliminazione degli standard urbanistici unificati per tutto il territorio nazionale di cui al DM 1444/1968. Nel contesto di una nuova scrittura della legge urbanistica, la definizione degli obiettivi che si intendono raggiungere non è mera formalità, quanto il campo principale del confronto e sul quale misurare l’efficacia della legge stessa.
Questo aspetto non emerge dal testo di legge se non marginalmente o per negativo: occupandosi sostanzialmente di edilizia e trascurando tutti gli aspetti di carattere ambientale, paesaggistico, sociale ed economico, il disegno di governo del territorio che ne esce Ë un progetto di regolazione dell’attività di trasformazione delle aree edificate o edificabili. Con un’attenzione particolare alla tutela della proprietà privata alla quale viene garantito il coinvolgimento nella formazione del piano e la tutela dei diritti mettendo in secondo piano la partecipazione più ampia nello spirito del territorio come bene comune, che la legge richiama senza però chiarire cosa si intenda con questa definizione. Da questo punto di vista si tratta di un testo di legge che nasce già superato dai fatti, dal mercato edilizio, dall’agenda degli enti e dalla visione europea delle città e dei territori.
E’ indispensabile procedere a una semplificazione legislativa e alla definizione di Codici nazionali (urbanistica, edilizia, ambiente, paesaggio), per promuovere più progetto e meno procedura.
Il territorio come bene comune
Serve anche in Italia un principio amministrativo del genere del principio francese dell’unitarietà dello Stato fra i diversi livelli, o del principio tedesco della Allmitgliedschaft (appartenenza di tutti al medesimo organismo), che comporta il concorso di tutti al perseguimento degli obiettivi pubblici. Occorre la contestuale assunzione di un modello di pianificazione basato sulla assunzione di obiettivi e fondato sul principio di coerenza, che diviene il principio in base al quale operare il contemperamento di interessi differenziati, pubblici e privati.
Coordinamento delle riforme, geografie istituzionali e territoriali
Il processo di riforma appena avviato presenta qualche speranza di successo maggiore delle iniziative precedenti non tanto e non solo perché nasce sotto gli auspici del Governo, ma anche perché si inquadra nel programma di riordino istituzionale che prevede la costruzione delle città metropolitane, la riorganizzazione delle provincie e le unioni dei comuni. Dunque, sono in corso riforme; esse vanno correlate, non sono scindibili nè possono evitare di considerare il Paese reale.
L’area vasta rappresenta l’ambito dove sono fallite le politiche e le pratiche urbanistiche. L’area vasta, che deve emergere dal riordino istituzionale incrociato con la riforma urbanistica, deve disegnare perimetri capaci di una visione strategica producendo quadri di riferimento condivisi e superando un approccio piramidale delle decisioni assumendo le decisioni sociali ed ambientali come le risorse della pianificazione territoriale. Nel dibattito in corso è data molta rilevanza alla città metropolitana, che, correttamente, a seguito dell’attuazione della Legge Delrio, sta assumendo un ruolo strategico nella programmazione territoriale. Tale ruolo è anche motivato dal rilievo che la stessa sta assumendo nella programmazione dei Fondi comunitari 2014-2020. Accanto ad essa viene rilevato il ruolo delle province e le mutate funzioni da esse assunte, nonchè le competenze delle unioni di comuni. In questa logica, se da un lato viene riconosciuta la natura fortemente policentrica del territorio italiano, dall’altro sembra essere stata abbandonata qualsiasi riflessione sulle città cosiddette medie, capoluogo di provincia o poli di innovazione e di sviluppo, riconosciute tali in quanto centri di offerta di servizi e con un forte ruolo funzionale e strategico.
In conclusione:
- lo Stato produca pochi e incisivi codici legislativi e agende nazionali, distribuisca risorse per rendere efficaci politiche pubbliche di ammodernamento, con un linguaggio universale, a servizio di uguali diritti su tutto il territorio nazionale (infrastrutture, standard, ambiente, paesaggio, fiscalità),
- la Regione unisca programmazione di spesa e programmazione territoriale, garantendo, tramite politiche pubbliche (cioè dotate di risorse), l’integrazione degli interventi altrimenti settoriali (la
sicurezza dei suoli, la valorizzazione dei patrimoni culturali, le reti naturalistiche, la formazione giovanile e il sostegno al lavoro che possano appoggiarsi al capitale territoriale).
- le Città metropolitane e le Unioni dei Comuni si occupino di strategie territoriali perequate (equilibrio insediativo e risposta alla domanda abitativa, assetti produttivi urbani e rurali, trasporto pubblico e mobilità),
- le Municipalità producano progetti di città, riorganizzando i luoghi urbani e rendendo efficiente uno stock urbanistico ed edilizio vecchio, figlio delle rendite (che comprende sia le parti di città nate come sommatoria delle zone B che quelle mal organizzate dai piani attuativi che avevano per oggetto le zone C), che è la risorsa più preziosa su cui investire. Si dovrebbe qui riaprire anche il capitolo città storica, della quale nessuno parla, come se la resistenza naturale che offrono gli spazi storicamente consolidati fosse garanzia della loro corretta manutenzione (basta vedere cosa sono oggi i centri storici per convenire che non è vero).
Politiche integrate: ambiente e resilienza, prevenzione e sicurezza
Il ddl lascia inalterata l’attesa di una legge di governo del territorio che contenga i principi di partecipazione, di contenimento del consumo di suolo, di mitigazione e gestione dei rischi, che richiami con forza strategie adattive e di resilienza. Il contenuto ambientale della futura pianificazione urbanistica è il grande assente nella legge, sia nel titolo I sui principi, sia nel titolo II dove si accenna genericamente ad una generica necessità di “sostenibilitò economica, sociale e ambientale” degli interventi (impropriamente definiti di “rinnovo”). Riteniamo fondamentali questioni legate al nuovo metabolismo urbano, alle strategie adattive in epoca di cambiamenti climatici, centrali in una legge di principi (assieme ai temi dell’accessibilità e dell’inclusione sociale), perchè impegnano di fatto lo Stato a coordinare intenti e risorse adeguate a questi obiettivi nelle diverse sedi legislative e di programmazione (programmi comunitari, agenda urbana, politiche per la citt‡, risanamento ambientale ecc.).
Nei suoi principi e nei suoi obiettivi lo Stato deve pretendere dalla pianificazione urbanistica a tutte le scale uno spazio adeguato per connotare le strategie e le tattiche di rigenerazione urbana fondate sui “beni comuni”, valorizzando la dimensione urbanistica (e non solo edilizia) della questione ambientale e uscendo dalla settorialità in cui è spesso relegata nelle azioni di governo. La carenza delle componenti ambientali appare non solo poco rispondente alle finalità di un rinnovato processo di pianificazione e di una risanata e continuativa azione di governo pubblico delle trasformazioni territoriali, ma anche distante dalle aspettative delle cittadinanze.
Manca anche la fondamentale attenzione ai temi della contabilità ambientale delle risorse, delle tutele e delle infrastrutture verdi. Nelle infrastrutture si considerano solamente quelle di comunicazione, non quelle energetiche ed ambientali. Inoltre, si nota che l’oggetto del governo del territorio si focalizza sul suolo, ignorando la tridimensionalit‡ dell’urbanistica e sottovalutando i beni culturali ed ambientali (aria/atmosfera, acqua, sottosuolo) già oggetto di molte leggi regionali e delle pratiche di progettazione urbanistica (sottoservizi: fognature, impianti a rete per energia, telecomunicazioni). Il ddl non valorizza gli strumenti del governo del territorio per la prevenzione dei rischi, esigenza ormai imprescindibile: i livelli di danni frequentemente verificatisi negli ultimi tempi nel territorio Italiano sono infatti determinati dalle negative interazioni tra pericoli naturali ed antropici, caratteristiche spaziali ed organizzative dei sistemi urbani e territoriali, caratteristiche dei manufatti componenti i sistemi. Il rischio è sensibile ai modi in cui il governo del territorio stabilisce obiettivi di sviluppo, uso del suolo, soddisfazione delle esigenze abitative, rinnovo e riqualificazione del patrimonio urbano ed edilizio. Occorrerebbe declinare, pur succintamente ma pi˘ chiaramente, la sostenibilità, esplicitando che essa include la prevenzione dei rischi e cioè che conformazione, controllo e gestione del territorio, attraverso la mitigazione degli effetti delle calamità e la riduzione preventiva dei rischi (= entità dei danni), tendono alla tutela di popolazione, ambiente, dotazioni territoriali, patrimonio infrastrutturale e in genere qualità urbana dai pericoli naturali ed antropici, nel rispetto dei valori paesaggistici e dei beni culturali.
Politiche di rete
Si deve constatare la mancata considerazione dell’ammodernamento del Paese tramite politiche di rete e infrastrutturazione. Riguardo ai compiti e alle funzioni dello Stato (art. 3), si nota che esse si riferiscono a politiche generali in materia di tutela ambientale, del paesaggio, dello sviluppo economico, sociale, di rinnovo urbano, ma non contemplano quelle in materia di infrastrutture e trasporti. Si ritiene, invece, che esse siano strategiche nell’assicurare accessibilit‡, coesione e inclusione sociale. Inoltre, nell’indicare forme di coordinamento con le Regioni per l’attuazione delle politiche nazionali, non sono previste adeguate forme di consultazione dei territori, necessarie per prevenire e affrontare al meglio alcuni gravi fenomeni tuttora in atto in vari contesti (Nimby, No corridoio, ecc.).
Processo di pianificazione, strumenti, forma del piano
Si può pertanto affermare che il nuovo sistema di pianificazione dovrà perseguire in generale gli obiettivi di evitare la formazione di piani a cascata e duplicazioni di contenuti, semplificare il processo di formazione degli strumenti e costruire riferimenti certi. Anche la cogenza é questione da ripensare. Il piano deve produrre esito. Il rinvio di efficacia dalla pianificazione strutturale all’urbanistica operativa ha permesso la continua riproposizione del piano regolatore tradizionale. L’attesa dello strumento che conforma il diritto d’uso del suolo ha indebolito il livello adeguato per la realizzazione delle reti e il governo dei flussi utili ai cicli dell’efficienza ambientale delle città e agli equilibri insediativi. Un livello che non è confinabile nei limiti amministrativi comunali.
Sulle parti del ddl relative alla disciplina della pianificazione urbanistica comunale, in primo luogo Ë da esprimere apprezzamento per la previsione di un’articolazione della pianificazione urbanistica comunale in un piano strutturale e in un piano operativo, ma non si concorda con la sua applicazione al livello comunale. Si ritiene inoltre preferibile non solo evidenziare, quanto alla parte c.d. ricognitiva, l’importanza da riconoscere ai quadri conoscitivi, ma chiarire anche che con la pianificazione strutturale, oltre al recepimento di tutti i vincoli ricognitivi di valore morfologici ed altri valori intrinsechi e di particolari situazioni ontologiche previsti da leggi e da piani di settore, deve intervenire l’individuazione (in sede di conformazione del territorio) di altri valori comunque meritevoli di tutela, la cui considerazione comporta spesso l’esclusione della possibilità di promuovere conformazioni edificatorie nelle successive fasi del processo di pianificazione. Si deve ritenere necessario attribuire al piano in considerazione il compito di conformare il territorio, creando condizioni e limiti per l’esercizio della funzione di conformazione edificatoria attribuita alla pianificazione operativa.
In conclusione, riteniamo fondamentali:
- un piano di area vasta che tratti di paesaggio, ambiente e infrastrutture immediatamente operativo, in grado cioè di generare progetti e costituire la piattaforma del coordinamento delle politiche pubbliche;
- un piano veramente strutturale , cioè essenziale e non conformativo, che superi qualsiasi forma di azzonamento e che rappresenti il telaio territoriale delle politiche utili per quel territorio (pianificazione strategica), che non sia pi˘ solo comunale, ma alla scala dell’Unione dei Comuni e della Città Metropolitana, che non prefiguri un improbabile “disegno al futuro”, che sia a “consumo di suolo zero” e adotti quindi un’esplicita strategia di rigenerazione urbana;
- un piano operativo finalizzato al miglioramento della qualità urbana, efficace per la rigenerazione urbana, complessa per la varietà degli aspetti in gioco, fisici, finanziari, sociali, riferiti agli assetti proprietari, agli stati di degrado e inquinamento, sostenuta da risorse reali disponibili e spendibili, meccanismi che non alimentino le attese della rendita, investimenti corretti nel partenariato pubblico privato, una programmazione flessibile ma a tempo determinato, ben diversa dal disegno previsionale e regolativo; - una regolamentazione urbanistico edilizia applicata ai tessuti e alle forme urbane diffuse, eterogenee, consolidate, bisognose di evoluzione compatibile con l’erogazione di servizi e a favore dell’accessibilità e dell’inclusione sociale.
Si registra scarsa attenzione alla relazione tra momento programmatorio e momento operativo: per non ridurre la fase operativa ad una mosaicatura anche casuale di proposte private, è indispensabile passare attraverso modalità concorsuali, di cui affermare il principio, lasciando alle normative regionali tutte le possibili declinazioni. Appare da sostenere la necessità di stabilire che, per quanto riguarda il passaggio dal piano strutturale al piano operativo e i rapporti con i privati all’uopo occorrenti ed in particolare le negoziazioni, debbono essere rispettate regole
- atte ad evitare trattamenti differenziati, eccessi di discrezionalità, esiti da pianificazione “a la carte”,
- tali da garantire, solo in presenza dei necessari presupposti (possibili individuazioni in via alternativa di alcune scelte), l’applicazione del principio di concorsualità,
- ed infine (ma certo non alla fine) tali da consentire di perseguire gli obiettivi strategici prescelti nella fase strutturale del processo di pianificazione.
Gli accordi definiti nell’art. 14 del ddl sembrano concepiti come accordi derogatori o in variante agli strumenti urbanistici. Devono essere disincentivate scelte legislative regionali a causa delle quali si potrebbe avere il ricorso a negoziazioni ed accordi non preordinati al perseguimento degli obiettivi di piano. E’ necessario evitare rapporti urbanistici pubblico-privato e negoziazioni senza la rete costituita da una costante applicazione del metodo della pianificazione, senza la garanzia della suddetta finalizzazione al perseguimento di obiettivi strategici. Infine, nell’Art. 7 e in altre parti del testo si fa più volte riferimento ai “piani urbanistici attuativi”; tali piani sono un retaggio del vecchio ordinamento (attuativi del PRG!) e dovrebbero essere sostituiti da pi˘ semplici e utili “permessi di costruire convenzionati”, magari accompagnati da masterplan per evidenziare il risultato.
La “rigenerazione urbana” non é il “rinnovo urbano” che informa il titolo II (termine non coincidente peraltro con la “trasformazione urbana” contenuta nel titolo generale del ddl). La rigenerazione diffusa é un complesso di azioni non limitabili alla componente edilizia. Il “rinnovo”, come definito nel ddl, rinvia alla semplice operazione edilizia/urbanistica di demolizione e ricostruzione di fabbricati e infrastrutture. La procedura é descritta come intervento in cui lo Stato ha mero ruolo di regolazione delle forze di mercato, mentre é esclusa la funzione di partner come investitore o realizzatore di programmi a finalità sociale o di aiuto alle imprese. In altri termini, non si configura come politica urbana.
Quanto al recupero di contenitori dismessi (più propriamente individuabili come suoli urbanizzati ed edificati giunti a conclusione del loro ciclo di utilizzo), l’attribuzione di premialità volumetriche per favorirne il recupero si è dimostrata poco efficace. Nei fatti il valore delle aree in termini teorici è
stato continuamente incrementato senza che a ciò corrispondesse un reale interesse al recupero. I valori immobiliari aumentano, ma le aree rimangono abbandonate. Una più attenta valutazione del ruolo di tali comparti, spesso centrali nel sistema urbano, porterebbe a considerare diverse ipotesi di recupero. Spesso si tratta di ambiti dismessi che potrebbero essere recuperati, con minori costi di bonifica e di trasformazione, come spazi non edificati a completamento di dotazioni urbanistiche e di costruzione della rete verde. Si tratta di un riutilizzo reale e non virtuale che parte dal presupposto che si tratta di aree che hanno gi‡ compensato finchè erano utilizzate i costi di urbanizzazione e oggi possono essere recuperate in una logica che non sia solo di contenimento del consumo di suolo, ma di restituzione del suolo al sistema urbano.
Infine, sul problema del consumo di suolo: esso non è tema esclusivamente quantitativo. Non basta ridurre il consumo di suolo e nemmeno ridurre il consumo di suolo di qualità: occorre anche riconfigurare pattern insediativi che siano sostenibili. L’impostazione della proposta di legge per contrastare il consumo di suolo appare in tal senso sbilanciata sui soli aspetti quantitativi, sia in termini assoluti che in termini di una raffinata articolazione in classi qualitative di suoli che però distoglie dalla questione centrale del progetto urbanistico, ovvero dalla necessità di ridurre il suolo impermeabilizzato (Sealed soil = lost soil, Commissione Europea). In conclusione, l’INU rilancia una definizione di rigenerazione urbana generalizzata, che comprende la produzione di ricchezza pubblica e privata, le strategie dell’adattamento climatico, le politiche di inclusione sociale, le azioni di messa in sicurezza dei territori e l’innovazione della produttività d’impresa, gli interventi dell’infrastrutturazione fisica e quelle della rete immateriale a sostegno dello sviluppo, del lavoro e della creatività urbana.
Edilizia residenziale sociale e rinnovo urbano
Sull’Edilizia residenziale sociale il testo si limita a riportare una disciplina in larga parte già praticata. In prospettiva, l’ERS dovrà diventare il nodo essenziale delle politiche pubbliche urbane e il motore del rinnovamento territoriale, per acquisire un migliore mix funzionale e sociale e dar vita ad una compagine urbana più articolata e coesa, per rispondere concretamente alle istanze di ritorno alla citt‡ e di abitare sostenibile, per offrire efficaci soluzioni di ridistribuzione della rendita e, non ultimo, per assicurare operatività al mercato edilizio. L’edilizia residenziale sociale (pubblica e privata) deve essere resa obbligatoria e dovrebbe essere assicurato il mantenimento di uno stock minimo di propriet‡ di aree ed immobili pubblici, su cui concentrare le risorse delle amministrazioni, a cui affiancare un sistema più ampio di dotazioni e servizi abitativi promossi e gestiti anche con la partecipazione dei privati. Date le condizioni del nostro Paese, l’impegno dello Stato e delle Regioni in favore dell’ERS deve promuoverne la centralità nelle operazioni di rigenerazione, supportando prioritariamente l’affitto (a prezzi accessibili), con prescrizioni e contributi straordinari: al contrario, l’art. 8 comma 5 afferma che la programmazione territoriale contiene previsioni particolari che garantiscono l’accesso alla proprietà dell’abitazione, eco di slogan ormai lontani e superati del primo boom edilizio.
Città pubblica
Il tema centrale della costruzione degli elementi della citt‡ pubblica deve trovare nella legge un quadro di riferimento unitario per le Regioni sia nella loro definizione che nella loro composizione. Sul superamento del DM 1444/68 si nota che, dati i riconosciuti squilibri regionali nella dotazione delle infrastrutture, appare debole trattare l’argomento in termini puramente procedurali ed assegnarlo a negoziazioni regionali, senza assumere il principio generale dell’equità regionale e degli uguali diritti alla citt‡ dei cittadini della repubblica ovunque essi abitino. Il concetto di dotazioni minime può facilmente ridursi a registrare le attuali deficienze abbassando il livello delle dotazioni territoriali.
E’ necessario osservare come la modifica costituzionale (nel testo approvato dal Senato in prima lettura) dell’articolo 117 Costituzione preveda che ´Spetta alle Regioni la potestà legislativa in materia di … dotazione infrastrutturaleª. La modifica costituzionale, se mantenuta e/o non esplicitata, potrebbe non solo porre un ostacolo insormontabile alla determinazione univoca sull’intero territorio nazionale dei livelli essenziali delle dotazioni infrastrutturali, ma, soprattutto, rendere non praticabile l’avvio di qualsivoglia programma di perequazione infrastrutturale dei divari territoriali.
Dotazioni e prestazioni ambientali
Se la questione ambientale Ë centrale nell’urbanistica dei prossimi vent’anni, non ci interessa rimanere su un piano di regolazione quantitativa aggiornata delle “dotazioni” ma affermare anche e soprattutto le loro prestazioni urbanistiche ed ecologiche. In questo senso, le prestazioni ambientali non sono un optional da incentivare con le premialit‡ e bisognerebbe distinguere tra:
- un plafond di prestazioni ambientali di valore urbanistico-edilizio da garantire sempre negli interventi diffusi e concentrati (oggetto di regolamentazione urbanistico-edilizia) che la legge dovrebbe, nei suoi enunciati, favorire attraverso un’armonizzazione di norme e politiche nazionali e regionali che già garantiscono adeguate incentivazioni e obblighi, ma sono parcellizzate e frammentarie e dunque non finalizzate ad obiettivi complessi;
- alcune prestazioni ambientali aggiuntive – da sollecitare attraverso una pluralit‡ di strumenti, quali premialit‡, contributi straordinari e politiche fiscali – finalizzate ad ottenere incrementi quali-quantitativi rispetto al plafond da garantire comunque, compensazioni ecologiche anche a distanza e azioni di bonifica in grado di contribuire alla costruzione delle infrastrutture blu e verdi.
Occorre richiamare la “perequazione infrastrutturale”, (Legge n. 42/2009), che, con particolare riguardo alla realtà socio-economica, al deficit infrastrutturale, ai diritti della persona, alla collocazione geografica degli enti, alla loro prossimit‡ al confine con altri Stati o con regioni a statuto speciale, ai territori montani e alle isole minori, all'esigenza di tutela del patrimonio storico e artistico ai fini della promozione dello sviluppo economico e sociale, prevede il recupero del deficit infrastrutturale di specifiche realtà territoriali. Nel riportare le dotazioni territoriali essenziali la norma dovrebbe, pertanto, contenere anche un riferimento a tale importante aspetto.
Perequazione e compensazione
La perequazione e compensazione sono principi necessari sia a livello territoriale (di area vasta) sia a livello urbanistico (nel rapporto pubblico- privato e tra privati). Utile nella pianificazione dell’espansione, la perequazione andrà adeguata ai nuovi obiettivi di rigenerazione urbana e di trasformazione insediativa consumo di suolo a saldo zero. Restano gli obiettivi equitativi, anche per ridurre gli effetti di una distribuzione del reddito sempre meno coerente agli obiettivi di coesione sociale. Vanno calcolati tutti i costi, anche di bonifica e di demolizione, e deve servire a incentivare il trasferimento delle cubature incongrue o eccedenti. L’INU non crede alla borsa dei diritti edificatori.
Si rileva anche che il ddl non riconosce i due differenti dispositivi della perequazione territoriale e della perequazione urbanistica. La prima rappresenta uno strumento tecnico finalizzato alla redistribuzione equitativa tra diverse proprietà immobiliari della valorizzazione generala dalle trasformazioni urbane, prima previste e poi attuate secondo il plano comunale. Il campo di applicazione della perequazione urbanistica è circoscritto alla dimensione del piano comunale e, più nel dettaglio, alle aree suscettibili di trasformazione. La perequazione territoriale rappresenta invece una particolare forma compensativa e/o finanziaria, in cui protagoniste non sono le proprietà immobiliari ma le collettività, principalmente rappresentate dai Comuni, e il fine da perseguire Ë un'equilibrata distribuzione dei vantaggi e dei sacrifici connessi agli interventi urbanizzativi, infrastrutturali ed insediativi che travalicano i confini comunali.
Trasferibilità di quantità (e non diritti) edificatorie.
Manca una definizione dei diritti edificatori ed una spiegazione di come sono generati, da cosa provengono, a quali poteri vanno attribuiti. Ribadiamo che le quantità edificatorie sono sempre associate ai terreni che le hanno generate o ricevute (non esistono quantità edificatorie “in volo”), tale trasferimento avviene sempre con uno strumento di pianificazione (ed è soggetto a trascrizione).
A proposito dei diritti edificatori generati da perequazione, compensazione ed incentivazioni, si precisa anche che essi devono afferire a proprietà immobiliari catastalmente individuate. E’ necessario che sia sancita la decadenza dei diritti privati, se non esercitati. L’art.7 co. 8 ne tratta in modo ambiguo, perchè fa riferimento alla mancata approvazione del piano da parte del Comune o Città Metropolitana entro un lasso di tempo individuato.
La posizione dell’INU è da sempre e ancora oggi per la decadenza de diritti privati acquisiti pro-tempore in virtù dell’approvazione degli strumenti, in assenza di una loro attuazione in un arco di tempo delimitato. E’ necessario ribadire la decadenza quinquennale delle potenzialità edificatorie private, analogamente ai vincoli preordinati all’esproprio. Riteniamo anche necessario che sia da fermare in via esplicita la cd pratica del trascinamento, ossia la traduzione delle edificabilità previste nei piani previgenti in titoli edificatori negoziabili.
Nell’Art. 12, a proposito dei “Diritti edificatori” non viene specificata la differenza, necessaria, al fine di risolvere il problema del “residuo di piano”, tra “diritti”, effetto di un previsione conformativa a livello operativo o di una convenzione stipulata e valida tra Comune e proprietari e “previsioni” o “possibilità edificatorie” (della componente strutturale), sempre modificabili/cancellabili con adeguate motivazioni. Le quantità edificatorie conferite a titolo di perequazione o premialità sono legate al piano che le ha generate, non sono soggette a indennizzo.
Fiscalità immobiliare
La volontà di integrare la materia urbanistica e quella fiscale merita un grande apprezzamento. I nuovi atti di governo del territorio dovranno essere strettamente integrati nelle politiche di bilancio degli enti locali e ne dovranno costituire effettivamente il motore e l’elemento di verifica. La fiscalità immobiliare è centrale per la possibilità di dare attuazione alle politiche urbane di rigenerazione diffusa, tramite interventi che possono beneficiare di sgravi fiscali, e differenziando ad esempio la fiscalit‡ afferente alle operazioni di rigenerazione rispetto a quelle che consumano nuovo territorio. Oggi, in una fase di stallo del mercato, occorre mettere al sicuro gli insediamenti italiani e far in modo di concentrare tutta la trasformazione sull’efficienza dell’uso dei suoli già urbanizzati, evitando che future nuove ondate di instabilità finanziaria tornino a generare altri sconquassi ed a falsificare i bisogni reali per favorire vantaggi patrimoniali. In tal senso è necessario ricostruire forme di finanza locale connesse alla realizzazione di capitalizzazioni indispensabili alla costruzione dell’armatura urbana, ma che debbono essere vincolate al territorio e non connesse alle incertezze della finanza globalizzata.
Semplificazione
La semplificazione dovrà essere perseguita non solo attraverso uno snellimento delle procedure ma anche e soprattutto con l’avvio di un processo di delegificazione, che dovrà in futuro concludersi con un testo unico sul territorio (Codice). Quanto alle pratiche di copianificazione e alla governance, è indiscutibile constatare che non si otterranno successi, né in termini di semplificazione né quanto a certezza di tempi e del diritto, finché non saranno chiare, obbligatorie e tracciabili le assunzioni di responsabilità e le competenze.
Linguaggio e Glossario
Si nota la compresenza di linguaggi diversi, mutuati dalla tecnica urbanistica, da apparati legislativi regionali, da corpi di riflessione e di trattazione di natura giuridica. Data l’estrema fluidità del dibattito scientifico su questi temi e la non univocità delle interpretazioni, si ritiene fondamentale chiarire le definizioni dei termini principali della normativa per il governo del territorio in maniera univoca.
Le nostre osservazioni affrontano prima alcune questioni preliminari, sugli obiettivi e la coerenza
del provvedimento rispetto alle politiche che riguardano il territorio italiano, e poi entrano nel
merito della proposta di articolato. Per Legambiente un intervento normativo in materia di governo
del territorio appare quanto mai urgente e deve avere come obiettivo di aprire i cantieri della
riqualificazione urbanistica, energetica e antisismica del patrimonio edilizio italiano, per dare
risposta anche alla drammatica crisi del settore delle costruzioni.
Prima di affrontare il testo, la proposta del Ministero delle Infrastrutture sollecita un chiarimnto
rispetto ad alcune questioni rilevanti in materia di governo del territorio.
Quale rapporto ha questo testo con il Disegno di Legge approvato a Dicembre in Consiglio dei
Ministri, in materia di “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”
all’esame della Camera dei Deputati?
La proposta ha la forma del Disegno di legge, e dovrà dunque iniziare un iter parlamentare, confrontarsi con altri disegni di Legge già presentati in Parlamento sulle stesse tematiche, oltre che
con la discussione in corso in Commissione ambiente e agricoltura della Camera dei Deputati intorno ai diversi testi presentati in materia di consumo di suolo, a partire dal Disegno di Legge approvato dal Consiglio dei Ministri a Dicembre. Un coordinamento tra i provvedimenti appare imprescindibile, per dare un chiaro segnale di cambiamento nelle politiche urbanistiche e per rendere efficaci le stesse politiche di limitazione del consumo di suolo, in modo da spostare vantaggi e obiettivi verso la rigenerazione urbana e chiudere cosÏ per sempre il ciclo dell'espansione edilizia.
Chiarire gli obiettivi che il Ministro e il Governo nel suo complesso si pongono rispetto al Disegno di legge appare dunque indispensabile.
Quale ruolo vuole svolgere il Ministero delle infrastrutture nelle politiche urbane e del territorio?
Presentando questo disegno di Legge il Ministero svolge un ruolo che non gli é proprio, legiferare,
mentre continua a non esercitare le competenze assegnate dalla Legge. Una scelta quantomeno
discutibile, anche perché con il Disegno di Legge si individuano compiti per il Ministero di
pianificazione strategica, attraverso la redazione della Direttiva Quadro Territoriale (DQT) e di
programmazione speciale, quando sono da tempo stati svuotati di ogni ruolo i Dipartimenti che
avrebbero dovuto assolvere a questi ruoli. Non solo, tra i compiti che il Ministero dovrebbe svolgere (ai sensi del Decreto legislativo 112/1998) vi sarebbero quelli di “identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale con riferimento ai valori naturali e ambientali, alla difesa del suolo e alla articolazione territoriale delle reti infrastrutturali e delle opere di competenza statale, nonché al sistema delle città e delle aree metropolitane, anche ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno e delle aree depresse del paese” (Articolo 52).
Esiste davvero la volontà da parte del Ministero di aprire una nuova fase nel governo del territorio?
Quale idea delle città e delle risorse territoriali nelle politiche di sviluppo?
Questo disegno di legge si pone un obiettivo importante: riformare, finalmente, un quadro normativo che da troppo tempo aspetta una visione e degli strumenti per aprire una nuova stagione di riqualificazione e valorizzazione delle risorse urbane e territoriali, che chiuda quella dello sviluppo urbano che era al centro della legge 1150/1942, e che solo in parte e' stata modificata dai successivi interventi normativi. Il problema é che in questo testo non e' presente alcuna visione del territorio italiano. All'articolo 1 sono elencati obiettivi generici - "il territorio, in tutte le sue componenti.... costituisce bene comune", ma poi in alcun modo é chiaro in quale direzione si voglia spingere le politiche del territorio. Inoltre risulta sorprendente che una proposta che dopo 70 anni dovrebbe ridefinire le regole di governo del territorio, in un Paese che sta vivendo una drammatica crisi del settore edilizio e al contempo una perdurante difficoltà di accesso alle abitazioni, non sia accompagnata da alcuna analisi della situazione, delle criticità del Paese, e che dunque motivi obiettivi e proposte.
E' disponibile il Ministero delle infrastrutture ad uscire da un approccio ideologico e ad affrontare sul serio e con nuovi strumenti i problemi di degrado delle città italiane?
Rispetto al merito delle scelte concentriamo le nostre osservazioni intorno ad alcune questioni che
ci sembrano prioritarie nel confronto pubblico. In questo é veramente utile e apprezzabile il metodo
adottato che, ci auguriamo, porterà a una rivisitazione del testo per poi aprire un confronto con Parlamento, altri Ministeri, Regioni e Enti Locali.
1 Certezza delle regole e strumenti di pianificazione
Il disegno di Legge cerca di porre ordine nel quadro di competenze (articoli 2-7) dopo due decenni
di interventi legislativi da parte delle Regioni. E' pienamente condivisibile che si fissino riferimenti
e principi uniformi all'interno dei quali la legislazione regionale si dovrà muovere, recuperando le
differenze e le contraddizioni che oggi contraddistinguono le diverse realtà. Il disegno di Legge non fissa però una prospettiva chiara con obiettivi che dovranno guidare queste scelte e che invece sono indispensabili come riferimento per i sistemi di valutazione. Una Legge su argomenti di questa
importanza non può risultare neutrale rispetto alle prospettive di sviluppo, ma dire con chiarezza
quale idea del territorio si vuole promuovere, lasciando alla pianificazione la sua declinazione nelle
scelte legate ai diversi territori. Il Ministero condivide l'idea che si debba fermare il consumo di suoli agricoli e naturali? Che la lotta ai cambiamenti climatici, e quindi la riduzione di gas serra e le politiche di adattamento debbano entrare oggi con forza nella pianificazione? Che il recupero urbanistico, ambientale e sociale delle aree degradate e dismesse debba rappresentare la priorità
degli interventi? E allora questi obiettivi, e altri che si ritengono prioritari, devono essere
chiaramente scritti nel Disegno di Legge in modo che la DQT li declini attraverso scelte e criteri e
che si affidi alla valutazione ambientale strategica dei piani il compito di verificarne la presenza e
coerenza qualitativa e quantitativa.
Legambiente condivide la scelta (articolo 7) di inserire nella legge la divisione del piano comunale
in una parte programmatoria e in una di carattere operativo e, soprattutto, di stabilire che
quest'ultimo non abbia efficacia conformativa della proprietà e degli altri diritti reali. Appare però
contraddittorio prevedere (articolo 7, comma 8) che “la mancata approvazione del piano operativo
nel termine massimo indicato comporta la decadenza delle previsioni del piano a contenuto
programmatorio”. Proprio perché quelle previsioni non incidono sulla proprietà questa indicazione
Ë priva di senso e in ogni caso finché non Ë approvato il piano operativo le previsioni possono
essere riviste dal Comune e anche stralciate, ma senza automatismi.
2 Una politica per la rigenerazione urbana
Le scelte del provvedimento sul tema del rinnovo urbano appaiono, purtroppo, inadeguate ad
affrontare problemi di questa complessità. Quanto previsto si limita a individuare per i Comuni la
possibilità di attivare operazioni di rinnovo urbano, con obiettivi generici e senza chiarire come
dovrebbero funzionare le procedure (se non con un accenno alla conferenza di servizi). Anche qui al centro dell’attenzione sembra essere la tutela dei privati interessati dai piani di rinnovo e il loro
diritto di partecipare alla formazione. Mentre per tutti gli altri cittadini, non proprietari o proprietari
di immobili fuori dall'area, per essere informati bisognerà aspettare che le Regioni disciplinino il
dibattito pubblico (ma solo nei casi di abbattimento e ricostruzione di porzioni di città, altrimenti
nessun diritto).
L’assenza di una analisi delle barriere che oggi esistono per interventi di rigenerazione urbana nel
nostro Paese o di retrofit energetico di edifici condominiali avrebbe aiutato a capire quale direzione
prendere. Il gruppo dei consulenti chiamato dal Ministro a elaborare il testo avrebbe potuto portare
nella discussione le esperienze recenti delle città europee, per capire come temi di questa complessità vengano affrontati in ben altro modo. Avrebbe aiutato un analisi della situazione delle periferie italiane per capire a Bari, Napoli, Roma, Genova la semplice deregulation non porta ne al rilancio dell'edilizia ne a mobilitare risorse private. Davvero si può rinunciare a qualsiasi ruolo di coordinamento, indirizzo, sperimentazione, finanziamento da parte Statale? Oppure, interventi
complessi di rigenerazione urbana con obiettivi di integrazione sociale, di demolizione e ricostruzione e densificazione, con obiettivi energetici e ambientali ambiziosi, l’utilizzo di concorsi
di sperimentazione, di sperimentazione nel social housing, di ridefinizione della mobilità
incentrandola sul trasporto pubblico, ciclabile e pedonale, possono essere realizzati nel nostro Paese
senza una regia del Comune che preveda strumenti nuovi di pianificazione, confronto pubblico e
intervento? La risposta appare scontata per chi conosce le esperienze di riqualificazione realizzate a
Marsiglia come ad Amburgo, a Copenaghen come a Barcellona.
Legambiente ritiene che proprio nella rigenerazione urbana sia la sfida oggi più importante per uscire dalla crisi del settore edilizio e per dare risposta ai problemi delle città italiane. Ma occorrono
strumenti e obiettivi nuovi per mettere in moto interventi di questa portata e, soprattutto, evitare che
riguardi solo alcune città e le aree più appetibili lasciando nel degrado tutto ciò che non e' attraente
per gli operatori privati. Inoltre, oggi il riuso non può essere neutrale rispetto agli obiettivi che ci si
vuole proporre. Abbiamo bisogno di interventi che non si limitino a demolire e ricostruire,
realizzare qualche attività e servizi, ma di riqualificazioni che portino qualità architettonica e urbana, integrazione sociale, con obiettivi e prestazioni ambientali elevate in modo da realizzare edifici con consumi energetici prossimi allo zero. Questi obiettivi nel Disegno di Legge non ci sono e neanche vi sono proposte per ridefinire il ruolo dello Stato e quello dei Comuni in queste politiche. Legambiente propone di prendere spunto proprio dalle migliori esperienze europee per apportare delle modifiche al sistema normativo italiano.
Legambiente ritiene che un intervento normativo debba affrontare alcuni dei punti nevralgici delle
procedure vigenti individuando chiari obiettivi di innovazione. In primo luogo intervenire sul tema
della semplificazione, fornendo alle amministrazioni pubbliche gli strumenti per avviare processi
significativi di rigenerazione attraverso una chiara regia pubblica degli interventi, da affidare ai
Comuni, e un coinvolgimento trasparente dei diversi soggetti pubblici e privati nella definizione di
obiettivi, proposte e risorse1. In secondo luogo la rigenerazione urbana, perché non risulti uno slogan generico, presuppone di definire con chiarezza gli obiettivi di qualità urbana e sociale degli interventi (con una quota minima obbligatoria di edilizia residenziale sociale) e le prestazioni ambientali e energetiche che si vogliono raggiungere. La rigenerazione urbana deve infatti riguardare gli ambiti degradati della città e proporre ipotesi di riqualificazione da presentare e discutere con i cittadini, a partire dalla definizione degli obiettivi e dalle prestazioni che si vogliono raggiungere.
Un tema assente dal Disegno di legge ma fondamentale per far crescere la qualità della progettazione, riguarda i concorsi di progettazione, che occorre rendere obbligatori per la selezione e realizzazione di tutti i progetti pubblici o di interesse pubblico, e da promuovere anche per gli interventi privati. Una scelta lungimirante per elevare la qualità della progettazione in questo tipo di interventi sarebbe l’istituzione di un fondo rotativo per l’attivazione della progettualità degli Enti locali e territoriali, utilizzabile per la redazione di progetti preliminari e Concorsi di Architettura. Una questione su cui il provvedimento appare poco coraggioso é nell’innovazione nelle forme di intervento all’interno degli ambiti di rigenerazione. Per spingere l’innovazione nel settore edilizio occorre ampliare le procedure di evidenza pubblica aperte a tutti, in modo da valorizzare gli operatori più capaci e non solo i proprietari delle aree (come avverrebbe secondo l’articolo 17 nelle aree non pubbliche).
Fondamentale per la fattibilità di interventi di questa complessità Ë la regia complessiva e la
collaborazione tra i diversi Enti. Come l’esperienza francese nelle politiche urbane insegna occorre
che vi sia un ruolo dello Stato di coordinamento, indirizzo e co-finanziamento. Si dovrebbe per questo prevedere la creazione di un agenzia (sul modello francese) che abbia il compito di
accompagnare questi processi fornendo supporto ai Comuni e di coordinamento rispetto ai fondi
nazionali e europei in materia di rigenerazione urbana, smart city, efficienza energetica, edilizia
sociale, e di indirizzarli in forma integrata, ma anche di promuovere sperimentazioni e ricerche di
interesse nazionale sulla rigenerazione urbana e la bonifica di aree degradate e inquinate. L’agenzia
dovrebbe fornire il supporto ai Comuni nel portare avanti i progetti, mentre a questi va data la possibilità attraverso strumenti ordinari di trasformazione delle aree degradate dentro la città, ossia
le situazioni di edifici e aree in parte dismesse e in parte con complessi edilizi da ripensare,
demolire e ricostruire, densificare, per creare dei quartieri finalmente degni di questi nome con
spazi pubblici ospitali, ricchi di attività e identità e per questo sicuri. Questo tipo di interventi é oggi
difficilissimo da realizzare in Italia per la complessità delle procedure, la proprietà' frammentata, e i
costi degli interventi, e sono qui le ragioni del gap che nel nostro Paese scontano questo tipo di
interventi rispetto ad altre città europee.
3 innovare le forme di intervento nel territorio
Alla base della crisi dell'urbanistica italiana e' anche l'inadeguatezza degli strumenti di intervento, la
complessità normativa e l'inefficacia delle procedure. Il disegno di Legge prova a superare questi
problemi introducendo anche nella normativa nazionale strumenti diffusi nelle legislazioni regionali
- come la perequazione e la compensazione - e abolendo gli standard obbligatori (di verde, parcheggi, servizi pubblici, ecc.) che sono sostituiti da “dotazioni prestazionali essenziali”. Quest'ultima scelta, che pure é da tempo al centro del dibattito, per come e' formulata appare troppo generica e ancora inadeguata come formulazione. Occorre una più chiara definizione degli obiettivi quantitativi e qualitativi che si intende raggiungere. Se infatti è vero che occorre oggi ripensare completamente lo strumento degli standard, e fornire flessibilità ai Comuni per la loro applicazione all'interno degli strumenti di piano, in parallelo si devono fornire chiari riferimenti e strumenti di verifica.
Una questione che il Disegno di Legge affronta é quella della fiscalità che, indubbiamente,
rappresenta uno strumento fondamentale per guidare le trasformazioni. Rispetto a quanto previsto
dal testo riteniamo sia necessario individuare con più chiarezza le tipologie di interventi per cui ha
senso creare vantaggi e in particolare per quelli di rigenerazione2, oggi più costosi e invece urgenti.
Inoltre, prevedere come fa il testo, la commisurazione degli oneri di urbanizzazione in rapporto alla
densità edilizia se in teoria Ë condivisibile non sempre ha senso da un punto di vista urbanistico.
Anche in questo caso appare più ragionevole prevedere flessibilità nell’applicazione degli oneri ai
Comuni in funzione delle densità e delle previsioni di piano, in modo da perseguire sul serio
obiettivi di riduzione del consumo di suolo e densificazione intorno ai nodi del trasporto pubblico.
Legambiente chiede al Ministero di guardare all'esperienza di altri Paesi in questo campo e inserire
nel disegno di legge un contributo per il consumo di suolo e spostare le risorse sulla rigenerazione
urbana. Per cambiare le pratiche di intervento nel territorio occorre infatti scoraggiare, anche
economicamente, l'utilizzo di aree libere agricole e naturali, favorendo il recupero e la rigenerazione
urbana. Proposte pienamente condivise da Legambiente si trovano in Disegni di Legge presentati in
Parlamento (AC/703 e AC/10504). Il riferimento per queste proposte é la normativa tedesca che
rappresenta in questo campo un esempio efficace e che é nata proprio come disincentivo
all'occupazione di nuove aree. Nelle proposte presentate si utilizza come riferimento il valore degli
oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, mentre sono esclusi dal contributo gli interventi
realizzati in aree edificate o da riqualificare interne alla città. E' inoltre condivisibile sia che il
contributo venga destinato a un fondo per la bonifica dei suoli, per la riqualificazione del
patrimonio edilizio esistente, di acquisizione di aree verdi, sia la proposta di prevedere che lo
stesso, come stabilisce la normativa tedesca, possa essere parzialmente sostituito, previo accordo
con i Comuni e in coerenza con gli obiettivi di Piano, da una congrua cessione compensativa di aree
vincolate a uso pubblico per la realizzazione di nuovi sistemi naturali e in aggiunta agli standard di
Legge.
Infine, il Disegno di Legge deve contenere un articolo che affronti con chiarezza un tema oggi
ineludibile per la fattibilità di operazioni di trasformazione urbana e che riguarda l’informazione e
partecipazione dei cittadini. Un intervento normativo dovrebbe chiarire questi due concetti e i diritti
nelle procedure. Da un lato quello all’informazione di tutti i cittadini sugli atti, che deve essere
garantita attraverso la pubblicazione obbligatoria sui siti internet di tutti gli atti di pianificazione e
programmazione a partire dalle fasi preliminari. Dall’altro il diritto alla partecipazione, in particolare nei piani e programmi che intervengono nelle città, con specifici processi di informazione e coinvolgimento dei cittadini residenti negli ambiti e attraverso il dibattito pubblico, chiarendo quando e come può essere richiesto e svolto.
In conclusione, ci auguriamo che il confronto aperto su questo testo sia l'inizio di un percorso da
parte del Ministero delle Infrastrutture realmente innovativo e utile a dare risposte ai problemi del
Paese e a valorizzare le sue risorse territoriali e le sue città. Legambiente ribadisce la nostra
disponibilità a contribuire con idee e proposte normative che riguardano contenuti e innovazioni
indispensabili (ambientali, partecipative, concorsuali) in una prospettiva di cambiamento delle
forme di intervento nel territorio italiano.
Note
1 Una procedura più efficace di indirizzo delle trasformazioni dovrebbe prevedere che con delibera di giunta l’amministrazione individua, in un progetto integrato di rigenerazione urbana, gli ambiti urbani coinvolti, gli obiettivi pubblici che si intendono perseguire, le scelte urbanistiche e infrastrutturali, le misure di sviluppo locale sociale e economico. Che in tali ambiti i Comuni possono prevedere l’attribuzione di diritti edificatori alle proprietà immobiliari pubbliche e private. Che la delibera dovrà essere pubblicata, tra gli altri, sul sito web del Comune e nei successivi 60 giorni possono essere presentate osservazioni e proposte a cui l’amministrazione comunale Ë tenuta a rispondere in forma scritta. Che entro novanta giorni dall’approvazione della delibera il Sindaco del Comune promuove, anche al fine di approvare le necessarie varianti urbanistiche, un accordo di programma ai sensi dell’articolo 34 del Decreto Legislativo 267/2000. L’esito dell’accordo deve essere approvato dal consiglio comunale. I progetti degli interventi pubblici e di interesse pubblico da realizzare nell’ambito dell’Accordo di programma sono portati avanti attraverso concorsi di architettura. Nel caso di realizzazione di nuovi alloggi di edilizia residenziale una quota di almeno un terzo deve essere destinata per edilizia sociale.
Questo il testo AC/70, articolo 2 (Contributo per la tutela del suolo e la rigenerazione urbana).
Il consumo del suolo, a causa dell’impatto che determina su una risorsa non rinnovabile, Ë gravato da un contributo per la tutela del suolo e la rigenerazione urbana legato alla perdita di valore ecologico, ambientale e paesaggistico che esso determina. Il contributo si aggiunge agli obblighi di pagamento connessi con gli oneri di urbanizzazione e con il costo di costruzione, la cui misura Ë stabilita dai comuni ai sensi delle leggi statali e regionali vigenti.
A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, il contributo di cui al comma 1 si applica in tutto il territorio nazionale con riferimento a ogni attività di trasformazione urbanistica ed edilizia che determina un nuovo consumo di suolo. Esso é pari a tre volte il contributo relativo agli oneri di urbanizzazione ed al costo di costruzione, nel caso in cui l’area sia coperta da superfici naturali o seminaturali, ovvero pari a due volte il medesimo contributo, nel caso in cui l’area sia coperta da superfici agricole in uso o dismesse. Il contributo non é dovuto per interventi su aree edificate o comunque utilizzate ad usi urbani e da riqualificare, nonché nei casi in cui non sono dovuti gli oneri relativi ai costi di urbanizzazione ed al costo di costruzione.
Il contributo di cui al comma 1 può essere sostituito, previo accordo con i comuni, da una cessione compensativa di aree con il corrispondente vincolo a finalità di uso pubblico, per la realizzazione di nuovi sistemi naturali permanenti quali siepi, filari, prati, boschi, aree umide e di opere per la sua fruizione ecologica e ambientale quali percorsi pedonali e ciclabili. Tali aree devono essere, nel loro complesso, di dimensioni almeno pari alla superficie territoriale dell’intervento previsto. Sono tenuti al pagamento del contributo di cui al comma 1 i soggetti tenuti al pagamento degli oneri relativi ai costi di urbanizzazione e al costo di costruzione, secondo le stesse modalità e gli stessi termini. I comuni destinano i proventi del contributo a un fondo per interventi di bonifica dei suoli, di recupero
e riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, di demolizione e ricostruzione di edifici posti in aree a rischio idrogeologico, di acquisizione e realizzazione di aree verdi.
4 Questo il testo AC/1050, articolo 6
Le aree edificabili, individuate ai sensi del comma 1, sono soggette ad un contributo addizionale rispetto agli obblighi di pagamento connessi con gli oneri di urbanizzazione e con il costo di costruzione, la cui misura è stabilita dai comuni ai sensi delle leggi statali e regionali vigenti. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, il contributo di cui al comma 5 si applica in tutto il territorio nazionale con riferimento a ogni attività di trasformazione urbanistica ed edilizia che determina un nuovo consumo di suolo. Esso è pari a cinque volte il contributo relativo agli oneri di urbanizzazione ed al costo di costruzione.
Sono tenuti al pagamento del contributo di cui al comma 6 i soggetti tenuti al pagamento degli oneri
relativi ai costi di urbanizzazione e al costo di costruzione, secondo le stesse modalità e gli stessi termini. I comuni destinano i proventi del contributo a un fondo vincolato destinato ai seguenti interventi: non meno del 20 per cento alla bonifica dei suoli; non meno del 20 per cento al recupero e riqualificazione del patrimonio edilizio pubblico esistente, con priorità per gli interventi di messa in sicurezza e risanamento conservativo degli edifici scolastici; non meno del 20 per cento ad interventi di riduzione del rischio idrogeologico, sia mediante interventi di riduzione della pericolosità, sia mediante interventi di rilocazione di edifici pubblici posti in aree ad elevato rischio; non meno del 20 all’acquisizione, realizzazione e manutenzione di aree verdi.
eddyburg è pronto a ospitare.
Sul disegno di legge “Principii in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana”
Il 15 settembre scorso sono scaduti i termini per la presentazione di osservazioni al disegno di legge presentato dal ministro Lupi sui “Principii in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana”.
Come docenti, ricercatori, dottori di ricerca del Dipartimento di architettura dell’Università di Firenze impegnati sui temi affrontati dal ddl riteniamo che questo sia del tutto inadeguato e anziché essere innovativo rappresenti un arretramento della capacità di esprimere una strategia complessiva e un’idea del progetto contemporaneo di città e territorio anche rispetto alla legge urbanistica nazionale vigente. Pertanto esso non può essere corretto in singoli punti ma deve essere integralmente sostituito da un nuovo provvedimento più rispondente alle esigenze dei territori, delle istituzioni e della popolazione del paese.
Infatti nonostante il titolo, ribadito nell’art. 1, il ddl non sviluppa concretamente nessun principio “pubblico” innovativo e si limita ad applicare e valorizzare con linguaggio burocratico una concezione arcaica della proprietà immobiliare privata, orientata all’estrazione di vari tipi di rendita e superata da tempo dal nuovo rapporto pubblico/privato instaurato nelle legislazioni europee più avanzate.
In effetti l’unico principio perseguito concretamente è il seguente (art. 8):
«il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza e il suo godimento»: su 20 articoli della legge, ben 13 sono dedicati a garantire la difesa degli interessi dei proprietari immobiliari privati mentre negli altri non compare alcuna prescrizione concreta significativa a vantaggio della collettività. La proposta di legge appare quindi profondamente segnata da un’impostazione arretrata della pianificazione limitata a favorire le trasformazioni edilizie private in contrasto con la stessa costituzione laddove il riconoscimento della proprietà privata è subordinato alla funzione sociale (art. 42), e per evitare dubbi fin dal primo articolo questo principio è chiaramente enunciato: «ai proprietari degli immobili è riconosciuto nei procedimenti di pianificazione il diritto di iniziativa e di partecipazione anche al fine di garantire il valore della proprietà». Per contro, nelle migliori pratiche europee le partnership pubblico/privato più efficaci si sviluppano in contesti dove la pubblica amministrazione mantiene un ruolo forte di regia delle iniziative di sviluppo e trasformazione. Attraverso quadri di riferimento certi infatti si creano le condizioni per attrarre investimenti intelligenti, che non mirano alla mera estrazione della rendita. La rigenerazione urbana europea di ultima generazione ha superato la sorda contrapposizione fra pubblico e privato, combinando la ricerca del profitto degli investitori con un ritorno pubblico, sia in termini di dotazioni e servizi, che di qualità del progetto, in termini di sostenibilità, di attività innovative, di organizzazione spaziale.
In conseguenza di questa impostazione, il ddl non considera neppure l’evoluzione disciplinare e culturale: non viene applicata nessuna delle nozioni recenti quali sostenibilità, città-spazio pubblico, partecipazione, progetto di città o resilienza, che improntano non solo le esperienze positive recenti ma anche le strategie dell’Unione Europea in campo urbano.
Si deve sottolineare che il ddl non affronta in alcun modo i problemi reali del governo del territorio vistosamente testimoniati dai disastri ambientali e dal crescente degrado del paese particolarmente per quanto riguarda il suo patrimonio storico-ambientale; dalla mancanza di coordinamento fra istituzioni e livelli di governo; dallo sviluppo abnorme delle procedure e della burocratizzazione priva di contenuti; dal conseguente bailamme della normativa generato dalle diverse legislazioni regionali e dalla iperproduzione dei diversi ministeri (sui temi della tutela, dell’ambiente, dell’economia riferita al territorio, delle procedure, ecc.) per cui i contenuti, i tempi e le modalità di attuazione dei piani e dei progetti sono sempre più oscuri; dalla crisi dei finanziamenti pubblici con la conseguente sottomissione degli interessi collettivi alle richieste dei maggiori operatori privati; dalla riluttanza ad aprire il processo di pianificazione a procedure di partecipazione effettiva capaci di apportare miglioramenti nella qualità e nella rispondenza delle scelte alla domanda degli abitanti.
Così il ddl non si preoccupa di coordinarsi con altre leggi vigenti e sostiene il principio della preminenza del valore della proprietà privata in contrasto con altre leggi (ad esempio quelle sulla tutela o sul rischio idraulico) col risultato atteso di produrre contenziosi e mettere in difficoltà non solo gli enti pubblici territoriali ma anche i privati stessi che pretende di favorire.
Il ddl non solo non risponde ai problemi attuali del governo del territorio, ma, anziché innovarli, stravolge totalmente i principi consolidati della pianificazione urbanistica e quelli recentemente introdotti nelle legislazioni europee avanzate (e a parole parzialmente assunti nello stesso art. 1) come:
1. il coordinamento dei livelli di governo: si elencano gli esistenti enti locali; si introduce una fantomatica Direttiva Quadro Regionale; si richiamano le Provincie all’art. 7 (quando si parla da tempo di ridurne il ruolo) ma soprattutto si introduce il dispositivo della Direttiva Territoriale dello Stato (art. 5), riguardante le maggiori opere infrastrutturali, concepito secondo una impostazione gerarchica che azzera il ruolo dei comuni e degli altri enti di governo nel processo decisionale e subordina agli accordi nazionali il paesaggio e quindi aprendo il contrasto col codice dei beni culturali; il resto è delegato alla regioni con l’unico vincolo del riconoscimento dei diritti delle proprietà private, in una combinazione di autoritarismo centralista e populismo pseudofederalista; in questo modo non si attiva il coordinamento territoriale della pianificazione urbanistica né si rimedia all’eterogeneità dei modelli urbanistici regionali; in apparenza ci si limita a impoverire i due tipi di strumenti ormai diffusi a livello comunale (confermando il livello operativo e riducendo il livello strategico-strutturale a mera operazione conoscitiva), ma nella sostanza si gerarchizza l’azione istituzionale mortificando il livello comunale come si illustra ulteriormente nel successivo punto 5;
2. la nozione di spazio pubblico: non c’è un’idea all’altezza dell’importanza del tema, per come oggi, nella crisi, debba essere affrontato, ma si abolisce il D.M. 1444/1968 che stabilisce l’obbligo di una quantità minima di spazi pubblici per abitante, sostituendolo col rinvio a successivi accordi con le regioni sulle «dotazioni territoriali» per concetti generici quali la salute, l’istruzione, il tempo libero, in questo modo stimolando l’ulteriore differenziazione regionale di regole e di conseguenza la differenziazione delle condizioni di vita a seconda degli equilibri politici e delle scelte di ciascuna regione;
3. le disposizioni inerenti la fiscalità immobiliare (art. 9) non definiscono nuove linee di indirizzo o principi generali in materia, bensì si limitano a fotografare il composito stato dell’arte consolidatosi negli ultimi anni (generici sgravi alla proprietà della prima abitazione, assenza di una disciplina dei contratti ad affitto calmierato che conferma la sostanziale vacatio legis creatasi a seguito dell’abrogazione delle norme sull’equo canone, progressiva sottrazione ai Comuni dei proventi delle imposte immobiliari, nessuna disposizione in ordine al vincolo di utilizzo degli oneri di urbanizzazione, allo scopo di impedirne l’utilizzo per il finanziamento delle spese correnti del comune, ritenuto una delle principali cause della sfrenata crescita edilizia recente). Inoltre vengono introdotti meccanismi iniqui e, con ogni probabilità, incostituzionali, nei confronti delle persone «non titolari di immobili» (comma 6), che vengono assoggettate a tributi ed entrate proprie «a fronte di servizi indivisibili» (si tratta, peraltro, degli unici tributi dei quali è sancita con chiarezza la destinazione al comune). Infine, la norma favorisce la sovrapproduzione edilizia quando (comma 9) generalizza la «non applicabilità» dei tributi immobiliari agli «immobili destinati alla vendita o alla rivendita che non siano utilizzati» istituendo l’ esenzione fiscale, a danno dei comuni, dello stock invenduto per le grandi società immobiliari;
4. le nozioni di “rinnovo urbano” e “consumo di suolo agricolo” vengono disciplinate unicamente in chiave di valorizzazione edilizia e deroghe alla pianificazione urbanistica (art 16), essendo possibile realizzare progetti di «rinnovo» in assenza o in contrasto con i piani operativi previo accordo fra proprietari e comune, con premi e incentivi volumetrici collegati al miglioramento energetico, sanitario, edilizio; per di più, si stimolano e legittimano i processi di espulsione sociale quando si consente in caso di incompleto accordo dei privati ricadenti in un ambito di recupero l’esproprio di quelli in minoranza, utilizzando la pressione derivante dall’espulsione per stimolare ulteriori trasformazioni edilizie; il blocco del consumo di suolo agricolo viene surrettiziamente evocato senza essere chiaramente sancito, anzi viene in realtà usato per consentire incrementi delle quantità edificabili nelle aree di «rinnovo urbano», anziché per attuare le disposizioni della Commissione Europea sulla riduzione del suolo impermeabilizzato;
5. il senso del processo di pianificazione viene rovesciato: riprendendo il principio di fondo della proposta di legge Lupi già avanzata nel 2005 e fermata al Senato, nella pianificazione comunale sono introdotti gli «accordi urbanistici» (art. 14 e 17) che obbligano gli enti locali a sostituire ai cosiddetti «atti autoritativi» gli «atti negoziali» e a prendere in considerazione le proposte dei privati, rovesciando la titolarità pubblica, il diritto-dovere degli enti pubblici a pianificare il territorio e trasformando così il piano nella sommatoria delle proposte immobiliari private;
6. i principii di premialità, compensazione, perequazione sono interpretati nel senso della liberalizzazione più sregolata; le norme delineate comprimono la potestà dell’ente locale a quella di un mero distributore di “diritti” edificatori che costituiscono, di fatto, l’unica moneta con la quale le municipalità possono acquisire dotazioni territoriali (art. 10), espropriare aree (art. 11) o incentivare progetti di riqualificazione ambientale o urbanistica (art. 13). Inoltre la possibilità «commerciare liberamente» le quantità edificatorie attribuite dai piani (art. 12) comporta l’obbligo di periodica revisione dei piani, non in ragione di sopravvenuti interessi pubblici, quanto allo scopo di trovare allocazione ai diritti edificatori acquistati e non ancora utilizzati sul territorio (“diritti” che peraltro presentano una validità illimitata: si estinguono solo a seguito di indennizzo del loro valore di mercato, a carico del contribuente!). Le scelte urbanistiche cui sono obbligati i comuni, in questo senso, possono peraltro essere sempre messe in discussione causando numerose e complesse controversie, a causa dell’introduzione dell’obbligo di motivazione delle scelte urbanistiche e dell’obbligo di coinvolgere il privato nel progetto degli strumenti urbanistici (art. 7 comma 5). In sintesi perequazione, compensazione, premialità e diritti edificatori rappresentano gli strumenti tecnici cui è demandata la privatizzazione dei processi di formazione dei piani. Al contrario, nel contesto europeo, a fronte della crisi, sono state adottate nuove forme di partnership pubblico privato, a forte controllo pubblico, con le quali gli obiettivi sociali, progettuali sottesi a ciascuna operazione di trasformazione sono conseguiti attraverso cessioni e dotazioni aggiuntive. Tali dispositivi, sperimentati ad esempio in Germania, non incidono sulla fattibilità economica delle operazioni, cui partecipano sovente developers internazionali, bensì sulla rendita immobiliare, contribuendo a calmierare il valore dei suoli e riducendo così il rischio di bolle speculative. Il registro dei diritti edificatori, di converso, comporta ulteriori evidenti rischi di sovrapproduzione edilizia e rappresenta un facile veicolo per favorire nuove iniziative speculative su beni immateriali sganciati dalle dinamiche dell’economia reale; è stato efficacemente definito come un potenziale registro di “titoli tossici” in grado di generare nuove crisi economiche.
7. l’edilizia residenziale sociale viene interpretata in modi deliberatamente vaghi, senza distinguere le diverse tipologie di utenti, e “anticontestuali” senza rilanciare una vera politica per la residenza capace di integrare edilizia pubblica e privata sociale (art. 18, 19): se è ammissibile ampliare il campo dell’intervento agli operatori privati, per aumentare l’offerta di alloggi economici, non è accettabile generalizzare la deroga dagli strumenti urbanistici per ammettere proposte puntuali, né favorire con numerosi e in alcuni casi ingiustificati vantaggi gli interventi classificati genericamente come “edilizia sociale”; così, anziché prescrivere standard minimi di edilizia sociale realmente pubblica; anziché utilizzare l’edilizia sociale come asse portante delle politiche pubbliche per la città, per rilanciare la pianificazione/progettazione urbana integrata, il potenziamento dei servizi, l’innovazione nel campo dell’abitare, si incentivano gli interventi tradizionali puntuali sganciati dall’ottica urbanistica e, come negli anni Cinquanta, tesi a sviluppare l’accesso alla proprietà privata;
8. la semplificazione è affrontata in modo generico e inconcludente (art. 20), senza tenere conto della eterogeneità delle disposizioni regionali, né delle difficoltà di coordinamento delle diverse istituzioni nelle procedure di approvazione degli strumenti urbanistici, che dovrebbero essere rinnovate (in particolare le procedure di valutazione ambientale) unificando i momenti di verifica senza rinunciare all’efficacia dei diversi livelli della pianificazione; anche da questo punto di vista, contrariamente alle enunciazioni di principio, pesa lo slittamento del piano da progetto di città a strumento di gestione dei diritti edificatori che comporta una progressiva complicazione procedurale e settorializzazione delle competenze.
Riteniamo quindi che dopo l’annullamento della proposta in questione, debba essere ripreso il lavoro avviato in passato per una legge di principi culturalmente aggiornata ai migliori esempi europei, assumendo due indirizzi fondamentali:
La prima considerazione, propedeutica ad ogni altra, riguarda la mancata corrispondenza del ddl in esame, alla riforma al titolo V già approvata al Senato. Essendo presumibile che le competenze attribuite a Stato e Regioni non si discosteranno molto da quelle contenute nel testo costituzionale in itinere e tenuto conto che vi è un nuovo assetto nella struttura istituzionale riguardante sopratutto le Province, è lungimirante la costruzione di un testo che ne tenga conto, considerato che il “Governo del Territorio”, di cui tratta la proposta di ddl non è, o meglio non sarà, più materia concorrente, ma materia esclusiva dello Stato. Così pure appare incongruo mantenere dei riferimenti e dei compiti (articoli 5 e 8) alla Conferenza Stato Regioni del tutto inutile dopo l'istituzione del nuovo Senato delle Autonomie
La seconda considerazione di carattere generale riguarda la “filosofia” che attraversa tutto l'articolato, molto sbilanciata verso la promozione e la difesa delle prerogative dei soggetti privati, intesi non tanto come cittadini detentori di interessi diffusi, quanto soggetti miranti ad ottenere dall'uso del territorio, Bene Comune, un proprio personale vantaggio economico. L'aspetto non condivisibile riguarda l'equidistanza, se non addirittura la subalternità dell'Ente pubblico, cui spetta per Legge il governo del territorio, agli interessi privati, che si evidenzia in particolare in due clamorosi “riconoscimenti”.
Il primo risiede agli art.1 e 7 che sanciscono il diritto del privato a partecipare alla elaborazione degli strumenti di pianificazione urbanistica sia generali che operativi.
Il secondo sta scritto all'articolo 8 relativo all'obbligatoria compensazione di limiti posti alla proprietà privata, ma sopratutto all'articolo 12 che impone il risarcimento al privato, in caso di variante al Piano, dei mancati guadagni dei cosidetti “diritti edificatori” che il Comune stesso ha gratuitamente elargito attraverso una destinazione urbanistica (con premialità, compensazioni, perequazioni) e che deve pagare risarcendo un presunto mancato guadagno. Una qualche responsabilità spetta anche a chi ha inventato questo lessico deviato del diritto edificatorio, inesistente, in quanto diritto non è, ma solo previsione di un assetto urbanistico che offre delle possibilità a costruire. Diventerebbero diritti, comunque subordinati al pubblico interesse, qualora fosse raggiunta attraverso le procedure di rito e gli eventuali nulla osta, tale facoltà sancita dal rilascio di un permesso a costruire dato dall'organo competente e/o attraverso un atto convenzionale.
Il terzo rilievo riguarda l'assenza di qualsiasi preoccupazione di carattere ambientale che, non solo scienziati, esperti, ambientalisti rilevano, ma i cittadini comuni, portatori di esigenze collettive dotati ormai di sensibilità verso i problemi che investono il territorio naturale e antropizzato che provocano gravi danni a persone e a cose, nonché alla profonda evoluzione della partecipazione in forme che raggiungono livelli qualitativi idonei al loro formale riconoscimento di attori a pieno titolo. Una Legge moderna sul governo del territorio, non può prescindere dagli aspetti di tutela del territorio, di difesa delle sue fragilità dovute allo squilibrato consumo di suolo e uso improprio delle risorse non riproducibili, nonché alla profonda evoluzione della partecipazione. Questa è la principale ragione per cui è necessario por mano alla revisione della Legge Urbanistica del 1942, quando questi aspetti non si presentavano nella forma devastante in cui si pongono oggi. Persino l'attuale cancelliera Angela Merkel quando era Ministro dell'Ambiente, ravvisò nel consumo di suolo il più pericoloso attacco al sistema ambientale, causa non secondaria di allagamenti e mutamenti climatici, a cui pose parziale rimedio con una Legge che disponeva limiti inderogabili.
L'esasperata privatizzazione della città, che il proposto ddl favorisce, si evince anche dal ruolo affidato agli standard urbanistici chiamati anche dotazioni territoriali. Questi non sono più espressi in termini di superfici o volumi, anche attraverso un aggiornamento delle funzioni che sono destinati a svolgere, bensì vengono considerati dotazioni da garantire, non attraverso lo strumento della pianificazione urbanistica che individua le aree da destinare a pubblici servizi, bensì invece attraverso forme proprie dei servizi sociali e delle strutture sanitarie a cui spettano specifici compiti di programmazione e gestione, ma che non possono assolutamente sostituirsi nella definizione, localizzazione, dimensionamento di spazi destinati ai servizi pubblici di quartiere, urbani, territoriali, compito che spetta unicamente allo strumento della pianificazione urbanistica. E a questo riguardo lascia assai perplessi che i minimi standard vengano azzerati con la soppressione del dpr che li ha originariamente istituiti. Segno questo di una controriforma della pianificazione e del governo del territorio, di un'arretratezza politico-sociale rispetto alle conquiste civili raggiunte nel passato.
Lasciare alle Regioni la possibilità di incrementare la dotazione di servizi, come oggi avviene, è un giusto tributo al federalismo, ma garantire ad ogni cittadino della penisola una dotazione minima di spazi destinati alla cura, al gioco, al verde, all'istruzione, al culto, ai parcheggi... è un atto dovuto dal governo centrale, una sua imprescindibile responsabilità nei confronti dei diritti individuali e collettivi, di socialità e di benessere di cui lo Stato nazionale deve farsi garante, come previsto dalla stessa Costituzione che il ddl Lupi non può modificare. Come pure garante deve esserlo nei confronti della conservazione dei beni storici, della prevenzione dei dissesti idrogeologici, delle inondazioni, delle frane, che non sempre sono opera solo di calamità naturali, ma sono determinate o favorite dall'azione deleteria dell'uomo a cui questa proposta di legge non pone alcun riparo.
La prevalenza del privato sul pubblico, si estende anche alla questione dell'edilizia residenziale pubblica, che come è giusto sia, entra a far parte dei nuovi standard urbanistici, ma non solo per quanto riguarda l'edilizia pubblica o in locazione convenzionata, ma anche in proprietà. Ovvero l'articolo 19 inserisce nel conteggio delle dotazioni territoriali, ovvero nei nuovi standard, la casa in proprietà !!
La proposta di ddl contiene due aspetti positivi. I tributi dovuti per effetto delle previsioni urbanistiche ritiene non debbano essere previsti fintanto che le medesime non siano contemplate nel piano operativo e non solo come accade ora in quello generale non conformativo (art. 9). Altro elemento innovativo riguarda il contributo dovuto all'aumento di valore degli immobili derivante dalla variazione di destinazione d'uso attribuita dai Piano e calcolata al 66% dell'incremento di valore determinatosi a causa della nuova destinazione rispetto alla precedente.
E' positivo l'auspicio di privilegiare gli interventi nel tessuto già edificato. Ma senza che, oltre a discutibili e discrezionali premi volumetrici, sia previsto un reale effettivo meccanismo di contenimento dell'uso del suolo e l'indicazione di un procedimento che favorisca questo processo, l'auspicio rimane del tutto aleatorio e privo di alcuna efficacia. Ma forse il legislatore fa affidamento al ricorso alla “deregulation”di cui all'articolo 17 che consente che tali interventi siano realizzati con accordi urbanistici, anche in assenza o in difformità al Piano Operativo
Il “razionale” uso del suolo ribadito più volte nel ddl è privo di senso, perchè gli amministratori che hanno finora predisposto e approvato i Piani, non hanno mai ritenuto che l'uso del suolo in essi contenuto, fosse irrazionale. Quindi questa affermazione non è destinata ad ottenere alcun buon risultato perchè non esplicita nulla, non intercetta quell'esigenza, quasi unanimemente condivisa, di contenimento dello spreco di suolo fin'ora perpetrato a danno dell'ambiente e della stessa economia dei territori.
Vi è poi all'articolo 3 una certa imprecisione riguardo alle competenze relative ai beni paesaggistici, quasi il legislatore volesse attribuire in forma concorrente, attraverso legge ordinaria, competenze che la Costituzione affida esclusivamente allo Stato, quali appunto il Paesaggio. Inoltre vi è la pretesa (art.5 terzo comma) che sia la pianificazione paesaggistica ad assumere (“contemplare”) le trasformazioni territoriali e non queste ultime a doversi adeguare alle esigenze di tutela del Paesaggio.
Pare anche alquanto discutibile il riferimento alle Forze armate fatto sempre al IV comma dell'art. 3 del ddl in oggetto.
Con il DQT (Direttiva Quadro Territoriale) lo Stato si sostituisce ai territori interessati nella pianificazione, non solo con programmi di interesse nazionale, ma adottando programmi speciali anche a valenza territoriale e questo a molteplici fini fra i quali la promozione di politiche di sviluppo economico locale e altre fattispecie che rendono praticamente onnicomprensiva la facoltà di ingerenza dello Stato nella pianificazione dei governi locali.
E' inoltre improprio e non pertinente, in una legge che si presume di lunga durata, stabilire quelle norme sulla fiscalità immobiliare che il governo modula costantemente per adeguarsi alle condizioni economiche del Paese e degli enti locali.
La possibilità di costruzione in deroga ai Piani, di modificare le destinazioni d'uso, di trasferire immobili in altra area senza specificare che essa debba avere destinazione “conforme”, oltre alla discrezionalità data a premialità e compensazioni, renderebbe la pianificazione un atto quasi superfluo, ma utile alla commercializzazione dei metri cubi individuati nei Piani.
Con la commerciabilità dei “diritti edificatori” previsti all'art. 12 e l'istituzione di registri comunali che li codificano la città si manifesta sempre più, secondo questo ddl, non come un organismo complesso (oggi in condizioni già abbastanza gravi di malessere sociale e ambientale), ma come una grande agenzia immobiliare e il pianificatore come un agente di commercio della città trattata come una merce.
“Il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza e il suo godimento”. Tutto il ddl si conforma a questo principio inserito al primo comma dell'art.8, non quindi a garantire i diritti collettivi, alla salute, al benessere, alla bellezza, all'efficienza, alla mobilità alternativa, all'accessibilità ai servizi, alla dotazione di verde, alla tutela dell'ambiente e del paesaggio, diritti urbani che, secondo questo discutibile principio, possono essere sacrificati al supremo diritto della proprietà privata a cui invece la stessa Costituzione pone dei limiti in quanto afferma che “deve essere indirizzata e coordinata a fini sociali”
Luisa Calimani
Giulio Tamburini
Antonio Perrotti
Manlio Marchetta
Loredana Mozzilli
Sergio Lironi
Piergiorgio Bellagamba
Teresa Cannarozzo
Laura Mancuso
Laura Fregolent
Giancarlo Storto
Maurizio Rossetto
Luca Fanton
Francesco Indovina
Valeriano Pastor
Anna Braioni
Michelina Michelotto
Vezio De Lucia
Barbara Pastor
Arianna Rossi
Franco Mancuso
Serena Jaff
Francesco Lo Piccolo
Paolo Pavan
Maurizio Garano
Vittorio Caporioni
Marino Folin
Ettore Janulardo
Giacomo Massarotto
Fernanda Faillace
Melania Cavelli
Guido Mase’
Cristiano Toraldo di Francia
eddyburg gli altri documenti di critica che ci sembra piu interessante rendere noti ai nostri lettori.
Premessa
1. PERSONE
Balzano Lucia
Ilfattoquotidiano.it, 1 novembre 2014
Incontro “I Sindaci d’Italia "nell’Aula di Montecitorio.
«Ermete, con le sue competenze e la grande esperienza acquisita in tanti anni di importanti battaglie ambientali condotte alla guida di Legambiente, è la miglior garanzia perché questo Parlamento sappia raccogliere le tante nuove sensibilità ambientali presenti e sappia imprimere quella svolta che milioni di cittadini si attendono nella qualità della loro vita, nelle prospettive di nuovo lavoro, nella creazione di nuova bellezza nelle città come nelle aree meno urbanizzate, nel rispetto della legalità ovunque. Siamo certi che con la sua intelligenza e la sua tenacia saprà far valere le ragioni dell’ambiente e di un sano sviluppo del territorio». (Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente su Ermete Realacci, che ha votato si allo Sblocca Italia, 7 Maggio 2013)
Questo non vuol dire che associazioni con dei nomi importanti non siano di rilievo. Anche se spesso arrivano in ritardo, quando già le criticità sono note a livello locale, possono fare molto in termini di sensibilizzazione, da amplificatore mediatico e per influenzare le scelte politiche a livello nazionale.
Ed è per questo che non capisco Legambiente.
In questi mesi e settimane sono stati molteplici i comunicati di questa associazione contro lo Sblocca Italia – spesso attingendo ed ispirandosi a materiale e fonti che diciamo, sono venuti altrove. Ad esempio, qui chiedono l’abrogazione dell’articolo 38 del decreto Sblocca Italia.
Qui invece il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza, durante un presidio a Montecitorio contro lo Sblocca Italia lo definisce un “decreto antiambientale, vecchio e pericoloso” aggiungendo che il decreto e’ “carico di interventi sbagliati, all’opposto del sostegno ad un’economia circolare e low carbon” e che lo Sblocca Italia ripropone un’Italia “vecchia, incapace di stare al passo con i tempi, che si limita a fare “tana libera tutti” contro i lacci e lacciuoli, che imbriglierebbero il sistema”.
Anche a livello europeo hanno avuto dure parole di critica al governo che ha mostrato “scarsa capacità di leadership e volontà politica di investire nello sviluppo di un’economia europea a basse emissioni di carbonio cedendo alla lobby del fossile“ in occasione del Consiglio Europeo su Clima e Energia svoltosi a Bruxelles durante l’ultima settimana di Ottobre.
Ma allora, perché il presidente onorario di Legambiente Ermete Realacci del PD, presidente della VIII Commissione permanente Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera dei Deputati ha votato a favore dello Sblocca Italia? L’ha fatto due volte, il 23 ottobre 2014, quando c’è stato il voto alla fiducia sul governo e poi il 30 ottobre 2014 quando c’è stato il voto finale.
Come si conciliano le parole del presidente Cogliati Dezza contro lo Sblocca Italia con il voto del presidente onorario Realacci? Non è un controsenso?
Notare che, sebbene rarissimi come le mosche blu, ci sono stati dentro il Pd altri voti “ribelli”, quelli di Giuseppe Civati e di Luca Pastorino che hanno detto no allo Sblocca Italia. Quindi Realacci non può dire che non poteva fare altrimenti. Aveva una scelta, come ce l’avevano Civati e Pastorino, e ha scelto di votare sì.
Qualcuno mi dirà: e che poteva fare Realacci? Poteva fare quel che poteva fare anche Giovanni Legnini: spiegare, sensibilizzare, creare consenso a favore dell’ambiente dentro i palazzi romani spiegando a chi scrive queste leggi che è assurdo rendere la vita ancora più facile ai petrolieri in un paese come l’Italia. Se lo possiamo fare noi cittadini parlando gli uni agli altri, informandoci e creando opinione, lo può fare anche un politico, facendo l’attivista dentro i palazzi romani e magari convincendo gli altri parlamentari a rivedere queste norme trivellanti. Costa fatica, lo so. Meglio non prendersele queste gatte da pelare, vero?
Che dire. Sono sicura che il passaggio al Senato dello Sblocca Italia sarà senza inceppi per Renzi e compari. E questo significa ancora una volta che l’onere e l’onore di difendere il territorio non lo si deve delegare a nessuno – né a Renzi, ne al Pd, ne a Legambiente, né a Godot.
Purtroppo tocca a ciascuno di noi, ogni santo giorno.
Qui la lista di tutti i parlamentari della Camera e come hanno votato sullo Sblocca Italia.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/11/01/sblocca-italia-realacci-perche-hai-votato-si/1184727/
Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2014
È la “deroga Leopolda” e viene concessa all’unanimità. Funziona così. Il governo presenta il decreto Sblocca Italia il 12 settembre: un mischione di pessime norme che dovrebbero rilanciare la crescita. La Camera, dove il testo è in discussione, riesce persino a peggiorarlo: oltre agli orrori del governo, la commissione Ambiente inserisce tutta una serie di emendamenti non coperti durante una seduta notturna della scorsa settimana. Il testo arriva in aula mercoledì e subito la discussione viene stoppata: mancano i pareri del ministero dell’Economia proprio sulle coperture. La commissione Bilancio lavora tutta la sera di giovedì e finisce per bocciare la bellezza di 50 emendamenti. Ieri mattina, il testo torna di nuovo in aula per essere rispedito in commissione Ambiente: lì si provvede a escludere formalmente le norme scoperte.
A mezzogiorno il decreto è pronto per la discussione in Assemblea e il governo pone subito la fiducia sul testo. Pausa. Si va in Conferenza dei capigruppo per stabilire il calendario dei lavori e Maria Elena Boschi chiede ai gruppi “il favore” di non aspettare 24 ore per votare, come prevede il Regolamento, ma di concedere una deroga e iniziare la chiama fin dal pomeriggio: «Domani inizia la Leopolda», spiega la ministro. Tradotto: mica ci vorrete far stare qua invece che a Firenze? Le opposizioni lasciano fare: certe gentilezze una volta erano riservate ai congressi di partito, oggi basta una convention non ufficiale.
Lega e M5S si sono accontentate, considerandolo un successo, di trattenere due giorni in più il provvedimento a Montecitorio: il voto finale avverrà giovedì anziché martedì. Il risultato sarà che il Senato avrà ancora meno tempo per discutere il decreto e zero possibilità di modificarlo: il testo, infatti, scade l'11 novembre e arriverà a Palazzo Madama solo il 31 ottobre. Neanche due settimane in cui andrà approvato senza emendamenti con la probabile nuova fiducia.
Passa in carrozza, insomma, lo Sblocca Italia – testo peraltro su cui si formalizza l’ingresso in maggioranza degli ex vendoliani di Gennaro Migliore, che ieri hanno votato la fiducia – di gran lunga il peggior decreto dell’era Renzi. Un breve riassunto aiuterà a capire: lo Sblocca Italia contiene un incredibile prolungamento delle concessioni autostradali fino al 2038 (in cambio di 10 miliardi di investimenti che avrebbero dovuto essere già realizzati) criticato tanto dall’Autorità Antitrust che da quella dei Trasporti; restano nel testo pure tutte quelle semplificazioni autorizzative negli appalti che hanno spinto Bankitalia e l’Autorità Anticorruzione a parlare di un rischio di aumento delle mazzette; il ministero delle Infrastrutture (ai danni di Ambiente e Beni culturali) avrà l’ultima parola sul via libera ai cantieri in aree archeologiche (la Metro C di Roma); i controlli ambientali e i vincoli paesaggistici vengono indeboliti; si affida ai fondi immobiliari la cementificazione del demanio pubblico inutilizzato; si incentiva la trivellazione dello Stivale per raddoppiare la produzione di petrolio; si dichiarano tanto le trivelle che gli inceneritori “opere strategiche di interesse nazionale” ; si concede al Tesoro il potere di indicare le linee guida per investire i 20 miliardi di risparmio postale amministrati da Cassa depositi e prestiti (in “opere strategiche” peraltro). L’elenco potrebbe continuare, ma anche questo basta a dar ragione al portavoce dei Verdi, Angelo Bonelli: “Se questo decreto l’avesse firmato Berlusconi, il Pd sarebbe sceso in piazza”. Ma l’uomo nero non c’è più, sono rimasti quelli grigi.
Nessuno dei molteplici disparati “casi” contemplati nei 45 articoli di questo decreto “sblocca Italia” può dirsi “straordinario”e investito “di necessità e urgenza”, come è stato con attenzione in altra sede osservato. Un’eccezione pregiudiziale di legittimità costituzionale che travolge l’intero provvedimento.
Se può essere riconosciuto come “caso” – ci torneremo subito - il “comprensorio di Bagnoli – Coroglio” considerato nell’undicesimo (e nei due consecutivi finali) comma dell’art.33, di “caso” non si può certo parlare per quanto dispongono i precedenti dieci commi che dettano la disciplina generale delle aree di rilevante interesse nazionale ai fini della bonifica ambientale. Una disciplina innovativa che va ad integrare quella del testo unico dell’ambiente (che nell’art. 252 prevede i “siti di interesse nazionale” individuati secondo specifici criteri di selezione assai restrittivi, attribuendo l’identificazione e la procedura di bonifica alla competenza del ministero dell’ambiente) e opererà dunque come corpo normativo a regime.
Scavalcate le attribuzioni del ministero dell’ambiente, l’art. 33 rimette la individuazione delle aree di rilevante interesse nazionale alla deliberazione del consiglio dei ministri (ma non indica alcun criterio che orienti la speciale selezione al riguardo, a differenza della stringente previsione dell’art.252 del testo unico) ed è al Governo attraverso i suoi commissari straordinari che spettano le funzioni amministrative del procedimento di bonifica ambientale “per assicurarne l’esercizio unitario” “sulla base dei principi di sussidiarietà e adeguatezza”. Certo può muoversi un rilievo di irragionevolezza nella adozione del modello del commissario straordinario per affrontare situazioni di fatto (deve necessariamente intendersi) bisognevoli di bonifica, non identificate però neppure per criteri generali. Ed è fondata pure la contestazione di merito su opportunità – efficacia di una formula organizzativa di esasperato accentramento, che riflette una considerazione negativa della idoneità al riguardo di regione ed enti locali. Ma se fosse superata, in ipotesi, la pregiudiziale del difetto del caso straordinario di necessità e urgenza e la disciplina di bonifica ambientale per aree dichiarate di interesse nazionale fosse introdotta attraverso l’iniziativa che spetta al Governo, con la presentazione alle camere di un disegno di legge, si tratterebbe tuttavia dell’esercizio di una potestà legislativa esclusiva dello Stato nella materia di “tutela dell’ambiente” secondo l’art. 117, comma 2, lettera s), Cost.
Ma la rottura dell’ordine costituzionale di attribuzione della potestà legislativa è operata dall’art. 33 là dove esso si propone di disciplinare, nelle medesime forme e contestualmente alla bonifica ambientale, “la rigenerazione urbana” delle aree che saranno dichiarate “di rilevante interesse nazionale”, costruendo un modello normativo speciale di pianificazione territoriale finalizzato, oltre al risanamento ambientale, “alla riconversione delle aree dismesse e dei beni immobili pubblici, al superamento del degrado urbanistico ed edilizio, alla dotazione dei servizi personali e reali e dei servizi a rete, alla garanzia della sicurezza urbana”.
Si tratta dunque di una dichiarata invasione nella potestà legislativa di “governo del territorio” che spetta alle regioni nella materia di legislazione concorrente, essendo riservata alla legislazione dello Stato la sola “determinazione dei principi fondamentali”(art. 117, comma 3, Cost.). L’art. 33 rifiuta di dettare principi fondamentali di orientamento e vincolo per la legislazione regionale e direttamente interviene per costruire uno speciale strumento di governo del territorio rigidamente accentrato e gestito da “commissario straordinario del governo” e “soggetto attuatore”, con i contenuti propri della pianificazione urbanistica, come “localizzazione delle opere infrastrutturali per il potenziamento della rete stradale e dei trasporti pubblici e le altre opere di urbanizzazione primaria e secondaria funzionale agli interventi pubblici e privati”, e perfino “la previsione urbanistico-edilizia degli interventi di demolizione e ricostruzione e di nuova edificazione e mutamento di destinazione d’uso dei beni immobili, comprensivi di eventuali premialità edificatorie”; “fermo restando il riconoscimento degli oneri costruttivi in favore delle amministrazioni interessate”. E, sigillo di chiusura del sistema, l’approvazione di un tale programma costituisce variante urbanistica automatica della vigente pianificazione.
L’insistita lettura dell’art.33 con la puntuale ripresa dei contenuti propri di questo anomalo modello di intervento statale ci è servita fin qui per non lasciar dubbi che non di determinazione di principi fondamentali nella materia di governo del territorio si tratta. E dunque è offesa la potestà legislativa delle regioni. Ma la considerazione di quei contenuti ci dice che insieme è offesa la titolarità di funzioni amministrative proprie di cui i Comuni sono titolari (art. 118, comma 2, Cost.). L’espresso richiamo (comma 2 dell’art. 33) alla esigenza di esercizio unitario della funzione, perciò avocata al più alto livello della amministrazione (al Governo dello Stato!), “sulla base dei principi di sussidiarietà e adeguatezza”, se mai possa valere per gli interventi di bonifica ambientale dagli inquinamenti, non può dare legittimo fondamento alla espropriazione della forse più qualificante, anzi fondante, attribuzione comunale di pianificazione territoriale, la potestà urbanistica, che ben può, e quindi deve, essere esercitata nei modi ordinari pure sulle aree oggetto di bonifica ambientale: rifiutata la tentazione di pagare la bonifica ambientale con la rivalutazione delle aree di risulta, attraverso le “premialità edificatorie” sinistramente evocate a strumento proprio dello speciale programma. Come se la rigenerazione urbana di vaste zone di sofferenza ambientale possa essere programmata nei modi dell’intervento speciale, protesi estranea al coerente disegno di generale pianificazione della complessiva città.
Veniamo infine al precipitato degli ultimi tre commi che l’art.33 dedica alle “aree comprese nel comprensorio Bagnoli – Caroglio” dichiarate con lo stesso provvedimento di rilevante interesse nazionale “per gli effetti di cui ai precedenti commi”, di immediata applicazione dunque per questo comprensorio. Anzi non è arbitrario riconoscere che tutto l’impalcato dell’articolo sia costruito in questa esclusiva funzione e che il modello generale dei primi dieci commi, rimesso a una attuazione libera da tempi stringenti (a contraddire l’urgenza!), sia destinato a rimanere altrimenti inerte. E quanto sia perverso il sistema è rivelato proprio da questa applicazione che giungerebbe a vanificare una stagione di virtuosa e ancora vigente pianificazione di quella essenziale parte dell’insediamento urbano, la cui rigenerazione urbana era stata responsabilmente programmata attraverso la conversione al verde (un grande parco di 120 ettari!), al servizio pubblico – cioè - di cui la città è dolorosamente carente.
Sull'art. 33 dello Sblocca-Italia, su eddyburg: Bagnoli negata
Colto in flagrante sull’impostazione dello Sblocca Italia che stanzia 110 milioni per la difesa idrogeologica (comma 8 dell’art. 7) e 3.890 milioni per i cementificatori e asfaltatori d’Italia (comma 1 dell’art. 3), il primo ministro Renzi ha richiamato su Facebook i pilastri del suo disegno di riforma del paese: «Si chiamano Sbloccaitalia, riforma della P.A., riforma costituzionale, riforma della giustizia, cantieri dell’unità di missione le priorità per l’Italia che vogliamo». In questo modo si è dato la zappa sui piedi perché le cifre sono quelle che abbiamo riportato: alla salvaguardia dalle alluvioni vengono destinate risorse pari al 3% di quanto si regala alle consorterie delle grandi opere.
«Userò la stessa determinazione per spazzare via il fango della mala burocrazia», ha poi affermato Renzi. Dietro questa frase c’è la filosofia che ha ispirato lo Sblocca Italia con la cancellazione di regole e controlli. È una cura fallimentare: i ricorsi contro gli appalti per la riduzione del rischio idrogeologico di Genova non sono stati infatti presentati da «comitatini o professoroni». L’impresa che si è vista sfuggire l’appalto è infatti di proprietà di una tra le maggiori imprese di Genova. E se un imprenditore arriva a denunciare una gara è perché a furia di semplificare, gli appalti in Italia vengono assegnati nella più assoluta discrezionalità da parte della politica. Per importi fino a 500 mila euro è sufficiente una gara informale ed è evidente che un sindaco può far vincere chi vuole. Negli ultimi venti anni si sono alterate le regole del gioco economico e della trasparenza in favore della discrezionalità.
Del resto, è stato proprio Renzi che — in seguito agli scandali che hanno fatto emergere la facilità con cui i privati potevano agire in piena discrezionalità e rubare cifre gigantesche nella realizzazione delle grandi opere — ha nominato uno straordinario magistrato come Raffaele Cantone a capo della Civit, l’autorità nazionale anticorruzione, e commissario alla realizzazione dell’Expo 2015. Il governo “commissaria” le grandi opere per ricostruire le regole e con lo Sblocca Italia estende il modello discrezionale a tutte le opere pubbliche. Non c’è chi non comprenda la follia di questa prospettiva.
La tragedia di Genova dimostra che lo Stato dovrebbe concentrare tutte le risorse nell’opera di risanamento idrogeologico del paese. Dall’inizio del 2014 le grandi alluvioni sono state 10, hanno causato 11 morti e immense devastazioni. Se il governo avesse a cuore il destino dell’Italia dovrebbe cambiare agenda e impiegare tutte le intelligenze che abbiamo in campo tecnico per l’immensa opera di risanamento idraulico e geologico di un paese che sta franando sotto i colpi del cambiamento climatico.
In questo campo, la fretta e la semplificazione non sono le migliori consigliere. Nel campo idrogeologico è necessaria una visione di lungo periodo per ricostruire l’equilibrio del territorio, così come era previsto nella legge sulla difesa del suolo (183/89) che imponeva di fare i piani di bacino idrografico in Italia. È stata la politica a non volerla attuare, la difesa del suolo è stata sconfitta dai cementificatori e per questo le nostre città sono spazzate via dalla furia delle acque. Altro che burocrazia.
Franco Gabrielli, capo della protezione civile, conosce per il ruolo che svolge l’insostenibilità dello stato del territorio: qualche mese fa, dopo l’ennesima alluvione, aveva azzardato l’ipotesi della moratoria del cemento per rimettere in ordine l’ambiente. Se Renzi vuole davvero cambiare verso al paese lo nomini ministro per la Cura del Territorio e licenzi Maurizio Lupi, il convinto amico del cemento.
E infine le risorse. Per uscire dalla miseria dei 110 milioni previsti nello sblocca Italia (solo per riparare i danni di Genova ne dovremo spendere 400) il primo ministro ha azzardato che utilizzerà al più presto i 2 miliardi per la difesa del territorio non spesi «per colpa della burocrazia». Non è vero, ma non fa nulla: per cambiare verso stanzi davvero cifre pari a quelle che regala alle grandi opere. Con i 4 miliardi previsti per i tanti inutili Mose, si potrebbe riportare in pochi anni la sicurezza nel territorio italiano. È l’ultima occasione per salvare l’Italia dal fango che la sta sommergendo.
jolly spazza comitatini: la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dell’opera prevista. I Comitatini, intanto, si sono dati appuntamento per il 15 e 16 ottobre a Montecitorio“. Il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2014
Come annunciato apriamo una parentesi per approfondire il pessimo Sblocca Italia.
Il decreto che il tweet premier ha partorito, insieme soprattutto al ministro Lupi, sotto la dettatura ideologica del partito del cemento e delle lobbies del petrolio, dell’energie e degli inceneritori.
Era partito da lontano Matteo Renzi. Qualche mese fa annunciava la propria determinazione a sbarazzarsi dei tanti comitatini che si oppongono nel paese al modello di sviluppo da lui perfettamente incarnato. L’ha fatto ovviamente con un bel colpo mediatico. A un paese stanco ed in crisi profonda, ha indicato i comitatini come un intralcio per le sue riforme e per la sua energia: “È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l’energia e l’ambiente che hai in Sicilia e in Basilicata.
«Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei tranquillamente raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini».
Ecco fatto. “Volete il lavoro? Volete energia? Io sono rapido e potrei fare questo, quello e quest’altro, ma ci sono i comitatini che me lo impediscono!”
Partiamo da qui. Partiamo da quello che lo Sblocca Italia, prima ancora di vomitare asfalto e cemento sulle campagne e di penetrare con trivelle la terra e il mare tanto amato da viaggiatori e poeti, deve portare a casa come una premessa necessaria, un lavoretto preliminare: azzerare la partecipazione dei cittadini e dei sindaci per imporre - seguendo una logica verticale, dall’alto verso il basso - tutte le “pillole” di devastazione e saccheggio di territorio e bellezza.
Il decreto è munito di una splendida e meravigliosa “arma letale” un specie di jolly spazza comitatini: la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dell’opera prevista. Ciò significa che utilizzando il jolly si partirà veloci con l’esproprio e ogni opposizione sarà rimossa, ogni contestazione tacitata, e se i comitatini o i sindaci continueranno a mettersi di traverso, saranno guai. Sono interventi strategici, sono per il bene del Paese. E se qualcuno si oppone interviene la celere. L’Italia sarà un’enorme Val di Susa? Lo vedremo.
I Comitatini, intanto, si sono dati appuntamento per il 15 e 16 ottobre a Montecitorio.
Il 90% dell’archeologia di scavo è oggi archeologia d’emergenza o preventiva. Ormai da molti anni, lo scavoarcheologico non è più, se non in minima percentuale, lo strumento di un progetto di ricerca, deciso a priori nelluogo, nei tempi, nella metodologia, bensì un “effetto collaterale” di attività sul territorio che hanno altrefinalità rispetto alla ricerca storico scientifica.
In Paesi di straordinaria stratificazione storica come il nostro, si tratta di un “incidente di percorso” frequentissimo: secondo il ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, cui compete in sede esclusivala gestione/coordinamento di tali operazioni, gli scavi diquesto tipo ammontano a circa 6-7.000 l’anno.
Parlare di archeologia preventiva (o d’emergenza) significa quindi parlare di archeologia, tout court, della situazione del precariato giovanile, del legame -inscindibile e tuttora largamente incompiuto- fra tutela del patrimonio e pianificazione territoriale.
Nata alla fine degli anni 70, l’archeologia preventiva ha di fatto provocato, almeno in gran parte degli altri Paesieuropei, un radicale ripensamento metodologico della disciplina, introducendo nuove pratiche e la nascita dinuove figure professionali che sono chiamate a gestire i cantieri archeologici, coordinate in Italia dal personale del ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo che, anche a causa delle note carenze di personale, non riesce a condurre direttamente gli scavi.
Nel 1992, in concomitanza con l’avvio dei grandi progetti continentali di infrastrutturazione -i corridoi transna-zionali tuttora in costruzione- il Consiglio d’Europa, con grande tempismo, emanò un innovativo documentomirato alla tutela del patrimonio archeologico, noto come Convenzione di Malta. La ratifica ed introduzione dellaConvenzione di Malta in quasi tutti i Paesi europei ha contribuito, almeno fino allo scoppio dell’attuale crisieconomica, all’evoluzione decisiva, in termini metodologici e di opportunità lavorative, di questo settoreprofessionale per migliaia di archeologi e ricercatori di discipline correlate.
A distanza di 22 anni l’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione di Malta e purtroppo, neppure il nostro Codice dei Beni culturali ha saputo adeguare le normative di tutela all’evoluzione della disciplina: l’archeologia del Codice è ancora quasi esclusivamente una disciplina accademica di matrice ottocentesca. Ma, elementoancor più grave, le procedure di archeologia preventiva previste (articolo 28, comma 4), caso unico in Europa,sono circoscritte alle sole opere pubbliche, mentre la proprietà privata ne rimane a tutt’oggi esente. L’accenno fugace del Codice ha reso necessarie poi ulteriori precisazioni normative (legge 109/2005 e articoli 95 e96 del d.lgs 163/2006) che però hanno lasciato pesanti lacune interpretative tuttora non risolte.
Ambiguità e incertezze normative hanno favorito un rapporto squilibrato (per usare un eufemismo) fra università e cooperative di scavo o ditte specializzate, ma soprattutto un contesto che non assicura condizioni di lavoro sufficientemente dignitose (si parla ormai, per ricercatori plurispecializzati, di tariffe orarie di 5 euro)agli archeologi professionisti, e, sul piano della tutela del patrimonio archeologico lascia irrisolti i problemilegati alla valorizzazione del patrimonio emerso e alla gestione dei depositi del materiale scavato.
Su questa situazione non certo ottimale si sono abbattuti in rapida successione gli innumerevoli provvedimentilegislativi che, dall’inizio della crisi economica, con l’obiettivo (pretesto?) di far ripartire l’economia (masi legge edilizia), hanno di fatto eroso mano mano gli spazi d’azione degli organismi di tutela in particolareper quanto riguarda le attività sul territorio.
Quasi inevitabile che proprio l’archeologia preventiva, in grado di bloccare i lavori per tempi spesso anche lun-ghi e non sempre circoscrivibili, sia nel mirino di chi sta conducendo una campagna volta alla delegittimazione delle pratiche di tutela.
Lo Sblocca-Italia rischia di essere il colpo definitivo che annichilisce una disciplina in Italia mai compiutamente decollata: innanzi tutto perché, come ben spiegato da altri interventi qui raccolti, procede ad un sistematico ribaltamento delle gerarchie costituzionali. Le esigenze del patrimonio devono cedere il passo sempre e comunque alle opere infrastrutturali, di cui il patrimonio archeologico rappresenta uno degli ostacoli più insidiosi.D’altro canto, nella farraginosa congerie di opere più o meno “grandi” indicate nel decreto, la quasi totalità, dalle tratte ferroviarie a quelle autostradali, dagli impianti di reti, agli aeroporti e alle metropolitane (oltre a Roma, Napoli e Torino si parla di Palermo e Cagliari) sarebbe appunto interessata dalle procedure di archeologia preventiva che, proprio per questo, occorre delimitare accuratamente.
Oltre alla compressione del dissenso nelle conferenze di servizio (nella grande maggioranza dei casi espresso proprio dagli organismi di tutela, articolo 1 comma 4, articolo 4 comma 1), quindi, si generalizza il ricorso al silenzio-assenso e si attribuisce un carattere di “atto di alta amministrazione” alla deliberazione del consiglio dei ministri (articolo 25).
Stricto sensu, e al contrario di come è stata spesso interpretata in Italia dal ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, fare archeologia preventiva non significa scavare tutto ciò che di valore archeologico emerge nel corso di interventi sul territorio, ma, piuttosto, attraverso metodi e strumentazioni adeguate, riuscire a definire in anticipo il “rischio” (o meglio potenzialità) archeologico di un’area interessata da un progetto in modo da modificarlo, nel tracciato, nelle dimensioni, nelle modalità d’impatto e da tutelare così il patrimonio archeologico “radicalmente”, senza ricorrere a scavi estensivi che sono in ogni caso episodi distruttivi e che, come sottolineò per prima la raccomandazione UNESCO del 1956, abbiamo il dovere di ridurre al massimo, soprattutto nell’incertezza sulla loro gestione successiva. Ciò non sempre è possibile, ma è certamente un obiettivo che può essere perseguito, innanzitutto attraverso la pianificazione territoriale: è solo a questo livello, infatti, così come segnalava già la Convenzione di Malta nel 1992 (articolo 5) che possono essere definite strategie di tutela del patrimonio archeologico efficaci perché intraprese “a monte” e quindi realmente preventive.
Lo Sblocca-Italia, al contrario, rappresenta la negazione in radice delle pratiche di pianificazione, comunque intese, giungendo a sospendere la valenza di piani urbanistici e paesistici (articoli 7 e 33), e per conseguenza le loro garanzie di tutela. Oltre a ciò, l’intervento degli organismi di tutela è rigidamente e sistematicamente compresso sia in termini temporali, sia negli ambiti decisionali: trattati come ospiti indesiderati, i rappresentanti della tutela subentrano -quando è loro concesso- solo a “cose fatte”: negata loro qualsiasi possibilità di intervento a livello progettuale, anche in fase di verifica la loro azione è predefinita nelle finalità e al più può essere quindi di “mitigazione del danno”, mai di opposizione radicale (articolo 1 comma 4).
Invece che inserire, come vorrebbe la Convenzione di Malta, gli organismi di tutela fin nelle prime fasi progettuali, lo Sblocca-Italia li espelle dai tavoli decisionali, confinandoli ad un ruolo marginale e mai inappellabile e sancendo, a livello legislativo, la sudditanza delle ragioni del patrimonio rispetto ad esigenze “altre”.
Così, quando nel decreto troviamo l’ingiunzione secondo la quale entro dicembre prossimo, dovranno essere emanate quelle linee guida di regolamentazione delle procedure “di verifica preventiva dell’interesse archeologico” (articolo 25 comma 4), previste già dal d. lgs 163 del 2006 (dopo 8 anni di inutili tentativi si pretenderebbe quindi di emanarle in qualche settimana), i sospetti si fanno fortissimi: secondo voi nella discussione fra i due ministeri coinvolti -Infrastrutture e trasporti versus Beni culturali- quali ragioni prevarranno?
Convenzione di Malta
Articolo 5
Ogni Parte si impegna:
i. a cercare di conciliare e articolare i bisogni dell’archeologia e della pianificazione, facendo in modo che degli archeologi partecipino:
a. alle politiche di pianificazione volte a definire delle strategie equilibrate di protezione, conservazione e valorizzazione dei siti di interesse archeologico;
b. allo svolgimento delle diverse fasi dei programmi di piani- ficazione;
ii. a garantire una consultazione sistematica tra archeologi, urbanisti e pianificatori del territorio, al fine di permettere:
a. la modifica dei progetti di pianificazione che rischiano di alterare il patrimonio archeologico [...]
l Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2014
Dal mare tropicale alle montagne innevate in soli due minuti. Fondi caraibici e la pista di slalom gigante. Una funivia avrebbe collegato la spiaggia ai monti, il caldo al freddo, il sole alla neve. Sembra di essere tornati all’inizio degli anni Settanta quando Calogero Mannino radunò in piazza i cittadini di Sciacca e annunciò: “Dite ai vostri figli di tornare in città. C’è lavoro per tutti, finalmente”. Sembra che Matteo Renzi abbia preso molto dalla filosofia del potente democristiano siciliano. Ha creato Italia sicura, che deve preservare il nostro Belpaese dai dissesti idrogeologici, deve curare le ferite di mezzo secolo di devastazione e però ha firmato il decreto Sblocca Italia che consegna lo stesso Paese devastato ai devastatori, traveste i costruttori in commissari delle grandi opere pubbliche, ed elimina nella sostanza ogni forma di controllo pubblico. “Padrone in casa tua”, disse Berlusconi in uno dei suoi formidabili slogan che perforarono il cuore di tanti cittadini in attesa. Padrone in casa tua, ripete oggi Renzi. Anzi lo scrive: nero su bianco.
Oggi che Genova offre questo ennesimo spettacolo di distruzione e di morte, frutto soprattutto di cattivi piani urbanistici figli di interessi immobiliari diffusi e deviati, oggi che costruzioni e ostruzioni di massa allagano la città e la rendono permanentemente pericolosa, il premier spiega qual è il problema: “Fare presto, sbloccare le opere che devono salvare la città”. È un proponimento all’apparenza giusto, perché circa 35 milioni di euro per la messa in sicurezza di alcuni corsi d’acqua sono fermi grazie alle postille burocratiche, ai ricorsi amministrativi, agli appelli e alle contese. Se per un attimo Renzi volesse approfondire il tema capirebbe che i cavilli, nove volte su dieci, sono armi speciali autorizzate e legalizzate in mano a quei costruttori che lui medesimo sta eleggendo a commissari. Per fare un esempio: la Metro C di Roma è costata grazie ai cavilli 600 milioni di euro (varianti, arbitrati, aggiornamenti prezzi) e dieci anni di ritardi. Il governo ha eliminato il problema eliminando i controlli. Scrive Salvatore Settis su Rottama Italia (scaricabile gratuitamente su altreconomia.it ), un libro di vari autori che documentano le continue devianze dal diritto a cui sarà sottoposto il paesaggio italiano: “Col silenzio-assenso ogni richiesta si intende accolta. Anche se comporta la distruzione di un’area archeologica, lo sventramento di un palazzo barocco, la riconversione di una chiesa medievale in discoteca, l’edificazione di un condominio su una spiaggia”. O anche – come a Genova – alla foce di un torrente, potremmo aggiungere. Tutto è permesso, in ragione della costruzione. Nel decreto Sblocca Italia le lentezze sono opera della burocrazia inetta e non figlie di norme volute dal Parlamento, destinate esattamente al loro scopo. Ritardare, arzigogolare, rallentare, negoziare. In Italia si spende un milione di euro al giorno per far fronte solo alle varie emergenze. E questo governo interpreta sia la vittima che il carnefice: manda in scena oggi il ministro dell’Ambiente Galletti (“No ai condoni”), mentre il suo collega Lupi, quello delle Infrastrutture, rade al suolo la concessione edilizia e codifica una certificazione autonoma del privato cittadino. È il privato che sancisce se è violato o meno l’interesse pubblico e il privato che garantisce che il suo cemento non reca danno, non ostruisce, non danneggia. In Italia sono circa sei milioni di cittadini che vivono in luoghi altamente a rischio e circa settemila comuni dal territorio fragile.
Rottama Italia. 16 testi d'autore, 13 vignette d'artista
Il progetto per il recupero di Bagnoli — luogo di antica e mitica bellezza, sotto le falesie di Posillipo, affacciato su Nisida e sulle isole del Golfo — fu in seguito perfezionato nel nuovo piano regolatore e nel piano attuativo che fecero seguito agli indirizzi del 1994. Ed è bene ricordare che, seppure fondate su previsioni a bassa densità e di minima nuova edificazione, fu anche autorevolmente verificata la redditività e la convenienza delle trasformazioni previste. Nel 1999 un vincolo di tutela del ministero dei Beni culturali, molto circostanziato (mirabilmente scritto da Antonio Iannello, uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano), confermò, consacrandole, se così posso dire, le previsioni urbanistiche comunali. Ma intanto si era messo mano a un’estenuante e sconclusionata operazione di bonifica comandata dal ministero dell’Ambiente. Cominciò così ad appannarsi e poi, a mano a mano, a dissolversi il sogno della nuova Bagnoli. Fra ritardi nei finanziamenti, inettitudini e peggio, la bonifica non è mai finita. Altrettanto deplorevole la storia della Bagnolifutura, la società ad hoc formata dal comune che però ha operato come un corpo separato, in parte sinecura, in parte serpe in seno, fino al maggio scorso quando il tribunale di Napoli ne ha dichiarato il fallimento.
Diciamoci la verità, il progetto Bagnoli degli anni Novanta non è mai piaciuto a chi conta davvero a Napoli e in Italia, e cioè al mondo della finanza e degli interessi immobiliari. Il parco di oltre cento ettari, in una città nota in letteratura per la quasi totale assenza di verde pubblico, è stato considerato uno spreco e una follia: architetti da passeggio, economisti e giornalisti con il cervello intriso di cemento e di asfalto, e con essi la destra di ogni sfumatura, hanno fatto a gara per diffamare la nuova Bagnoli. Se n’è avuta prova nel 2003, quando Napoli si candidò a ospitare nel mare di Bagnoli la 32esima edizione dell’America’s Cup, dichiarandosi disponibile a ogni modifica del progetto. Per fortuna vinse Valencia. Alla fine, a far piazza pulita di una politica pasticciata e inconcludente, ma anche del sogno napoletano di un grande spazio pubblico sul mare, ci hanno pensato Matteo Renzi, Maurizio Lupi e gli altri autori del decreto Sblocca Italia il cui art.33 riguarda proprio la bonifica ambientale e la rigenerazione urbana di Bagnoli e Coroglio. Gli interventi sono affidati a un Commissario straordinario del Governo e a un Soggetto Attuatore dotati di enormi poteri (che altri valuteranno dal punto di vista della legittimità). In particolare, all’incognito Soggetto Attuatore sono assegnate le aree della Bagnolifutura e le funzioni proprie del comune in materia di formazione dei progetti e di gestione degli interventi. Qui interessa mettere in chiaro che l’abbinamento di bonifica e rigenerazione urbana in capo al governo nazionale è subdolo, e tutt’altro che scontato. Perché il governo deve occuparsi di “opere di urbanizzazione primaria e secondaria” (comma 3 dell’art. 33), “di demolizione e ricostruzione e di nuova edificazione e mutamento di destinazione d’uso dei beni immobili comprensivi di eventuali premialità edificatorie”, nonché di “modelli privatistici consensuali” (comma 8)? Se l’obiettivo fosse stato, come sarebbe stato logico, di accelerare il completamento del progetto Bagnoli, il decreto doveva limitarsi a fissare precetti per mettere fine alla bonifica e agli interventi di trasformazione senza bisogno di un nuovo piano d’assetto, reso invece obbligatorio dal comma 3. Che il comune di Napoli disponga di un progetto urbanistico regolarmente approvato e vigente il decreto lo ignora, accredita anzi il convincimento che si sia all’anno zero e si debba cominciare daccapo. Determinando così le condizioni per una grande abbuffata, restituendo il comando agli energumeni del cemento armato – comunque vestiti – affossando per sempre le speranze dei napoletani.
La natura eversiva dell’operazione Bagnoli è confermata dalle procedure per l’approvazione dei programmi e dei progetti per la bonifica e la rigenerazione urbana (commi 9 e 10). Le decisioni sono accentrate nelle mani del presidente del Consiglio dei ministri e del presidente della regione Campania Stefano Caldoro – lampante ennesima dimostrazione della sant’alleanza Renzi Berlusconi – mentre è perfidamente escluso il sindaco di Napoli che, piaccia o non piaccia, è il garante dell’urbanistica cittadina. Anche qui, altri valuteranno la rispondenza delle norme alla Costituzione. Per quanto mi riguarda, non si tratta di difendere Luigi De Magistris, ora sospeso, o chiunque sia al suo posto, ma di chiedersi se e è democraticamente concepibile l’esclusione di un sindaco dalle decisioni riguardanti il futuro della città che lo ha eletto.
La Repubblica, 9 agosto 2014
L’esecutivo Renzi si è già guadagnato l’etichetta di governo meno ambientalista mai espresso dal centrosinistra in Italia. I Verdi, polverizzati in tante sigle, inesistenti da sei anni in Parlamento e quindi politicamente fragili, sono pronti ad azioni comuni. Su molti fronti. Non c’è decreto, raccontano, dove in nome dello sviluppo rapido, della ricchezza da estrarre oggi e produrre domani, non si autorizzino nuovi buchi, cemento fresco, una deregulation su tutta la materia ambientale. «Renzi non ha asfaltato solo Berlusconi, sta asfaltando l’Italia», dice Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi rimasti. Lui sostiene diverse iniziative politiche del premier, «ma sull’ambiente è un disastro».
«Il fondatore di Slow food è tra gli autori di “Rottama Italia”, un libro denuncia sul decreto Sblocca Italia. Lo scritto di Petrini, che è possibile leggere integralmente scaricando gratuitamente il pdf del libro o acquistando l’ebook dal sito di Altreconomia, raccoglie alcuni passaggi molto critici rispetto al governo Renzi”. L'Espresso, 8 ottobre 2014
«C’è stato un momento in cui in molti hanno sperato che la “rottamazione”, al di là delle persone, avrebbe finalmente riguardato un certo modo di fare della politica e di quella parte di mondo dell’economia e delle imprese che vive in simbiosi con essa», scrive Petrini, «certo, nessuno si aspettava un Governo della decrescita felice: sembrava però prossima almeno l’apertura di una stagione politica in cui finalmente, anche nei palazzi di governo, fosse possibile criticare i fondamentali di un sistema che da anni non genera più benessere e ricchezza e a causa del quale, anzi, si è manifestata la più lunga crisi del secondo
dopoguerra».
Una delusione, è Renzi per Petrini, che evidentemente aveva sperato. Non che si fosse, illuso, sia chiaro: «Qualcuno, pur scettico, aveva concesso un minimo credito a questa paventata ondata di novità; qualcuno ci ha creduto un po’ più a lungo». Poi, però, «a mettere d’accordo tutti, a sgombrare qualsiasi dubbio, a svelare la distanza abissale tra gli auspicati buoni propositi e la realtà, ci ha pensato lo Sblocca Italia, in modo particolare per quanto concerne le misure dedicate all'edilizia e alla gestione di beni comuni».
Il giudizio di Petrini è netto e può apparire paradossale: «Oggipersino il Governo Monti, grazie all’iniziativa dell’allora Ministro dell’Agricoltura Mario Catania, può apparire più progressista e innovatore dell’esecutivo guidato da Matteo Renzi». Il fondatore di Slow food ripercorre l’iter, mai concluso, della legge Catania.
E poi dell’iniziativa del governo Letta, arenata come la precedente: «il 3 febbraio 2014, riprendendo in buona sostanza l’impianto della proposta di Catania, fece la sua comparsa un nuovo disegno di legge, ancora una volta promosso dal titolare del dicastero dell’Agricoltura, Nunzia De Girolamo». «Di nuovo» continua Petrini, «non eravamo ancora all’impianto normativo ideale, quello su cui ancora insistono i cittadini che animano i forum per la protezione di quel bene che i padri costituenti vollero scolpito nell'articolo 9 della Carta», ma «sembrava confermarsi quell’indiscutibile cambio di rotta che per anni era stato inseguito senza esito, da tutti quei soggetti che ora iniziavano a partecipare ad audizioni parlamentari e incontri pubblici, dove almeno era possibile confrontarsi sulle diverse ricette che dovevano portarci al traguardo di azzerare il consumo di suolo: l’unico obiettivo credibile per un Paese, come il nostro, che ogni giorno divora 100 ettari di superficie agricola».
Ora, lo Sblocca Italia di Matteo Renzi, è «uno shock assoluto, un ritorno al passato che non ci riporta solo a prima dell’estate 2012: in realtà siamo saliti su una macchina del tempo destinata a farci rivivere tutti i momenti più brutti di una certa storia d’Italia». «Nello Sblocca Italia», spiega Petrini, «non vi è traccia di zero consumo di suolo», né c’è traccia, stranamente, di ciò che ci chiede l’Europa, «degli obiettivi che l’Unione Europea pone agli Stati Membri in termini di gestione del territorio: per Bruxelles si dovrà raggiungere l’occupazione di terreno pari a zero entro il 2050».
«Il Paese che Renzi racconta quando va all’estero a caccia di investitori, di credibilità», nota infine Petrini, «è il Paese fondato sulla bellezza dei nostri paesaggi, sulla diversità dei territori, sulla ricchezza di un patrimonio culturale, che si fondano in larghissima parte nella storia straordinaria, unica e irripetibile della nostra agricoltura e della nostra alimentazione». E come si combina il paese del Made in Italy con quello dello Sblocca Italia?
«Il condensato di opere proposte in blocco senza appello, di forzature, di deroghe alla normativa ordinaria, mi chiedo dove incroci anche solo una delle vocazioni del nostro Paese. Come può motivare un giovane a intraprendere un qualsiasi mestiere legato all’agricoltura, all’artigianato alimentare, alla piccola pesca, al turismo di qualità, tutti quanti messi definitivamente al bando dalla colata di cemento terminale che nel giro di pochissimi anni sarà scatenata dall’approvazione dello Sblocca Italia?».
Huffingtonpost.it, 8 ottobre 2014
«Accelerare e semplificare la realizzazione di opere infrastrutturali strategiche, indifferibili e urgenti, nonché per favorire il potenziamento delle reti autostradali e di telecomunicazioni e migliorare la funzionalità aeroportuale; (...) la mitigazione del rischio idrogeologico, la salvaguardia degli ecosistemi, l'adeguamento delle infrastrutture idriche e il superamento di eccezionali situazioni di crisi connesse alla gestione dei rifiuti, nonché di introdurre misure per garantire l'approvvigionamento energetico e favorire la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali; (..) la semplificazione burocratica, il rilancio dei settori dell'edilizia e immobiliare, il sostegno alle produzioni nazionali attraverso misure di attrazione degli investimenti esteri e di promozione del Made in Italy, nonché per il rifinanziamento e la concessione degli ammortizzatori sociali in deroga alla normativa vigente al fine di assicurare un'adeguata tutela del reddito dei lavoratori e sostenere la coesione sociale.»
Queste le circostanze straordinarie di necessità e urgenza riportate nel preambolo del decreto legge n. 133 del 2014 che ne giustificherebbero l'adozione. Un provvedimento vasto e complesso, composto da 45 articoli, per 'sbloccare' l'Italia. Sbloccare l'Italia. Abbiamo tutti la necessità di un forte cambiamento che ridia competitività al nostro Paese e crei occupazione, ma sono perplesso sulle soluzioni proposte in questo provvedimento perché siamo di fronte all'ennesimo intervento emergenziale, derogatorio ed eterogeneo con cui si bypassa il dibattito parlamentare.
La mia convinzione, basata anche sull'esperienza di 10 mesi di responsabilità istituzionale, è che se vogliamo realmente cambiare il Paese ingessato da una burocrazia che non risponde alle aspettative dei cittadini sia opportuno rivedere le procedure e le responsabilità. Ma sono convinto che occorra fare questo all'interno delle norme e non adottando come strumento di governo procedure d'urgenza che se da una parte possono accelerare i processi decisionali, troppe volte hanno dimostrato la loro fragilità e il pericolo di favorire la corruzione. Negli ultimi anni assistiamo ad una crescita sempre maggiore del ruolo del Governo nella legislazione con conseguente erosione delle competenze parlamentari. I dati sulla legislazione, in particolare la somma degli atti con forza di legge e dei disegni di legge di iniziativa governativa, mostrano un Governo dominus incontrastato della produzione normativa. Questo è un dato da non sottovalutare in un'analisi delle caratteristiche tipiche della normazione governativa, che sempre più appare insensibile alle regole di better regulation.
Lo 'Sblocca-Italia' risulta per molti aspetti un tipico esempio di cattiva legislazione. La carenza dell'istruttoria è testimoniata dall'assenza sia dell'analisi d'impatto della regolamentazione che dell'analisi tecnico normativa. Il mancato rispetto delle corrette procedure d'istruttoria può apparire un rilievo formale ma nella formazione delle leggi dello Stato la procedura è la garanzia del bilanciamento di interessi opposti, di democraticità e trasparenza delle scelte. Il decreto Sblocca-Italia non solo è stato approvato con un procedimento largamente derogatorio alle norme di better regulation ma dispone deroghe, talvolta rilevanti, al diritto vigente. L'urgenza non ha solo giustificato l'adozione di un decreto legge ma giustifica anche una serie di procedure abbreviate, di deroghe particolari e di nuove discipline da applicarsi in casi di urgenza.
Consapevole dell'incapacità della burocrazia di rispondere prontamente alle esigenze dei cittadini non posso però fare a meno di chiedere, a me stesso e al sistema politico, se siamo certi che la strada migliore per superare l'impasse sia aggirare, caso per caso, procedure nate per assicurare la ponderazione delle scelte. Perché non lavoriamo invece con coraggio per costruire un sistema semplificato, ragionato? Procedimenti certi, nei tempi e nei risultati, che possano applicarsi alla generalità degli interventi di cui il Paese necessita. Al contrario l'instabilità delle scelte fatte sull'onda dei casi singoli è testimoniata dalla continua modifica delle norme che spesso vigono solo per pochi mesi.
Sono convinto che se iniziassimo in Parlamento una discussione ampia e completa riusciremmo a dare risposte concrete in tempi brevi. Potremmo garantire la celerità dei procedimenti ma anche la certezza del diritto costruendo un sistema di regole che non ci costringerà più a disporre singole deroghe per raggiungere l'obiettivo più vicino. È in questo spirito che non condivido la natura e le finalità dello sblocca Italia, un provvedimento legislativo incautamente complesso, che deroga ma non chiarisce, tenta di semplificare ma produce stratificazioni normative e non tutela l'ordinamento e tutti gli interessi opposti all'urgenza. Quanto costa alla democrazia italiana una politica che interviene con un decreto legge di 45 articoli, relativi ad una pluralità di materie? In un bilanciamento di valori l'urgenza di intervenire può davvero prevalere sulla certezza del diritto e sulle procedure a tutela dei vincoli paesaggistici? È davvero necessario per 'sbloccare' l'Italia travolgere e stravolgere l'ordinamento con un provvedimento legislativo urgente di cui non si è valutato l'impatto e che il Parlamento discuterà in 60 giorni?
È necessario, a mio giudizio, legiferare per costruire un ordinamento stabile per il futuro, mentre è controproducente e miope regolare spinti dalla sola urgenza. Urgenza di intervenire che non può negarsi ma che deve essere affrontata con lungimiranza affinché il nostro Paese torni ad avere una visione di quello che sarà il nostro futuro.
Qualenergia.it, 2 ottobre 2014
In Italia sta diventando tutto 'strategico'. Con il decreto-legge n. 133 del 12 settembre 2014, meglio noto come Sblocca Italia, (qui sintesi e testo) godono di questa definizione, per esempio, le operazioni di ricerca e sviluppo di risorse petrolifere nazionali e ogni infrastruttura riguardante l’approvvigionamento e lo stoccaggio del gas naturale. Perché questa mania 'strategica'? Perché se un impianto serve alla 'strategia' (ma quale?) del Paese, è evidente che interessi locali non si possono opporre alla sua realizzazione, visto che andrebbe contro il 'bene superiore' della collettività nazionale.
Così sorprende che lo Sblocca Italia abbia fatto diventare 'strategici' persino gli inceneritori di rifiuti, mentre l’unica vera strategia in fatto di RSU (rifiuti solidi urbani) è quella europea, che tratta questi impianti un po’ come “un male necessario”, mettendo al primo posto la riduzione della produzione di rifiuti, al secondo la raccolta differenziata e solo al terzo posto i termovalorizzatori (o alte forme di recupero energetico), preferiti solo alle discariche. Inoltre se l’Italia avesse veramente (i miracoli accadono) intenzione di rispettare le direttive europee, portando la quota attuale di raccolta differenziata del 41 al 65% dei rifiuti solidi urbani (30 milioni di tonnellate in totale), i nuovi inceneritori, più che strategici, potrebbero diventare obsoleti. Situazione che si sta in effetti verificando in paesi come Svezia e Olanda, dove gli inceneritori, affamati dalla raccolta differenziata locale, oggi devono importare rifiuti dall’estero.
«In realtà, a parte il Nord, l’Italia è piuttosto lontana dai migliori esempi europei», spiega a QualEnergia.it il professore di chimica dell’ambiente Luciano Morselli, dell’Università di Bologna. «Da noi il ricorso alle discariche è ancora altissimo, oltre il 40%, mentre in quei paesi sono state quasi eliminate. Quindi se vogliamo realizzare un sistema integrato di gestione sostenibile dei rifiuti, che comporti una drastica riduzione delle discariche, come previsto dall’Europa, degli inceneritori non si può fare ancora a meno. Anche perché bisogna considerare che è difficile spingersi oltre una quota di raccolta differenziata del 70-75% del totale dei rifiuti urbani e che non tutti i rifiuti raccolti in quel modo possono poi essere effettivamente recuperati: un 20-25% viene comunque scartato e avviato allo smaltimento, recupero energetico compreso».
C'è poi da considerare che l'incenerimento dei rifiuti produce scorie solide pari a circa il 10% in termine di volume e al 20-25% in termini di peso dei rifiuti bruciati, oltre a ceneri per il 5%. Si tratta in gran parte di rifiuti speciali e come tali vanno stoccati in adeguate discariche.
Ma, ammesso si riesca a costruire in Italia un buon sistema di gestione dei rifiuti, per la parte “residua”, irrecuperabile, non basterebbero comunque i 45 inceneritori già esistenti? "Quegli inceneritori trattano solo il 17,2% di RSU, e lo 0,7% degli speciali, non sarebbero quindi sufficienti a pianificare anche al centro e sud un sistema integrato sostenibile. Inoltre quegli impianti si trovano quasi tutti al Nord, e molte realtà locali si oppongono all’importazione di rifiuti da altre zone d’Italia. Lo 'Sblocca Italia' può quindi essere uno strumento per sbloccare le azioni necessarie a realizzare un sistema di gestione sostenibile, che comprenda anche il recupero energetico. In questo sistema, hanno una parte importante anche i Combustibili Solidi Secondari, derivati cioè da rifiuti, che possono alimentare impianti energivori, come i cementifici, sostituendo i combustibili fossili".
In realtà, proprio per permettere alle regioni più dotate di inceneritori di 'aiutare' quelle meno fornite, lo Sblocca Italia prevede una maggiore facilità di movimento dei rifiuti nel Paese, e specifica anche che gli impianti potranno lavorare a 'saturazione termica', cioè al massimo carico disponibile, azzerando il margine di circa il 30% finora tenuto. E questo, in effetti, ha già fatto insorgere il Governatore della Lombardia, Roberto Maroni, che teme un’invasione di rifiuti dal Sud.
"Questa transumanza dei rifiuti non dovrebbe proprio esserci, in effetti, in quanto ogni provincia dovrebbe creare i presupposti per smaltirsi in loco correttamente i propri rifiuti. Il problema è che al Nord hanno già tutto quello che gli serve per questo, alti tassi di raccolta differenziata, inceneritori e discariche. Molte regioni meridionali, invece, hanno finora usato essenzialmente solo le discariche, con i risultati che abbiamo visto in Campania e ora anche in Calabria, Sicilia e nella stessa Roma, via via che questi impianti si saturano e le popolazioni insorgono contro l’apertura di nuovi. Gli inceneritori, se non ci sono alternative, possono essere parte della soluzione in questi casi".
Secondo Waste Strategy, il think-tank su rifiuti e riciclo di Althesys, però, puntare sulla differenziata, piuttosto che sugli inceneritori, non solo rispetterebbe di più la strategia europea, ma creerebbe anche molta più occupazione a costi inferiori. Per dimostrarlo hanno considerato due scenari di sviluppo della raccolta differenziata; uno che ottimisticamente prefigura che entro il 2020 si arrivi ai livelli chiesti dalla UE, l’altro che si continui invece con il graduale attuale aumento, giungendo comunque al 2020 a una riduzione del conferimento in discarica di 4 milioni di tonnellate di rifiuti, rispetto ai 15 milioni attuali interrati.
Nel primo caso si passerebbe dalle 68.300 persone impiegate nel settore della differenziata, a 195.000, cioè si avrebbero 126.700 nuovi posti di lavoro, con un investimento in nuovi impianti di compostaggio e separazione di 16 miliardi di euro. Nel secondo caso, invece, l’aumento di occupazione si fermerebbe a 89.000 posti di lavoro e gli investimenti a 8 miliardi di euro. In entrambi i casi, gran parte di occupazione e investimenti finirebbe al Sud, dove la raccolta differenziata è molto più indietro.
Visto che un inceneritore medio come quello di Parma, al centro di tante polemiche, costa sui 300 milioni di euro e brucia 130.000 tonnellate l’anno, impiegando poche decine di persone, sembrerebbe che per trattare quei 4 milioni di tonnellate di rifiuti tolti dalle discariche dalla differenziata, nello scenario “minimalista” di Althesys, usando termovalorizzatori, servirebbero circa 10 miliardi di euro di nuovi impianti con una occupazione molto minore. Mentre sarebbero molto maggiori le polemiche e gli scontri con le popolazioni locali, dovute ai dubbi sulle emissioni dalle ciminiere.
«In realtà - rassicura Morselli - gli impianti di nuova generazione, se ben gestiti, hanno emissioni al camino di sostanze pericolose ridottissimi, fino a un centesimo o meno, per alcuni inquinanti, rispetto ad impianti anche solo di pochi anni fa. Gli impatti sulla salute, anche se non annullati, risultano quindi molto ridotti».
Per attenuare l’impatto sulla salute, però, gli attuali inceneritori sono diventati impianti molto complessi e costosi da costruire e gestire. E questo si è riflesso sulle loro tariffe: ogni tonnellata di RSU incenerita costa ai comuni intorno a 150 euro. Dato che la raccolta differenziata costa in media sui 198 euro/tonnellata ai comuni, apparentemente l’incenerimento è una scelta più economica. Ma in realtà gli inceneritori incassano denaro anche tramite gli incentivi all’elettricità prodotta bruciando i rifiuti, pagati da tutti in bolletta elettrica tramite il 'famigerato' Cip6.
Nel 2012 in Italia gli 810 MW dei termovalorizzatori, hanno prodotto 2,1 TWh elettrici da RSU considerati rinnovabili (sui 3,7 TWh totale, poco più dell’1% dei consumi italiani), incentivati con 390 milioni l’anno, ovvero 188 euro/MWh, o 126 euro/tonnellata (dati corretti riseptto alla prima versione pubblicata il 3 ottobre, ndr). Sommando tariffa + incentivi, i termovalorizzatori “bruciano” quindi circa 220 euro per tonnellata di Rsu (considerato che gli incentivi gravano solo su una parte del totale), superando il costo della raccolta differenziata, che ha anche un impatto più importante in termini di occupazione.
«È ormai evidente - conclude Morselli - che si andrà nel tempo verso una riduzione di discariche e di inceneritori, con una raccolta differenziata al 65-70%, perché se si comparano costi, opportunità di lavoro, impatto ambientale e accettazione della popolazione, tutto è favorevole alle quattro R 'Riduzione, Recupero, Riciclo, Riuso'. Ma nel frattempo consideriamo, per favore, cosa accade nei paesi europei più avanzati nella corretta gestione dei rifiuti, quelli che hanno già quasi azzerato le discariche: tutti accoppiano a un alto tasso di raccolta differenziata, uno di incenerimento quasi altrettanto alto. Per esempio, nel 2012: Austria: incenerimento 35%, riciclaggio/compostaggio 62%, Danimarca 52-45, Belgio 42-57, Germania 35-65. In Italia siamo ancora al 41% di discariche, 18% di incenerimento e 41% di riciclaggio/compostaggio. E’ evidente quale sia da noi il punto più carente, per avere un Sistema di gestione integrata dei rifiuti vicino ai migliori esempi europei».
Sarà così, ma proprio guardando le percentuali dei 'virtuosi' europei, non si capisce perché non si sia definita 'strategica' la raccolta differenziata, almeno quanto, se non di più, degli inceneritori.
«Una norma di semplificazione, sbandierata ai quattro venti dal Presidente del Consiglio è scomparsa dal decreto Sblocca Italia e nessuno ne sa più nulla». Naturalmente si tratta dell'unica norma positiva
I Verdi ritengono che proprio queste lobby abbiano operato perché non venga loro sottratta una immensa possibilità di guadagno, lobby che sicuramente hanno potuto contare sui sostenitori del federalismo, delle Regioni, dei sostenitori di tutti i localismi nonché delle bande di corrotti e corruttori che in tale marasma sguzazzano indisturbati.
Negli ultimi anni il tema della semplificazioni nella materia edilizia, iniziata con l'introduzione della DIA, ha subito una notevole quantità di modifiche, anche in sede regionale, senza che tutte le semplificazioni introdotte abbiano saputo rispodere a diverse fondamentali esigenze volte a garantire la semplicità degli adempimenti, tempi certi per ottenere risposte dalla P.A, uniformità in tutto il territorio nazionale delle procedure, eliminare la discrezionalità e quindi ridurre gli spazi per la corruzione, disporre di norme semplici, chiare, inequivocabili, che non necessitino di “interpretazione autentica”, tutelare meglio il territorio.
Nonostante gli sportelli unici, le autocertificazioni, il silenzio assenso ecc. tutti gli sforzi compiuti non hanno portano a risultati apprezzabili, anzi ogni innovazione è stata prontamente utilizzata per aumentare gli spazi di incertezza e aumentare le complicazioni, senza che gli interessi di carattere generale quali quelli della tutela e del buon governo del territorio o della sicurezza nelle opere siano soddisfatti. Si è trattato di finte semplificazioni perché esse hanno cozzato con gli interessi delle diverse lobby, interessate a mantenere le posizioni di privilegio conquistate e con l'ubriacatura federalista che unita (ricordate) con l'indimenticato slogan dell'era Lunardi «padroni in casa nostra» ha creato il più imponente groviglio che si ricordi.
Ogni modifica introdotta, ogni così detta. semplificazione non ha prodotto effetti positivi e ciò che aumenta sono solo le motivazioni con cui si cercano di giustificare l’abusivismo o lo spazio di discrezionalità dei ruoli di potere derivanti dalla interpretabilità delle norme, la frammentazione da luogo a luogo delle procedure e delle modalità di intervento.
Nel frattempo sono venuti meno i controlli: i pochi tecnici che restano nei comuni sono impegnati a fornire interpretazioni su norme tecniche complesse e farraginose costituite da centinaia di pagine. Ad esempio in Emilia Romagna, per effetto della legge urbanistica regionale vigente in un piccolo comune abbiamo 250 pagine circa di RUE, 250 pag. di POC e 250 pagine di così detto Piano Strutturale senza dimenticare che la L.R. 31 del 2002, inoltre, prevede la conformità dei progetti con la pianificazione sovraordinata (Piano Paesistico, Piano territoriale Provinciale, Piano del Parco, codice dei BBCC. ecc).
Molto si sarebbe potuto fare, ad esempio cominciando con lo stabilire che la disciplina delle autorizzazioni edilizie non è materia di competenza concorrente, dovendo essere omogenea in tutta Italia, senza le molteplici declinazioni procedurali inventate dalle Regioni e quindi dovrebbe essere sottratta alla potestà legislativa regionale e ancor di più alla sua declinazione locale: ciò consentirebbe a imprese, tecnici e investitori di poter operare con un unico quadro normativo-regolamentare senza dover ricorrere a “esperti” locali, depositari della conoscenza degli usi e costumi dei luoghi.
Da ultimo il Governo dovrebbe emanare per tutte le regioni d'Italia un regolamento edilizio unico , con un numero ridotto all'essenziale di articoli, adottando linguaggi giuridicamente e tecnicamente chiari e in equivoci, facendo una vera opera di semplificazione.
Dopo l'annuncio abbiamo assistito invece alla scomparsea di una norma assai utile mentre sono rimaste e, rispetto alle iniziali stesure, sono peggiorate tutte le norme che riguardano il buon governo del territorio e la sua tutela, a tutto vantaggio degli speculatori immobiliari.
Huffington Post, 1° settembre 2014
Più che ad un piano di misure rivoluzionarie per "sbloccare" l'Italia, per liberarne energie e talenti, somiglia a una desolante confessione d'impotenza e di mancanza di idee. Lo "sblocca-Italia", di sicuro il decreto legge più annunciato della storia repubblicana, per prima cosa non esiste. Nel senso che non c 'è un testo, un articolato, ci sono solo intenzioni e promesse tanto ambiziose quanto generiche e cangianti: qui, nel metodo, si vede l'apoteosi di un malcostume che il governo Renzi condivide con molti suoi predecessori ma che mai, francamente, aveva toccato vette così smaccate. Da mesi il governo annuncia e riannuncia questa rivoluzione, senza mai dare finora i cittadini, all'opinione pubblica la possibilità di giudicare sulle norme scritte anziché su qualche slide o peggio sulle battute del presidente del consiglio.
Per lo sblocca-italia si è arrivati al punto che l'ennesimo "annuncio", a luglio, veniva mascherato come l'apertura di una grande consultazione. Con chi? Con quali risultati? Non è dato saperlo. Certo il Governo non deve avere dato molto retta a Legambiente che gli aveva indicato, nel dettaglio, oltre 100 opere davvero utili da sbloccare, visto quanto si sono arrabbiati gli ambientalisti di fronte all'ennesimo ricorso al "dio cemento" che sembra ispirare l'azione del Ministro Lupi. Nelle bozze che circolano ci sono articoli che nemmeno il peggior Berlusconi aveva fatto approvare: si va dalla privatizzazione dell'acqua, in spregio alla volontà dei cittadini espressa nel referendum, alla privatizzazione del demanio per permettere nuove costruzioni sulle spiagge, e ci sarebbe persino una norma sblocca-inceneritori che, comunque la si pensi sul tema, appare evidentemente fuori tempo visto che nel campo della gestione dei rifiuti sono ben altre le tecnologie moderne da implementare.
Comunque in attesa di conoscere e poter valutare gli "scripta" veri, non resta che misurare i "verba" profusi in abbondanza da Renzi e dai suoi ministri.
In questi anni una norma ha svolto a pieno una funzione anticlica: l'ecobonus per le ristrutturazioni edilizie con risparmio energetico. Mai però si è riusciti a stabilizzarlo. E anche stavolta ampie rassicurazioni che sarà inserito nella prossima "legge di stabilità" ma qui niente: si discute se confermarlo al 65% o ridurlo al 50% (sic!) perché non ci sarebbero le coperture. Ancora?! Ma non è stato ampiamente dimostrato come il saldo finale sia ampiamente positivo, per l'edilizia, l'occupazione, l'ambiente e persino per i conti dello Stato? Il premier non fa passar giorno senza un attacco ai "burocrati", ma forse non c'è vicenda migliore di questa per dimostrare quanto l'assenza di un "visione" politica determini il vero "blocco" di ogni iniziativa positiva. Allora si preferisce ricorre a un'altra parola magica. "il commissario". Arrivando al paradosso di nominare commissario di un'opera, quella si davvero utile e urgente, l'alta velocità Bari-Napoli, colui che deve realizzare l'opera stessa. Neanche nello Stato libero di Bananas.
Ma ciò che è più triste è che ancora oggi, nel 2014, il premier che vuole "cambiare verso" si riduca a scopiazzare il Berlusconi del salotto di Vespa del 2001 e presenti, insieme al sempre presente (al Governo nel 2001 e oggi) Ministro Lupi cartine dell'Italia solcate da nuove mirabili autostrade. Non ci sono soldi? Allora si propone di defiscalizzare la Orte - Mestre (del tutto inutile se si guardano i flussi di traffico su quella direttrice) per oltre 10 miliardi, come se la defiscalizzazione non fosse un onere e un peso per i conti dello Stato e quindi peri cittadini, tanto che la stessa Corte dei Conti ha già sollevato più di un fondato dubbio per questi artifizi contabili.
Ma le assurdità, frutto di un guazzabuglio senza strategia non finiscono qui. Il capitolo aeroporti è davvero sconcertante. Sono anni che le autorità spiegano che ci sono troppi aeroporti in Italia che bisogna "razionalizzare", concentrare, ecc. E che fa il Governo? In tempi di vacche magrissime destina risorse pubbliche a nuovi aeroporti! A Firenze e a Salerno. A Firenze è chiaro il motivo (sic!), ma a Salerno sarà forse per la prossima campagna elettorale per le regionali perché idea di politica di trasporto aereo certo non è rintracciabile in queste scelte. Ma allora perché mai in Parlamento, in sede di conversione, qualcuno dei candidati emiliani non è legittimato a proporre emendamento per spostare qualche decina di milioni sull'aeroporto di Rimini o di Bologna? O in quel caso si urlerà all'"assalto alla diligenza in Parlamento"?
Insomma, in base agli annunci lo "Sblocca-Italia" sarà un decreto pessimo, inutile a segnare la via di una vera ripresa italiana e ricco invece di norme e misure socialmente e ambientalmente dannose. Il Renzi dei vecchi tempi un guazzabuglio così l'avrebbe additato come prova lampante di una politica obsoleta, da rottamare: ma un rottame resta un rottame, chiunque sia a battezzarlo...
Riferimenti
Sull'argomento vedi su eddyburg l'analisi di Sauro Turrroni e i precedenti articoli di Della Seta e Ferrante, di Monica Pasquini e di Marco Galluzzo (con postilla), S
Ci chiediamo ancora una volta come potrà essere firmato dal Capo dello Stato un decreto del genere, del tutto privo dei necessari requisiti di necessità ed urgenza e contenente materie del tutto disomogenee.
Ormai è prassi: questo Governo opera solo attraverso decreti legge che hanno carattere ordinamentale, sottrae materie di competenza parlamentare alla discussione e approva ogni provvedimento facendo ricorso alla fiducia, introducendo così di fatto la più grave riforma costituzionale, trasformando le camere in semplici ratificatrici delle decisioni dell'esecutivo. In più, come se non bastasse, introduce norme in contrasto con la Costituzione.
Il decreto, se possibile, rispetto alle bozze conosciute è peggiore di quelle circolate fino ad ora. Analizzarlo tutto richiedere pagine e pagine di note e commenti, atteso che praticamente ogni riga è volta ad una deregulation selvaggia volta afavorire non solo, come si afferma , gli investimenti, ma anche e soprattutto la manomissione dell’Italia e in molti casi anche delle casse dello Stato.
Partiamo dall’inizio.
Art.1- Il commissario alla ferrovia Napoli Bari non solo approva i progetti ma anche li predispone, e può appaltare i lavori sulla base di un progetto preliminare, cioè di elaborati che non sono in grado di consentire la individuazione, la misurazione e la quantificazione esatta delle opere da realizzare. Fioriranno gli “imprevisti”, le “varianti in corso d’opera” e tutte quelle altre diavolerie ben note alle imprese e alla magistratura, che sono state alla base del sistema di tangentopoli e della esplosione e moltiplicazione dei costi.
In ogni caso il commissario prima approva da solo i progetti e poi …solo successivamente li sottopone alla conferenza dei servizi. Una procedura davvero bizzarra, che non fa alcun cenno alla VIA che pure è un obbligo europeo imprescindibile per questo tipo di opere.
Se i rappresentanti delle amministrazioni che tutelano la salute , l'ambiente o i BBCC non sono d'accordo il commissario stesso può, in 7 giorni, approvare ugualmente il progetto, facendo prevalere un interesse di tipo economico rispetto ad altri interessi costituzionalmente garantiti, andando contro tranquillamente a consolidate e ripetute ordinanze della Corte Costituzionale.
Ritorna in grande spolvero il silenzio assenso, fonte di ogni possibile corruttela, molto apprezzato dai mascalzoni di ogni risma che non rischiano nulla, non dovendo firmare nessun atto amministrativo essendo sufficiente fare passare un po’ di tempo e ogni intervento è assentito automaticamente semplicemente … ponendo la richiesta in fondo alla pila di quelle depositate.
Desta enorme preoccupazione l’articolo riguardante le terre e rocce di scavo (art.12) . Occorre ricordare che fin dal primo atto del governo Berlusconi del 2001, la legge obiettivo, il ministro Lunardi cercò di impapocchiare la materia tentando di …diluire l’inquinamento degli scavi della Bologna-Firenze (dove aveva operato con la sua Roksoil) e che la questione è molto delicata avendo nel tempo consentito di celare nelle terre provenienti da scavi ogni tipo di velenoso inquinante.
Il fatto che reimpiegando le terre e le rocce di scavo in interventi infrastrutturali anche lontani consenta di non considerarle più rifiuto desta ogni tipo di preoccupazione : nessuno avrà più il diritto di controllare un materiale che non è più rifiuto, nessuno dovrà più tracciarlo e potrà essere portato ovunque. Le conseguenze sono facilmente immaginabili. I Casalesi ringraziano sentitamente.
Forza con gli inceneritori (art.15) I sindaci impegnati a ridurre i rifiuti nel loro territorio e conseguentemente, se dotati di inceneritore, intenzionati a ridurre progressivamente le quantità da incenerire vedono le loro politiche andare in fumo : il governo farà un suo piano nazionale e definirà gli inceneritori esistenti ( e quelli previsti ) strategici e quindi che dovranno funzionare a pieno regime, mandando in soffitta ogni proposito di azione virtuosa.
Ai cittadini che si impegnano a fare riciclo e raccolta differenziata viene dimostrato che i loro sforzi sono vani, i loro polmoni continueranno ad essere inquinati per i rifiuti che vengono da altrove, distruggendo in un sol colpo il principio della autosufficienza territoriale alla base di ogni pianificazione in materia di rifiuti.
Semplificazioni in materia di paesaggi tutelati (art.18 e 19): con la scusa della piccola dimensione gli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili non sono più soggetti alla autorizzazione paesaggistica: si tratta di una norma incostituzionale atteso che, come è noto la tutela del paesaggio prevale nei confronti di ogni altro interesse ancorchè economico: distruggere un paesaggio tutelato è facile basta davvero poco e il nostro Bel Paese ha subito fin troppe manomissioni senza che ad esse si dovessero aggiungere quelle facilitate da Renzi (che del resto detesta le Soprintendenze).
Vietato chiedere maggiori standard di sicurezza (art. 22): costa troppo e se chi realizza l’infrastruttura lo sostiene non si dovrà fare quello che una più adeguato livello di sicurezza avrebbe richiesto. Si blocca così il meccanismo evolutivo delle norme che proprio in materia di sicurezza procedono da tempo per successive implementazioni. Costa troppo dice Renzi, invece di capire che minori incidentalità significano enormi risparmi di spese e di costi sociali.
Ancora unità di missione (art.23) Invece di cercare di far funzionare la P.A. si torna a riproporre la salvifica “Unità di Missione” che opera con propri procedimenti, modalità operative ecc. sostituendo uffici e strutture pagate per fare il lavoro che si concentra nelle UdM. Sempre e solo procedure straordinarie , senza capire che questo modello fallimentare ha già dimostrato tutti i suoil imiti, anche di corruttibilità e di aumento dei costi.
Questa volta la scusa non sono le calamità o le grandi opere, il meccanismo perverso derivante dai meccanismi della straordinarietà viene applicato pari pari anche alle piccole opere. In più, oltre a creare nuove strutture che rispondono ad un potere sempre più centrale, si distrugge definitivamente il principio costituzionale della terzietà della amministrazione pubblica, facendola diventare uno strumento di diretta emanazione del potere politico che la nomina e la tiene accanto a sè.
Un’altra norma in favore dei lottizzatori, art. 36, 3 comma : si consente a chi lottizza di realizzare le opere di urbanizzazione a spizzichi e bocconi, per “stralci “funzionali” dando garanzia alle amministrazioni pubbliche , che poi dovranno gestirli e mantenerli, solo per assicurare la coerenza dell’opera di urbanizzazione parzialmente attuata con la restante e futura parte.
Chi impedirà dunque agli speculatori di fare stralci solo su misura delle proprie esigenze di guadagno, rinviando la realizzazione di quelle opere di maggior costo ed impegno ad un futuro incerto, assicurandosi la parte di profitto assicurata dalle costruzioni edilizie e rinviando sine die gli obblighi di completare le urbanizzazioni . Immaginiamo cosa succederà delle urbanizzazioni secondarie : mai vedranno la luce.
Ancora deregulation in edilizia, nel paese degli abusi e dei condoni (art.37) alcune norme riguardano ancora una volta le semplificazioni edilizie, mentre ciò di cui ha bisogno l'Italia sono piuttosto dei rigorosi controlli ma di questo non si parla: tutto è nelle mani dei responsabili, diretti e indiretti, dell'abusivismo e del massacro dell'Italia con cemento e asfalto.
In un paese fragile come il nostro l’unica preoccupazione sembra essere quella del fare presto e non del fare bene. E quindi si inventano procedure con sempre meno controlli e verifiche con lo Stato che rinuncia alla funzione di garante della pubblica incolumità, del rispetto dei beni comuni e del patrimonio storico artistico , nonché della sicurezza.
Infatti i termini delle verifiche sono sempre più ridotti, a pochi giorni ormai, e in caso di prolungarsi dei tempi ecco che scatta l’automatica nomina del responsabile del procedimento a commissario ad acta, che assume da solo la responsabilità di assicurare che l’edificio direttamente realizzabile per previsione di PRG o di Piano Particolareggiato risponda ai requisiti di sicurezza sismica, idraulica, idrogeologica eccetera. E se il commissario ad acta non agisce nei termini dei 30 gg ecco che scatta il silenzio assenso. Il geometra a scavalco di un piccolo comune si sostituirà quindi a ministeri, uffici regionali e anche provinciali , a AUSL e enti simili ? Ma di che parlano ?
E, naturalmente, per coloro che hanno perso tempo (?) scattano meccanismi risarcitori nei confronti di chi deve intervenire. I risultati di questo modo di fare “riforme” dimostrando di non conoscere nulla della P.A: e anzi avendola in odio sono sicuri: i funzionari si metteranno sempre più con le spalle appoggiate al muro, individueranno ogni possibile cavillo pur di poter esprimere comunque un parere che li metta al sicuro da richieste di danni o da altre vessazioni e chi ci rimetterà saranno i cittadini e il nostro territorio. La PA è lì per risolvere i problemi dei cittadini, Renzi la rende ancor più un soggetto propenso a risolvere i problemi delle proprie terga.
Aiuti agli immobiliaristi (artt.42, 43 e 44 ) è nota l’enorme quantità di immobili invenduti realizzati dalla speculazione edilizia che li ha ora sul groppone. Le norme introdotte cercano di dare una boccata di ossigeno a chi ha speculato e ora non riesce a vendere. L’art. 44 si occupa di edifici esistenti e propone talune agevolazioni per il loro recupero anche dal punto di vista dell’efficienza energetica. Una ipotesi di lavoro che avrebbe potuto essere positiva se inquadrata in programmi dei Comuni e non lasciata alla casualità dell’incontro fra operatori immobiliari e attuali proprietari. Senza dubbio quello degli immobiliaristi è decisamente l’ultimo dei settori economici da aiutare !
Il demanio terra di conquista per operazioni immobiliari: un nuovo sacco d’Italia (art.45). E’ un vecchi pallino dei governi di ogni colore : utilizzare il demanio pubblico per fare cassa ma a tanto no n eravamo mai arrivati : non è lo Stato che decide quali beni alienare ma sono soggetti che gestiscono fondi comuni di investimento o altri imprenditori immobiliari europei che, scegliendo fior da fiore, individuano le operazioni immobiliari più appetibili e fanno una proposta, bontà loro, al Presidente del Consiglio, con uno studio di fattibilità in cui indicano cosa vogliono fare.
Il presidente del Consiglio decide cosa consentire agli speculatori con cui fa un bell’accordo di programma, incassando caso mai qualche opera di interesse pubblico in cambio del bene demaniale di cui viene cambiata destinazione urbanistica, funzione, uso.
Che potrebbe fare qualche magnate russo o cinese nella Reggia di Caserta? Oppure nelle decine di chiese sconsacrate appartenenti al demanio? Una catena di ristoranti o di centri benessere con attività “a luci rosse”? E una qualche Disneyland in area archologica ? In fondo ne abbiamo tante! Sarebbero tutte cose “fattibili” secondo i criteri individuati dal decreto che si preoccupa solo dei soldi che può ricavare da queste operazioni . E’ vero, servono gli standard urbanistici, meno male che Renzi è stato sindaco e ci pensa a queste cose.
Peccato che la pianificazione urbanistica salti così totalmente, che la preventiva valutazione della interesse dello Stato di mantenere la demanialità e la disponibilità del bene venga cancellata, che in nessuna riga del decreto venga prevista la partecipazione dei cittadini ad atti così rilevanti che riguardano la loro città e il loro territorio, assicurati persino dalla legge urbanistica fascista del 1942 e cancellati dal democratico governo voluto dal 40% dei votanti alle europee, che i Comuni, finora titolari delle competenze in materia di governo del territorio, diventino semplici comparse in una vicenda difficile perfino a credersi. Come ciliegina sulla torta, ovviamente, c’è anche la possibilità che la Cassa Depositi e Prestiti finanzi l’intervento.
Art. 49 , ancora un attacco per sdemanializzare i beni della difesa di interesse culturale e storico artistico : dopo 60 giorni dall’invio degli elenchi alle Soprintendenze scatta il silenzio assenso e per quei beni è automaticamente dichiarata l’assenza di interesse artistico,storico, archeologico, etnoantropologico, culturale e paesaggistico, per essi non si applicano le disposizioni del codice dei Beni Culturali e paesaggistici, sono sdemanializzati e quindi alienabili.
La norma, in coerenza con tutte le altre emanate in precedenza per la vendita del patrimonio storico artistico della Nazione., è assai grave in quanto gli immobili di cui non viene riconosciuto un interesse tale da impedirne l’alienabilità e il mantenimento nel demanio dello Stato, anche se meritevoli di tutela, non sono più assoggettati alle disposizioni del codice di BBCC per cui , un edificio pregevole, non necessariamente di qualità tale da richiedere la sua conservazione nel demanio, diventa trasformabile, abbattibile, ristrutturabile ecc. senza che nessuno si occupi e si preoccupi della coerenza dell’intervento con la qualità del bene.
Numerosi sono i commi che regolamentano, nuovamente intervenendo su una materia, la vendita degli immobili pubblici, che ha subito innumerevoli modifiche legislative a brevissima distanza di tempo, tutte sovrapponentisi le une alle altre senza avere altro obiettivo da quello di far cassa e disposti a tutto pur di riuscirci. Perfino a cedere beni a società con capitale sociale di 10.000 euro, costituite ad hoc, come previsto dal decreto legge 30 novembre 2013, n. 133 convertito con legge 29 gennaio 2014, n. 5 recante: «Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia> nel quale un intero titolo si occupa proprio di alienazioni..
Art.57-60 quater .Pacchetto 12 . Servizi pubblici locali ? Quotiamoli in Borsa Questa parte del decreto che riguardava l’obbligatoria quotazione in Borsa delle società che si occupano di rifiuti, acqua, trasporti pubblici ecc. sembra essere stata per ora accantonata e dovrebbe trovare invece posto nella futura legge di stabilità. Inutile sottolineare la gravità di simili disposizioni che vanno anche contro a quanto deciso dagli italiani col referendum.
Art. 63. Le mani su Bagnoli e Coroglio . Si tratta di un’ articolo di straordinaria gravità : viene distorto il riferimento all’art. 117 della Costituzione per stabilire le destinazioni urbanistiche dell’area di Bagnoli, definendole “livelli essenziali delle prestazioni” per poi affidare come è ormai prassi consolidata ad un commissario la realizzazione di quello che il governo ha stabilito attraverso un programma di riqualificazione urbana. Il commissario lo nomina il governo. Avete già capito.
Il programma deve anche prevedere un ampio elenco di opere infrastrutturali di ogni tipo, tutte poste a carico dello Stato, da realizzarsi, insieme con gli interventi privati e le altre opere e interventi, compresa la bonifica, da parte di un “soggetto attuatore” da scegliersi con evidenza pubblica ma di cui non sono indicati né requisiti, né qualificazione né altre caratteristiche tali da consentire la individuazione dei soggetti aventi titolo a partecipare alla selezioe.
E’ evidente che il Governo vuole avere mani libere nella scelta del soggetto attuatore tanto più che quest’ultimo in soli 40 giorni deve fare tutti i progetti, i piani urbanistici, definire le infrastrutture, predisporre VAS e VIA.
Chi può farlo se non qualcuno che ha da tempo le mani in pasta ? Il soggetto attuatore inoltre ha la possibilità di definire volumetrie aggiuntive e premiali, destinazioni d’uso ulteriori ecc, insomma a lui sono attribuiti i compiti propri della Amministrazione comunale a cui la legge, finora , aveva attribuito la potestà in materia urbanistica.
Ovviamente del tutto assenti, di nuovo contro ogni disposizione legislativa vigente e anche contro il diritto comunitario e le convenzioni internazionali, la partecipazione dei cittadini alle decisioni riguardanti le trasformazioni urbanistiche del loro territorio. Inutile dire che perfino il cavalier Benito Mussolini non si era spinto a tanto.
Tutto da approvarsi in conferenza di servizi, da concludersi in 30 giorni, compresi Via e Vas. Una beffa bell’e buona.
Nel Pacchetto 13 – Cosa non si fa per l’Energia ( rt. 70 – 71) ci sono altre norme inaccettabili : i gasdotti e gli oleodotti e gli stoccaggi rivestono interesse strategico ma ad essi , non soddisfatti delle norme esistenti, aggiunte nel 2004 dal Governo Berlusconi al DPR 327/2001, che consentivano all’approvazione di gasdotti e oleodotti di sostituirsi alla VIA e di fare variante urbanistica, ora la medesima approvazione potrà anche costituire variante ai Piani Paesaggistici, ai Piani dei parchi e ad ogni altro piano di tutela comunque denominato, di nuovo contro il dettato Costituzionale.
Ovviamente ogni demanio pubblico è obbligato ad accettare le proposte di attraversamento di chi fa gasdotti e oleodotti e in caso di ritardi scatta il solito silenzio assenso anche per chi massacra foreste.
Sono resi ancora più remunerativi gli stoccaggi e se ci sono dubbi sulla loro pericolosità poco importa: sono di interesse strategico anch’essi. Si introduce la libertà di prospezione e di ricerca di idrocarburi, con buona pace della subsidenza che, nel caso di estrazioni “sperimentali” in mezzo al mare, deve essere accertata a posteriori : se si verifica una subsidenza, ci si deve fermare ; se non emerge un fenomeno del genere, i programmi sperimentali della durata di 5 anni possono essere prolungati di altri 5.
La legge 1150, approvata in pieno svolgimento dell’ultima guerra e in pieno fascismo, è la “legge madre dell’urbanistica italiana” (Edoardo Salzano, urbanista). “Una buona legge, una legge moderna” ( Vezio De Lucia, urbanista). La legge 1150/1942 è un momento alto della cultura giuridica in quanto, funzionalizzando la proprietà a fini d’interesse collettivo, assegnava all’urbanistica (come governo del territorio) il compito non soltanto di disciplinare “l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati”, ma anche “lo sviliuppo urbanistico in genere del territorio” (Gianni Lanzinger, giurista). In effetti, ha fornito il primo quadro complessivo e coerente per la pianificazione dal territorio comunale a quello –diremmo oggi- di ‘area vasta’.
Eppure, la relazione di Michele Martuscelli del 1966 (24 anni dopo) dovette occuparsi del più clamoroso esempio/scempio di speculazione edilizia sul territorio nazionale. Fu quello il segnale -tragico per il patrimonio paesaggistico di Agrigento- delle conseguenze del problema, rimasto irrisolto, dalla legge 1150, come ebbe a far notare (già allora) un fascista–critico come Bottai. Si tratta del problema, da settant’anni ben presente a tutti –urbanisti, politici, amministratori- della supposta esistenza del ‘diritto ad edificare’ connaturato a quello della proprietà privata dei suoli. Il tentativo illuminato di Sullo (antecedente all’immane catastrofe di Agrigento) e quello successivo di Bucalossi che, pur ispirandosi alla separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà ma rimasta mutilata e sostanzialmente ambigua, non hanno vinto contro l’uso indiscriminato del territorio come merce resa sempre più pregiata dalla sua edificabilità.
Proprio la legiferazione successiva alla 1150 (le leggi emergenziali -dimentiche dell’urbanistica- col pretesto della ricostruzione , la legge ‘ponte’, le leggi ‘tappo’, la stessa legge 10 del 1977) dimostrano, con tutta evidenza, che la mancata definizione legale dell’inesistenza di quel diritto privato a costruire, non potrà mai far recedere l’uso speculativo del bene collettivo costituito dal territorio. Tutti i tentativi, se non quello di togliere il territorio dal mercato, di ridimensionarne perlomeno l’abuso, non hanno sortito alcun effetto: si è garantito, grazie ad una edificazione senza limiti, l’incessante dilagare della cementificazione del suolo, associata al dissennato consumo e al gigantesco dissesto di tutto il territorio nazionale. La storia del ‘governo del territorio’ italiano dimostra questo, il risultato è questo, i fatti sono questi: finchè costruire sulla propria porzione di terra costituirà un diritto, ciò favorirà la commercializzazione dei terreni e i tentativi di espropriazione a fini sociali saranno sbarrati da altrettante sentenze legali per ‘manifesta’ illegalità.
La separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà era già stata proposta inizialmente (come ipotesi di lavoro) dall’ex Presidente della Corte costituzionale Aldo Sandulli e ripresa da buona parte della cultura urbanistica alla fine degli anni ‘60. Anche quando la politica (come in occasione della formazione del primo governo Moro) pare cogliere la necessità di recidere il nodo gordiano generatore della smisurata rendita fondiaria (concordando sulla preminenza dell'interesse pubblico attraverso l'acquisizione alla collettività delle plusvalenze fondiarie) viene contestualmente deciso di escludere il diritto di superficie. Inoltre (gennaio 1980), la Corte Costituzionale si pronuncia nuovamente sulla incostituzionalità della legge urbanistica a partire dall’istituto degli espropri per pubblici interventi. Nel frattempo, le neonate regioni cominciano a svuotare il programma poliennale di attuazione e le norme contro l’abusivismo rimarranno inapplicate.
Da una legge di riforma attesa da settant’anni e dopo l’evidenza sopra richiamata, ci si sarebbe aspettato il classico rimedio, risolutivo – seppur tardivo - della vera causa della trasformazione del ‘giardino d’Europa’ nella nazione più dissipativa del privilegio delle sue bellezze naturali. Per questo, per la storia di disgregazione e di saccheggio urbanistico che abbiamo alle spalle, i primi ‘pilastri’ portanti di una nuova legge urbanistica nazionale avrebbero dovuto essere: la ripresa del coraggioso tentativo del 1962 contro lo jus aedificandi (Fiorentino Sullo, ex ministro DC degli anni ‘60) e il superamento delle tre sentenze della C. Cost. n. 55-56/1968, n.153/1977, n. 5/1980 (Paolo Maddalena, magistrato, ex membro della C. Cost.) perché in netto contrasto con l’art. 42 della stessa Costituzione che garantisce la proprietà privata a condizione però che ne sia assicurata “..la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
Il terzo pilastro avrebbe dovuto essere la definitiva assunzione di responsabilità diretta sulla cessazione del consumo di suolo. Cessazione, non limitazione, perché siamo arrivati a questo punto: al punto di non poterne più consumare neanche un mq. L’abuso, la devastazione -testimoniatici dai periodici frane, smottamenti, crolli, alluvioni, interi paesi coperti di fango, stravolgimento di corsi d’acqua, distruzione di litorali, ecc. ecc. – impongono di adottare l’opzione zero: il divieto, senza deroghe ed eccezioni, a consumare altro suolo e quindi a costruire solo sul già costruito, a preservare anche le poche aree libere rimaste all’interno dell’abitato, nel rigoroso rispetto dell’invalicabilità della ‘cintura rossa’ (De Lucia) di confine tra città e campagna. Solo il divieto può essere efficace a tale scopo, solo il divieto può dichiararsi sostenibile. Ogni altro tipo di ostacolo continuerebbe ad essere aggirato e il consumo continuato.
Il quarto pilastro avrebbe dovuto essere l’altrettanto rigorosa osservanza , da imporre anche questa per legge, dell’art. 117,s della Costituzione (“tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali”) oltre che del suo art. 9. Occorre garantire al rispetto, alla salvaguardia e al ripristino del paesaggio – tramite imprescindibile prescrizione normativa e regolamentare- la priorità assoluta nell’iter di pianificazione e governo territoriali. I Piani Paesaggistici sono (devono essere) statutariamente sovra-ordinati a tutti gli altri Piani (da quelli regionali, di area vasta, a quelli metropolitani, di coordinamento, intercomunali, comunali, ecc.). Nella legge dovrebbe materializzarsi la precisa presa di coscienza del valore primario del paesaggio (rif. al “Codice”, 2004, e alla Conv. Europea sul P., 2000). Un valore che precede tutti gli altri perché la sua compromissione non è solo la rovina di un bene prezioso insostituibile, pone la prospettiva di una catastrofe economica e di civiltà. Di conseguenza, sarebbe bene conferire pieni poteri alle Commissioni comunali per il paesaggio in sostituzione di quelle igienico edilizie attuali.
Solo la chiara fissazione di questi presupposti –resi ineludibili quanto efficaci- priverebbe di ogni retorica il principio della sostenibilità ambientale ed economica più volte evocato nel testo della ‘Riforma Lupi’ e renderebbe meno aleatorie e scontate (quanto ininfluenti) le affermazioni in esso contenute: “..lo Stato, le Regioni e le Province autonome favoriscono..lo sviluppo economico sostenibile e la coesione sociale e territoriale..”, “..tenendo conto delle prospettive di sviluppo del territorio, delle sue peculiarità morfologiche, ambientali e paesaggistiche..”, “..assicurando il razionale uso del suolo..”, “..Lo Stato .. individua altresì le politiche generali in materia di tutela e valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio .. per lo sviluppo urbano sostenibile ..”, ecc.
Parole che risultano tutte vuote perchè i presupposti, gli irrinunciabili principi -e conseguenti obiettivi- della riforma proposta dal ministro Lupi sono altri: il garantismo -“..garantire il valore della proprietà.. “, rinnovato in senso più ‘liberista’, verso la proprietà privata (cui è interamente dedicato l’art. 8) già precisato nell’art. 1 e quello verso i diritti edificatori (cui è dedicato l’art. 12 e, in subordine, gli artt. 10, 11, 13 concernenti Perequazione, Compensazione e Premialità) non facendosi sfiorare dal dubbio che la proprietà privata è già garantita dalla Costituzione italiana (ma “..allo scopo di assicurane la funzione sociale..”) e che quelli edificatori non sono, non sono mai stati, dei diritti (“..Non c’è nessuna norma del C.C. ..che contempli questo supposto diritto a edificare come uno dei contenuti del diritto di proprietà privata..”, P. Maddalena, “il territorio bene comune degli italiani”, ed. Donzelli, 2014).
Decisamente diverso risulterebbe il governo del territorio secondo i pilastri più sopra da noi elencati, fondati sulla qualità ecologico-ambientale e sull’armonico, misurato, godimento del territorio come il primo dei beni di tutti (“primario” ed “assoluto”, C. Cost., 5 maggio 2006, nn. 182, 183):
- La riforma, organica e pervasiva, del governo su tutto il territorio nazionale, sarebbe rigorosamente fondata sulla precedenza da dare alla difesa e valorizzazione dei suoli e del paesaggio (e del loro ripristino); sarebbe di guida alla definizione di criteri di ricerca della qualità paesaggistica -territoriale e urbana- per la valutazione di qualunque proposta di intervento –comunque escludente consumo di suolo- in base agli obiettivi di qualità e convenienza pubblici.
- Si renderebbe necessaria una nuova ripartizione del territorio per il censimento dei diversi livelli di qualità dell’insediato (anche in relazione alle urbanizzazioni primarie e secondarie –servizi esistenti) condotto sulla base di standard di qualità ecologica-ambientale di superamento di quelli attuali e di profonda revisione dello strumento della VAS (Valutazione Ambientale Strategica) affinchè possa recuperare il suo ruolo di possibile contrasto attivo.
- La nuova ripartizione, con i suoi nuovi criteri di qualità, dovrebbe condurre a scenari di equità fiscale in campo urbanistico con il prioritario obiettivo del recupero della rendita fondiaria –da sempre sottratta alla collettività- affinchè sia socializzata e devoluta ad opere di miglioramento della qualità urbana stessa.
- Il perseguimento della qualità verrebbe attuato anche tramite strutture territoriali per favorire la partecipazione organizzata dell’utenza al controllo e al giudizio sugli interventi della modifica ambientale e del paesaggio (ri-orientamento degli Urban Center). A questo scopo, molta attenzione sarebbe dedicata alla divulgazione ed efficacia della comunicazione-formazione, anche tecnica, da più punti di vista e con la fornitura di più soluzioni. Solo con la corretta , larga informazione si garantirebbe il diritto di tutti , non solo di alcuni interessati al guadagno per sé di cui parla l’art. 1 (“.. la partecipazione dei privati [proprietari] anche nell’esecuzione dei programmi territoriali..).
Da queste prime linee guida (In buona misura, già presenti in leggi regionali approvate da tempo) potrebbe muovere un articolato che aggiorni efficacemente quello di settan’anni fa ma, sempre, “..funzionalizzando la proprietà a fini d’interesse collettivo..”, com’era già nelle intenzioni di allora.
In una breve intervista, pubblicata dal Sole 24 Ore del 5 agosto scorso, Roberto Morassut, capogruppo del Pd in commissione territorio della Camera dei deputati, prende posizione a favore della proposta di riforma urbanistica del ministro per le infrastrutture Maurizio Lupi. Afferma infatti che “è sicuramente un fatto positivo” che sia stata depositata la proposta, e dice testualmente che “va bene eliminare il DM 1444/68”, posizione questa che immaginiamo non sia condivisa dal suo gruppo politico e si limita soltanto a chiedere genericamente maggiori benefici per le pubbliche amministrazioni in modo da “migliorare la qualità e la quantità dei servizi”. Dunque, per l’esponente democratico va bene abolire per legge le quantità minime di standard urbanistici ma nel contempo bisogna “aumentare la loro quantità. Quando si dice gli scherzi del caldo romano.
Morassut non ha neppure criticato la stesura dell’articolo 1 della proposta in cui c’è scritto che la pianificazione appartiene alla pubblica amministrazione insieme “ai proprietari di immobili”: una formulazione palesemente incostituzionale. Afferma infatti la Costituzione l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini: in Italia esistono dodici milioni di persone che non posseggono immobili e vengono conseguentemente discriminati rispetto a chi un immobile lo possiede.
Ma il breve pastoncino pubblicato dal Sole serviva soltanto per rilanciare stancamente il modello dell’urbanistica romana. Morassut dice infatti che “per rendere più equa la distribuzione della rendita tra pubblico e privato occorre prendere a modello il piano urbanistico romano del 2008” che ha introdotto maggiori oneri per i promotori edilizi. La storia ci insegna che chi è stato protagonista di una stagione –e Morassut è stato assessore all’urbanistica di Roma dal 2001 al 2008- non ha mai l’atteggiamento migliore per compiere un esame equilibrato di quanto è avvenuto. Ma un minimo di onestà intellettuale forse poteva manifestarla. Proviamo dunque a ricordargli alcuni –l’’elenco è sterminato- episodi in cui il tanto mitizzato piano del 2008 è stato il suggello del trionfo della rendita speculativa fondiaria.
Uno degli scandali dell’urbanistica contrattata romana, è il caso delle “Terrazze del Presidente”ad Acilia (quadrante sud di Roma), un mostruoso insieme di cemento che era nato per ospitare uffici privati e che l’amministrazione pubblica volle generosamente trasformare in più preziose residenze in cambio “di maggiori oneri” da utilizzare nella costruzione di un indispensabile svincolo protetto sulla via Cristoforo Colombo. Le case sono abitate da dieci anni e dello svincolo non c’è traccia. Il costruttore Pulcini ha fatto festa e gli abitanti delle sue case sono incolonnati per andare al lavoro.
A Bufalotta (quadrante nord) un gigantesco quartiere privato di tre milioni di metri cubi doveva essere realizzato nell’equilibrio definito dalla pianificazione urbanistica: 33% residenziale e stessa quota per il commercio e per gli uffici. L’amministrazione di Veltroni, ergo Morassut, cambiò quest’ultima funzione in residenziale ed oggi il quartiere è una desolata periferia urbana con al centro solo un immenso centro commerciale, a proposito della qualità dei servizi urbani.
E infine, Morassut sa bene che grazie alla scellerata stagione dell’urbanistica contrattata Roma ha contratto un debito di bilancio di 22 miliardi di euro (certificati dal commissario governativo al debito comunale). Paghiamo venti anni di espansione edilizia incontrollata cui il Comune ha dovuto garantire la realizzazione dei servizi pubblici. La capitale sarebbe fallita se non fosse stata creata una sorta di bad company (il vecchio comune di Roma) e istituito il comune di Roma capitale con gli stessi confini, le stesse funzioni e lo stesso personale. Un trucco per cancellare il debito sperimentato ad esempio nella vicenda Alitalia e per scaricare i costi della mala gestione urbanistica su tutta la collettività.
Non riusciamo dunque a comprendere quali successi Morassut attribuisca al suo modello urbanistico. A Roma hanno trionfato solo gli interessi privati portando al fallimento proprio la città pubblica che apparentemente gli sta tanto a cuore. Ma evidentemente si sente appagato dal fatto che Lupi ammette generosamente la supremazia derogatoria dell’urbanistica romana perché inserisce nella sua proposta il concetto di “diritti edificatori” tanto cari a Morassut quanto inesistenti sul piano giuridico nazionale. Ma forse è questo l’unico scopo della legge: stabilire per la prima volta l’esistenza di diritti edificatori incancellabili.
Ci sarà tempo a settembre –la finzione della partecipazione on-line aperta dal ministro scade infatti alla metà del mese, per un confronto con altre proposte di legge che mettono al primo posto gli interessi pubblici e il recupero delle città. Allora si vedrà chi ha le proposte migliori e non sarà la schiacciante maggioranza vantata sulla carta dal governo Renzi-Berlusconi a garantire l’approvazione di una proposta sbagliata che rischia di far fallire tutte le città italiane allo stesso modo con cui ha portato al fallimento di Roma.
Riferimenti
Sul PRG di Roma vedi su eddyburg, archivio della vecchia edizione, l'amplissimo dossier nella cartella Roma, in particolare dalla pagina 7 alla 12. Sulla nuova proposta del ministro Maurizio Lupi vedi gli articoli di Mauro Baioni , di Paolo Baldeschi e di Ilaria Agostini. . Sui diritti edificatori ha scritto su eddyburg Edoardo Salzano E’ confermato: non esistono “diritti edificatori” né “vocazioni edificatorie” di suoli non ancora edificati. Sulle vecchie edizioni della leggi Lupi si veda sul vecchio archivio di eddyburg Tutto sulla legge Lupi,.
Il manifesto, 3 agosto 2014 (m.p.r.)
«Il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata (…) e il suo godimento». L’art. 8 è il distillato della bozza di ddl ([/ACM_2]Principi in materia di politiche territoriali e trasformazione urbana) presentata dal ministro Lupi al Maxxi di Roma il 24 luglio scorso.
Il «registro dei diritti edificatori» sancisce la finanziarizzazione della disciplina: si profila uno scenario di urbanistica drogata, dove perequazione, compensazione, premialità ed esproprio (sì, esproprio, cfr. art. 11, c. 2) sono ripagati con titoli tossici come in un gioco di borsa. Tutto il contrario della pianificazione. La proposta legislativa fluttua nel completo distacco dalla concretezza fisica del territorio e dell’ambiente urbano che tenta di governare; lo slittamento dall’oggetto della pianificazione (città e territorio) alle procedure, genera, in sede di presentazione, affermazioni eversive disciplinarmente, politicamente e socialmente, tra cui spicca, per duplice grossolana aporia, «la fiscalità immobiliare come leva flessibile (sic) del governo del territorio». Ma lungo l’articolato trapela la vera passione del ministro: le grandi opere. L’istituenda DQT, Direttiva Quadro Territoriale, quinquennale e direttamente approvata dal presidente del consiglio dei ministri (art. 5), è configurata come un piano nazionale delle infrastrutture (affinché non ci si debba più confrontare con ponti sullo Stretto «proclamati e mai realizzati») che sovverte l’ordine delle cose, subordinando il paesaggio al governo del territorio, in contrasto col Codice dei beni culturali.
La Lupi II punta sul «rinnovo urbano» realizzabile senza regola alcuna, «anche in assenza di pianificazione operativa o in difformità dalla stessa previo accordo urbanistico» (art. 17). Assenti in tutto l’articolato i centri storici – privi di tutela come ormai è moda (si veda il piano strutturale fiorentino) – malgrado Vezio De Lucia, già a fronte del ddl 2005, avesse denunciato lo scorporo della tutela dall’urbanistica che si riduceva così «a disciplinare esclusivamente l’edificazione e l’infrastrutturazione del territorio». Assenza gravata da un sentore di deportazioni di regime: proprietari o locatari degli immobili soggetti al rinnovo urbano (fino a demolizione e ricostruzione) saranno ospitati in alloggi di nuova costruzione «per esigenze temporanee o definitive» (art. 17, c. 10, corsivo nostro). Questa la prospettiva: nuova edificazione provvisoria o definitiva nelle periferie, espulsione dei ceti sociali svantaggiati dalle zone urbane consolidate, o addirittura centrali, che diventano nuove aree di speculazione (ora che nella prima periferia anche le aree industriali dismesse diventano merce rara).
Una riforma urbanistica nazionale, anziché riassumere in un unico testo le peggiori esperienze urbanistiche italiane del dopo Bassanini (Roma, Milano, Firenze etc.), avrebbe potuto (anzi, dovuto) riassumere – per estenderne i benefici all’intero paese – gli esempi positivi, che pure esistono nel panorama legislativo regionale. A titolo d’esempio il ddl presentato dall’assessore Anna Marson al consiglio toscano, contenente una declinazione della “linea rossa”, auspicata dal dibattito disciplinare internazionale, da tracciare tra città e campagna. Ma anche il ribaltamento del paradigma territoriale da «risorsa» o «neutro supporto«, a «patrimonio» – ossia, da valore di scambio a valore d’uso – gioverebbe alla messa a punto di uno strumento sinceramente vòlto alla limitazione del consumo del suolo fertile.
Misure cui potrebbe aggiungersi il ripristino dell’art. 12 della Bucalossi (L. 10/1977) che legava i proventi delle concessioni edificatorie alle opere di urbanizzazione, al risanamento dei centri storici, all’acquisizione delle aree da espropriare, e il cui travaso nelle spese ordinarie dei comuni è stato riconosciuto come principale causa dell’alluvione cementizia dell’ultimo quindicennio.
Siamo dunque di fronte alla bozza di un ddl bifronte, alfiere da una parte del liberismo senza freni in difesa della proprietà privata, e dall’altra di un autoritarismo statalista – o autocrazia? – che anticipa il riformando art. 117 della Costituzione secondo il quale le norme generali sul governo del territorio tornerebbero ad essere materia di «esclusiva competenza» dello stato. «8100 regolamenti edilizi comunali – affermava Lupi – non sono un segno identitario, ma un elemento di confusione».
E al ministro delle Infrastruture, in luogo del Piccolo principe le cui citazioni hanno gettato nell’imbarazzo gli astanti di media cultura alla presentazione romana, proponiamo un’altra più edificante lettura, sul rapporto tra libertà di azione e vincolo: Lo sguardo da lontano di Claude Lévi-Strauss. «Ritengo – chiosava l’antropologo – che la libertà, per avere un senso e un contenuto, non debba, non possa, esercitarsi nel vuoto».