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Il disegno di legge urbanistica della Regione Emilia Romagna (DdL ER) presentato nel novembre 2016 sarà presto in Consiglio. Il testo merita – non per la sua qualità letteraria, bensì per l’autorità delle fonti che vi sono confluite – di costituire l’oggetto di un esercizio di critica testuale: quale il suo stemma codicum, quale il suo albero genalogico?

Tentiamo dunque di scoprire la genesi delle locuzioni di matrice neoliberista che l’atto legislativo farebbe precipitare nella pratica pianificatoria, depotenziandola fino a renderla prevedibilmente inefficace; di ricostruire come giungono nel corpo del DdL gli enunciati inerenti l’esautorazione dei Comuni a pianificare, competenza loro attribuita dalla Costituzione; da dove discendono infine le proposizioni riguardanti il suolo agricolo consumabile entro il 2050.

Per avviare l’indagine filologica occorre illustrare le fonti documentarie. La prima è il DdL S3519 promosso da Maurizio Lupi, deputato di Forza Italia, nel 2005; il “Lupi I” è bloccato in extremis dall’opposizione delle destre che vedevano minacciata l’onorabilità della vigente legge urbanistica n. 1150 del 1942. Nel 2014 Lupi, ministro alle infrastrutture nel governo Renzi, produce un nuovo DdL, più tossico del precedente: il Lupi II – come il I – non ha esito alcuno, travolto – assieme al ministro – nello scandalo “Grandi Opere”.

Un terzo documento, firmato Ance Emilia Romagna (costruttori edili di Confindustria), attiene a un contesto linguistico affine alle prime due fonti ed è indispensabile alla presente collazione: nelle Riflessioni e proposte per la definizione della nuova legge regionale sul governo del territorio (febbraio 2016) si ritrovano le più interessanti enunciazioni del DdL ER.

Iniziamo l’indagine dalla voce «negoziazione». Sinonimo di «contrattazione pubblico-privato», la voce è già presente nel Lupi I che, in nome della semplificazione, promuoveva «atti negoziali in luogo di atti autoritativi [cioè pianificatori]» (art. 5, c. 4). L’appena citato comma risuona in apertura del DdL ER: «la presente legge valorizza le capacità negoziali dei Comuni» (art. 1). «Capacità» messe alla prova nell’istituto degli «accordi operativi» (89 ricorrenze nel testo del DdL), in Ance 2016 denominati «accordi», con registro amicale. Lo scenario manifestato dagli industriali in forma non mediata – «superare i vecchi Piani urbanistici attuativi» (p. 8) – traspare nel DdL ER: «Gli accordi sostituiscono ogni piano urbanistico operativo e attuativo» (art. 29, lett. b). Nella sostituzione della pianificazione con la contrattazione, ivi espressa, si può vedere anche il contributo del Lupi II, art. 15 (Accordi urbanistici).

Strumenti urbanistici comunali «ridotti e semplificati» richiede l’Ance (p. 9). Semplificati, come detto sopra, e ridotti ai «contenuti minimi inderogabili» (ibidem). Tale enunciato è tradotto in termini “regressivi” nel DdL ER, dove si legge che il PUG (piano urbanistico generale comunale) «non può stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili» (art. 32, c. 4). Viene da chiedersi cosa resti in capo al Comune.

Riconosciamo al Lupi I la paternità della finanziarizzazione tossica (vedi anche Lupi II, art. 12) presente nel DdL emiliano. I «diritti edificatori [...] trasferibili e liberamente commerciabili» (Lupi I, art. 9, c. 3) funzionano da motore per il passaggio dall’ambito semantico della pianificazione a quello del gioco in borsa. Tale scarto è meglio individuabile nel più recente Ance 2016 laddove esso tratta il meccanismo perequativo che, com’è noto, dà vita ai cosiddetti “volumi edilizi in atterraggio” su suoli agricoli: alla «perequazione tradizionale», poco adattabile alla crisi edilizia, gli industriali contrappongono l’auspicata «perequazione virtuale» (Ance, p. 13) che meglio si confà al mercato oggi vòlto alla riqualificazione intra muros. Bisogna riconoscere a questo punto l’originalità del DdL ER quando sopprime la voce “perequazione” (dall’ancorché vago significato sociale) e la semplifica nei più versatili «incentivi» e «premialità» (art. 8), a loro volta riconducibili a quelle «leve incentivanti» (indispensabili ad «agevolare le operazioni di riqualificazione e recupero») che si rinvengono in Ance 2016.

L’appena richiamata voce «recupero» è trasformata nel più moderno lessema «rigenerazione», che ricorre nell’articolato del DdL ER per sessantanove volte. Si noti che con tale lessema, di matrice biologica, si vuole prioritariamente rappresentare, non senza forzatura semantica, il processo squisitamente meccanico di demolizione e ricostruzione. Ricostruzione che si intende «anche non fedele e in sedime diverso, con eventuali aumenti di volumetria per consentire di rendere economicamente convenienti tali operazioni» (Ance, p. 8). L’assunto è trasposto in lessico urbanistico nell’art. 9, c. 1, lett. c del DdL: gli «interventi di addensamento e sostituzione urbana non sono tenuti all’osservanza dei limiti di densità edilizia e di altezze degli edifici [di cui al DM 1444/1968]». In tema di obliterazione del 1444/1968, il testo denuncia un’evidente contaminazione con Lupi I e II, che prevedevano l’abolizione degli standard urbanistici, trasformati ora nell’ossimorico sintagma «standard urbanistici differenziati» (DdL ER, art. 9). Sì, standard «differenziati».

L’attività edilizia troverà il suo ambito di azione preferenziale nei centri urbani (il concetto di «centro storico» è trascurato quanto lo fu in Lupi II laddove si disciplinavano gli interventi di «rinnovo urbano», artt. 17-18). Ciò non esclude tuttavia la costruzione su aree agricole, da attuare con particolare attenzione allo «sfidante tema» [sic] del consumo di suolo, come riconosciuto dagli industriali, tradizionalmente sensibili al tema. Nel loro documento essi scongiurano il «saldo zero» (obbiettivo comunitario al 2050) richiamando la Regione a non assumere un’«impostazione di sostanziale blocco del consumo di suolo» (p. 7). Influssi di tale affermazione si riconoscono nel passaggio in cui il DdL ER prevede, in assenza di giustificazione tecnico-scientifica, un’ulteriore quota di «suolo consumabile» pari al 3% della superficie urbanizzata (riecheggia qui la lezione di Realacci nel DdL C2039 sul consumo di suolo, art. 3).

Ricorre nei testi in esame l’attenzione alla «fase transitoria». «Tre anni» (DdL ER) dall’entrata in vigore della legge (torna in mente l’annata funesta che seguì il varo, nel 1967, della legge Ponte). Per «governare con coraggio e progressività questa prima fase di lavoro», è ritenuto necessario «tutelare i legittimi affidamenti fondati sulle previsioni di pianificazione già approvate e per le quali sono state spesso fornite garanzie agli Istituti di credito» (Ance 2016, p. 3). Nel citato art. 6 della vulgata emiliana se ne riscontra la pronta traduzione: nel 3% di suolo consumabile «non sono computate le aree utilizzate per l’attuazione delle previsioni dei piani urbanistici previgenti»: naturalmente al fine di «garantire il fisiologico sviluppo delle aree urbane» (Ance, p. 2), dichiarazione che assurge in questo contesto a valore di archetipo.

Resta da augurarsi che tale archetipo non corrompa l’intero contesto linguistico peninsulare.


La Gazzetta Ufficiale n. 268/2016 ha pubblicato lo schema di regolamento edilizio tipo previsto dall'articolo 17 della legge 164/2014 (di conversione del d. l. 133/2014, noto come "decreto sblocca Italia"). La sua redazione è una delle azioni previste dall'Agenda della semplificazione 2015-2017 del ministro Madia.

L'intesa governo-regioni-comuni, che ha dato il via libera al testo dello schema, è arrivata con un anno di ritardo rispetto alle previsioni e dopo due di lavoro. Dalla sua adozione da parte dei comuni ci si attende una semplificare delle procedure amministrative per la realizzazione degli interventi edilizi.

I requisiti prestazionali degli edifici, che dovrebbero essere definiti dal regolamento tipo, costituendo «livelli essenziali delle prestazioni concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e sociali» devono essere gli stessi su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo è, quindi, di intervenire sull’attuale varietà di regole vigenti nei singoli comuni, offrendo a cittadini, professionisti e imprese di costruzioni, una normativa tecnica uniforme, da un capo all’altro della penisola. Proviamo a valutare se e in che misura il recepimento dell’intesa produrrà la semplificazione e l’unificazione sperate delle normative edilizie comunali.

Uno schema senza contenuti

Lo schema di regolamento sul quale lo stato, le regioni e i comuni sono riusciti a mettersi d’accordo è un contenitore vuoto. Fornisce ai comuni solo indicazioni sulle modalità di redazione dei loro regolamenti edilizi, che devono essere strutturati in due parti. Nella prima vanno richiamate, senza riportarle, le norme statali e regionali da applicare. Per la seconda parte, lo schema si limita a proporre un indice degli oggetti e delle tematiche delle quali il regolamento deve occuparsi, senza fornire, però, nessuna disposizione, qualitativa e quantitativa, circa i requisiti tecnici da rispettare nella costruzione.

In sostanza, lo schema stabilisce un elenco degli argomenti del regolamento e, per semplificarne la consultazione e garantirne l’uniformità dell'impianto, indica una "struttura generale uniforme" per la loro esposizione, senza indicarne i contenuti e senza entrare nel merito dei requisiti tecnici e della disciplina delle modalità per la realizzazione delle costruzioni. Probabilmente questa decisione è stata una condizione necessaria per arrivare all’intesa. Per farsi un’idea dell’incertezza sui tempi che sarebbero stati necessari per trovare un accordo sulla sostanza, si consideri che è stato necessario quasi un anno per proporre una formulazione condivisa della definizione di 42 parametri edilizi (superfici, volume, distanze, pertinenze ecc.); lasciando, comunque, a ogni regione una certa libertà di interpretazione di ognuna di esse.

L’uniformità parziale

Il perseguimento dell’obiettivo dell’uniformità territoriale dei regolamenti edilizi è reso problematico dalla stessa intesa istituzionale che ha dato il via libera allo schema: la sua applicazione non è prevista su tutto il territorio nazionale. Le cinque regioni a statuto speciale, infatti, recepiranno lo schema dell’intesa solo se non contrasta con i loro statuti e le loro normative di attuazione. Nulla però garantisce neanche che le regioni a statuto ordinario e i comuni recepiscano il regolamento tipo senza avvalersi dei gradi di autonomia che l’intesa riconosce loro.

È previsto, infatti, che le regioni «nel rispetto della struttura generale uniforme dello schema di regolamento tipo approvato possono specificare e/o semplificare l’indice». Ma i regolamenti comunali potranno differire tra di loro non solo per gli indici ma anche per la sostanza di ogni suo paragrafo. Ogni comune individua, infatti, l’obiettivo prestazionale da raggiungere con le diverse tipologie di trasformazioni edilizie; e stabilisce i livelli numerici dei requisiti costruttivi e le «azioni e comportamenti progettuali da rispettarsi» per raggiungerlo. Nella loro autonomia i comuni possono, inoltre, individuare requisiti tecnici integrativi e complementari rispetto a quelli elencati nell’indice del regolamento tipo.

Regole e iter

L’intesa tra stato-regioni-comuni su uno schema di regolamento edilizio tipo, non sembra proporsi di condizionare i comuni relativamente alla sostanza dei loro regolamenti edilizi, ma lascia un certo margine di manovra anche nella definizione della lista dei requisiti che devono essere rispettati dagli edifici. È anche possibile che, in alcuni casi, l’adozione integrate dell’indice del regolamento tipo possa comportare un appesantimento dei regolamenti vigenti.

Peraltro, è lecito chiedersi se per l’obiettivo la riduzione dei costi burocratici in edilizi, posto nell’agenda della semplificazione, è più importante lo sfoltimento degli iter per realizzare una casa o ristrutturare un capannone (e l’accelerazione dei tempi del loro espletamento) oppure l’uniformità territoriale della regolamentazione di situazioni che possono differire anche molto l’una dall’altra.

Il Sole 24 ore,16 giugno 2016

Cinque mesi per completare l’intera procedura nei casi più complessi, che possono scendere fino ad appena 45 giorni. Possibilità di svolgere le riunioni in via telematica e “asincrona”, cioè senza la presenza fisica dei rappresentanti delle varie amministrazioni.

Una voce sola per tutte le Pa, per evitare sovrapposizioni, blocchi e veti. E acquisizione automatica dell’assenso di chi non si esprime. Sono solo alcuni ingredienti della nuova conferenza di servizi che ieri il Consiglio dei ministri ha varato in via definitiva. Molte le conferme rispetto alla prima versione del decreto che attua la delega Madia, ma qualche novità di peso è arrivata all’ultimo minuto.

Soprattutto, accogliendo alcune osservazioni formulate da Consiglio di Stato, Conferenza unificata e Parlamento, è stato previsto che alle riunioni della conferenza possono essere invitati i privati interessati, inclusi i soggetti che hanno proposto il progetto, per depositare documenti e memorie. Ed è stata anche inserita una tagliola per regolare la fase transitoria: le norme ormai prossime alla pubblicazione si applicheranno, quindi, solo alle nuove procedure.

La strada ordinaria da seguire per acquisire pareri e intese di diverse amministrazioni diventa la conferenza semplificata. Andrà svolta in modalità “asincrona”, dice il decreto, cioè senza la presenza fisica dei vari rappresentanti delle amministrazioni coinvolte attorno a un tavolo, ma con scambio di documenti via mail.

La conferenza deve essere indetta entro cinque giorni lavorativi dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda e deve concludersi in tempi certi. Per la precisione, ai partecipanti alla conferenza vengono assegnati 45 giorni per fornire il proprio parere. Un ritmo serrato, dal momento che nella prima versione del decreto veniva fissato un limite massimo di 60 giorni.

Il termine raddoppia e sale a 90 giorni per gli enti di tutela ambientale, paesaggistica, culturale e della salute dei cittadini. La mancata pronuncia entro il termine viene considerata alla stregua di un assenso incondizionato. Al contrario, gli eventuali dissensi devono essere «non superabili» per portare a una pronuncia negativa.

La seconda strada, da seguire «solo quando è strettamente necessaria», porta alla conferenza simultanea, cioè con la presenza dei rappresentanti delle amministrazioni, «ove possibile anche in via telematica». Anche in questo caso la conclusione del procedimento deve avvenire entro 45 giorni dalla prima riunione. E varrà la regola del rappresentante unico. Ciascun ente invitato, cioè, potrà farsi rappresentare da un unico soggetto.

Nel caso di amministrazioni statali, addirittura, è previsto che parleranno tutte per bocca di un unico soggetto, «abilitato ad esprimere definitivamente in modo univoco e vincolante la posizione di tutte». A indicare il rappresentante unico sarà Palazzo Chigi o, nel caso di amministrazioni statali periferiche, il prefetto. In caso di disaccordo, le altre amministrazioni potranno mettere a verbale il loro parere negativo ma non potranno incidere sulla volontà del rappresentante unico.

Una terza alternativa viene prevista per i progetti di particolare complessità e per gli insediamenti produttivi di beni e servizi. Su motivata richiesta dell’interessato, corredata da uno studio di fattibilità, l’amministrazione potrà indire una conferenza preliminare «finalizzata a indicare al richiedente», le condizioni per ottenere il via libera.

Per i progetti da sottoporre a valutazione di impatto ambientale si procede di norma con una sola conferenza di servizi da svolgere in forma simultanea e non con due procedimenti paralleli come accaduto finora. Fanno eccezione i procedimenti relativi a progetti sottoposti a valutazione ambientale di competenza statale.

Una volta conclusa la conferenza, resta la possibilità di fare opposizione. Ma non per tutti, Entro dieci giorni dalla conclusione della conferenza gli enti di tutela possono chiedere l’intervento del Consiglio dei ministri. Un chiarimento importante arriva, infine, nella parte che regola le norme transitorie. Le disposizioni del decreto, infatti, saranno applicate solo ai procedimenti avviati «successivamente alla data della sua entrata in vigore».

«Più che le leggi, per contrastare gli abusi nelle gare pubbliche servono "operazioni sotto copertura" con agenti infiltrati. "I magistrati non sono capaci di fare politica", aggiunge, lanciando però una frecciata al governo: "Non serve alzare le pene se non si sa a chi darle"». Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2016 (c.m.c.)

Piercamillo Davigo a tutto campo su Codice appalti, corruzione e Anac. La nuova normativa sulle gare pubbliche, sostiene il presidente Anm, “è tutta roba che non serve a niente” e la corruzione “non si combatte con l’Autorità nazionale anticorruzione”, che non ha poteri di repressione. Ma Davigo torna anche a parlare del rapporto tra magistratura e politica, che ha acceso vivaci polemiche pochi giorni dopo la sua elezione al vertice del sindacato delle toghe. “Io non farò mai politica. I magistrati non sono capaci di fare politica”, ha detto Davigo. E sulle attuali leggi contro la corruzione chiosa: “Non serve alzare le pene se non si sa a chi darle“. Poche ore dopo, il premier Matteo Renzi ribatte: “Il Codice degli appalti è un passo in avanti”.

“Il Codice appalti non serve a niente. Bisogna usare agenti infiltrati”

Il nuovo Codice appalti “è tutta roba che non serve a niente”, ha spiegato il presidente dell’Anm al convegno dei giovani di Confindustria. “Da anni” si scrivono normative sugli appalti “con regole sempre più stringenti che danno fastidio alle aziende perbene e non fanno né caldo né freddo a quelle delinquenziali”, ha proseguito, sottolineando quindi che “non serve fare normative sugli appalti, serve fare operazioni sotto copertura“, con agenti infiltrati che fingono di essere imprenditori. Su questo punto, in passato Davigo aveva già incalzato il presidente dell’Anac Raffaele Cantone: “Per contrastare la corruzione bisogna mandare i poliziotti a offrire denaro ai politici e arrestare chi accetta. Lo diceva anche Cantone, ma ora ha smesso di dirlo. Perché? Lo capisco. E non aggiungo altro…”.

“La corruzione non si combatte con l’Anac, non ha poteri di repressione”

E ora il presidente dell’Associazione magistrati torna a sferzare Cantone e il Codice appalti,che èstato fortemente voluto, anche se in parte criticato, sall'Autorità nazionale anticorruzione " “Non si può dire che con l’Anac si combatte la corruzione“, perché “sarebbe contro la Costituzione”: se l’Autorità di Raffaele Cantone “non fa certo cose inutili”, comunque “fa cose diverse”. Per combattere la corruzione servono “strumenti altamente invasivi che la Costituzione riserva alla magistratura”. L’Anac, dice invece, “è un’autorità amministrativa: non può avere alcun potere serio per reprimere la corruzione”; fa “cose ottime”, ma “non c’entrano niente con la repressione della corruzione”.

“I magistrati non sanno fare politica. Non serve alzare le pene se non si sa a chi darle”

E dopo le stoccate ad Anac e Codice appalti,il presidente Anm torna sulla delicata questione dei rapporti tra magistratura e politica, al centro di roventi polemiche con il governo. “Io non farò mai politica. I magistrati non sono capaci di fare politica”. A chi gli chiede cosa farebbe per prima cosa se diventasse ministro della Giustizia, Davigo risponde: “Farei dei disegni di legge sulla corruzione diversi da quelli che sono stati fatti”. Questo perché “non serve alzare le pene se non si sa a chi darle“. E sottolinea come il governo abbia introdotto una lieve premialità per chi confessa: “Se parli prendi un po’ meno… così uno diventa in un certo senso onesto”.

“Mi sento Re Mida. Chi indago fa carriera politica”

Davigo non si fa mancare l’occasione di lanciare una nuova frecciata alla classe politica italiana, partendo dal suo vissuto personale. “A volte ho pensato di essere come Re Mida, vedevo che a chiunque mi avvicinavo” con le indagini sulla corruzione “poi faceva una spaventosa carriera politica“, dice il presidente dell’Anm. Era così perché si trattava di persone con “una spaventosa forza di ricatto“. E’ ancora oggi così? “Beh, ho visto che ad Expo ne hanno presi due che ci erano cascati già 25 anni prima”.

La replica di Renzi: “Il Codice degli appalti è un passo in avanti”

E dallo stesso palco dell’assemblea dei giovani di Confindustria, il premier Matteo Renzi ribatte a Davigo poche ore dopo il suo intervento. “Il Codice degli appalti a me sembra un passo avanti, non un passo indietro – ha affermato il capo del governo – Certo siamo sempre pronti a fare meglio ma serve anche valorizzare il buono che c’è”. E ancora: “Rispetto tutte le opinioni ma penso che l’Anac di Raffaele Cantone sia particolarmente utile. Se non ci fosse stata Anac, non saremmo intervenuti su Mose ed Expo, centinaia di appalti sarebbero finiti in un vicolo cieco”.

«Infrastrutture e corruzione. Tra qualche luce e molte ombre Renzi ha peggiorato anche la "legge obiettivo" berlusconiana». Il manifesto, 8 giugno 2016 (c.m.c.)

Il Codice degli Appalti di recente approvato contiene alcune interessanti novità e, per certi versi, ristabilirebbe condizioni di migliori agibilità e qualità delle procedure di realizzazione di opere e infrastrutture.

Se non fosse che molte positività insite nel corpo del provvedimento vengono vanificate dal quadro politico e normativo in cui lo stesso va ad inserirsi, segnato dall’iperlibersmo speculativo del governo renziano.

Misure potenzialmente positive

Tra le misure potenzialmente positive colte da diversi osservatori – tra cui Anna Donati che commenta su diversi siti – si possono annoverare: il ripristino di una maggiore ordinarietà delle procedure, con la ribadita valenza dei tre livelli progettuali (di fattibilità, definitivo, esecutivo), che richiama la cancellazione della «famigerata e criminogena» Legge Obiettivo, un certo ridimensionamento del ruolo del contraente generale (che peraltro permane come il Commissario per le Grandi Opere), la restituzione della giusta importanza della pianificazione ai diversi livelli, nonché alla valutazione ambientale (Via allegata, come logico, al progetto definitivo).

Altri elementi interessanti sono costituiti dalla restituzione di funzioni cogenti e decisionali agli enti territoriali (su questo però incombe la controriforma costituzionale), l’attribuzione all’impresa del rischio operativo, una maggiore presenza dell’Anac che vorrebbe significare maggiori tutele anticorruzione.

Le criticità dell’Anac di Cantone

Tra le criticità già insite nella legge c’è la perdurante facoltà di subappalti anche per progetti di entità rilevante, la perdurante presenza delle figure di Contraente generale e Commissario, e la mancanza di facoltà più incisive e immediate di intervento sull’opera all’Autorità Anti Corruzione.

I pericoli di svuotamento della norma e di copertura delle peggiori tendenze in atto, stanno soprattutto nel quadro di provvedimenti esistenti e già operanti nei settori infrastrutture, territorio, ambiente, in cui il provvedimento va a inserirsi.

Innanzitutto il ruolo, che finisce per esser ambiguo, dell’Anac: le funzioni seguitano ad essere di gran lunga superiori alle possibilità d’intervento. Come è noto infatti, l’Anac può indagare e radiografare l’opera, arrivare fino al commissariamento; ma non ha facoltà, anche davanti a illegittimità conclamate tradottesi in pratiche corruttive anche ampie, fino alla presenza di criminalità organizzata, di effettuare l’operazione che tutti gli analisti del settore ritengono più incisiva in questi casi: interrompere il flusso di risorse verso l’operazione degenerata, bloccando immediatamente l’appalto.

Ha solo facoltà di rinviare per questo al governo (che dichiara proprio il contrario, «tutto si può fare meno che interrompere i lavori»), o sperare in un sequestro giudiziario del cantiere.

Raffaele Cantone qualche giorno fa ha affermato che molti suoi colleghi lo criticano anche aspramente «per avere accettato un incarico del governo Renzi».Non credo che il problema sia questo; ma l’avere accettato una funzione condizionata e limitata, che rischia in diversi casi di giustificare proprio il contrario di quello che sarebbe necessario e giusto.

A parte i casi clamorosi come Mose ed Expò, fa scuola il caso del sottoattraversamento Tav di Firenze: Cantone ha analizzato approfonditamente il progetto, già oggetto di inchiesta della magistratura, argomentandone i numerosissimi profili di illegittimità amministrativa e anche penale, oltre che gli altissimi rischi ambientali; fino a illuminare un’operazione abusiva, illegale e pericolosa.

La risposta della governance ai vari livelli – sembra dopo qualche tentennamento dello stesso Renzi – è stata il rilancio del progetto!

E si peggiora la Legge Obiettivo

Altro grande problema: la Legge Obiettivo è stata cancellata … ma solo in parte: lo «Sblocca Italia» prima, e l’allegato Infrastrutture al Def poi, ne hanno rilanciato diverse opere – a piè di lista, altro che nuova programmazione! – tra cui la Tav in Val di Susa, autostrade, porti, superstrade, impianti di depurazione e di rifiuti, ed altre attrezzature per lo più inutili. Che andrebbero sottoposte invece a una «project rewiew» secondo il nuovo Codice e per la gran parte cancellate.

Invece il Dipe della presidenza del consiglio ha ribadito che «per le opere già decise e avviate con la Legge Obiettivo si seguita a usare le procedure di tale normativa»; pure abrogate, ma come vediamo resuscitate.

Lo «Sblocca Italia» è per certi versi più criminogeno della Legge Obiettivo (definita così da Cantone): almeno quest’ultima introduceva semplificazioni per «comparti»; lo «Sblocca Italia» opera addirittura anche «a progetto» (che – come le inchieste della magistratura stanno dimostrando – significa spesso «per gruppi di interesse»).

Altro buco nero riguarda il decreto che interessa molte opere su «terre di scavo, fanghi e rifiuti», su cui il governo ha la delega in virtù dello stesso «Sblocca Italia».

Il ministro Orlando che ne pensa?

Su questo bisognerebbe chiedere al ministro della giustizia Orlando, che, poco prima del cambio di governo da Letta a Renzi, in veste di responsabile dell’Ambiente, era andato a Firenze, dove la Procura è titolare delle grandi opere fiorentine e nazionali, a dire che tale provvedimento (di semplificazione per il riutilizzo immediato delle terre di scavo e la possibilità di dichiarare per declaratoria i rifiuti tossici e pericolosi sottoprodotti riutilizzabili) era di fatto accantonato, perché tra l’altro difforme dalle direttive europee, «in vista di una normativa molto più rigorosa e orientata alla sostenibilità».

Tra l’altro tale norma costituiva l’ennesima riproposizione di tentativi analoghi, operati più volte e subito ritirati, durante i governi Berlusconi.

Cambiato il governo, Renzi ripristina invece il provvedimento inserendo anzi ulteriori allargamenti e facilitazioni e ne forza il riutilizzo per diverse opere (tra cui il già citato tunnel Tav di Firenze).

Le norme Madia contro il paesaggio

Il quadro è completato dalle ulteriori semplificazioni dovute alla normativa Madia, con colpi micidiali verso il paesaggio e i beni culturali (le assai contestate facoltà di aggirare i vincoli di tutela e subordinare le sovrintendenze ai prefetti), ma soprattutto con quella di far “saltare” l’intero iter previsto dal codice, per quelle opere annualmente definite strategiche per decreto dal Presidente del Consiglio.

Che in tal caso convoca una conferenza dei servizi e procede al di fuori di qualsivoglia pianificazione e valutazione. «Una clava – sostiene Anna Donati – in mano al premier», contro urbanistica, ambiente e paesaggio.

Appare chiaro che va, per un minimo di decoro e logica programmatica-normativa, cancellato con la Legge Obiettivo anche il suo «corpo resuscitato», lo «Sblocca Italia» e le semplificazioni della Madia.

Altrimenti il Codice, che tra l’altro necessita di molti provvedimenti attuativi, assume una funzione giusto opposta a quella per cui è stato promulgato.

». Il Sole 24 ore, 6 giugno 2016 (c.m.c.)


La nuova disciplina in materia di appalti pubblici interessa anche le operazioni immobiliari di sviluppo private. Il Codice (Dlgs 50/2016) regola infatti anche gli accordi tra i Comuni e i costruttori per la realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo del contributo di costruzione.

Il vecchio sistema

Il previgente sistema (Dlgs 163/2006) assoggettava a diverso regime la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria (strade, parcheggi, reti elettriche, idriche e fognarie) e secondaria (scuole, edifici religiosi, culturali e sociali, parchi), distinguendo anche i casi in cui l’ammontare delle opere fosse superiore o inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria (attualmente pari a 5.225.000 euro per gli appalti di lavori).

In particolare, la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria da eseguire a scomputo oneri e con valore superiore alla soglia seguiva una procedura a evidenza pubblica, secondo l’ordinario percorso di gara – aperta o ristretta – previsto dal vecchio Codice. Mentre l’affidamento dei lavori inerenti alle opere di urbanizzazione secondaria a scomputo e di valore inferiore alla soglia di rilevanza doveva seguire una procedura negoziata, senza previa pubblicazione del bando, con invito rivolto ad almeno cinque soggetti idonei(articolo 122, comma 8, Dlgs 163/2006).

In virtù del comma 2-bis, articolo 16 del Dpr 380/2001 (introdotto dal Dl 201/2011 “Salva Italia”), le opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria - sempreché funzionali all’intervento di trasformazione urbanistica - potevano invece essere realizzate a cura del titolare del permesso di costruire (ovvero da questi liberamente assegnate a terzi) senza applicare le norme del Dlgs 163/2006. Ma se l’opera di urbanizzazione primaria sotto soglia non era funzionale all’intervento, si doveva applicare la procedura negoziata prevista all’articolo 122, comma 8.

Il nuovo sistema

Il Dlgs 50/2016 modifica parzialmente tale quadro, ma in modo significativo.
Per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria sopra la soglia, resta ferma la piena applicabilità delle procedure a evidenza pubblica ordinariamente previste dal nuovo Codice.

Così come, per le opere di urbanizzazione primaria sotto soglia ma funzionali agli interventi di trasformazione, continua ad applicarsi l’esclusione prevista dal comma 2-bis, articolo 16 del Dpr 380/2001.
Per le opere di urbanizzazione secondaria sotto soglia e per quelle di urbanizzazione primaria sotto soglia e non funzionali all’intervento, invece, occorre ora far ricorso alla procedura ordinaria, con avviso o bando di gara (articolo 36, comma 3, Dlgs 50/2016).

Le opere non a scomputo

Altra novità rilevante, ma all’insegna della semplificazione, è introdotta rispetto al tema (molto dibattuto in dottrina e giurisprudenza) delle opere di urbanizzazione che non vanno a scomputo del contributo di costruzione. Vale a dire quelle opere, spesso previste dalle convenzioni urbanistiche, realizzate in più rispetto agli obblighi che da regolamento i Comuni attribuiscono ai costruttori.

A riguardo, è bene ricordare che il criterio per applicare le procedure a evidenza pubblica viene normalmente riconosciuto nel requisito dell’onerosità della prestazione. E in tale ottica, la normativa in materia di appalti non si dovrebbe applicare alle opere pubbliche non a scomputo (ossia a quelle con costi interamente a carico del privato).

In merito, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (determinazione 4/2008) aveva però precisato che il costo delle “opere extra”, per quanto non scomputato dai contributi ordinari, rappresenterebbe comunque un corrispettivo riconosciuto al Comune a fronte dell’approvazione del progetto di sviluppo. Non essendo quindi opere realizzate dal costruttore in spirito di liberalità, avrebbero dovuto seguire le procedure di evidenza pubblica per la selezione dei soggetti chiamate a realizzarle.

L’articolo 20 del Dlgs 50/2016 ricollega invece l’applicabilità delle regole pubblicistiche solo ai casi in cui il requisito dell’onerosità sussiste in via diretta e immediata. Il nuovo Codice, dunque, non si applica quando un’amministrazione stipula una convenzione con cui un soggetto si impegna a realizzare a sua cura e spese, cioè senza scomputarne il valore dai contributi dovuti al Comune, un’opera pubblica prevista nell’ambito di strumenti o programmi urbanistici.

In questi casi, è tuttavia previsto che l’amministrazione svolga una funzione di controllo preventivo: prima della stipula, valuterà infatti il progetto di fattibilità delle opere e lo schema dei contratti di appalto. Spetterà inoltre alla convenzione disciplinare le conseguenze in caso di inadempimento.

Il Fatto Quotidiano online, 23 aprile 2016 (p.d.)

Cambiare tutto per non cambiare niente. Il nuovo Codice appalti è stato presentato dallo stesso premier Matteo Renzi durante la conferenza stampa del 15 aprile come una riforma "che chiude le strade alla corruzione". L’asso nella manica del capo governo doveva essere, anche questa volta, l’Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone. Ma l’Anac, nella battaglia per garantire la trasparenza negli affidamenti di lavori pubblici, avrà le armi spuntate: i suoi esperti vigileranno solo su una piccola parte degli appalti, appena il 5%, come fa notare Sergio Rizzo sul Corriere della Sera. Una nuova falla nella legge, dunque, dopo quelle segnalate nei giorni scorsi dai sindacati: nel testo definitivo sono saltate le norme sulla tutela del posto di lavoro nel cambio di impresa appaltatrice e sulla trasparenza nelle gare.

A questo quadro si aggiunge la sostanziale sopravvivenza delle gare al massimo ribasso, che negli annunci del governo dovevano andare in soffitta con il nuovo codice. "Basta gare al massimo ribasso", aveva dichiarato il ministro dei Trasporti Graziano Delrio il 3 marzo dopo il Consiglio dei ministri che aveva approvato il testo in via preliminare. Eppure, l’articolo 95 delinea uno scenario diverso. Il testo prevede che si possa ancora usare il criterio del minor prezzo per i lavori di importo fino a un milione di euro, ancora una la volta la maggioranza dei casi: circa 8 su 10.

Ma la vera norma-beffa relativa ai poteri dell’Anac si trova all’articolo 77 della nuova legge. Nelle procedure di appalto con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione sulla proposta migliore è affidata a una commissione giudicatrice composta da esperti del settore. Per garantire la massima trasparenza in questo processo, i commissari saranno estratti a sorte da un apposito elenco preparato dall’Anac. Ma questa regola vale solo per le gare con importi che superano le soglie comunitarie, vale a dire i 5,2 milioni di euro. Se non si supera questa cifra, o se gli appalti "non presentano particolare complessità", liberi tutti: "La stazione appaltante può nominare componenti interni alla stazione appaltante, nel rispetto del principio di rotazione". Insomma, i commissari saranno scelti dallo stesso ente che assegna l’appalto. Tutto in famiglia. Risultato: il 95 per cento degli appalti verrà assegnato esattamente come prima.

Non a caso, lo stesso Raffaele Cantone in audizione in parlamento aveva avvertito sui rischi insiti nella norma: "Tale previsione sembra non essere del tutto rispettosa del criterio di delega che, nell’obiettivo della garanzia della massima trasparenza nelle nomine dei commissari non distingue, per la nomina dei commissari, tra appalti di valore superiore ed inferiore alle soglie. Inoltre il riferimento troppo generico agli appalti di "non particolare complessità" sembra consentire una ulteriore troppo ampia possibilità di derogare al principio".

E i problemi sorgono non solo in fase di affidamento dell’appalto, ma soprattutto nella gestione esecutiva dei lavori. "La corruzione e le infiltrazioni mafiose si annidano non tanto nell’affidamento degli appalti, ma nella gestione esecutiva del contratto – spiega a ilfattoquotidiano.it Ivan Cicconi, direttore di Itaca, Istituto per l’innovazione e trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale – E in questo senso il codice lascia scoperto questo buco enorme". Ma Cicconi sottolinea anche un ulteriore aspetto delicato del nuovo testo legislativo. "Il buco di questo codice è che attribuisce un ruolo straordinario all’Anac, ma non c’è una riga su durata, composizione, modalità di nomina dell’autorità. Oggi il presidente è Raffaele Cantone, una persona per bene, ma se domani cambia il governo, il nuovo presidente del Consiglio potrà nominare un nuovo presidente senza alcun vincolo. Domani potrebbe essere nominato un delinquente alla guida dell’Anac".

Via libera al nuovo Codice Appalti per contrastarecorruzione, deroghe e scorciatoie e promuovere qualità dei progetti e degliinvestimenti utili. Dopo un anno diintenso lavoro del Parlamento e del Governo è arrivato dunque il nuovo Codicedegli appalti e servizi pubblici, pubblicato il 19 aprile 2016 in GazzettaUfficiale con il Decreto

Legislativo n. 50, che recepisce anche tre nuove direttive europee (2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE). L’obiettivo dichiarato è di chiudere un ciclo di 15 anni nato con la Legge Obiettivo, poi proseguito con il codice De Lise e le continue modifiche peggiorative approvate negli anni al codice appalti del 2006.

Il dibattito ed il testo che ne è scaturito risentono delle inchieste della magistratura che periodicamente hanno scoperchiato tangenti, mafia, deformazione dei progetti, costi lievitati delle opere, evasione della concorrenza e scarsa trasparenza del mercato, praticamente in tutti i settori di appalti, servizi e forniture, al nord come al centro ed al sud del Paese.

Si legge nel Decreto la voglia di voltare pagina con la decisone di affidare all’Autorità Anticorruzione (ANAC) ed al suo presidente Raffaele Cantone, ampi poteri di regolazione, controllo e vigilanza su imprese, bandi di gara, appalti, concessioni, servizi e forniture: è questa la prima novità positiva del nuovo Codice, dove ANAC diventa il perno del nuovo sistema di affidamento della spesa pubblica. Potrà determinare una lunga lista di strumenti operativi per stazioni appaltanti ed operatori economici, avrà la gestione di tutte le banche dati pubbliche del settore, sarà chiamata a verificare la congrui
tà delle varianti delle opere pubbliche per evitare abusi e distorsioni.
Va in soffitta l’appalto integrato che aveva appiattito la progettazione sulla esecuzione dei lavori, creando pesanti deformazioni e commistioni di interessi, mentre adesso si restituisce centralità ed indipendenza al progetto. Anche se il testo non convince gli operatori dato che non contiene una sezione specifica per i servizi di ingegneria e architettura, cosi come poche sono le novità sui concorsi di progettazione.

Previsti vincoli molto stretti per le stazioni appaltanti, a partire dai Comuni. Si punta a ridurre le stazioni appaltanti in modo centralizzato, secondo il sistema di qualificazione dell’ANAC, in modo da controllare bandi ed esiti delle gare per tutti i lavori sopra 150.000 euro e per servizi e forniture sopra 40.000 euro. Il subappalto è rimasto fissato al 30% massimo dei lavori, da utilizzare in modo più trasparente da parte delle imprese. Sul subappalto si è consumata una dura e vincente battaglia dei Sindacati e del Parlamento che hanno osteggiato la liberalizzazione del 100% dei lavori, prevista nella prima bozza di decreto legislativo.

Innovativo anche il Rating reputazionale gestito da ANAC, in cui sarà registrata la storia dell’impresa, in aggiunta al sistema di qualificazione, per avere un quadro esatto dei lavori effettuati, della loro qualità, dei comportamenti e della correttezza di una impresa. Potranno essere escluse da appalti e subappalti le imprese condannate in via definitiva per alcuni tipi di reati: partecipazione ad una organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, reati terroristici, , lavoro minorile. Si introduce anche una articolo specifico sui “conflitti d’interesse” per evitare le interferenze indecenti che abbiamo visto in molte inchieste, tra progettisti, imprese, pubblica amministrazione, commissioni di gara, collaudi. Suona un po teorico ma il principio è sacrosanto. I bandi potranno contenere criteri di premialità legati alla sostenibilità ed al ciclo di vita dei materiali, premiando il risparmio energico e di consumi idrici, il riciclo di materiali e di materie seconde, l’uso di prodotti e tecnologie a basso impatto.

Nella versione definitiva del decreto non hanno invece trovato posto le richieste avanzate dal Parlamento (e dal Consiglio di Stato) sulla necessità di aumentare trasparenza e concorrenza sui piccoli lavori, rendendo obbligatorie le gare precedute da un bando, per gli appalti sopra i 150mila euro. Infatti resta la possibilità di affidare gli appalti fino a un milione con una procedura negoziata cioè una trattativa privata senza bando, con la consultazione di dieci imprese. Questo è un autentico limite del nuovo Codice Appalti perché le stime ci dicono che stiamo parlando dell'80% del mercato, che quindi resterà opaco e sottratto alla concorrenza. Cose come restano esclusi dall’applicazione del nuovo Codice Appalti, i lavori, servizi e forniture nei settori della sicurezza nazionale, della difesa, i contratti segretati, che come abbiamo visto anche in odierne inchieste per corruzione e tangenti, si prestano alla più totale opacità.

Scatterà da subito la limitazione al massimo ribasso nei bandi, ma assegnare i contratti tenendo conto solo del prezzo sarà possibile solo per le opere sotto al milione, che comunque sono una fetta decisiva del mercato. Negli altri casi diventa obbligatoria l'offerta economicamente più vantaggiosa, cioè una valutazione che tiene conto del prezzo più gli aspetti tecnici, di gestione, del cantiere, di gestione del servizio. Il massimo ribasso è vietato da subito anche per i servizi di progettazione, quelli ad alta intensità di manodopera - con il costo del personale oltre il 50% - negli affidamenti di servizi nella ristorazione scolastica, assistenziale e ospedaliera.

Un’autentica novità con l’entrata in vigore del nuovo Codice Appalti, è la cancellazione della Legge Obiettivo 443 del 2001, la legge di semplificazione di Berlusconi e Lunardi per le grandi opere strategiche, ormai era diventata una specie di mostro con oltre 390 interventi del costo complessivo di 375 miliardi (naturalmente non disponibili) e poi confluita nel Codice Appalti 163 del 2006. Le nuove regole cancellano il Piano delle Infrastrutture Strategiche (PIS), l’esclusione dei Comuni dalle decisioni, la VIA sul progetto preliminare, approvazione dei progetti al Cipe, l’appalto integrato sul progetto preliminare.

Resta in piedi invece anche nel nuovo Codice Appalti il contraente generale, pur meglio vigilato e regolato con strumenti pubblici a partire dalla scelta del Direttore di Lavori (prima era lasciato alla decisone dell’impresa), cosi come sono ancora previsti i Commissari straordinari per le grandi opere, che invece speravamo di veder scomparire in un regime ordinario ed efficiente.

Cancellando la Legge Obiettivo si torna ad un unico regime ordinario di regole per realizzare le opere, l’intero procedimento sarà in mano al Ministero per i Trasporti e le Infrastrutture e non al Cipe, si applica la VIA sul progetto definitivo (e non preliminare), l’appalto integrato viene cancellato. Vengono istituiti per tutte le opere tre livelli di progettazione: il progetto di fattibilità, il progetto definitivo ed il progetto esecutivo. Quindi viene cancellato il progetto preliminare che è di fatto sostituito dal “progetto di fattibilità” che oltre a definire un primo livello di progettazione deve verificare se “sussistano le condizioni tecnico-economiche, ambientali e territoriali per realizzare un’infrastruttura, in pratica quella che presenta il miglior rapporto tra costi e benefici per la collettività”. Vedremo come saranno poi concretamente applicati questi ottimi principi e criteri nella realtà.

La programmazione delle infrastrutture viene demandata a due strumenti fondamentali: il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica che deve indicare le politiche, gli obiettivi e gli strumenti, che motivano la scelta delle opere, da aggiornare ogni tre anni. Il secondo strumento è il Documento Pluriennale di programmazione (DPP) che deve integrare tutti i programmi esistenti nelle opere pubbliche – RFI, ANAS, Porti, Aeroporti, reti urbane, Concessionarie Autostradali - con coerenza secondo i principi del DglS 228 del 2011 e mai applicato.

A questo strumenti si aggiunge la project review, per rivedere le opere non ancora avviate ma già decise con le procedure della legge obiettivo. Ricordiamo che le sul totale della lista delle opere della Legge obiettivo, ben 190 opere per un costo complessivo di 145 miliardi sono state approvate con progetto preliminare, progetto definitivo o con il quadro economico e finanziario. E sarà necessario intervenire per selezionare, ridimensionare e cancellare una buona parte di queste opere, si spera con lo strumento della project review.

Non solo, il Ministro Delrio con la presentazione dell’Allegato al DEF della “Strategia per le infrastrutture di Trasporto e della Logistica” introduce queste positive novità previste nel Codice Appalti nella strategia generale per le infrastrutture, come il PGTL, il DPP, il project review. Ma conferma anche le 25 opere strategiche già decise con l’Allegato Infrastrutture del 2015, in parte in corso di realizzazione ed in parte in corso di progettazione, del valore di 70 miliardi e di cui sono disponibili 48 miliardi, incluse le risorse private dei concessionari. Anche su queste opere sarebbe opportuno applicare una verifica ed una revisione di progetto, per verificarne l’utilità ed il sovradimensionamento. Tra queste 25 opere vi sono pezzi di alta velocità come il terzo valico Milano-Genova o nuove autostrade come la Pedemontana Lombarda, che davvero dovrebbero essere riviste dato che la loro realizzazione è al 15% ed hanno un impatto e costi davvero notevoli a fronte di una scarsa utilità collettiva.

Altra novità rilevante è l’introduzione nel nuovo Codice del Dèbat Public, il dibattito pubblico alla francese sulle grandi opere, che diventa obbligatorio per le grandi opere infrastrutturali che hanno un significativo impatto sull’ambiente, sulla città e sull’assetto del territorio. Viene convocata una conferenza di servizi a cui partecipano tutti i soggetti interessati ad esprimere un’opinione, inclusi i comitati di cittadini, che deve concludersi entro quattro mesi. Il parere che esce da questo confronto non è vincolante ma dovrà essere valutato dall’Amministrazione Pubblica in fase di approvazione del progetto definitivo. Ma la tipologia e la dimensione delle opere che dovranno essere sottoposti a questa procedura partecipativa dovrà essere decisa entro un anno, con un decreto del MIT su proposta del Consiglio Superiore dei lavori Pubblici. Quindi ancora ampie sono le incogniti sulla effettiva partecipazione che verrà promossa in Italia con il Dèbat Pubblic.

Per svolgere questi compiti di programmazione, selezione e revisione resta in piedi la Struttura Tecnica di Missione presso il Ministero dei trasporti e delle Infrastrutture, che dovrà svolgere questi delicati compiti di revisione e riconversione di un sistema fallimentare come quello della Legge Obiettivo e dovrà sovraintendere alla redazione del PGTL e del DPP. Alla guida della Struttura Tecnica per il “dopo Incalza” è stato chiamato dal Ministro Delrio il prof. Ennio Cascetta, da sempre attento alle esigenze delle città, alla qualità dei progetti ed alla pianificazione strategica nei trasporti.
Quindi buone notizie dal fronte delle grandi opere: gli ambientalisti da sempre critici con la Legge Obiettivo, hanno vinto una battaglia fondamentale e si torna alla pianificazione per la scelta delle opere utili.

Ma con altri strumenti ed altre procedure le semplificazioni sono sempre presenti e vengono rafforzate. Con la nuova Conferenza dei Servizi (in dirittura d’arrivo ai sensi del Dlgs Madia) con tempi ridotti di approvazione, il silenzio assenso anche per gli enti di tutela e la VIA con la possibilità di chiudere la conferenza dei servizi anche in caso di parere negativo con decisione finale del consiglio dei Ministri.

E secondo, con il Regolamento “sblocca opere” approvato dal Governo sempre ai sensi della norma Madia per la completa delegificazione della Pubblica Amministrazione il 20 gennaio 2016. Consente al Presidente del Consiglio di individuare ogni anno una lista di opere pubbliche o insediamenti produttivi, da inserire in un DPCM con una deliberazione del Consiglio dei Ministri. Il DPCM potrà decidere termini accelerati di decisione fino al dimezzamento dei tempi e se i questi tempi non saranno rispettati potrà essere il premier ad approvare direttamente i progetti con poteri sostitutivi.

Con questa procedura super semplificata alla Presidenza del Consiglio, niente intesa con le Regioni, Conferenza dei Servizi e Cipe: siamo quindi ben oltre le semplificazioni della Legge Obiettivo. Una specie di clava in mano al presidente del Consiglio di turno per scardinare ogni programmazione strategica ed ogni coinvolgimento con Regioni ed Enti locali, che fa davvero a cazzotti con le nuove procedure del Codice Appalti appena entrate in funzione.

Ancora un focus sulle Concessioni e sul Partenariato Pubblico Privato (PPP), che hanno nel nuovo Codice Appalti diversi articoli di regolamentazione, anche ai sensi della Direttiva Europea 2014/23. Le concessioni dovranno affidare l’80% dei lavori mediante gara, mentre il restante 20% potrà essere svolto con società in house. Ma le concessioni avranno 24 mesi di tempo per adeguarsi a questa norma (adesso la quota a gara è il 60%) quindi tempi lunghi per la riorganizzazione delle imprese. Va ricordato che inizialmente nel passaggio al Senato della legge delega doveva essere il 100% ed era immediato ma la battaglia dei sindacati e la resistenza dei concessionari hanno fatto correggere il testo.

Il nuovo Codice prevede anche un giusto articolo per l’introduzione di “clausole sociali” per la riaussunzione dei lavoratori verso le nuove società risultate vincitrici di gara, per dare continuità occupazionale ai lavoratori, un tema fortemente sentito nel settore, che adesso non hanno queste tutele.

Nel settore delle concessioni autostradali si dovrà procedere con gara per la scelta del concessionario: per quelle già scadute si dovrà procedere entro sei mesi, per quelle entro 24 mesi procedere con gara per rispettare i tempi di scadenza. Ma per le società interamente pubbliche in house vi è la possibilità, anche secondo la direttiva e come previsto nel codice appalti, di lasciare la gestione in essere e procedere senza gara. In questa direzione sta andando il Ministro Delrio per la società Autobrennero e per la società Autovie.

Con il nuovo Codice debutta anche l’obbligo nelle concessioni di traferire al privato il “rischio operativo”, incluse le fluttuazioni del traffico per quelle autostradali, senza che siano presenti garanzie pubbliche: esattamente il contrario di quello che accade oggi con il Concedente pubblico che assicura tutte le garanzie possibili al concessionario con risorse pubbliche, aiuti fiscali, valore di subentro. Una buona regola questa innovazione sul “rischio operativo” ma resta da capire come e se verrà applicata alle concessioni in essere con lunghe scadenze, che hanno atti convenzionali già sottoscritti e che faranno una resistenza granitica all’introduzione di questo principio.

La fase transitoria non sarà ne semplice ne breve dato che per la sua attuazione sono previsti ben 40 decreti attuativi di molti dei 220 articoli del nuovo codice che dovranno essere emanati da diversi ministeri, da ANAC, da altre istituzioni e diversi non hanno nemmeno i tempi di scadenza entro cui adottare il provvedimento specifico.

Altro problema che dovrà essere risolto è il potenziamento con le relative risorse finanziarie, umane e strumentali da assegnare ad ANAC, se vogliamo metterla nella condizione reale di svolgere al meglio il ruolo chiave che il nuovo Codice le assegna.

Sono tante le novità interessanti previste dal nuovo Codice appalti, servizi e forniture. Ma non mancano – come abbiamo sottolineato - contraddizioni ed ombre su cui vigilare perché i buoni principi si trasformino in regole stringenti contro la corruzione, per la qualità dei progetti, per imprese sane ed un mercato aperto e trasparente. E perché sia davvero cancellata la Legge Obiettivo e si torni a scegliere con criterio le opere utili alla collettività.

ItaliaOggi, 27 febbraio 2016, con postilla

Un provvedimento nato con i migliori propositi (valorizzare [sic] e limitare il consumo del suolo) ma che rischia di scontentare tutti: comuni e imprese. Dopo due anni di gestazione in commissione alla camera, il ddl (AC n. 2039), presentato dall’ex ministro delle politiche agricole Nunzia De Girolamo, torna a far parlare di sé. Questa settimana sono infatti arrivati alle commissioni riunite ambiente e agricoltura di Montecitorio gli ultimi pareri delle commissioni. E mercoledì con il conferimento del mandato ai relatori Chiara Braga e Massimo Fiorio (entrambi del Pd) i lavori entreranno nuovamente nel vivo.
Gli Affari costituzionali e la Bicamerale per le questioni regionali si sono espressi dando parere favorevole, ma chiedendo al tempo stesso significativi ritocchi al testo. A preoccupare i comuni sono soprattutto due emendamenti approvati in commissione. Il primo all’art. 10 a norma del quale «i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria ed a interventi finalizzati al riuso e alla rigenerazione, nonché alla tutela e riqualificazione dell’ambiente e del paesaggio» In secondo luogo a preoccupare sono le norme transitorie e finali (art. 11 ) secondo cui, a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge, e fino all’adozione dei provvedimenti volti alla riduzione del consumo del suolo, e comunque non oltre il termine di tre anni, «non è consentito il consumo di suolo tranne che per i lavori e le opere inseriti negli strumenti di programmazione delle amministrazioni aggiudicatrici».
I sindaci, invece, chiedono l’utilizzo senza limiti dei proventi dei titoli edilizi rilasciati per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione già realizzate. Opere che altrimenti andrebbero incontro a sicuro degrado, dequalificando l’ambiente urbano circostante e rendendo necessari ulteriori interventi di manutenzione straordinaria che comporterebbero maggiori oneri economici. Inoltre, il divieto triennale di consumo di suolo (tranne che per lavori e opere già inseriti negli strumenti di programmazione dei comuni) rischia di essere troppo penalizzante, soprattutto per i piccoli comuni. Perché per esempio renderebbe illegittima la rivendicazione dell’Imu su diritti edificatori previsti, ma non più attivabili. Prospettiva questa «dalle conseguenze economiche insostenibili per i mini-enti che si vedrebbero coinvolti in contenziosi fiscali infiniti, destinati a produrre mancate entrate per cifre esorbitanti».
A chiedere modifiche al ddl sono all’unisono Anpci e Anci. L’Associazione nazionale dei piccoli comuni, presieduta da Franca Biglio, ha scritto il mese scorso ai ministri dell’ambiente e dell’agricoltura Gian Luca Galletti e Maurizio Martina e ai presidenti delle commissioni VIII e XIII di Montecitorio Ermete Realacci e Luca Sani. Stessa cosa ha fatto il presidente dell’Anci, Piero Fassino, che ieri ha sollecitato una richiesta di incontro estesa anche ai ministri Graziano Delrio ed Enrico Costa. «Data la rilevanza socioeconomica della tematica», scrive Fassino, «e nell’intento di contribuire alla definizione di proposte concrete e utili alla soluzione di talune criticità dall’Anci evidenziate nonché emerse anche in incontri con altri soggetti di rappresentanza, ritengo urgente avviare un lavoro che possa portare alla condivisione di alcune correzioni».
L’Anpci, dal canto suo, pur apprezzando l’impianto generale del disegno di legge, ritiene assolutamente indispensabile che vengano garantiti i diritti acquisiti. Perché una loro compressione, sostiene Franca Biglio, «si porrebbe in contrasto con la generale politica di incentivo della crescita e dell’occupazione: obiettivo questo da tutte le istituzioni riconosciuto come un’esigenza vitale per il Paese». Oltre alle critiche degli enti locali, il ddl deve fronteggiare anche l’opposizione delle imprese. A guidare la protesta è stata Confindustria Cuneo che con il presidente, Franco Biraghi, ha da subito evidenziato come il testo in discussione alla camera, se non modificato, rappresenti «una vera iattura per l’economia e le pmi perché nessuno di noi potrà più programmare la propria attività e il proprio sviluppo aziendale. Da un giorno all’altro, infatti, potremmo sentirci dire che il terreno industriale acquistato in passato nella prospettiva di ampliare il nostro capannone improvvisamente è diventato agricolo. Chi investirà più?». Il ddl 2039, secondo Biraghi, essendo basato «su una pioggia di divieti per le attività economiche e soprattutto industriali», prevede «esattamente l’opposto di quanto invece servirebbe alle aziende in questo periodo, ossia agevolazioni di natura fiscale e ambientale, premiando per esempio le imprese che riutilizzano terreni dismessi, attività oggi improponibile per gli alti costi previsti dalle leggi attuali».

postilla
Più passa il tempo, più crescono le proposte di ulteriori correzioni, più cresce la nostra convinzione che questa legge non solo sia del tutto ininfluente ai fini del contenimento del consumo di suolo (si veda l'eddytoriale n.168 e i collegamenti che contiene) ma sia anzi un nuovo passo nella direzione del peggioramento delle condizioni di vita nelle città. Se si volesse davvero bloccare l'aggressione ai territori rurali bisognerebbe provvedere con un atto autoritativo dello Stato, nei modi che abbiamo più volte illustrato. Poiché sappiamo che questo è oggi del tutto utopistico riteniamo che sia meglio lasciare le cose così come stanno anziché peggiorarle ancora.

Una ragione in più per abbandonare alla critica roditrice dei topi il progetto di legge sul consumo di suolo. Il fatto è che una legge sull'argomento che si affidi alla catena decisoria governo>regione>comune in Italia non funzionerà mai. Lavoce.info, 9 febbraio 2016

Dal limite al consumo alla riduzione progressiva

Il progetto di legge sul contenimento del consumo del suolo presentato dal governo Letta agli inizi del 2014 (atto della Camera 2039/2014) ha ricevuto il via libera dalle commissioni Agricoltura e Bilancio; dopo il parere delle altre commissioni interessate, se ne inizierà a discutere in aula. Già il governo presieduto da Mario Monti aveva presentato un disegno di legge sullo stesso tema, decaduto con la fine della legislatura. Ora l’obiettivo è il medesimo: frenare l’edificazione di terreno agricolo e puntare in via prioritaria sulla riqualificazione e il riuso delle aree già edificate per soddisfare la domanda di spazi destinati ad accrescere l’offerta di case e capannoni e alla realizzazione di infrastrutture. I disegni di legge dei due governi hanno in comune anche la stessa architettura complicata e gerarchizzata delle procedure. I dubbi sull’efficacia dell’impostazione del primo si ripropongono, per certi versi amplificati, per quello ora all’esame del parlamento.

L’obiettivo di contenere l’uso di terreno agricolo per finalità diverse dalla produzione di derrate è oggi affidato all’emanazione di un decreto del ministero delle Politiche agricole (d’intesa con i ministeri dell’Ambiente, dei Beni culturali e delle Infrastrutture), con il quale determinare “la riduzione progressiva vincolante, in termini quantitativi, di consumo del suolo a livello nazionale” (articolo 3, comma 1). Il progetto di legge del governo Monti si proponeva di stabilire “l’estensione massima di superficie agricola consumabile sul territorio nazionale”.
In entrambi i casi, il contenimento del consumo di suolo è un obiettivo che richiede tempo (d’altra parte il traguardo del consumo zero di suolo è posto dall’Unione Europea al 2050, una data lontana). Può esserci una differenza rilevante, però, tra porre un tetto al consumo di suolo vergine in un determinato arco temporale e stabilire di quanto il consumo deve ridursi. Nel secondo caso c’è il rischio che alla quantificazione si arrivi dando un peso maggiore al dato storico rispetto al fabbisogno di territorio agricolo per costruire case, capannoni e infrastrutture. Probabilmente, sul versante della comunicazione e del consenso politico, dire che il consumo di suolo si riduce di un X è più accattivante dell’affermare che, nello stesso arco di tempo, si consuma la quantità Y di nuovo suolo, anche se la prima procedura può portare a un consumo molto superiore della seconda.

Una procedura macchinosa

Il meccanismo, oltre a essere particolarmente macchinoso, rischia anche di consolidare la mappa del consumo disegnata dalle scelte fatte finora a livello locale. La quantificazione della riduzione a livello nazionale deve essere fatta applicando criteri e modalità stabilite dalla conferenza unificata Stato-regioni-enti locali (o dalla presidenza del Consiglio, se la conferenza non adempie entro un termine stabilito). I fattori da considerare per il calcolo sono indicati dalla legge (stato della pianificazione, caratteristiche dei suoli, estensione e localizzazione delle aree agricole, tra l’altro). Non sarà agevole individuare i parametri per identificarli e il peso da attribuire a ognuno di essi. Il risultato al quale si perverrà dovrà essere distribuito (con deliberazione della conferenza unificata) tra le regioni, le quali, a loro volta, indicheranno ai comuni le modalità per concorrere all’obiettivo.

Percentuali e valore assoluto

Il calcolo di un valore assoluto darebbe una maggiore affidabilità alla previsione della riduzione del consumo di suolo a livello nazionale. Ma non è per niente agevole determinare quel valore e non è semplice ripartirlo a livello territoriale. È più probabile, perciò, che l’obiettivo sia perseguito stabilendo una percentuale nazionale di riduzione del consumo che i comuni dovranno applicare a quello registrato da ciascuno in un certo arco temporale precedente. È certamente la via più semplice da percorrere, anche se la quantificazione della riduzione del consumo a livello nazionale potrà essere fatta solo a posteriori, sommando i “risparmi” dei singoli comuni. Non è, però, il solo inconveniente al quale si va incontro.

La percentuale nazionale di riduzione dovrà essere verosimilmente applicata in modo uniforme in tutti i comuni. Il che creerà un paradosso: i comuni che in passato hanno consumato più suolo, saranno quelli che continueranno a consumerne di più e contemporaneamente a risparmiarne di più. Per illustrare il paradosso, supponiamo che si decida una riduzione del consumo di suolo del 10 per cento in un dato periodo; e che nei comuni A e B il consumo di suolo, nell’arco temporale preso a riferimento, sia stato rispettivamente di 50mila e 10mila metri quadrati. Nel comune A si risparmiano 5mila metri quadri di terreno agricolo ma si continuano a utilizzarne 45mila, mentre nel comune B i metri quadri sono rispettivamente mille e 9mila. La geografia del consumo muterà con lentezza. Di conseguenza, continueranno a registrarsi gli eventuali squilibri del passato tra domanda e offerta di nuovi spazi per l’edificazione.

Riferimenti
Si veda su eddyburg di Vezio De Lucia Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione e la relativa postilla di Edoardo Salzano. Sul consumo di suolo si veda la relativa sezione di eddyburg Città e Territorio/Temi e problemi/Consumo di suolo.

Articoli di Gianmario Leone e Paolo Berdini. Il manifesto, 22 gennaio 2016



LA CONSULTA BLOCCA RENZI
di Gianmario Leone

«Asfaltato. Il contenzioso con il governo era nato a causa del mancato coinvolgimento della regione sulla realizzazione dell’autostrada Napoli-Bari. Il provvedimento è «incostituzionale». Dopo il via libera al referendum sulle trivellazioni, i giudici bocciano anche lo Sblocca Italia. Accolto il ricorso dell’ex governatore Vendola»

È una vittoria politica postuma, ma non per questo di minore importanza. La Corte Costituzionale ha infatti accolto il ricorso che la Regione Puglia presentò il 9 gennaio dello scorso anno, quando al governo c’era ancora Nichi Vendola, contro il decreto «Sblocca-Italia» in merito a quanto previsto nell’articolo 1 in materia di «Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive».

Al centro del contendere, questa volta, non ci sono i permessi per effettuare indagini esplorative alla ricerca di petrolio e gas in Mar Adriatico e Mar Ionio, ma la realizzazione delle opere relative alla tratta ferroviaria Napoli-Bari, previste dal Programma Infrastrutture Strategiche (disciplinato dalla legge 21 dicembre 2001, n. 443) e l’approvazione dei contratti di programma tra l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (Enac) e i gestori degli aeroporti di interesse nazionale. Il decreto «Sblocca Italia» infatti, da un lato ha affidato allo Stato la redazione del Piano di ammodernamento dell’infrastruttura ferroviaria di interesse nazionale o europeo senza prevedere l’intesa con la Regione interessata, dall’altro nelle materie del governo del territorio e dei porti e aeroporti civili, ha concesso allo Stato di esercitare la funzione amministrativa senza alcun coinvolgimento della Regione interessata.

Secondo la Regione Puglia, anche in base alla sentenza n. 303 del 2003 della Corte Costituzionale, nell’ambito di tali materie sarebbe preclusa allo Stato l’allocazione a livello centrale delle funzioni amministrative, se non mediante una chiamata in sussidiarietà e nel rispetto delle garanzie partecipative previste a tal fine a favore delle Regioni interessate. Nei commi 2 e 4 dell’art. 1 del decreto impugnato, queste garanzie non sono osservate, perché la Regione può intervenire nella fase di approvazione e di esecuzione dei progetti solo in sede di conferenza di servizi, e, nel caso di un suo dissenso, che è preordinato al raggiungimento di un’intesa tra Stato e Regione, troverebbe applicazione solo quando il dissenso concerne la tutela ambientale, paesaggistico-territoriale o del patrimonio storico-artistico, ovvero la tutela della salute e della pubblica incolumità. Per questo la Regione Puglia ha evidenziato nel ricorso la violazione degli artt. 117 e 118 della Costituzione, in quanto proprio grazie a quanto previsto dai commi 2 e 4 dell’art. 1 dello «Sblocca Italia», è stata operata una chiamata in sussidiarietà di funzioni amministrative senza il necessario coinvolgimento delle Regioni interessate, nella forma dell’intesa.

Secondo la Corte Costituzionale, il Piano di ammodernamento della rete ferroviaria non ha ad oggetto specifiche opere, ma la sola individuazione dei tratti della rete bisognosi di intervento, e concerne perciò una prospettiva necessariamente unitaria, che non si presta ad essere parcellizzata con riferimento alla posizione di ciascuna Regione. È per questa ragione che la sede naturale ove raggiungere l’intesa deve ravvisarsi nella Conferenza Stato-Regioni. In merito alla determinazione dei diritti aeroportuali e alla redazione dei piani di intervento sulle infrastrutture invece, la Corte sottolinea che verificandosi un concorso tra competenze esclusive statali («tutela della concorrenza») e competenze regionali («porti e aeroporti», e «governo del territorio»), che non può essere disciplinato secondo il criterio della prevalenza ed esige quindi l’introduzione di moduli collaborativi. Per questi motivi la sentenza n. 7 depositata ieri, ha stabilito l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1 dello «Sblocco Italia» nella parte in cui «non prevede che l’approvazione del Piano di ammodernamento dell’infrastruttura ferroviaria avvenga d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni e nella parte in cui, ai fini dell’approvazione, non prevede il parere della Regione sui contratti di programma tra l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (ENAC) e i gestori degli scali aeroportuali di interesse nazionale».

Uno smacco notevole per il governo, che ora dovrà rimettere mani al provvedimento tanto discusso. Soddisfazione per Vendola, che ricorda come il ricorso fu presentato «per assicurare che i territori abbiano voce quando si prendono decisioni strategiche e delicatissime sul destino delle loro risorse naturalistiche e bellezze paesaggistiche», senza contraddire i principi di partecipazione e leale cooperazione cardini di un sistema decisionale democratico che non possono favorire «gli appetiti famelici delle lobbies economiche


TACERE E OBBEDIRE
È LO SBLOCCA ITALIA
di Paolo Berdini

«Governo. Lo schiaffo a Renzi della Corte Costituzionale, che ha dichiarato illegittimi molti commi dell’articolo 1 del decreto legge 133/2014»

C’è ancora un giudice a Berlino. Matteo Renzi e il cerchio magico che ha scritto lo Sblocca Italia hanno subito un sonoro e meritato ceffone da parte della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimi molti commi dell’articolo 1 del decreto legge 133/2014. Con il comma 1 si affidava all’Amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato il ruolo di Commissario straordinario per la realizzazione del collegamento veloce tra Napoli e Bari. Un’opera fondamentale per dare qualche opportunità ad una parte del sud Italia e sulla cui realizzazione c’era il generale consenso delle Regioni coinvolte.

Il ricorso della regione Puglia riguardava il rispetto della Costituzione poiché aveva il diritto di esprimere le sue volontà nella definizione delle caratteristiche e del tracciato dell’opera. Quell’articolo non lo permetteva umiliandola nel ruolo ancillare di chi è chiamato a sottoscrivere un atto senza fiatare.

Tacere ed obbedire, questa è la concezione della democrazia per Matteo Renzi: un plauso dunque all’ex presidente Vendola che si è appellato alla Corte ottenendo la cancellazione di molti commi di quell’articolo.

Durante la discussione parlamentare un autorevole gruppo di giuristi come Paolo Maddalena, urbanisti come Vezio De Lucia e di uomini di cultura come Salvatore Settis aveva dato vita ad una serie di contributi critici che vennero meritoriamente pubblicati da Altreconomia con il geniale titolo «Rottama Italia». Se il governo avesse avuto la sensibilità di leggere le critiche o chiamare quei personaggi in audizione ci sarebbe stato il tempo per correggere errori così grossolani. Nel volume Maddalena già affermava infatti che quell’articolo era incostituzionale perché non rispettava il ruolo delle Regioni. Ma l’ordine del cerchio magico è sempre e solo quello di ignorare le buone ragioni della società civile ed ha imposto la decretazione d’urgenza. Del resto, il ministro competente all’epoca era quel Maurizio Lupi che solo dopo poco tempo si sarebbe dimesso per una vicenda molto poco commendevole.

Questo pacchetto di gladiatori esce con le ossa rotte dalla vicenda: con la sentenza n. 7/2016 pubblicata ieri, la Corte Costituzionale nel ribadire il diritto del governo a definire le opere strategiche per il paese, afferma nel contempo che deve farlo coinvolgendo le Regioni come prevede l’articolo 117 della Costituzione. Chissà perché i consiglieri del presidente Napolitano non si sono accorti di una stesura cosi eversiva.

Due ulteriori considerazioni. La prima riguarda l’esistenza di una assoluta uniformità di cultura del territorio tra il Pd e la destra. L’ex presidente della Campania Caldoro non ha avuto la stessa sensibilità istituzionale della Puglia e non si è appellato: il partito della nazione faceva evidentemente le prime concrete prove di unità d’azione. La seconda riguarda una questione non più rinviabile: l’opera ferroviaria era stata decisa sulla base della Legge Obiettivo (241/90) voluta da Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti che ha cancellato molte regole di trasparenza, e provocato vergognose ruberie e scempi ambientali. Una legge definita da Raffaele Cantone come «criminogena». La Corte Costituzionale ha compiuto il suo dovere cancellando le norme sbagliate. E’ ora che il Parlamento cancelli quella legge: da quindici anni l’Italia realizza grandi opere con una legge che tutela il crimine invece degli interessi pubblici.

Sappiamo che il sempre più irrequieto primo ministro non metterà quest’ultimo punto tra le sue priorità. Aspettiamoci anzi che dopo lo schiaffo al corpo diplomatico il premier nomini il fidato Marco Carrai a presiedere la Corte. Lo so che non si può fare, ma per Matteo Renzi nulla è impossibile, almeno fino al voto degli italiani sul referendum contro lo scempio delle ”trivelle libere” contenuto sempre nello Sblocca Italia.

Il Senato ha approvato il via definitiva la Legge Delega per il recepimento di tre direttive europee (n. 23/14, 24/14 e 25/14) in materia di appalti e concessioni e la revisione completa del Codice Appalti del 2006. La Legge Delega, molto dettagliata, consente al Ministro Delrio di scrivere la norma attuativa che entro il 18 aprile dovrà recepire le tre direttive ed entro il 31 luglio 2016 riscrivere l’intero Codice degli appalti, servizi e concessioni. Ma il Ministro potrà anche scegliere di concludere recepimento e riforma entro il 18 aprile, che sarebbe la soluzione più efficace e semplice per i soggetti attuatori e per il mercato degli appalti.

La legge Delega, approvata anche sulla spinta di scandali e corruzione sulle grandi opere, contiene senza dubbio molte cose utili ed opportune, come il potenziamento dei poteri di intervento e controllo dell’Autorità Anticorruzione, una stretta sulle varianti e la centralità del progetto, la riduzione delle stazioni appaltanti, l’incremento dei poteri di vigilanza pubblici sul contraente generale, un incremento della messa a gara delle opere delle concessionarie.

Altre novità importanti riguardano una forte limitazione del massimo ribasso come criterio di aggiudicazione e l’inserimento di punteggi più elevati per i beni e servizi con minore impatto ambientale e maggiore efficienza, basato anche sul costo dell’intero ciclo di vita. Viene inserito anche il dibattimento pubblico, come uno strumento di informazione, dialogo e trasparenza verso le popolazioni interessante dai progetti e dalle grandi opere.

Una stretta viene data anche al direttore dei lavori, che si ricorderà nel caso della Legge Obiettivo veniva scelto dal General Contractor, con gli effetti nefasti ben descritti dall’inchiesta sulle grandi opere cha ha travolto il Ministero dei Lavori Pubblici: adesso sarà scelto in modo trasparente dalla pubblica amministrazione. (questa norma è già immediatamente operativa)

Interessante e positiva anche una clausola sociale inserita per premiare nei bandi chi assume i lavoratori del medesimo appalto (di un altro lotto completato) ai fini della tutela occupazionale: una norma chiesta da tempo da sindacati e lavoratori, per dare un po di stabilità ai lavoratori delle costruzioni. Ovviamente questa clausola sociale sta facendo molto discutere, con posizioni anche molto critiche da parte del mondo delle imprese. Altra norma positiva è l’indicazione per una disciplina organica della gestione delle risorse idriche che sia rispettosa degli esiti del referendum del 12-13 giugno 2011, e quindi che resti in mano pubblica.

Il superamento della Legge Obiettivo.

Una positiva novità contenuta nel testo approvato è il superamento della Legge Obiettivo 443/2001. Non solo, si prevede anche l’aggiornamento del Piano Generale dei Trasporti e della Logistica del 2001, la riprogrammazione delle risorse alle opere sulla base dei criteri individuati nel “Documento Pluriennale di pianificazione (DL 228/2011)” nonché l’applicazione delle procedure di valutazione ambientale strategica (VAS) e di Valutazione di impatto ambientale (VIA).

L’ultima parte del testo prevede “norme transitorie per gli interventi per i quali vi siano obbligazioni giuridiche vincolanti” e la ridefinizione della “famosa” struttura tecnica di missione del Ministero. Come dire che la strada per uscire dalla legge Obiettivo non sarà semplice, dato che ormai parliamo di una mostruosa lista di 419 opere per un valore di 383 miliardi, di cui decine di opere hanno già il progetto definitivo e spesso anche il soggetto realizzatore (Concessionarie, RFI, Anas, imprese private). Del resto anche la prima selezione adottata dal Governo nell’ambito del DEF per 25 opere prioritarie contiene diversi progetti sbagliati come la TAV Milano-Genova e la Torino Lione, le autostrade Pedemontana Lombarda e quella Veneta.

Proprio per questo la scelta di superare la Legge Obiettivo è indispensabile ed opportuna, per tornare a ragionare di politica dei trasporti entro cui collocare la lista delle opere utili, per restituire ai territori la possibilità di decidere sui progetti, per eliminare definitivamente tante autostrade inutili come la Orte-Mestre o il Tibre Parma-Verona, per restituire centralità alle opere per la riqualificazione ed i servizi delle città, la vera priorità, per applicare la VAS sulla pianificazione delle infrastrutture (che mai è stata applicata).

Regole deboli verso le concessionarie

In materia di regole destinate alle concessioni invece gli strumenti di governo e controllo pubblico restano deboli. Da un alto si invocano gare per la scelta del concessionario, senza proroghe, e si richiama anche “il rischio operativo” che deve restare in capo alla concessionaria come prescritto dalla Direttiva 23/2014, ma poi si consentono diverse eccezioni. Per esempio l’obbligo di gare per le concessioni, incluse quelle autostradali, solo per quelle che scadono tra 24 mesi. E questo significa che le gare non si applicano a quelle scadute o in scadenza (esempio AutoBrennero SpA ed Autovie Spa).

Altro distinguo è in applicazione dell’articolo 17 della Direttiva 23/2014 - che prevede che si possa affidare direttamente da una amministrazione o ente aggiudicatore ad una propria società in house un servizio su cui effettuare il controllo analogo - affidando le concessioni a società interamente pubbliche. Ed il Ministro Delrio sta lavorando con Autobrennero ed Autovie proprio a questa soluzione, escludendo il ricorso alla gara. Sarà possibile dunque sulla base delle regole europee affidare una nuova concessione diretta da parte dell’Autorità pubblica ad una Società pubblica, ma con diverse precauzioni per evitare distorsioni che nella Legge Delega non sono stati inserite. Ma che dovranno essere comunque applicate per essere coerenti con le Direttive da recepire.

Per la Direttiva le concessioni sono di norma quinquennali a meno che investimenti non giustifichino in modo motivato periodi più lunghi. Tutti i lavori e l’acquisto di servizi realizzati dalla concessionaria pubblica debbono essere sottoposti a gara. Nel caso di AutoBrennero per esempio la concessionaria ha vinto insieme a soggetti privati la realizzazione di tre nuove tratte autostradali sottoposte a gara in project financing (Cispadana, Campogalliano-Sassuolo e Ferrara-Mare). Deve risultare evidente che la nuova concessione affidata direttamente alla società madre in house non deve coprire e sussidiare in alcun modo gli impegni assunti con il bando di gara e relativo contratto di queste tre opere, dove il rischio operativo deve restare a carico delle tre concessioni specifiche. Altrimenti si configurerebbe una distorsione della concorrenza a posteriori rispetto agli altri concorrenti risultati perdenti alle tre gare. Ci sarà molto da discutere anche in sede Europea su come l’Italia intende applicare questa norma sulle concessioni in house.

Per quanto riguarda infine i lavori delle concessionarie, la legge delega ha previsto che l’80% dei lavori dovrà essere messo a gara (oggi è il 60%) ma è stato ridimensionato il 100% previsto inizialmente ed allungati i tempi di adeguamento a questa norma, passati da 12 a 24 mesi. Inoltre questo obbligo di mettere una parte dei lavori a gara sul mercato non si applica per le concessioni che hanno vinto o vinceranno una gara affidate con la formula della finanza di progetto o della concessione affidata con gara.

Adesso approvata la Legge Delega, dovremo attendere i decreti attuativi dei prossimi mesi per verificare la coerenza sia con le direttive e sia con i criteri di delega decisi dal Parlamento. Decreti che dovranno superare anche il doppio parere delle Commissioni Parlamentari. Perché è importante che i criteri si trasformino in regole efficaci contro la corruzione e per il superamento della Legge Obiettivo.

Greenreport, 7 gennaio 2016

Il lungo articolo di Enzo Valbonesi comparso il 30 dicembre su “greenreport” rappresenta una replica – a tratti quasi punto per punto – a un mio ancor più ampio e articolato saggio-denuncia apparso su eddyburg il 14 dicembre alla cui lettura non posso che rimandare.

Valbonesi è figura storica e di prestigio indiscusso nel mondo delle aree protette italiane e le sue osservazioni meritano quindi una seria e argomentata replica. Egli invita in apertura a “riaccendere il dibattito” sulle aree protette e io intendo prenderlo in parola chiedendogli sin d’ora di perdonare la schiettezza di qualche passaggio. Il dibattito non ha peraltro particolare bisogno di essere riacceso perché nel corso degli ultimi cinque anni esso è divampato furiosamente in molte sedi senza peraltro riuscire minimamente a influenzare l’impostazione dei “riformatori” della legge quadro sulle aree protette, impostazione che è rimasta infatti sempre la medesima. Il testo di “riforma” della 394 è riuscito anzi a passare, nel cambio di legislatura del 2013 da un proponente del partito di Berlusconi (Antonio D’Alì) a un relatore del Partito Democratico (Massimo Caleo) senza subire alterazioni realmente sostanziali, a testimonianza di una convergenza bipartisanindifferente a qualsivoglia suggerimento di modifica o osservazione critica.

A dare la misura del livello di scontro creatosi al riguardo sta, come ho già avuto modo di notare su eddyburg, l’ormai leggendario scambio di stoccate di fine 2011 tra associazioni ambientaliste (Fondo per l’ambiente italiano, Italia Nostra, Mountain Wilderness, Lega per la protezione degli uccelli e Wwf da un lato, Legambiente e Federparchi dall’altro) nel quale gli “innovatori” sono arrivati a dare delle “giovani marmotte”, portatrici di un “ambientalismo alla Disney”, a coloro che criticavano nel merito la “riforma”. Lo scontro è proseguito in questa legislatura – anche se Legambiente sembra essersi defilata – e oggi si concentra su quello che dovrebbe essere il testo unificato di tre disegni di legge, ma che in realtà non prende in alcuna considerazione le correzioni apportate dal ddl De Petris ad alcuni degli errori più gravi contenuti nell’originario ddl D’Alì e nel ddl Caleo.

Tutto l’intervento di Valbonesi – ma ci tornerò in chiusura, perché è un punto assai ricco di implicazioni – ruota attorno alla parola chiave dell’“innovazione”: per poter difendere le nostre aree protette sarebbe infatti fondamentale “innovare” e la “riforma” D’Alì/Caleo, quale emerge dal testo unificato, è in questo senso sicuramente la “cosa giusta”, una proposta cioè che cambia le cose giuste nel modo giusto.

Sono anni al contrario che la più gran parte dell’associazionismo ambientalista, delle personalità del mondo della culturae degli esperti insiste sul fatto che i punti salienti della proposta sono sbagliati – e anche su questo tornerò – ma è altrettanto interessante osservare come la “riforma” D’Alì/Caleo ignora completamente i problemi fondamentali in cui si dibattono oggi le aree protette italiane. In un volume collettivo edito dal Gruppo di San Rossore freschissimo di stampa (Cosa urge per i parchi, Pisa, ETS, 2016), ad esempio, l’ex direttore del Parco nazionale della Maiella Nicola Cimini indica in modo analitico molti di questi problemi, soprattutto in campo gestionale, e fa proposte precise e concrete per avviarli a soluzione. Ebbene: è opera assai ardua trovare qualche punto di contatto tra queste proposte, che vengono da una lunga e sofferta esperienza di gestione di parchi nazionali, e il testo difeso da Federparchi.

Valbonesi inoltre, e a mio avviso in modo del tutto corretto, osserva come uno dei problemi principali delle aree protette italiane non è una pretesa mancata applicazione della legge quadro del 1991 ma sono piuttosto le mutilazioni che essa ha subito proprio negli anni immediatamente successivi alla sua approvazione. L’abrogazione del comitato paritetico stato-regioni e quella del programma triennale nazionale delle aree protette hanno ad esempio vanificato la possibilità di creare un “sistema nazionale delle aree protette” e nella stessa direzione sono andate l’abrogazione del Comitato e della Consulta tecnica per le aree naturali protette e la mancata realizzazione della Carta della natura. Sono in questo modo saltati alcuni capisaldi cruciali per un’efficace politica nazionale delle aree protette e la deriva attuale è anche figlia di queste sciagurate decisioni. Una riforma veramente innovativa e attenta alle esigenze delle aree protette italiane dovrebbe necessariamente prevedere la reintroduzione di una visione e di strumenti di questo genere ma anche in questo caso è impossibile trovare traccia di tutto ciò nella “riforma” D’Alì/Caleo che oltre tutto sul programma triennale compie un pasticcio: si dimentica che il programma è stato soppresso nel 1998 dal decreto legislativo 112 (se lo era invece ricordato, inascoltato, il ddl De Petris) e invece lo introduce per le aree protette marine. E per spingersi ancora oltre si può osservare come le più importanti esigenze segnalate da tempo dallo stesso Valbonesi (strategia nazionale per la conservazione della biodiversità, armonizzazione con le strategie comunitarie e mondiali) non hanno alcun riscontro nel testo unificato in discussione in Parlamento (mentre anch’esse erano presenti nel ddl De Petris).

Insomma, la “riforma” D’Alì/Caleo è un testo che si segnala molto più per i problemi importanti su cui non ha nulla da dire e non dice nulla che per quelli che pretende di affrontare e che di conseguenza si può definire innovativa solo con una grande dose di immaginazione e di affetto.

I contenuti della “riforma” D’Alì/Caleo si riducono infatti ad alcuni interventi che se non vanno al cuore dei problemi attuali dei parchi introducono però rilevanti stravolgimenti alla filosofia, al funzionamento e al ruolo delle aree protette. Su tutto questo concorda la quasi totalità delle associazioni ambientaliste che in questi anni hanno più volte prodotto documenti e appelli – anche recenti – caratterizzati da una decisa e argomentata contrarietà, ma concordano anche autorevoli esperti che come abbiamo già visto hanno prodotto preziose analisi di dettaglio.

Valbonesi si sofferma velocemente su quattro aspetti-chiave della proposta di legge che sono al tempo stesso tra quelli più aspramente criticati. Ed è qui che vale dunque la pena di seguirlo passo per passo. I lettori di “greenreport” hanno già una buona conoscenza di questa materia perché è stata trattata più volte sulle sue colonne da figure autorevoli come Renzo Moschini e Carlo Alberto Graziani ma da un lato è sempre vero che repetita iuvant e dall’altro è forse possibile approfittare dell’occasione per aggiungere qualche riflessione in più, sintetizzando alcune argomentazioni già esposte in modo più approfondito in “eddyburg”.

In primo luogo la “riforma” attribuisce un ruolo abnorme a una associazione privata e squisitamente volontaria come Federparchi stabilendo che essa è titolare niente di meno che della “rappresentanza istituzionale in via generale degli enti di gestione delle aree protette”. In cambio, tale associazione si impegna graziosamente a non escludere nessuna area protetta che intenda aderirvi. Dietro questo anomalo riconoscimento si intravede facilmente la rinuncia definitiva alla creazione di un organismo nazionale e pubblico di coordinamento, la delega di questo compito a un ente privato e il riconoscimento – mi pare di poter tranquillamente aggiungere – dell’organicità di Federparchi alle politiche governative presenti e future.

Un’associazione che tra l’altro fa da anni tandem con una sola delle grandi associazioni ambientaliste nazionali e spesso, come ho cercato di mostrare, in aperto contrasto con le altre. Valbonesi ritiene al contrario che si tratti di ordinaria amministrazione e anzi di un adeguamento a quanto avviene in paesi sicuramente evoluti come la Francia: si tratterebbe da noi di fare “così come da decenni fa e con ottimi risultati il ministero francese con la sua Federazione dei parchi”. Disgraziatamente quest’ultima affermazione è del tutto infondata e introduce un elemento di grave confusione. In Francia anzitutto non esiste una “Federazione dei parchi” ma esistono due istituzioni molto diverse tra loro. Una si chiama Parcs nationaux de France ed è niente meno che “un établissement public national à caractère administratif placé sous la tutelle du ministre chargé de la protection de la nature” che comprende tutti i presidenti dei parchi nazionali francesi, un rappresentante delle regioni, uno dei dipartimenti, un deputato, un senatore, due personalità desingnate dal ministero e un rappresentante dei sindacati del personale: altro che associazione privata! L’altra istituzione è effettivamente un’associazione privata, si chiama Fédération des parcs naturels régionaux de France, collabora certamente da decenni e con ottimi risultati – come afferma Valbonesi – con i vari ministeri ma il Code de l’environnement le attribuisce solo una funzione consultiva su alcune questioni molto specifiche, al pari peraltro di altri soggetti, mentre la legge quadro sui parchi del 2006 neppure la nomina. Che la “riforma” D’Alì/Caleo faccia in fondo “come la Francia” costituisce – a voler essere buoni – una pia illusione ma certamente non un dato di fatto. Essa non solo non “fa come la Francia”, essa fa ben altro e fa sicuramente molto peggio, tanto più che in Francia un ministero dell’ambiente esiste, funziona solidamente e persegue efficacemente le proprie politiche mentre in Italia, come riconoscono ormai anche politici un tempo sostenitori della “riforma”, il ministero dell’Ambiente è ormai solo un palazzo abitato da fantasmi.

In secondo luogo Valbonesi difende come novità positive l’accentuazione “del ruolo delle comunità delle comunità locali nel governo dei parchi nazionali” e l’apertura “al coinvolgimento diretto degli agricoltori”, due provvedimenti che stravolgono aspetti fondamentali dell’identità stessa dei parchi nazionali concentrando di fatto i poteri decisionali in testa a soggetti portatori di interessi locali e di categoria e non più nazionali e generali nel momento stesso in cui questi ultimi soggetti – il mondo scientifico su tutti – vengono progressivamente eslcusi. Su questi aspetti gravidi di rischi – oggi come ieri: non a caso l’attacco speculativo al Parco nazionale d’Abruzzo dei primi anni Sessanta si appoggiava a proposte di legge dal tenore analogo – ha concentrato la sua attenzione con le analisi precise e taglienti già citate Carlo Alberto Graziani e ad esse non posso che rimandare ancora una volta.

In terzo luogo Valbonesi difende in modo un po’ obliquo, senza nominarla direttamente, la parte della “riforma” che prevede la possibilità di introdurre nelle aree protette attività più o meno impattanti in cambio di una compensazione monetaria. Qui il riferimento è “nobile” ed è quello ai cosiddetti “servizi ecosistemici”, il cui pagamento dovrebbe divenire “il perno dell’autofinanziamento dei parchi e allo stesso tempo il parametro di riferimento principale per misurare la loro capacità di iniziativa, di tutela e di messa in valore delle risorse naturali che essi conservano”. Anche se vogliamo limitarci a un’analisi “alta” della questione, risparmiandoci la sofferenza di immaginare cosa possa comportare tutto ciò nella prosaica e rude concretezza dei territori, qui la distanza tra le posizioni che io difendo e quelle che difende Valbonesi è davvero profonda. Il concetto di “servizi ecosistemici” costituisce infatti – come sostiene limpidamente Virginie Maris nel suo recente Nature à vendre – un’arma a doppio taglio che va esattamente nel senso che ho cercato di denunciare nel mio articolo per “eddyburg”. ale parola d’ordine, di successo molto recente, contiene e veicola infatti una considerazione sostanzialmente neoliberista di beni che sono e devono invece rimanere anzitutto collettivi e questa deriva, in Italia più forte che in altri paesi di tradizione statale più solida, costituisce per le aree protette un rischio ancor maggiore che per il pur minacciatissimo patrimonio storico-artistico. Di contro è indispensabile ricordare come nel nostro Paese la questione delle ricadute economiche – dirette e indirette – della tutela ambientale è stato al centro di tutto il dibattito sulle aree protette sin dalla metà degli anni Sessanta, con risultati sia teorici che operativi spesso di livello molto alto. Un dibattito che nella “riforma” D’Alì-Caleo viene miseramente e banalmente ridotto a una tenue compensazione monetaria di attività impattanti, a dispetto del manto nobilitante dei “servizi ecosistemici”.

Valbonesi espone infine una serie di interessanti considerazioni sulla questione dei criteri di nomina di direttori e presidenti dei parchi e sul loro ruolo, alcune sicuramente condivisibili e altre molto meno. Queste considerazioni prendono in gran parte spunto da una mia argomentazione contenuta nel saggio/denuncia del 14 dicembre, ma riportandola male e inducendo quindi in errore chi legge. Io avevo affermato che la “riforma” D’Alì/Caleo tende a codificare la tendenza in atto già da anni a limitare progressivamente l’autonomia amministrativa, culturale e operativa degli enti gestionali dei parchi assoggettando sempre più la scelta dei presidenti alla volontà delle segreterie (nazionali e locali) dei partiti politici e riducendo i direttori a fedeli esecutori di volontà esterne. Avevo anche affermato che tutto ciò, oltre che moralmente deplorevole, rischia di depotenziare in modo fatale la missione delle aree protette che è, per dirla con la formula che Valbonesi predilige, quella della “savaguardia della biodiversità”. All’interno di questo ragionamento avevo scritto – e qui lo riconfermo senz’altro – che senza il margine di autonomia garantito dalle precedenti normative, comprese quelle precedenti la legge quadro, i gestori delle aree protette italiane non avrebbero potuto essere come in effetti furono tra i maggiori protagonisti dello straordinario slancio che portò alla legge quadro e alla complessa e ricca configurazione attuale delle aree protette italiane. Dicevo anzi – e anche qui: lo confermo senz’altro – che la legge quadro è uscita in parte cospicua da discussioni degli anni Settanta e Ottanta svolte a Pescasseroli, nella sede del Parco nazionale d’Abruzzo, una circostanza oggi assolutamente inimmaginabile. Valbonesi, ricordando l’assai opaco esito di quella vicenda amministrativa, mi imputa una “mitizzazione” di quella esperienza. No, non è questo il punto. Io non mitizzo nulla, riporto un dato di fatto storico incontrovertibile per sottolineare una differenza tra quegli anni e quelli di oggi, tra una politica e una normativa che lasciavano margini, che permettevano l’iniziativa e la discussione e una politica e una normativa che sembrano preoccupate anzitutto di mettere tappi, di creare presidi ben controllati che non diano sorprese, che non deraglino. Una politica e delle normative che già ora sterilizzano gran parte delle energie che potrebbero dare un contributo rilevante alla soluzione dei tanti problemi dei parchi italiani. Tutto qui: ed è ben diverso dal mitizzare alcunché. Il punto è che la “riforma” D’Alì-Caleo mortifica programmaticamente quell’autonomia, già oggi ridotta al lumicino, e così facendo mortifica la capacità stessa delle aree protette di rappresentare qualcosa di innovativo e persino di difendersi da attacchi che pure ci sono e sono ben numerosi.

A fronte di questo giro di vite che accentra in mani sempre più ristrette e discrezionali i poteri decisionali Valbonesi scarta a priori l’idea che la soluzione ai problemi delle aree protette italiane possa risiedere nel tentativo “di risuscitare quel movimento di opinione che contraddistinse la fase più fervida dell’ambientalismo italiano degli anni 80” in quanto “oggi i cittadini sanno che l’obiettivo di istituire i Parchi è stato raggiunto ed è difficile, se non impossibile, mobilitarli per difendere i parchi [e che anzi] essi si aspettano che adesso siano le istituzioni a farli funzionare”. Abbiamo qui, evidentemente, due visioni opposte: da un lato un uomo delle istituzioni convinto che i cittadini siano oggi in attesa fiduciosa che le istituzioni stesse abbiano il pallino in mano e siano in grado di giocarlo correttamente; da un altro lato abbiamo cittadini che sono costretti a constatare una radicale incapacità/mancanza di volontà delle istituzioni nel garantire la sopravvivenza dei parchi e che ritengono che la prima risorsa sia come sempre la mobilitazione dell’opinione pubblica, per quanto in un contesto storico molto meno favorevole che in altre fasi. Solo da una onesta presa d’atto di questa divergenza è necessario partire se si vuole andare avanti.

Ma un aspetto che mi colpisce profondamente dell’intervento di Valbonesi – e con questo vorrei concludere – non riguarda tuttavia i contenuti bensì l’argomentazione, l’impostazione retorica.

Valbonesi utilizza infatti due argomentazioni parallele e complementari in questo periodo purtroppo molto in voga, estremamente deboli e persino logore ma che stanno facendo enormi danni a livello culturale e politico e altri danni sono certamente destinate a farne in futuro: la retorica dell’emergenza e un uso manicheo e caricaturale dell’opposizione innovazione/conservazione. È in senso stretto la retorica, brutalmente semplificatoria, che fa attualmente la fortuna del presidente del consiglio. La potremmo riassumere in questo modo: “la situazione è ormai incancrenita e immobile e un intervento incisivo e determinato è comunque il benvenuto; chi interviene modificando l’esistente perché ha il potere di farlo è comunque un innovatore, a prescindere dai contenuti. Chiunque provi invece a difendere l’esistente o pezzi dell’esistente, qualsiasi sia questo pezzo e in qualunque modo lo difenda, è comunque arroccato, è comunque conservatore, è comunque vecchio”. Le opposizioni (esplicitamente e ruvidamente valutative) vecchio/nuovo, innovatore/conservatore diventano insomma il passepartout per semplificare radicalmente il dibattito se non per chiuderlo preventivamente, sapendo che si gode comunque del vantaggio dei numeri. Da qui ai “gufi”, ai “professoroni”, ai “comitatini” che ornano la retorica renziana il passo è necessariamente brevissimo.

Eppure io non credo che questo sia il significato di democrazia e di partecipazione che per un pezzo di storia degli ultimi quarant’anni io, Valbonesi e migliaia di altre persone abbiamo condiviso e che ha costituito un pilastro cruciale delle realizzazioni di cui continuiamo ad essere giustamente orgogliosi. Cerchiamo insomma di stare il più possibile sul pezzo e di starci, se possiamo, con onestà e mente fredda. I “gufi” lasciamoli ad altri: con un po’ di buona volontà forse ce la facciamo.

Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2015

Prima ancora che di una carenza grave di politiche e di misure di settore, come quelle per la mobilità o l’ambiente o il risparmio energetico, il caos “fai da te” delle città italiane sullo smog in questi giorni ‎evidenzia una lacuna generale ancora più seria: l’assenza di una cornice di politica urbana nazionale come quella degli anni ’80, prima centrata su un ministero per le Aree urbane, poi via via depotenziata con deleghe ministeriali, dipartimenti, coordinamenti informali, semplici direttive e infine scomparsa del tutto, da 15 anni in qua, in concomitanza con il tentativo, fallito, di imporre un federalismo regionalista sostanzialmente anti-urbano e con l’imposizione di vincoli crescenti finanziari e politici ai sindaci, ben rappresentati nel modello dello “stupido” patto di stabilità interno. Si è tentata, con il governo Monti, una modesta inversione di rotta con il “piano città” che ha però avuto un esito misero in termini di progetti e di pratiche urbane coordinate dal centro.

Per questo la prima misura di un decalogo di governo per città pulite e motore di sviluppo sostenibile è la ricostituzione di un nocciolo duro di politiche urbane nazionali e di una adeguata cornice istituzionale, con una delega di coordinamento forte affidata a un ministro (magari un ex sindaco come Graziano Delrio) o tenuta direttamente per sé dal Presidente del Consiglio. Sarebbe una scelta in sintonia con un “governo degli ex sindaci” che ha già ridato dignità alla dimensione urbana con l’istituzione delle città metropolitane, con il ridimensionamento dello strapotere regionale (riforma del titolo V), con l’avvio di piani come quello dell’edilizia scolastica, con un primo vistoso ridimensionamento del patto di stabilità interno nella legge di stabilità 2016. Ma che ora deve accelerare su questa strada. Il caos di questi giorni dimostra che un coordinamento nazionale su politiche fondamentali non può essere episodico ma deve essere strutturale e prevenire i problemi per evitare di affrontarli in ordine sparso.

E veniamo – dopo questo primo punto – alle misure di settore, molte delle quali sono, peraltro, già in cantiere o abbozzate, senza però che si avverta l’urgenza di vararle.

Si prenda il ddl di riforma del trasporto pubblico locale, che è in ballo da almeno due anni e non riesce a vedere la luce e che contiene almeno tre delle misure del possibile decalogo anti-smog:
- un investimento nazionale di alcune centinaia di milioni che consenta, con formule di leasing, di mandare in pensione gli autobus euro 0, 1 e 2 (che sono oltre il 50% del totale) e di abbattere l’età media del parco italiano che, sfiorando i 13 anni, è quasi il doppio di quello europeo, fermo a 7 anni;

- un miglioramento del servizio che renda più competitivo il trasporto pubblico rispetto a quello privato, poggiando su nuove tecnologie (bigliettazione intelligente e infoservizi), strumenti nuovi di standard minimi (carte dei servizi) o l’ammodernamento di vecchi strumenti (contratto di servizi) capaci di superare una volta per tutte il patto scellerato comuni-ex aziende municipalizzate che si consuma da 25 anni a danno del cittadino-utente con servizi pessimi e del cittadino-contribuente con costi di gestione esagerati, contribuzione pubblica crescente, perdite di bilancio;
- una liberalizzazione del trasporto pubblico locale mediante l’avvio di una nuova stagione di gare che consenta l’ingresso di capitali e capacità imprenditoriali nuovi, italiani ed europei, nella gomma e nel ferro.

Questo disegno di legge è allo studio da due anni ed è ormai diventato una emergenza nazionale. Farebbe bene il ministro dei Trasporti, Graziano Delrio, a rompere gli indugi e presentare il provvedimento, con risorse adeguate.
Ci sono altre quattro misure in materia di mobilità urbana che, sia pure non strettamente connesse con il Ddl di riforma, sono tuttavia decisive:
- il potenziamento del “ferro” nella doppia accezione di potenziamento dei servizi ferroviari urbani (dove è decisiva la nuova gestione Fs ma anche direttive stringenti del governo) e di rilancio dei progetti infrastrutturali di tranvie veloci e metropolitane con fondi e strumenti autorizzativi dedicati (come fu la legge 211/1992);
- l’integrazione ferro-gomma che è una delle priorità del nuovo ad di Fs, Renato Mazzoncini, ma andrebbe considerata in una chiave più estesa e nazionale, valutando i benefici che si possono avere in termini di risparmi, efficientamento e miglioramento del servizio, dalle riduzioni delle sovrapposizioni fra ferro e gomma in ambito urbano ed extraurbano;
- la legittimazione e la liberalizzazione di servizi di “nuova mobilità” collettiva e privata come Uber o Blablabla e delle tecnologie che portano con sé , per rompere altri monopoli anacronistici e altre esistenze alla modernizzazione delle nostre città;
- una nuova stagione di pianificazione urbana che rilanci lo strumento delle tariffe intelligenti e flessibili per il trasporto pubblico, per i taxi e per la sosta dei veicoli privati e garantisca al tempo stesso modalità alternative di trasporto (piste ciclabili integrate), corsie preferenziali per il trasporto pubblico, parcheggi di scambio, l’uso di tecnologie informative in favore degli utenti, l’uso crescente di telecamere per garantire la sicurezza e il rispetto dei divieti.

Ma la crisi delle città non è solo una crisi di trasporto e di mobilità. Sappiamo che il consumo energetico, soprattutto per il riscaldamento e il condizionamento di abitazioni e uffici, è un tema cruciale. Funzionano a meraviglia i crediti di imposta del 65% per gli interventi di efficientamento energetico, ma, nonostante la meritoria proroga al 2016 e nonostante l’importante estensione ai patrimoni pubblici degli ex Iacp, il governo non è ancora riuscito a trasformare questa micromisura in una politica organica, in un gigantesco piano nazionale prioritario in cui far confluire risorse locali, nazionali ed europee, pubbliche e private, fiscali e creditizie, andando oltre la piccola dimensione e rilanciando la scala condominiale, di quartiere e urbana che occorre oggi. Questa era la nona misura.

Infine, un decimo punto, per quanto generico non può non essere dedicato alla questione urbanistica che non si affronta solo con il demagogico disegno di legge sul divieto di consumo di suolo all’esame della Camera. Le città devono essere dotate di strumenti fiscali, pianificatori e regolativi che superino la legge urbanistica del 1942 e consentano un ridisegno più agevole degli spazi, degli edifici e dei servizi urbani in chiave di riuso, rigenerazione, riqualificazione. Servono semplificazioni per andare più veloci, a partire da quel regolamento edilizio unico che il governo ha promesso e non arriva: potrebbe essere il primo tassello di una politica urbana nazionale davvero capace di dare un contributo alla modernizzazione renziana e di far correre nuovamente le nostre città, anziché incrostarle in vecchie contraddizioni di cui lo smog è una delle dimensioni evidenti a tutti e misurabili.

Il Parlamento sta discutendo il recepimento di tre direttive europee ( n. 23/14, 24/14 e 25/14) in materia di appalti e concessioni e quindi sarà rivisto completamente il Codice Appalti del 2006. Il testo contiene una Legge Delega che dà la facoltà al Ministro Delrio di scrivere la norma attuativa che entro i primi mesi del 2006 dovrà diventare legge e rispettare il termine fissato per il recepimento dalle tre Direttive.

Al momento il testo è stato approvato dal Senato ed ora è in discussione alla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati. Contiene senza dubbio molte cose utili ed opportune, come il potenziamento dell’Autorità Anticorruzione, una stretta sulle varianti e la centralità del progetto, la riduzione delle stazioni appaltanti, l’incremento dei poteri di vigilanza pubblici sul contraente generale, un incremento del sistema di messa a gara delle opere delle concessionarie.

Ma vi sono almeno tre punti critici di estrema importanza che meritano di essere segnalati, con la speranza che il testo venga migliorato nel passaggio alla Camera. I tempi ci sono e speriamo anche la volontà politica. Questi punti sono:
1. mancato superamento della Legge Obiettivo:
2. concessioni senza rischio operativo:
3. assenza della Valutazione Ambientale Strategica sulle grandi opere.

1. Mancata indicazione per il superamento della Legge Obiettivo.
Nel testo ci sono diversi riferimenti alle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici di preminente interesse nazionale, ma in nessuno dei casi si parla di superamento della Legge Obiettivo. Va ricordato che la legge Obiettivo 443/2001 è vigente e che gli aspetti procedimentali sono stati inseriti dentro al Codice Appalti 163/2006, con un complesso di norme che va dagli articoli 161 all’art. 194.

Se ne deduce quindi che vi sono indicazioni specifiche sul ruolo e sulle procedure per chi realizza infrastrutture strategiche, ma mai si parla di superamento della legge obiettivo tra i criteri previsti dalla legge delega (nonostante che il Ministro Delrio abbia detto più volte di volerla cancellare).

Quindi il rischio concreto è che se la norma non viene cambiata, quando si tratterà di esercitare la delega non si potrà prevedere il superamento della legge obbiettivo o se lo si vorrà fare ci si esporrà ad un “eccesso di delega” facilmente riscontrabile da chi vuole mantenere in auge la legge obiettivo. E sono sicuramente tanti i nostalgici di una norma definita “criminogena” dal presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone.

Serve quindi introdurre tra gli specifici criteri di delega il superamento della Legge Obiettivo, altrimenti alle belle parole, non seguono mai fatti coerenti.

2. Concessioni senza rischio operativo

Su questo punto il testo del Senato ha assunto le seguenti decisioni:

- Art. 1, lettera zz) si chiede di recepire la direttiva 2014/23/CE in materia di concessioni, con una disciplina organica volta a vincolare la concessione alla piena attuazione del piano finanziario, il rispetto dei tempi per gli investimenti e regolare le modalità di indirizzo in caso di subentro.

- Art. 1, lettera aaa) precede l’obbligo di mettere a gara tutti i lavori superiori a 150.000 euro, con un regime transitorio di 12 mesi. Prevede anche che questo obbligo non si applica per le concessioni che hanno vinto o vinceranno una gara affidate con la formula della finanza di progetto o della concessione affidata con gara.

- Art.1, lettera bbb) obbligo di gare per le concessioni, incluse quelle autostradali, per quelle che scadono tra 24 mesi.

- Art.1, lettera ccc) regime transitorio per le concessioni autostradali già scadute o prossime alla scadenza. Applicazione dell’articolo 17 della Direttiva 23/2014 che prevede che si possa affidare direttamente da una amministrazione o ente aggiudicatore ad una propria società in house un servizio su cui effettuare il controllo analogo.

Questo testo approvato dal Senato ha diversi punti critici tra cui:

- La direttiva 23/2014 stabilisce che per affidare le concessioni di lavori o servizi “comporta il trasferimento di un rischio operativo legato alla gestione dei lavori o dei servizi, comprendente un rischio sul lato della domanda che sul lato dell’offerta o entrambi. La parte del rischio trasferita comporta una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile.” (art. 5 direttiva). Nel testo del ddl proposto dal governo era inserita la parola “rischio operativo” ma nel passaggio al Senato questo è stato eliminato.

- E’ opportuno reintrodurre il concetto di “rischio operativo” anche per meglio definire le procedure per il project financing e per la scelta di un concessionario, di come il rischio debba essere trasferito realmente sul concessionario (come prevede la direttiva) e non assunto come garanzia di ultima istanza dallo Stato come avviene oggi in varie forme (come il valore di subentro, risorse pubbliche dirette, defiscalizzazione, agevolazioni dei pedaggi autostradali)

- L’obbligo di gara per le concessioni che scadono tra 24 mesi esclude l’applicazione verso la Società Autobrennero (già scaduta) e la società Autovie (2017) e forse la Brescia Padova (la concessione è legata alla realizzazione della Valdastico Nord)

- Lo speciale regime transitorio per le concessioni autostradali da prevedere per quelle scadute o vicine alla scadenza, espone al rischio di assicurare le proroghe in modo mirato ed ingiustificato. Questa specifica previsione andrebbe soppressa.

- Diverso è il ragionamento per la previsione prevista effettivamente dalla Direttiva (articolo 17) che consente l’affidamento in house ad una propria società pubblica di cui si ha il controllo analogo ( e che sia senza soci privati), come nel caso di AutoBrennero ed Autovie. A cui quindi sarà possibile sulla base delle regole europee affidare una nuova concessione diretta da parte dell’Autorità pubblica, ma inserendo alcune precauzioni per evitare distorsioni. E’ opportuno precisare nella delega questi criteri di affidamento in house:

a) Per la Direttiva le concessioni sono quinquennali a meno che investimenti non giustifichino in modo motivato periodi più lunghi.

b) Tutti i lavori e l’acquisto di servizi realizzati dalla concessionaria pubblica debbono essere sottoposti a gara.

c) Nel caso di AutoBrennero la concessionaria ha vinto insieme a soggetti privati la realizzazione di tre nuove tratte autostradali sottoposte a gara in project financing (Cispadana, Campogalliano-Sassuolo e Ferrara-Mare). Deve risultare evidente che la nuova concessione affidata direttamente alla società madre in house non deve coprire e sussidiare in alcun modo gli impegni assunti con il bando di gara e relativo contratto di queste tre opere, dove il rischio operativo deve restare a carico delle tre concessioni specifiche. Altrimenti si configurerebbe una distorsione della concorrenza a posteriori rispetto agli altri concorrenti risultati perdenti alle tre gare.

3. Assenza della valutazione ambientale strategica sulle grandi opere.
Vi è un argomento connesso alla Legge Obiettivo ed al codice appalti e che riguarda la lista delle opere della Legge Obiettivo, ma che è bene chiarire.

Il Ministro Delrio presentando l’Allegato Infrastrutture al DEF, dove sono state inserite 25 opere (sostanzialmente quelle più mature sul piano della realizzazione e dei progetti) ha indicato la necessità di una selezione definitiva delle opere sulla base dell’applicazione del Decreto Legislativo n. 228 del 2011. Si tratta di un Documento Pluriennale di Pianificazione (DPP) che dovrà rendere coerente tutti i piani ed i programmi di investimento, sulla base dei piani settoriali e che nel DEF si dice sarà presentato a settembre 2015.

Manca completamente, sia nel documento che nelle parole ed audizioni del Ministro Delrio, un riferimento alla necessità di selezionare le opere sulla base anche di una Valutazione Ambientale Strategica, che invece è un criterio irrinunciabile e sostenibile di selezione.

Va ricordato che tutta la lista delle opere della legge obiettivo non è stata mai sottoposta a VAS, sia perché nel 2001 la Direttiva non era vigente e poi perché di lista e non di piano si trattava. Anche quando nel 2006 è entrata in vigore la direttiva VAS in Italia non è stata mai applicata alla selezione delle opere infrastrutturali nei trasporti (la tesi era che erano già decise ed approvate....) ed è giunto il momento di farlo.

23 luglio 2015

La Repubblica, 15 febbraio 2015

Un regalo ai concessionari, l’ennesimo. Un danno agli utenti. C’è una partita da cinque miliardi di euro all’anno che si sta giocando in queste ore in Italia: la gestione delle autostrade. Una partita che ruota attorno a un articolo del decreto Sblocca Italia, il numero cinque, e che vede da una parte il Governo e dall’altra il presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone, il quale ha già scritto una lettera al ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, e domani sarà ascoltato in commissione Ambiente alla Camera. «Se non si cambia quella norma - sostiene Cantone - si rischia che vengano affidate concessioni senza alcun tipo di procedura ad evidenza pubblica, in violazione, tra l’altro, dei principi di concorrenza ed economicità ».

La storia, dunque. Grazie all’articolo 5 gli attuali concessionari (Benetton, Gavio, Toto oltre a una serie di enti locali pubblici e privati) potranno chiedere il rinnovo degli attuali permessi nel caso decidano di unificare la gestione di tratte interconnesse. «Il senso della norma - spiegano dall’Anticorruzione - è dare la possibilità di accorpare le concessioni, che al momento sono 25 e fruttano in media cinque miliardi netti all’anno, per favorire gli investimenti e una riduzione delle tariffe al casello». Nei fatti però si può arrivare al risultato opposto. «Accorpando le concessioni si prende come data di scadenza, chiaramente, quella più lontana. Se ce n’è una che si chiude nel 2015 e un’altra nel 2025, la scadenza viene portata automaticamente al 2025 per entrambe. Di fatto è una proroga mascherata». Dei 25 concessionari, almeno 9 hanno il contratto in scadenza (ad esempio quello del gruppo Gavio per la Torino-Milano finisce nel 2017), e per l’Autobrennero è addirittura già scaduto nel 2014. Lontano invece il termine per Autostrade per l’Italia, che da sola gestisce il 50 per cento dei chilometri in Italia: se ne riparla nel 2038.
Una posizione, quella di Cantone, che è condivisa dall’Unione europea e dal Garante della Concorrenza, Giovanni Pitruzzella, che alla Camera ha parlato di «un meccanismo di proroga implicita che elimina del tutto e potenzialmente per periodi significativi un essenziale fattore concorrenziale del settore». Non esattamente un dettaglio, questo. L’attuale regime aiuta a tenere alti gli utili dei concessionari, come dimostrano i bilanci, e molto bassi i vantaggi per gli automobilisti visto che non si sono riscontrati sensibili abbassamenti nelle tariffe. Secondo Cantone non ce ne saranno nemmeno negli anni a venire. Perché nonostante lo Sblocca Italia punti all’obiettivo di raggiungere «prezzi e condizioni di accesso più favorevoli per gli utenti », il commissario Anticorruzione ha più di un dubbio su come andrà a finire questa storia. Oggi quella dei pedaggi è una vera giungla, le autostrade che hanno interesse ad accorparsi hanno tariffe diverse ed è complicato pensare che si adeguino al ribasso. «Dove sarà quindi il vantaggio per gli automobilisti?», si chiedono all’Authority. Senza bandire le gare, si rimane in condizioni di sostanziale monopolio.

Stesso discorso vale per gli investimenti. La nuova legge lega la possibilità di unificare, e dunque prorogare le concessioni, al «potenziamento e adeguamento strutturale, tecnologico e ambientale delle infrastrutture». Ma in realtà questo è previsto già nei contratti in vigore, dunque le società che vogliono ampliare le corsie di una tratta, ad esempio, ne hanno già facoltà. E hanno pure un altro vantaggio: se gli scade il contratto e non sono ancora rientrati dell’investimento, sarà chi subentra a saldare il conto.

A Cantone, ha già risposto nei giorni scorsi il ministro Lupi, il quale difende le scelte del governo sostenendo che «le modifiche del rapporto concessorio sono subordinate alla realizzazione di investimenti, essenziali per la sicurezza e l’adeguamento tecnologico della rete, altrimenti privi di copertura finanziaria. Se non lo facessimo potremmo arrivare a un inasprimento delle tariffe». Ma all’Anticorruzione, che sta vagliando tutti i 25 contratti delle autostrade italiane, non ne sono convinti.

Carteinregola, 22 gennaio 2015

Il 10 gennaio 2015 è scaduto il termine per impugnare davanti alla Corte Costituzionale la legge 166/2014, la conversione del decreto “Sblocca Italia”. L’hanno fatto solo 6 Regioni su 20: Abruzzo, Campania, Lombardia, Marche, Puglia e Veneto. Gli articoli impugnati sono soprattutto il 37 e il 38 , che, secondo le associazioni ambientaliste permettono di autorizzare una nuova ondata di trivellazioni petrolifere con irrilevanti benefici economici e sociali ed elevati pericoli ambientali per aree di pregio naturalistico e paesaggistico, sulla terraferma e nel mare. Ma le impugnazioni si basano soprattutto sull’ipotesi che la legge violi le competenze amministrative e legislative delle Regioni stabilite dal Titolo V della Costituzione.

Colpisce soprattutto che, con l’eccezione della Puglia e delle Marche, le Regioni che hanno impugnato la legge sono a guida centrodestra: la Campania , la Lombardia, l’Abruzzo, il Veneto. E assai significativa è invece la latitanza delle altre Regioni a guida centrosinistra (non osiamo più dire “rosse”, piuttosto ci teniamo la ripetizione), a partire proprio dall’illuminata Toscana, che ha da poco varato una avanzatissima Legge urbanistica – impugnata dal Governo perchè troppo restrittiva sui nuovi centri commerciali in aree rurali – e da cui ci saremmo aspettati una maggiore attenzione sia rispetto alla tutela dell’ambiente, sia rispetto alla difesa delle prerogative regionali nel governo del territorio. Sulla stessa linea “non interventista”, nonostante le sollecitazioni, anche da parte di molti sindaci, le altre Regioni come il Piemonte, la Liguria, la Sardegna, il Lazio. Anche se la posizione di quest’ultima non ci sorprende molto, dopo che abbiamo avuto modo di constatare quale sia la sua “linea” con il Piano Casa Polverini-Zingaretti, che abbiamo battezzato “Sblocca Lazio”.

Ma soprattutto è impressionante la mancata impugnazione da parte di Regioni come la Sicilia e la Basilicata, che saranno le prime “vittime” delle trivellazioni e delle nuove regole imposte dal Governo. La Basilicata, in particolare, secondo fonti giornalistiche, vedrebbe quasi la metà del suo territorio interessato da interventi di trivellazione. Inutile è stata la strenua resistenza dei sindaci e il loro appello al Presidente Pittella perchè impugnasse il provvedimento. E anche la maggioranza di centro sinistra della Sicilia, guidata dal governatore Rosario Crocetta, non si è lasciata commuovere dall’ANCI siciliano, dalle associazioni, dai comitati, dalle forze sociali, dai molti consiglieri (varie mozioni sono state presentate dai Cinquestelle) che chiedevano di non mettere a rischio, non solo le bellezze naturali, ma anche l’indotto turistico e la pesca, capitoli importanti dell’economia regionale. Alla fine ci risulta che l’unica iniziativa del Consiglio siciliano sia stata l’approvazione di un Ordine del giorno, il cui peso è praticamente pari a zero, ma che fa sempre bella impressione con i cittadini.
E per dirla tutta, non c’è da essere completamente soddisfatti neanche dell’impugnazione della Puglia, che pure è stata la coraggiosa capofila della resistenza. Infatti ci saremmo aspettati l’impugnazione anche di quell’articolo 33 che potrebbe in futuro spalancare le porte ai poteri speciali di un commissario e alla speculazione privata per la “Bonifica ambientale e la rigenerazione urbana” di “aree ed edifici di rilevante interesse nazionale“. Speriamo che se capiteranno dei casi del genere in Puglia il presidente Vendola sappia tenere il punto e rispedire al mittente commissari, aggiramenti delle norme e “premialità edificatorie”.

In ogni caso questa è un’amara lezione, che conferma quanto ormai l’appartenenza al centrodestra o al centrosinistra non sia più ancorata ad alcuna diversità di prospettiva e di intenzioni, soprattutto dal punto di vista della tutela del territorio e del patrimonio collettivo, dato che – Piano Casa Zingaretti/Polverini docet – le posizioni dipendono solo dal ruolo momentaneamente interpretato dalla tal forza politica, se quello di governo o quello di opposizione. Un gioco delle parti, con la costante della produzione a ciclo continuo di leggi che favoriscono la speculazione, distruggono l’ambiente e comprimono l’esercizio democratico e le prerogative costituzionali. Mentre i cittadini che hanno a cuore l’interesse generale restano sempre più soli.

Riferimenti
Per il rimando agli articoli dello "Sblocca Italia" e delle azioni delle Regioni si veda l'intero articolo pubblicato da Carteinregola

Il Fatto Quotidiano,18 dicembre 2014

Per loro, se il provvedimento sarà approvato, l’Italia rischia di andare «definitivamente allo scatafascio». Perché dopo i disastri provocati dalle alluvioni degli ultimi mesi gli occhi sono puntati su una cementificazione a cui, nella sostanza, verrebbe così spianata definitivamente la strada. Prende forza dall’università di Firenze la critica degli urbanisti al disegno di legge Lupi in materia di governo del territorio, che ha l’ambizione di modificare le norme risalenti al 1942. Un gruppo di 45 docenti, tra cui Maria Cristina Gibelli, Edoardo Salzano, Alberto Asor Rosa e Roberto Camagni, ha sottoscritto un documento di dura critica.

Gli esperti del dipartimento di architettura dell’Università lo hanno definito «inemendabile», decidendo di non partecipare neanche alla consultazione online lanciata dal ministro delle infrastrutture: «Malgrado le numerose prese di posizione critiche da parte di istituzioni come Italia Nostra, Legambiente, Fai, ecc, la discussione è stata scarsa – spiegano – solo cancellandolo si può ripartire da una proposta seria». Di recente era stato anche il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi a esprimere più di una perplessità: «Non mi convince perché continua a consentire edificazioni su lottizzazioni che devono essere tutelate, su aree che devono essere invece conservate. Quindi, dal mio punto di vista chiedo che venga modificato». Il nodo è che il ddl «conferisce al privato la possibilità di presentare la lottizzazione al Comune e di co-pianificare con l’ente pubblico. Sarebbe una disgrazia».

E sulle stesse linee si muove la critica degli urbanisti che nel loro documento smontano pezzo per pezzo il provvedimento inserito nel pacchetto di riforme del governo Renzi, presentato a luglio e di cui si attende la calendarizzazione nelle commissioni parlamentari. «Da un lato il governo annuncia lo stanziamento di 7 miliardi di euro per far fronte all’emergenza idrogeologica, dall’altro si agisce legiferando in senso opposto», spiega il professor Marco Massa, docente di urbanistica, che a dicembre ha organizzato due seminari per presentare nel dettaglio le critiche sui temi del rapporto fra pubblico e privato e dell’emergenza ambientale.

Per i professori dunque, accanto al ddl Lupi, questi stanziamenti sono l’ennesima toppa destinata a scollarsi presto, perché «il ddl non affronta in alcun modo i problemi reali del governo del territorio vistosamente testimoniati dai disastri ambientali». Nel dettaglio, secondo i promotori delle due iniziative, il ddl Lupi «propone la cancellazione, di fatto, della potestà pubblica in materia di pianificazione del territorio, istituzionalizzando la contrattazione con i proprietari fondiari di ogni scelta in materia». Un rapporto pubblico/privato che andrebbe così a sbilanciarsi ancora di più verso i privati, come in nessun altro paese europeo accade. In secondo piano finirebbe la funzione sociale e il governo del territorio sarebbe costituito dalla «sommatoria delle proposte immobiliari private», favorendo di fatto l’imprenditoria edilizia.

Secondo i firmatari del documento, inoltre, il ddl Lupi «azzera il ruolo dei Comuni» e «non si preoccupa di coordinarsi con le altre leggi vigenti», col risultato «di produrre contenziosi e mettere in difficoltà non solo gli enti pubblici territoriali ma anche i privati stessi che pretende di favorire». La semplificazione di cui c’è tanto bisogno per sburocratizzare l’Italia, insomma, è tutta un’altra cosa. «Il ministro Lupi ha aperto sul testo una consultazione pubblica online prorogata dal 15 agosto al 15 settembre – sottolinea la professoressa Maria Cristina Gibelli del Politecnico di Milano, che ha partecipato al primo dei due seminari organizzati a Firenze – Sul sito del ministero dicono che siano arrivate oltre cento osservazioni, peccato che queste non siano visibili. Scelte politiche che andavano sostanzialmente nella stessa direzione Lupi le aveva promosse da assessore al Comune di Milano, mentre nel 2005, da deputato del centrodestra, avanzò una proposta di legge simile, che naufragò solo per lo strappo di Fini da Berlusconi». Su sito Eddyburg una petizione per fermare il disegno di legge Lupi ha già raccolto oltre 500 adesioni, e quello di circa 60 gruppi e associazioni. Il logo, neanche a farlo apposta, è un lupo cattivo.

Riferimenti

Su eddyburgvi ricordiamo il nostro lAppello No alla legge Lupi e i documenti di critica che ci sembra più interessante richiamare ai nostri lettori: Città amica: Una lettera degli architetti sul DDL Lupi; DIDA (Dipartimento di architettura, Università degli Studi di Firenze): lex Lupi, un incredibile passo indietro; Legambiente: critiche e domande, ma adesione "a un percorso innovativo"; La posizione dell'INU sulla nuova proposta di legge urbanistica di Maurizio Lupi: Sapevamo già da che parte sta l’INU; Sergio Lironi: Un contributo alla discussione di una legge devastante; Sergio Brenna: La proposta di Lupi è ispirata a una vera furia iconoclasta

; SIU (Società Italiana degli Urbanisti): il testo predisposto per la consultazione on-line promossa da Lupi; Rosa Rinaldi: Il Territorio come il lavoro senza regole e senza tutele

due vittime del neoliberismo: territorio e lavoro

Il testo preparatorio presentato a luglio 2014 dal Gruppo di lavoro “Rinnovo urbano” del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti dal titolo: “Principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana” come premessa ad un conseguente disegno di legge governativo, sembra ispirato da una vera e propria furia demolitoria (v. in particolare art. 6, c. 6) nei confronti della tradizione di strumenti e procedure consolidatesi tra il 1967 con la L. 765/67 (c.d. Legge Ponte) e conseguente D.M. n. 1444/68 e il 1977 con la L. 10/77 (“Norme per la edificabilità dei suoli”, c.d. Legge Bucalossi) e sembra invece porsi come obiettivo il ritorno istituzionalizzato al “libero” confronto negoziale tra proprietà fondiario-immobiliare e amministrazioni locali che, negli anni Cinquanta-Sessanta, caratterizzò, anche dopo la fase di ricostruzione emergenziale delle distruzioni belliche, il periodo di renitenza da parte dei comuni a dare seguito al compito di indirizzo del processo urbanizzativo con modalità di valorizzazione economica compatibili con gli interessi pubblici e collettivi, compito loro già attribuito dalla L. n. 1150/42 (“Legge urbanistica”).

Ci si propone così di istituzionalizzare e rendere permanente ciò che nel decreto Sblocca Italia viene presentato come necessità emergenziale e contingente di fronte alla crisi economico-produttiva, soprattutto evidente nel settore edilizio-immobiliare e delle grandi opere.

In qualche modo si tenderebbe, cioè, ad applicare alla pianificazione di città e territorio ciò che in campo sociale si intende fare col mercato del lavoro: ogni contratto è un caso individuale a sé, senza regole di indirizzo generale.

L’esito del “libero” confronto negoziale tra proprietà fondiario-immobiliare e amministrazioni locali negli anni Cinquanta-Sessanta ebbe, come è noto, esiti caotici nello sviluppo urbano e territoriale dell’intero Paese in quegli anni (e di molto di questo esito paghiamo ancora oggi le conseguenze in termini di eccessive densità edificatorie e scarsità di dotazione di spazi pubblici nelle realizzazioni di quegli anni), sinché, dopo il clamoroso episodio della frana di Agrigento del 1966 (200.000 mc. malamente accatastati sul versante di una collina franosa antistante i templi della Magna Grecia), anche le forze politiche più restìe a porre limiti al “libero” contrattualismo tra proprietà fondiario-immobiliare ed enti locali dovettero riconoscere che quel compito non poteva essere adempiuto senza regole pubbliche di indirizzo generale (come già aveva riconosciuto un regime non certo contrario alla valorizzazione immobiliare come quello fascista con la legge del 1942, anche se la definizione di limiti edificatori e dotazioni pubbliche vi veniva demandato ad una cultura tecnico-professionale che negli anni del “boom” edilizio successivi al dopoguerra si rivelerà del tutto impari al compito affidatole).

C’è solo da sperare che non occorra un episodio altrettanto clamoroso quanto la frana del 1966 (magari, questa volta, non tanto e solo di tipo edilizio, ma ecologico-insediativo ed ambientale come quelli di Sarno, di Giampilieri, del Veneto, del Campidano, recentissimamente il Gargano e che tuttavia sembrano non aver sortito altrettanto effetto sull’atteggiamento di Governo e Parlamento) per rendersi conto della strada su cui ci si tornerebbe a mettere procedendo vinculis solutis dalle disposizioni normative in uso per i PRG).

Il venir meno di una dotazione minima di spazi pubblici garantita a livello nazionale (18 mq/abitante, aumentata a 24-28 mq/abitante da gran parte delle legislazioni regionali susseguitesi tra il 1975 (Lombardia) e il 1999 (Basilicata) farebbe venir meno quel minimo di garanzia, potendo dare origine a corse “al ribasso” con finalità di concorrenzialità economica tra territori e a danno della qualità insediativa. Per quanto la crisi economica morda ferocemente sembra difficile credere che regioni come Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia che amano paragonarsi per reddito e qualità della vita alle regioni europee più sviluppate non ritengano più garantibile ai propri cittadini ciò che si riteneva perseguibile negli anni Settanta e nell’intero Paese ciò che riteneva proponibile nel 1968.

A questa logica iper-liberista occorre saper contrapporre con forza e consapevolmente e da sinistra un disegno organico di ripresa riformatrice che superi le contraddizioni procedurali lasciate aperte dalle conquiste degli anni '70-'80 e dilatate a dismisura dalla stagione di deregulation dagli anni '90 in poi.

Mantenere un minimo di dotazione di spazi pubblici garantito a livello nazionale; vincolare gli oneri di urbanizzazione e le monetizzazioni di aree pubbliche non cedute dai privati alla effettiva realizzazione degli scopi cui sono destinate, anziché a tamponare le spese correnti nei bilanci comunali; destinare il già esistente contributo commisurato al costo di costruzione (4-6% del costo medio di costruzione) a incentivazione dell'uso di energie rinnovabili e del risparmio energetico, anziché gravare come riduzione degli oneri urbanizzativi; mettere a carico delle grandi trasformazioni urbane i 15 mq/abitante per parchi pubblici urbani e territoriali (oggi in gran parte inattuati, benché disegnati nei Piani regolatori, e spesso all'origine delle disastrose ipotesi di compensazioni edificatorie perequative); articolare gli strumenti pianificatori tra fase strategica di lungo periodo, da approvarsi e modificarsi con larghe maggioranze qualificate, e fasi attuative quinquennali, condotte anche in maniera semplificata dalle maggioranze di legislatura, ma all'interno dei limiti della pianificazione strategica di lungo periodo.

In questo modo le esigenze di alleggerimento degli oneri finanziari e snellimento procedurale dei vincoli che gravano su enti pubblici locali ed imprese potrebbero essere affrontate senza ledere il compito di tutela degli interessi generali della collettività e delle cittadinanze.

Rosa Rinaldi è responsabile dipartimento ambiente-territorio-beni comuni del Partito di Rifondazione Comunista

Il testo predisposto dallaSIU, alla quale aderiscono 30 struttureuniversitarie e di ricerca, contiene elogi e apprezzamenti di circostanza, ma alcune critiche e proposte interessanti. (m.c.g.)

1. Introduzione

L’attesa riforma della legge urbanistica sembra essere tornata di attualità nel nostro Paese, in un clima di innovazione di pratiche, strumenti e dispositivi di legge che, da almeno un ventennio, hanno espresso un approccio molto debole nel mobilitare e rilanciare processi di sviluppo sociale ed economico su base territoriale e urbana.

Infatti, la proposta di legge Lupi si colloca entro una stagione molto attiva – sebbene non sempre fertile – di redazione di provvedimenti normativi di natura o con effetti urbanistici (consumo di suolo, riorganizzazione degli EE.LL. e istituzione delle città metropolitane, rigenerazione urbana, etc.).
Tuttavia, a fronte dell’ampio auspicio che la legge sul contenimento del consumo di suolo, la legge Delrio e la legge Urbanistica Nazionale (LUN) potessero costituire, in forma integrata, l’avvio di un generale e complessivo processo di riforma della disciplina del governo del territorio, attualmente sembra che le tre iniziative continuino a procedere separate, non solo nella procedura, ma soprattutto nei contenuti.

Naturale evoluzione e necessaria conseguenza di tali iniziative legislative dovrebbe quindi essere l’avvio di un processo di riforma della LUN, che, però, nella proposta di legge oggetto di queste note, si configura ancora come un tassello piuttosto che come la necessaria cornice di coerenza generale.
Pertanto, pur seguendo con molta attenzione la ripresa di un certo interesse istituzionale per l’urbanistica e il governo del territorio (anche per la possibilità di riallineare le diverse leggi regionali in un telaio normativo unitario), sembra che questa proposta di legge sia sbilanciata su aspetti tecnico procedurali piuttosto che sostantivi: su aspetti legati al regime di proprietà e alla fiscalità, con l’effetto di un trattamento debole e sfocato dei valori del territorio e dei contenuti propri di un progetto urbanistico che interessi il futuro del Paese, dei suoi territori e delle sue città.

In questo quadro, come Società Italiana degli Urbanisti (SIU), ci preme sottolineare la centralità della città e del territorio, stigmatizzando nell’attuale versione del disegno di legge l’assenza di alcune distinzioni (tra città grandi e piccole, ma anche tra capacità amministrative regionali1) e di alcuni problemi e valori caratterizzanti ciascun territorio a fronte di una supposta competenza nazionale a stabilire priorità e orientamenti.

Pertanto, la SIU si propone di collaborare attivamente alla definizione di proposte di miglioramento a
partire da critiche competenti, costruttive ed interagenti, immaginando e coordinando un processo di
confronto pubblico, di riflessione e di elaborazione, che vede la nostra ampia disponibilità a una
collaborazione istituzionale che consenta di far interagire e dialogare, su questi temi, le competenze e le professionalità dei docenti e dei ricercatori delle 30 strutture Universitarie e di Ricerca che aderiscono e trovano rappresentanza nella nostra Società Scientifica, con l’intenzione di mettere in rete ricerche specifiche sui diversi temi sollevati e di porre in evidenza le carenze o i temi che ci appaiono sottovalutati dalla proposta.

2. Punti chiave

La SIU ha sviluppato, negli anni, importanti riflessioni teoriche riferite al nuovo assetto degli strumenti di pianificazione e alle trasformazioni del territorio e della società italiana, che rendono possibile indicare alcuni punti chiave rilevanti che possono rappresentare i contenuti su cui la SIU potrà sviluppare un ruolo di affiancamento nella revisione dell’attuale testo di legge.

· Incrementare l’integrazione e l’intersettorialità tra piani, strumenti di gestione e pianificazione
urbanistica e territoriale, misure di conservazione, di tutela e di valorizzazione dei patrimoni storici e
paesaggistici, programmi infrastrutturali, piani e misure di salvaguardia ambientale e idrogeologica e di sicurezza del territorio nel Paese;

· Ripensare complessivamente la riforma urbanistica nazionale come sfida per una reale revisione delle responsabilità, dei protocolli e degli strumenti per un governo del territorio più intelligente, sostenibile e solidale ma, anche, capace di sostenere un efficace “federalismo urbanistico”, senza tentazioni vetero centraliste e senza derive regionaliste frammentarie.

· Invertire la scarsa rilevanza dei temi della vivibilità delle città, della qualità del paesaggio, della coesione delle aree interne, della sostenibilità ambientale e dell’efficienza energetica nell'agenda politica e sociale dell’Italia, rifiutando il “piano per le città” e prediligendo un “patto per le città” che produca maggiore innovazione dei processi e non solo l’accelerazione dei finanziamenti o degli investimenti. La qualità del territorio e del paesaggio e la conservazione dell’ambiente e delle energie devono essere la matrice di politiche attive di creazione di nuovo valore urbano. Serve un nuovo paradigma territoriale da “risorsa” a “patrimonio”, il quale passando dal valore di scambio al valore d’uso concorrerebbe alla messa a punto di una strumentazione e normazione urbanistica efficacemente orientate alla limitazione del consumo di suolo.

· Interpretare e sostenere i processi di metropolizzazione determinati dalle nuove condizioni
economiche e sociali che generano spinte a una “diversa crescita” della città e della popolazione
urbana in una rinnovata dimensione transcomunale cooperativa e non più semplicemente ancillare. Le
poche metropoli italiane e le tante “protometropoli” insieme agli “arcipelaghi urbani” pongono alla
pianificazione alcune sfide ineludibili: inquinamento e congestione prodotti dalla mobilità, compulsivo consumo di suolo, fragilità del patrimonio edilizio, dispersione energetica, mancanza di reticoli di spazio pubblico ed interruzione delle reti ecologiche; ed impongono di mutare radicalmente i contenuti principali della pianificazione urbana e territoriale e di innovare gli strumenti regolativi e progettuali.

1 Se si prova a contare quante nuove funzioni vengono demandate all’attività regionale sottoposta alla proposta di nuova normativa nazionale ci si chiede, inevitabilmente, se alle regioni resterà il tempo di fare altro…

· Internalizzare nei processi urbanistici i temi rilevanti per ridefinire il modello di sviluppo come l’urban recycle, in termini di riuso creativo della dismissione; il progetto di suolo non esclusivamente in termini di consumo; la smartness per la revisione dei cicli di acquaenergiarifiuti e per la gestione delle reti digitali e di mobilità verso una reale sostenibilità; l’urban retrofitting come modalità di intervento sulla città esistente non efficiente.

· Revisionare il rapporto pubblicoprivato verso una maggiore corresponsabilità e concorrenza verso lo
sviluppo sostenibile, mettendo a regime il rapporto tra regolazione e incentivazione, tra facilitazione e
redditività. In particolare decisiva sarà la sostenibilità delle risorse finanziarie per la “città pubblica”, per la realizzazione dei servizi, per la dotazione di pertinenze di qualità, per le infrastrutture di mobilità pubblica, per la qualità dello spazio pubblico, per l’incentivazione del social housing. A tal fine dovrà essere rivista la fiscalità locale e di scopo per l’incentivazione della pianificazione operativa, nonché dovrà essere innovata la fiscalizzazione generale della rendita, al fine di una sua più equa distribuzione sociale. Alle incentivazioni fiscali dovranno essere affiancate quelle autorizzative, gestionali e amministrative, le quali, intervenendo sul fattore tempo, possono concorrere alla agevolazione dell’investimento privato.

2.1 Paradigmi e ruoli del progetto urbanistico

Sembra indispensabile che vengano affrontate e trattate dalla proposta di legge alcune questioni che oggi appaiono centrali nel ridefinire paradigmi e ruoli del progetto urbanistico del territorio contemporaneo e delle politiche volte alla sua trasformazione.

Innanzitutto andrebbe declinato con maggiore chiarezza il tema della qualità urbana (del resto la proposta di riforma adotta lo slogan “le città vivibili”), focalizzando i temi cardine per una città vivibile, i criteri e i dispositivi che possono garantire qualità e vivibilità all’ambiente urbano. In relazione a questi temi è centrale la considerazione secondo cui attualmente i processi di trasformazione territoriale (come tutti i processi di produzione e consumo) generano scarti e rifiuti (aree dismesse, paesaggi abbandonati, drosscape, rifiuti e macerie) che hanno la necessità di essere ripensati all’interno di nuovi cicli di vita della città e del territorio; ciò reclama un nuovo progetto politico e culturale che sia in grado di assumere la centralità della nozione del riciclo estesa ai territori urbani e rurali, agli ambienti e ai paesaggi, al di fuori delle derive esteticoespressive o di una banalizzazione delle pratiche di recupero edilizio ed urbano intese settorialmente.

In questo quadro, appare evidente come il tema della fragilità geoambientale (tradizionalmente trattato in maniera settoriale) vada assunto, al contrario, in una prospettiva ecosistemica e vada considerato come progetto della città nel suo insieme. Si tratta di lavorare sulle relazioni e sulle connessioni che migliorano la resilienza urbana. Non è solo un problema di corretta ingegneria ambientale e strutturale. Anche tenendo presente che, soprattutto nelle aree interne del nostro Paese, il tema della sicurezza ambientale si associa a quello del rinnovo urbano e del rilancio socioeconomico di interi territori.

Così come, allo stesso tempo, appare necessaria una riflessione e un approfondimento sull’evoluzione e trasformazione: a) del concetto di sussidiarietà, presupposto ed esito di una condizione che ci vede
comunque dipendenti dagli indirizzi comunitari; b) dei nuovi lemmi e slittamenti semantici, derivanti per lo più da esperienze nazionali e internazionali anche avanzate (dibattiti pubblici2, housing sociale, dotazioni territoriali3, o procedure di evidenza pubblica) ma ricollocate entro modalità piuttosto tradizionali nei confronti degli interventi dei privati senza alcun apprendimento da pratiche negoziali confuse e, spesso, perdenti per il pubblico.

2.2 Questioni ineludibili

Di seguito si riporta una sintetica elencazione di alcune argomentazioni essenziali che non è possibile
eludere:

1) Sarebbe un arretramento che la materia del governo del territorio fosse ricondotta esclusivamente alla competenza dello Stato. Dovrebbe avvenire il contrario, ovvero, che sia di competenza delle Regioni,
2 Vedi art. 16 “da disciplinarsi con LR senza specificare che succede in assenza di riferimento nelle LR di competenza.
3 Positivo, invece, a questo proposito la declinazione di dotazioni territoriali essenziali al punto g) che sembrerebbe dare il via alla realizzazione, ad esempio di moschee/centri culturali, quando, come è noto già la 1444/68 non specifica che si debba trattare solo di “chiese”… riservando allo Stato la predisposizione di quadri di orientamenti normativi di riferimento per le legislazioni regionali. Così si potrà porre argine a ridondanti declinazioni locali nella DGT su cui le Regioni si sono banalmente esercitate, e lasciare alle specificità locali la responsabilità delle scelte concrete di assetto del territorio, unificate in appositi strumenti di pianificazione. Utile, in questa direzione, l’esperienza dei codici (edilizia, ambiente, beni culturali), dannosa la sovrapposizione e intersezione su medesimi ambiti spaziali di piani generali e settoriali, urbanistici e territoriali, di competenza di enti diversi (statali, regionali, provinciali e comunali).

2) La nuova DGT dovrà portare immediati benefici ed essere direttamente operativa nella prassi
pianificatoria, salvo le precisazioni che le Regioni potranno apportare; si dovranno prevedere poteri
sostitutivi per le Regioni inerti; dovrà essere condotta una capillare, anche se difficile, operazione di
abrogazione di norme preesistenti per evitare una impossibile gestione di qualsiasi innovazione innanzi alla giustizia amministrativa, civile e penale.

3) I nuovi atti di governo del territorio, mediante strumenti di pianificazione di diverso livello e
competenze, dovranno essere strettamente integrati alle politiche di bilancio degli enti locali e ne
dovranno costituire effettivamente il motore e l’elemento di verifica; la fiscalità locale deve essere alla base dell’intervento urbanistico, nel rapporto fra generazione di risorse finanziarie prelevate dal
territorio e redistribuzione delle stesse, attivando una nuova fiscalità urbanistica; in tale contesto, vanno chiariti e stabilizzati, nella prassi corrente, le modalità perequative e compensative quali modifiche al diritto di proprietà.

4) L’edilizia residenziale sociale va intesa quale dotazione territoriale, superando l’equivoco che
inizialmente l’ha equiparata agli standard tradizionali, in quanto deve costituire un’ulteriore dotazione, indicata dagli standard previsti dalle normative statali e regionali.

5) È necessario introdurre nella DGT il regolamento urbanistico edilizio comunale, come già le discipline regionali hanno provveduto a fare, chiarendone il ruolo di strumento di governo spaziale stabile e permanente, esteso all’intero territorio comunale.

6) I piani urbanistici attuativi devono rimanere uno strumento urbanistico unificato e di iniziativa pubblica, privata o mista; tali piani, inoltre, vanno approvati con rigore e trasparenza ma, anche, attraverso uno snellimento delle procedure, verificando anche possibili e controllati elementi di flessibilità rispetto alla pianificazione comunale generale.

7) La valutazione ambientale strategica deve diventare un momento di approfondimento tecnico e di
verifica e confronto sociale, integrato alla costruzione delle strategie di governo del territorio, puntando su trasparenza e partecipazione e dimostrando come tale strumento sia in grado di sostenere
l’individuazione di scelte e obiettivi, di verificare l’efficacia delle soluzioni, nonché delle progressive
implementazioni.

8) Le politiche urbane devono diventare azione corrente di governo del territorio da parte degli enti locali, indipendentemente dal sostegno finanziario statale e, solo in casi eccezionali, devono ricorrere a finanza derivata se non nei termini conclamati di insostenibilità dell’azione locale e con verifiche concrete di ritorno dell’intervento aggiuntivo, corredato da forme di penalizzazione expost.

9) Le forme di tutela del territorio e delle città, sia attiva che passiva, devono essere integrate nei cicli di sviluppo economico e sociale, e le politiche urbane le devono sostanziare con trasparenza e in termini di efficacia.

3. Interpretazione critica e proposte

La nuova proposta di legge redatta dal gruppo di lavoro “rinnovo urbano” facente capo alla segreteria
tecnica del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, pur proponendosi di fissare nuovi principi in
materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana con l’esplicito obiettivo di migliorare l’efficacia attuativa del piano, si concentra prevalentemente ed essenzialmente sulle modalità e sugli strumenti, con un’attenzione sbilanciata per gli aspetti procedurali legati al regime di proprietà e alla fiscalità. Per queste ragioni tale proposta appare oltremodo debole, se non addirittura “omissiva”, sugli aspetti urbanistici regolativi, progettuali e spaziali.

La proposta di legge contiene alcune intenzioni che ci paiono importanti e condivisibili, da mantenere con alcune precisazioni e miglioramenti:
si parla di rigenerazione, accogliendo implicitamente che l’idea di approvazione delle operazioni di
rinnovo funzionale e di rigenerazione urbana comporti “la dichiarazione di pubblica utilità delle opere e l’urgenza e indifferibilità dei lavori”;
si danno i contorni della perequazione e della trasferibilità dei diritti edificatori, pur senza tener conto
delle difficoltà che l’applicazione di tali principi ha riscontrato nelle regione dove sono stati previsti
dalle norme regionali;
si chiariscono gli oneri dovuti dalle trasformazioni e si fa riferimento al metodo del plusvalore, come
avviene in altri paese europei, si fornisce un importante chiarimento sulla fiscalità immobiliare, sebbene dettato da una eccessiva attenzione al regime della proprietà privata;
reinterpreta, seppur parzialmente, la materia degli standard urbanistici ponendo in evidenza la
necessità di procedere ad approcci e modalità di calcolo diversi da quelli tradizionalmente delineati
nell’ambito di una nuova idea di città in trasformazione;
si cerca di sciogliere alcuni importanti nodi riguardanti il regime dei suoli , il ruolo della proprietà
privata, la commerciabilità dei diritti edificatori, la perequazione, la fiscalità urbana che hanno la
possibilità di essere utilizzati come strumenti di efficacia del progetto urbanistico contemporaneo.

A questo livello di elaborazione, la proposta di legge appare prevalentemente finalizzata a trovare risorse per il settore immobiliare in crisi. Ma la soluzione ancora una volta sembra limitarsi ad agire esclusivamente sulla rendita fondiaria ed edilizia. La proposta, infatti, mira a rendere virtualmente edificabile l’intero territorio nazionale per rafforzare la rendita fondiaria attraverso l’istituzione di diritti edificatori trasferibili e utilizzabili tra aree di proprietà pubblica e privata, e liberamente commerciabili.

Non si tratta solo di una critica sul piano dell’etica, ma anche su quello altrettanto rilevante della pratica concreta: oggi la rendita fondiaria e immobiliare è esaurita, se non in dosi marginali, ed è, quindi, incapace di far ripartire il sistema generativo di valori urbani sui quali si regge la compartecipazione tra pubblico e privato. Servono nuovi valori, nuovi “capitali urbani”, come la rigenerazione paesaggistica e ambientale, la valorizzazione del patrimonio storico, la qualità, l’attrattività, la riattivazione manifatturiera, la produzione di energia, l’efficienza del metabolismo, etc.

3.1 Integrazione e contestualizzazione dei piani e dei progetti urbanistici

La proposta legislativa, nel tentativo di proporsi come “legge di principi”, sfugge ai contenuti legati ai valori spaziali, culturali e sociali del territorio, del paesaggio e dell’ambiente urbano; valori di cui oggi, la disciplina e la cultura internazionale, hanno piena consapevolezza maturata attraverso studi, ricerche e riflessioni ampie e interdisciplinari.

Questo slittamento dall’oggetto della pianificazione (le città, i territori produttivi e rurali, i paesaggi) alle procedure operative, genera alcune semplificazioni che non consentono ad alcuni temi importanti di andare oltre enunciati di principio.

Manca qualsiasi riferimento ai valori che definiscono l’identità dei contesti e dei territori urbani, dunque alle invarianti e alle condizionanti territoriali, alla valutazione ambientale strategica dei piani come costruzione di contenuti degli strumenti di pianificazione e non solo come mero congegno procedurale, al paesaggio come risorsa generatrice e al patrimonio culturale come attivatore di sviluppo, alla presenza resiliente dell’agricoltura urbana e alle identità urbano/rurali dei nostri centri interni, al contrasto al dissesto idrogeologico, alla mitigazione della fragilità del territorio e all’efficienza energetica degli insediamenti, sempre più oggetto attivo del progetto urbanistico.

Poco o nulla si dice sulle invarianti territoriali, sulle forme di integrazione degli strumenti di governo del territorio e della copianificazione, sul consumo di suolo nonché sui temi urgenti del dissesto idrogeologico e della vulnerabilità e fragilità del territorio, della tutela del paesaggio, della compatibilità ambientale dei piani nelle aree sismiche, dell’apporto recente delle conoscenze in campo informatico applicate al territorio al suo monitoraggio e alla sua rappresentazione con i prevedibili effetti di economia delle risorse, di maggiore trasparenza e di potenziale flessibilità delle scelte urbanistiche.

3.2 Debole considerazione dell’area vasta

La proposta appare complessivamente carente nella gestione della dimensione di area vasta, indispensabile per risolvere numerose criticità territoriali e per cogliere le opportunità offerte dalla nuova programmazione europea (si va verso le macroregioni per molte iniziative di sviluppo, soprattutto quelle con forte rilevanza infrastrutturale e insediativa). A fronte di questa evidente omissione della dimensione interscalare della pianificazione e, in particolare, di quella intermedia (da intendersi come la più efficace per orientare politiche policentriche e reticolari) la proposta introduce una Direttiva Quadro Territoriale (DQT), quinquennale e direttamente approvata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, che riesuma in altra veste i piani infrastrutturali e le grandi opere della “legge obiettivo” o del “piano città”, subordinando il paesaggio al governo del territorio, non solo in contrasto col “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, ma anche con il dettato Costituzionale dell’art. 9.

Nel suo insieme, l’architettura istituzionale e normativa contenuta nella proposta non risolve e, talvolta, nemmeno affronta, il complesso sistema dei ruoli e delle competenze, esclusive o concorrenti, autonome o associate, nel rapporto tra lo Stato, le Regioni, le Province (in corso di profonda riforma), le Città Metropolitane (in corso di definizione) e i Comuni (paralizzati della profonda crisi della finanza pubblica), derivato dall’interazione o dall’interferenza tra il vigente Titolo V della Costituzione e le riforme in campo. In questo denunciando un mancato riconoscimento dei processi di trasformazione in atto in cui prendono forma inedite conurbazioni multiscalari e reticolari: unioni e intese tra formazioni insorgenti e spesso nuove che vedono l’interazione tra comuni, “metropoli piccole”, aggregazioni territoriali estese, “coalescenze territoriali”, “arcipelaghi urbani”, geocittà.

3.3 Necessità di semplificazione, coordinamento e integrazione territoriale

La proposta appare, in qualche modo, indifferente alla contemporanea riflessione politica e disciplinare, oltre che alla diffusa critica alla complessità e farraginosità dell’apparato pianificatorio urbanistico. Essa sembra riproporre il doppio livello del piano comunale strutturale e operativo (ormai acquisito dalle leggi urbanistiche regionali) attingendo a modelli forse efficaci ma, in parte, obsoleti e senza distinzione tra le conurbazioni metropolitane, le città medie e il reticolo di piccolissimi comuni che invece andrebbero incentivati verso forme di composizione comprensoriale.
A tal fine sarebbe necessario agevolare la predisposizione di “quadri di coerenza territoriale” capaci di individuare le potenziali scelte “invarianti” e “condizionanti” in grado di integrare ed orientare i successivi livelli di pianificazione.

3.4 Altre criticità

Infine, appare opportuno citare alcuni ulteriori elementi problematici:
- la mancata integrazione tra alcune politiche di settore (in particolare paesaggistiche e infrastrutturali) e politiche urbanistiche: questioni da sempre irrisolte che attengono alla separazione (culturale ed operativa) tra strumentazioni, competenze e giurisdizioni, che non sembrano chiarite, in termini di contenuti, ambiti di applicazione, cogenza e rapporto tra DQT, DQR, Piano Piani di Area Vasta, Piano Comunale, dagli artt. 5 e 7 a proposito del coordinamento delle politiche in materia di governo del territorio;
- la perdita di efficacia di alcune parte del d.m.1444/68 non sostituite né garantite dall’introduzione delle “dotazioni territoriali”;
- la determinazione del fabbisogno pregresso e futuro per le “dotazioni territoriali” a fronte di una oramai larga indifferenza al calcolo del fabbisogno nella definizione dello sviluppo urbano futuro e, quindi, lo scollamento tra fabbisogno abitativo e fabbisogno di dotazioni territoriali essenziali, ossia i vecchi standard minimi;
- il calcolo degli oneri di urbanizzazione rischia di rendere impraticabili alcune azioni di rigenerazione urbana, tenendo conto che, ad esempio, il 30% del plusvalore può essere eccessivo, soprattutto nel caso di recupero con bonifica delle aree;

- la definizione di zone urbanistiche “omogenee” – quando viene meno l’omogeneità degli usi da sostituire con una nuova mixité funzionale – appare anacronistica e smentita dalla totale liberalizzazione del cambio di destinazione d’uso in caso di non necessità di reperire ulteriori dotazioni di servizi;

- nel complesso la proposta di legge (in particolare all’art. 8, comma 3 e 4) sembra eccessivamente
sbilanciata a prestare il fianco a dispositivi di eccezione per garantire la salvaguardia del privato piuttosto che a mettere al centro la salvaguardia del pubblico, introducendo anche il rischio di aprire notevoli margini di contenzioso in sede di redazione degli strumenti di pianificazione comunale;

- l’assenza di riferimenti a forme di tutela risulta evidente in passaggi come quello del comma 2 dell’art. 16 laddove, a proposito di rinnovo urbano si fa riferimento ad esempio alla demolizione, ricostruzione e ristrutturazione urbanistica, che, in assenza di un quadro certo di tutele può divenire pericoloso.

In definitiva il testo della legge andrebbe opportunamente revisionato, tenendo in considerazione le
argomentazioni e i temi richiamati in precedenza, con l’obiettivo di attribuire una più ampia centralità al ruolo del progetto urbanistico come pratica amministrativa e politica in grado di costruire – in forma condivisa e concertata – scenari di futuro per i territori e le comunità locali, legati alle loro specifiche esigenze, alle loro potenzialità, alle condizioni di identità dei differenti contesti. Solo in subordine a questi principi e valori dovrebbe essere possibile innestare le articolazioni procedurali contenute nell’attuale proposta.

In tale direzione la SIU, in rappresentanza della cultura urbanistica e della ricerca universitaria e scientifica in Italia, si candida a contribuire all’individuazione e all’approfondimento di modifiche, chiarimenti e articolazioni della proposta di legge, affinché tale disciplina possa innovare con decisione le forme di governo e di progetto dei territori e delle città italiane, in termini di sviluppo e di vivibilità dello spazio urbano, di tutela e di valorizzazione delle identità locali, di sostegno dei processi di sviluppo e di rilancio delle attività economiche in chiave di sostenibilità.

Michelangelo Russo è Presidente della Società Italiana degli Urbanisti

Postilla

Un testo un po' ambiguo e cerimonioso. Nella prima parte si apprezzaacriticamente il modo in cui il Ddl affronta alcuni nodi quali il regime deisuoli, il ruolo della proprietà privata, la commerciabilità dei dirittiedificatori, la perequazione e la fiscalità urbana. Si apprezza anche “lapossibilità di riallineare le diverse leggi regionali in un telaio normativounitario”. Ma, se fosse approvata la proposta di legge di Lupi, sarebbero costrette a 'riallinearsi' le buone leggi regionali (per esempio, quella della Toscana) alle cattive (per esempio, quella della Lombardia). Le proposte emendative contengono invece spunti interessanti chesmentiscono gli elogi iniziali dello stesso documento. (M.C.G.)



Osservazioni al testo presentato a luglio 2014 dal gruppo di lavoro "Rinnovo Urbano del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti"

L’articolato presentato a luglio 2014 dal Gruppo di lavoro “Rinnovo urbano” del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sembra ispirato da una vera e propria furia iconoclasta (v. in particolare art. 6, c. 6) nei confronti della tradizione di strumenti e procedure consolidatesi tra il 1967 con la L. 765/67 (c.d. Legge Ponte) e conseguente D.M. n. 1444/68 ) e il 1977 con la L. 10/77 (“Norme per la edificabilità dei suoli”, c.d. Legge Bucalossi) e sembra invece porsi come obiettivo il ritorno istituzionalizzato al “libero” confronto negoziale tra proprietà fondiario-immobiliare e amministrazioni locali che, negli anni Cinquanta-Sessanta caratterizzò, anche dopo la fase di ricostruzione emergenziale delle distruzioni belliche, il periodo di renitenza da parte dei comuni a dare seguito al compito di indirizzo del processo urbanizzativo con modalità di valorizzazione economica compatibili con gli interessi pubblici e collettivi, compito loro attribuito dalla L.
n. 1150/42 (“Legge urbanistica”).

Non è, infatti, casuale che alle forme di partecipazione socialmente qualificata previste dal testo tuttora vigente della “Legge urbanistica” (art. 9, c. 2: «...possono presentare osservazioni le associazioni sindacali e gli altri enti pubblici ed istituzioni interessate».) o anche alla prassi instauratasi per estensione del disposto del c. 1 (nel periodo di pubblicazione dei piani urbanistici «chiunque ha facoltà di prenderne visione») per consentire a chiunque la facoltà di presentare osservazioni (e, tuttavia, la proprietà fondiario-immobiliare che usi di questa facoltà ha la necessità di rivestire la tutela del proprio interesse proprietario – giuridicamente tutelato dalla forma dell’opposizione - di qualche forma di cointeressenza pubblica se vuole sperare di trovare accoglimento) il testo proposto sostituisca la tutela pressoché esclusiva e preminente della partecipazione “proprietaria” (art. 1, sub i: «leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni e tra queste ultime e i privati nella definizione e attuazione degli strumenti di pianificazione»; art. 1 c. 4: «Ai proprietari degli immobili è riconosciuto, nei procedimenti di pianificazione, il diritto di iniziativa e di partecipazione, anche al fine di garantire il valore della proprietà conformemente ai contenuti della programmazione territoriale. Le procedure di pianificazione assicurano la partecipazione dei privati anche nell’esecuzione dei programmi territoriali senza dar luogo a sperequazioni tra le posizioni proprietarie»; art.7, c. 7: «7. Nell’ambito della formazione del piano operativo, i privati, singoli o associati, possono presentare proposte per operazioni di trasformazione urbanistica di maggiore complessità funzionale, gestionale ed economico – finanziaria. Le proposte, corredate da progetti di fattibilità, si intendono come preliminari di piani urbanistici attuativi»; art. 8, Tutela della proprietà ed indifferenza delle posizioni proprietarie, c. 1, 2, 3 e 4:

«1. Il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza e il suo godimento».

«2. La disciplina della conformazione della proprietà privata, al fine di renderla funzionale agli obiettivi della programmazione territoriale, rispetta il principio di indifferenza delle posizioni proprietarie. I proprietari hanno il diritto di partecipare alla determinazione dei contenuti della programmazione territoriale, conformemente ai fini generali della medesima».

«3. I limiti alla proprietà privata, necessari alla programmazione territoriale, sono giustificati dagli obiettivi sociali della programmazione e realizzano una migliore accessibilità al diritto di proprietà
«4. Le limitazioni apposte alla proprietà privata che non hanno carattere generale e che non riguardano in generale una categoria di beni economici sono compensate. La compensazione rende indifferente le limitazioni»), mentre scompare del tutto la partecipazione socialmente connotata, del tutto equiparata a quella dei generici “privati”.

L’esito del “libero” confronto negoziale tra proprietà fondiario-immobiliare e amministrazioni locali negli anni Cinquanta-Sessanta ebbe, come è noto, esiti caotici nello sviluppo urbano e territoriale dell’intero Paese (e di molto di questo esito paghiamo ancora oggi le conseguenze), sinché, dopo il clamoroso episodio della frana di Agrigento del 1966 (200.000 mc. malamente accatastati sul versante di una collina franosa antistante i templi della Magna Grecia), anche le forze politiche più restìe a porre limiti al “libero” contrattualismo tra proprietà fondiario-immobiliare ed enti locali dovettero riconoscere che quel compito non poteva essere adempiuto senza regole pubbliche di indirizzo generale (come già aveva riconosciuto un regime non certo contrario alla valorizzazione immobiliare come quello fascista con la legge del 1942, anche se la definizione di limiti edificatori e dotazioni pubbliche vi veniva demandato ad una cultura tecnico-professionale che negli anni del “boom” edilizio successivi al dopoguerra si rivelerà del tutto impari al compito affidatole). C’è solo da sperare che non occorra un episodio altrettanto clamoroso quanto la frana del 1966 (magari, questa volta, non tanto e solo di tipo edilizio, ma ecologico-insediativo ed ambientale come quelli di Sarno, di Giampilieri, del Veneto, del Campidano, che pure sembrano non aver sortito altrettanto effetto sull’atteggiamento di Governo e Parlamento) per rendersi conto della strada su cui ci si tornerebbe a mettere (e in buona parte ci si è già tornati a mettere con la diffusione inflazionata dei PII introdotti dall’art. 16 della L. n. 179/92).

Se si volesse desistere dalla furia demolitoria dell’impianto giuridico-normativo e strumentativo del complesso L. 1150/42-L.765/67-DM 1444/68- L. 10/77, sarebbe invece più utile ed opportuno provare a distinguere quali parti, nell’attuale fase meno espansiva e più ristrutturativa dei tessuti urbanizzativi, mantengano ancora una valenza di attualità e quali invece debbano considerarsi obsoleti (ad es. gli artt. 2 e 3 del DM 1444/68 sulle zone territoriali omogenee) e provare a risolverne alcune contraddizioni ed incoerenze. Ad esempio rendendo esplicita la possibilità di destinare il contributo concessorio commisurato al costo di costruzione a nuovi obiettivi di maggior tutela ambientale (uso di risorse energetiche rinnovabili, maggiori coibentazioni, ecc.), salvaguardando così l’integrità e la destinazione urbanizzativa degli oneri, col ripristino del disposto dell’art. 12 della L. 10/77 (illegittimamente non trasferito nel T.U. sull’edilizia, D.P.R. n. 380/2000) che imponeva la loro allocazione in conti a ciò vincolati e distinguendovi i proventi da monetizzazioni di aree pubbliche non cedute, che dovrebbero obbligatoriamente destinarsi all’acquisizione di nuove aree pubbliche. Ciò frenerebbe la pulsione di molti comuni ad estendere inopportunamente il processo urbanizzativo per reperire risorse da utilizzare per contingenze correnti di bilancio.

Altrettanto si potrebbe riflettere sull’opportunità di porre a carico dei Piani Attuativi (e forse, monetizzandole, anche a carico dei permessi di edificare diretti) le aree corrispondenti ai 15 mq/abitante per parchi pubblici urbani e territoriali, di cui all’art. 4 p. 5 del DM 1444/68, oggi disegnati nei Piani Regolatori e in gran parte inattuati e a vincoli decaduti, che sono spesso all’origine di fantasiose e per lo più inefficaci ipotesi di compensazioni perequative che si risolverebbero in aggravamento dei pesi insediativi sulle aree edificabili. Si porrebbero così limiti al consumo edificatorio del territorio ben più efficaci di qualunque limitazione imposta dall’esterno al processo urbanizzativo.

Anche il combinato disposto degli artt. 8 c. 2, art. 7 c. 2 e art. 9 del DM 1444/68 (è opportuno leggerli in questa sequenza per comprenderne bene il meccanismo) meriterebbe una più attenta valutazione alternativa alla brutale proposta di soppressione. Il senso di quegli articoli potrebbe esplicitarsi così : "Se un Piano Attuativo realizza interamente i propri spazi pubblici prescritti dallo strumento pianificatorio generale, esso può proporre un proprio modello insediativo caratterizzato da altezze, distanze tra edifici e densità fondiarie liberamente determinate dalla proposta di progetto; viceversa se gli spazi pubblici non vengono realizzati interamente all'interno del Piano (cioè in gran parte monetizzati o ceduti fuori comparto, e quindi si tratta - al di là della forma - un "non –piano attuativo", assimilabile ad un intervento a permesso edificatorio diretto) le altezze e le densità devono essere stabilite per analogia con quelle degli edifici dei tessuti urbani circostanti e preesistenti e la distanza tra gli edifici é prefissata per legge (ad es. pari all'altezza dell'edificio più alto) con un minimo assoluto". Che questo minimo debba essere quello di 10 m. come disposto dall’art. 9 p. 2 del DM 1444/68 (disposto che, voglio ricordarlo, ha superato indenne i numerosissimi ricorsi amministrativi che gli si sono rivolti contro) è questione che può anche essere discussa. Certo il ritorno alle disposizioni previste dal Codice civile (1,5 m. dal confine di proprietà, con la conseguente distanza minima tra pareti esterne di edifici di 3 metri), mi sembrerebbe segnare un ritorno a periodi oscuri (in tutti i sensi!), di cui non so se il Gruppo di lavoro intenda davvero e consapevolmente assumersi la responsabilità di proposta, implicita nell’abrogazione del DM medesimo.

Da ultimo la questione della fissazione di una dotazione minima di spazi pubblici a livello nazionale: i 18 mq/abitante (con l’abitante stimato a 30 mq s.l.p. o 100 mc lordi “salvo diversa dimostrazione”; art. 3, c.3) furono stabiliti empiricamente sulla base di esempi giudicati positivamente dal Gruppo di lavoro diretto da Martuscelli; gran parte delle legislazioni regionali susseguitesi tra il 1975 (Lombardia) e il 1999 (Basilicata) stabilirono maggiori dotazioni tra 24 e 28 mq/abitante. Per quanto la crisi economica morda ferocemente sembra difficile credere che regioni come Piemonte, Lombardia, Veneto che amano paragonarsi per reddito e qualità della vita alle regioni europee più sviluppate non ritengano più garantibile ai propri cittadini ciò che si riteneva perseguibile negli anni Settanta e l’intero Paese ciò che riteneva proponibile nel 1968. Ma, al di là del dato quantitativo, ritengo sia opportuno mantenere un livello minimo garantito a livello nazionale per evitare che si manifestino eccessive disparità di trattamento tra i cittadini del Paese. Anche in questo caso la brutale soppressione del DM farebbe venir meno quel minimo di garanzia, potendo dare origine a corse “al ribasso” con finalità di concorrenzialità economica e a danno della qualità insediativa.

Quanto alla proposta di inserire la dotazione di edilizia economico-popolare (o sociale come preferisce l’entourage di provenienza del ministro Lupi: non a caso la proposta è un’inveterata aspirazione di taluni ambienti politico-sociali lombardi) tra le aree a destinazione pubblica o di interesse pubblico: comunque anche in questo caso occorrerebbe stabilire una quota minima nazionale rispetto alle quantità edificatorie programmate dai piani operativi (il 40% come disposto dalle mai abrogate, ma totalmente disattese, L. 167/62 e 865/71? Altre diverse quote?) per evitare eccessive disparità e le aree destinate ad attuarle devono essere aggiuntive a quelle per i servizi pubblici di zona e generali di cui sopra.

Sergio Brenna è Ordinario di urbanistica del Politecnico di Milano

PerUnaltracittà, 7 novembre 2014.

Per l’attuale governo, Firenze ha costituito un fruttuoso banco di prova. Dal punto di vista politico: autocrazia, deliberazioni d’urgenza (quella per la pedonalizzazione di piazza del Duomo è ora all’attenzione della Procura), annichilimento del consiglio comunale, rottamazioni senza ricostruzione, svuotamento di senso della città pubblica, finta partecipazione e vere privatizzazioni; in una continua, colpevole frammistione tra pubblico e privato. Dal punto di vista urbanistico, il ruolo di anticipatore zelante delle scelte politiche governative permane, come dimostra, solo per fare un esempio, il riciclo dell’attuale sindaco come intermediatore immobiliare alle fiere internazionali del real estate (Monaco di Baviera, ma a breve Cina e Mipim di Cannes): Nardella, infatti, si dedica non solo alla promozione (di per sé vergognosa e penosa) dei migliori immobili pubblici in disuso o in dismissione presenti sul territorio comunale, ma soprattutto di quelli privati. Sui 59 edifici promossi sul mercato della speculazione fondiaria sotto l’egida del comune di Firenze, ben 47 sono infatti privati. Nel disastro della desertificazione della città storica attuatasi anche grazie al decentramento di università, tribunale e uffici, non pareva sufficientemente destrutturante svendere il patrimonio pubblico, ora il pubblico si incarica di vendere quello privato agognando un investimento immobiliare estero dal potere taumaturgico.

E così, per l’occasione, è stato redatto il dossier “Florence city of the opportunities” scritto nell’inglesorum del primo ministro. Ma non basta: il dossier è scaricabile dal sito “invest in Tuscany”, vetrina immobiliare della Regione Toscana dove si trovano, fianco a fianco, offerte di fortezze medicee, «ecowellness resort» nella campagna toscana e lotti edificabili in area industriale.

Torniamo al caso Firenze. Tra i 59 immobili della “brochure” si trovano architetture di pregio: il secentesco convento dei Filippini, ex tribunale in piazza San Firenze; le Poste di Michelucci; il convento di Monte Oliveto e la rinascimentale villa di Rusciano, entrambi in collina; il palazzo Vivarelli Colonna, sede dell’assessorato alla cultura, in piena città storica. E il teatro Comunale, per il quale le brochures ad speculationem (comunale e regionale) presentano già un progetto avveniristico di mini grattacieli sul corso Italia. Per inciso, voglio ricordare che il 27 dicembre 2013 (nei giorni tra Natale e Capodanno!), la Cassa Depositi e Prestiti Spa (su cui torneremo) si è prodigata in un tempestivo regalo al rampante sindaco sulla via di Roma, comprando per 23 milioni di euro (dopo aste andate deserte) proprio il teatro Comunale che ora si tenta di rivendere. I 23 milioni vennero immediatamente utilizzati per chiudere il bilancio comunale, evitando che si sforasse il patto di stabilità (CDP è affidabile: il 28 dicembre i 23 milioni erano già nelle casse comunali).

Come il teatro Comunale, le altre aree in catalogo avrebbero importanza vitale nel progetto futuro per la città: la Manifattura Tabacchi (88.687 mq), proprietà Fintecna, è in vendita con un progetto adottato che prevede (contro il volere dei comitati) due torri alte 53 metri in deroga al regolamento edilizio; le ex-Officine grandi riparazioni (55.000 mq) alle spalle della Leopolda; i 19.000 mq della Cassa di Risparmio all’ombra della cupola del Brunelleschi. Più di duecentomila metri quadri, pubblici e privati, solo nella cerchia trecentesca e nelle aree immediatamente limitrofe.

Eppure, tra il mantenimento della proprietà pubblica e la sua svendita ai privati, esisterebbero soluzioni intermedie, ad esempio nel segno dei commons, da sostenere con scelte politiche mirate: ad esempio, riversandovi il denaro delle spese militari o delle inutili grandi opere. In tal modo gli edifici – ancora pubblici – potrebbero ospitare centri di quartiere, edilizia sociale (vera), scuole, sale per assemblee (così rare nella Firenze post-renziana). Invece, un’analisi dell’oscuro – e illeggibile – decreto 133/2014 detto “Sblocca-Italia”, ora legge, evidenzia che l’«asse Firenze-Roma» (sul quale lugubremente puntava il programma elettorale nardelliano) è attivo e diretto verso ben altri lidi.

Ad esempio, l’art. 26 (Misure urgenti per la valorizzazione degli immobili demaniali inutilizzati) introduce modifiche sostanziali all’accordo di programma, che – ricordo – è una convenzione tra enti pubblici per la realizzazione di opere, la cui approvazione «comporta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle [...] opere» medesime (corsivo nostro, dl 267/2000, TU sugli ordinamenti degli enti locali, art. 34, c. 6). Ora, all’accordo di programma riguardante gli immobili demaniali inutilizzati, lo Sblocca Italia attribuisce anche valore di variante urbanistica (in modo da saltare le fasi di adozione, osservazioni, approvazione, etc., erodendo ulteriormente gli spazi di democrazia comunale). Su questi immobili il comune presenta un progetto di recupero, «anche attraverso il cambio di destinazione d’uso», al ministero cui è attribuito in uso il bene; è inutile dirlo: il progetto potrà derivare anche da privati «a seguito di ricerca di mercato». Sulla base della variante urbanistica così realizzata – in deroga alle leggi (perché di pubblica utilità) – l’agenzia del demanio procede all’alienazione. Ne deriva che uno strumento eminentemente pubblico, volto all’interesse generale, la dichiarazione di “pubblica utilità”, è impiegato per la speculazione privata.

A questo punto il cerchio si chiude: il comma 8 prevede infatti l’attribuzione di quota parte dei proventi derivanti dalle valorizzazioni/alienazioni degli immobili, proprio a quegli enti territoriali che hanno contribuito alla conclusione del procedimento. Dunque – nel nostro caso – al comune di Firenze e alla Regione Toscana spetterà una percentuale sulla vendita degli immobili in brochure, come agli agenti immobiliari, nel segno della regressione civile.

Ma c’è di più: a intorbidire le acque, l’art. 10 trasforma la Cassa Depositi e Prestiti estendendone il campo d’azione come ente promotore di iniziative private (ancorché «nei settori di interesse generale»), campo non più limitato a quelle pubbliche che in tal modo vengono rigettate in pasto al mercato (il tema è stato trattato esaurientemente da Luca Martinelli).

Ricordiamo come già il Piano strutturale fiorentino aveva posto nel sovrammondo della pianificazione le aree strategiche (Manifattura tabacchi, Panificio militare etc.), estrapolandole – con determina del sindaco – dalla normale gestione urbanistica e proiettandole su un binario preferenziale di deroghe, varianti e pubblico avviso. E come l’approvando Regolamento urbanistico richiami, nella forma e nella sostanza, le dette brochures.

Lo Sblocca Italia – all’insegna di urgenza e pubblica utilità, facendo leva sul mercato immobiliare, sul cemento e sulla rendita, in una fase storica in cui i valori degli immobili sono crollati, e in cui il finanzcapitalismo ha eliminato le merci dal ciclo di accumulazione – sottrae definitivamente all’autodeterminazione delle comunità locali, le aree inutilizzate o in via di dismissione, in specie quelle militari, così estese nelle città italiane il cui futuro disegno, fisico e sociale, proprio su quelle aree potrebbe far leva.

I metodi adottati sono improntati, da una parte, al neoliberismo (o paleoberlusconismo, come si legge nel Rottama Italia), ossia: deroghe, stralci, defiscalizzazione, sconti, esenzioni, silenzio-assenso. Dall’altra alla neoautocrazia (o paleofascismo): ad esempio nella generosa previsione di commissari straordinari (i “commissari straordinari per la rigenerazione urbana” previsti dall’art. 33 rammentano gli sventramenti di regime). Commissari che – L’Aquila insegna ­– corrispondono al trasferimento della potestà in materia urbanistica dall’ente locale direttamente al governo. Quando si dice potere esecutivo.

Intervento svolto a un incontro sul tema "Sblocca Italia, o il grande appetito", organizzato dal Laboratorio politico perUnaltracittà. Firenze, 7 novembre 2014

Il nuovo disegno di legge presentato dal ministro Lupi il 24 luglio 2014 si propone di sostituire la legge urbanistica del 1942 definendo al Titolo I i “Principi fondamentali in materia di governo del territorio, proprietà immobiliare e accordi pubblico privato”, principi che dovrebbero regolare l’azione dello Stato nelle materie di propria competenza e coordinare ed orientare l’azione delle Regioni e degli enti locali per le politiche territoriali concorrenti o a loro direttamente attribuite dal dettato costituzionale.

Con l’introduzione del concetto di “governo del territorio” ci si sarebbe dovuti aspettare un progetto di legge in grado di riunificare e riordinare le molte discipline che oggi incidono sugli usi del suolo e sulle trasformazioni territoriali, individuando le strette connessioni ed interazioni ad esempio esistenti tra l’urbanistica, la pianificazione paesaggistica, la tutela dei beni storici e culturali, la salvaguardia idrogeologica, la protezione della natura e degli ecosistemi, la normativa antisismica, la tutela della salute, il benessere ed i diritti degli abitanti. Discipline semplicemente richiamate ma non coordinate ed integrate nel disegno di legge, che affronta unicamente i temi dell’uso del suolo a fini urbanistici e dell’edilizia, in netto contrasto con gli indirizzi e le direttive della Comunità europea che pongono al centro del governo del territorio i principi dello sviluppo sostenibile, della lotta ai cambiamenti climatici, della partecipazione dei cittadini e che quindi preliminarmente richiederebbero - come osserva Paolo Urbani, docente di Diritto Urbanistico all’Università di Roma - la definizione delle “invarianti territoriali” derivanti «… da una lettura sistematica degli equilibri sostenibili del territorio che delimiti a monte le condizioni complesse ed interrelate di trasformazione degli usi del territorio in rapporto alla sostenibilità degli usi dei beni pubblici quali l’acqua, l’aria, il suolo, la natura» (P. Urbani, 2005)

E’ d’altra parte lo stesso concetto di “territorio” sotteso dal disegno di legge sembra far unicamente riferimento alle sole realtà urbanizzate (o da urbanizzare), ignorando completamente la realtà dei sempre più diffusi arcipelaghi metropolitani, di un territorio rurale disseminato di capannoni e villettopoli, della assoluta e prioritaria necessità di contrastare la dispersione insediativa ed il consumo di suolo, non solo salvaguardando le residue oasi naturalistiche bensì anche promuovendo - compatibilmente con la tutela del paesaggio - le attività agricole nel territorio aperto ed all’interno stesso del territorio urbanizzato.

Ciò premesso non si può non osservare come larga parte dei principi e delle disposizioni del disegno di legge anziché proporre un aggiornamento ed un superamento in positivo della legislazione urbanistica vigente, ne scardinano alcuni dei presupposti fondamentali con prevedibili devastanti effetti su di un territorio ed un paesaggio già martirizzati. Proviamo ad analizzarne i principali.

1. In numerosi punti del disegno legislativo si attribuisce alla proprietà immobiliare un ruolo predominante nell’elaborazione dei piani urbanistici. Il comma 4° dell’articolo 1 stabilisce che «… ai proprietari degli immobili è riconosciuto, nei procedimenti di pianificazione, il diritto di iniziativa e di partecipazione, anche al fine di garantire il valore della proprietà conformemente ai contenuti della programmazione territoriale». L’intero articolo 8 è dedicato alla “tutela della proprietà”, stabilendo che «… il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza ed il suo godimento» e che «… i proprietari hanno il diritto di partecipare alla determinazione dei contenuti della programmazione territoriale». Per contro assolutamente nulla si dice sul diritto dei cittadini a partecipare all’elaborazione dei piani e dei programmi di trasformazione urbana nonché sugli strumenti atti a garantire detto diritto.

Il testo proposto capovolge uno dei principi fondamentali della tradizione legislativa italiana ed europea, ovvero il principio della titolarità pubblica delle pianificazione del territorio. Certo si può sostenere che, pur spalancando le porte all’iniziativa ed alla partecipazione della proprietà immobiliare ai procedimenti di pianificazione, l’adozione ed approvazione dei piani spetta comunque in ultima istanza alla pubblica amministrazione. Ma, come scrive Luca De Lucia docente di Diritto amministrativo all’Università di Salerno, non è difficile comprendere che «… i processi regolativi e di elaborazione delle politiche pubbliche, specie allorquando intercettano interessi economici forti (quali sono indubbiamente quelli connessi alla rendita immobiliare), necessitano di strumenti giuridici ed istituzionali che mantengano l’amministrazione pubblica esente, per quanto possibile, da interferenze e condizionamenti indebiti, consentendole di assumere decisioni e di eseguirle autonomamente dal consenso dei privati interessi» (L. De Lucia, 2005).

Tanto più forte sarà il potere condizionante dei proprietari privati se, come previsto dall’articolo 10 del disegno di legge Lupi, fosse consentita - sull’esempio di quanto già avviene a Milano - la possibilità di estendere la “perequazione” a tutte le aree di trasformazione urbanistica (quella che Roberto Camagni ha efficacemente denominato come “perequazione sconfinata”), attribuendo ai proprietari privati dei “diritti edificatori” spendibili in altre aree urbane e liberamente commerciabili (art. 12, Trasferibilità e commercializzazione dei diritti edificatori), il che consentirebbe alle società immobiliari di farne incetta e di concentrarli su aree in loro disponibilità nelle quali richiedere al Comune l’adozione di appositi strumenti attuativi anche in variante alle previsioni di piano (vedi articolo 14, Accordi urbanistici).

2. L’articolo 6 del disegno di legge Lupi di fatto propone l’eliminazione degli standard urbanistici introdotti dal Decreto Ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444: una conquista delle lotte popolari di quegli anni volta ad assicurare in tutte le realtà locali quantità minime di servizi collettivi. Certo sono passati gli anni: i territori si sono profondamente trasformati e sono mutate le esigenze degli abitanti. Molto spesso gli standard, espressi in mq/abitante ed incrementati dalle leggi regionali successivamente intervenute, sono rimasti disegnati negli elaborati di piano e non si sono tradotti in servizi reali a causa di miopi gestioni amministrative o di oggettive difficoltà di bilancio dei Comuni. Ma sono sufficienti queste considerazioni per proporne tout court l’eliminazione e la sostituzione con non meglio precisate “dotazioni territoriali essenziali”, i cui livelli quantitativi e qualitativi andranno definiti in una futuribile Conferenza Stato Regioni?

Giustamente Alberto Magnaghi dell’Ateneo fiorentino e Anna Marson, assessore alla Pianificazione territoriale della Regione Toscana, sostengono che, lungi dall’essere eliminabili, gli standard urbanistici «… vanno al contrario arricchiti in molteplici direzioni che esplorino il passaggio dalla quantità alla qualità, all’equità, alla bellezza, all’inclusione». Una legge che pretende di definire i nuovi principi del “governo del territorio” dovrebbe dunque non semplicemente rinviare il problema a futuri provvedimenti di incerta formulazione, bensì stabilire precisi indirizzi e criteri unitari, esplicitando sotto quali aspetti integrare gli standard urbanistici attuali, ad esempio:
- verificandone la validità in una visione urbanistica e territoriale tendente all’integrazione delle funzioni ed al superamento dello zoning;
- modulandone i contenuti in relazione ai diversi contesti sociali e morfologici ed alle reti ecologiche esistenti nel territorio, anche al fine di contribuire alla salvaguardia e riproduzione dei fondamentali cicli ecologici ed alla lotta ai cambiamenti climatici (riduzione delle emissioni inquinanti e mitigazione degli effetti sui microclimi locali);
- coordinandoli con gli indicatori elaborati dalla Comunità europea e dall’ICLEI (sostenibilità ambientale, accessibilità ai servizi, salute, qualità paesaggistica…), anche al fine di consentire il monitoraggio degli effetti reali conseguiti da un punto di vista ambientale ed in relazione al benessere degli abitanti.

Alle problematiche degli standard urbanistici si deve necessariamente associare la questione degli oneri di urbanizzazione e della fiscalità immobiliare, ovvero di come i Comuni possano reperire le risorse atte a garantire la effettiva realizzazione delle opere pubbliche e dei servizi e quindi una adeguata qualità del vivere e dell’abitare.

Le trasformazioni urbane generano, anche per effetto delle reti infrastrutturali realizzate dagli enti pubblici, enormi plusvalori (rendite fondiarie) che nel nostro paese - contrariamente a quanto avviene in altri paesi europei - vanno a quasi totale beneficio dei privati. Dalle analisi comparative condotte da Roberto Camagni e da Maria Cristina Gibelli del Politecnico di Milano, risulta che dalla sola tassazione locale delle trasformazioni urbane in Germania l’Amministrazione pubblica ottiene da 4 a 6 volte di più di quanto non ottengano le nostre amministrazioni: risorse reinvestite per la realizzazione di opere e servizi di pubblica utilità.

Il conseguimento di una più equa ripartizione fra pubblico e privato dei plusvalori emergenti dalla trasformazione delle città è dunque una delle questioni centrali da affrontare nell’ambito di una riforma urbanistica. Come afferma Camagni «… vi è nel nostro paese ampio spazio per un aumento sostanzioso della parte di plusvalore che può restare nelle mani del partner pubblico, da realizzare attraverso aumenti degli oneri di urbanizzazione, che oggi spesso non coprono nemmeno i costi delle infrastrutture direttamente al servizio delle nuove costruzioni, e/o attraverso extra-oneri da concordare col partner privato in presenza di importanti progetti di trasformazione» (R. Camagni, 2013).

In questa direzione sembrava andare un articolo della prima stesura del disegno di legge Lupi (era l’articolo 14) che prevedeva, “a fronte di rilevanti valorizzazioni immobiliari generate dallo strumento urbanistico generale”, un contributo straordinario nella misura massima del 66 per cento, in funzione del maggior valore immobiliare conseguibile, da destinare appunto alla realizzazione di opere pubbliche o di interesse generale. Un articolo che - certo non casualmente - è stato soppresso nella versione definitiva del disegno di legge presentato il 24 luglio scorso.

3. L’articolo 7 affronta (almeno nel titolo) i temi della pianificazione comunale e della pianificazione d’area vasta. Per quanto concerne la scala comunale il disegno di legge si limita di fatto a recepire quanto già disciplinato da gran parte delle leggi urbanistiche regionali ovvero l’articolazione del piano regolatore generale in un piano di carattere programmatorio non avente efficacia conformativa della proprietà (normalmente definito Piano strutturale) da tradurre in una fase successiva in un piano di carattere operativo (nel quale, si ribadisce, possono essere accolte le proposte ed i progetti di programmi complessi presentati dai privati). Ciò che stupisce è che al piano strutturale venga attribuita esclusivamente una “efficacia conoscitiva e ricognitiva”, rendendolo di fatto ininfluente ai fini pratici delle gestione del territorio e delle salvaguardie ambientali, e comunque tale da poter essere completamente disatteso e stravolto dal piano operativo, che è poi quello in cui - come ricordato - maggiormente si può far sentire il peso degli interessi particolari. Non è difficile comprendere come tutto ciò prefiguri una “nuova” concezione dell’urbanistica, nella quale «… progetti e programmi pubblici e privati non sono tenuti a uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, è il piano regolatore che si deve adeguare ai progetti, diventando una specie di catasto dove si registrano le trasformazioni edilizie contrattate e concordate». (Vezio De Lucia, 2005).

Per altro verso appare sconcertante osservare quanto poco credito sia attribuito dal disegno di legge Lupi alla pianificazione d’area vasta. Al comma 9 dell’articolo 7 ci si limita infatti a richiedere che le Regioni incentivino «la pianificazione urbanistica intercomunale con l’approvazione di piani urbanistici che si estendono al territorio di più comuni», ma non si fornisce alcuna indicazione ed alcuno strumento per conseguire detto obiettivo.

Non si può a tal proposito non sottolineare come, in presenza di diffusi fenomeni di sprawl urbano che hanno generato sempre più estese conurbazioni metropolitane, sia oggi divenuto prioritario ed essenziale individuare e rendere obbligatoria l’adozione di nuovi più efficaci strumenti di piano a scala comprensoriale, superando la dimensione localistica dei piani regolatori comunali. E’ soprattutto a scala comprensoriale, in una visione policentrica degli insediamenti urbani e attraverso il potenziamento delle infrastrutture di trasporto collettivo, che si può realisticamente immaginare di porre un freno al consumo di suolo, con un equo e razionale decentramento dei principali servizi territoriali e con una valutazione condivisa dei reali fabbisogni abitativi in grado di evitare il sovradimensionamento dei piani dei singoli comuni. Ed è a questa scala che si possono ripensare città e campagna quali elementi costituenti un unico organismo unitario caratterizzato da una fitta rete di corridoi ecologici, da sistemi agricoli più sostenibili e da un proprio metabolismo che dovrà divenire sempre più di tipo circolare anziché lineare.

4. L’articolo 18 definisce l’edilizia residenziale sociale quale standard aggiuntivo nell’elaborazione dei piani: un servizio che può essere erogato sia da operatori pubblici che privati attraverso l’offerta di alloggi in locazione od il sostegno all’accesso alla proprietà della casa, «… perseguendo l’integrazione delle diverse fasce sociali, che potrà essere favorita dalla presenza di un equilibrato mix di funzioni». Una definizione condivisibile, che però non fa i conti con la drammatica realtà del nostro paese. In Italia l’edilizia popolare (quella che il disegno di legge Lupi definisce come ERPS - Edilizia Residenziale Pubblica Sociale) raggiunge a stento una percentuale del 4 per cento sul totale delle abitazioni, a fronte di una media comunitaria del 20 per cento (36 per cento in Olanda, 22 per cento in Gran Bretagna). Oltre 700.000 sono le domande inevase di case pubbliche, mentre si valuta che il fabbisogno di alloggi in affitto a canone sociale o calmierato (non superiore al 25 - 30 per cento del reddito familiare) coinvolga circa tre milioni di famiglie.

Il social housing, attualmente realizzato dai privati anche con agevolazioni pubbliche (ed a cui il disegno di legge, oltre alla riduzione o esonero dal contributo di costruzione, consentirebbe di usufruire del “permesso di costruire in deroga”), non risulta in grado di intercettare questa domanda. Dalle stime effettuate da Federcasa risulta infatti che il costo medio degli affitti realizzati dal social housing dei privati si aggira intorno agli 800 euro mensili, il che - come osserva Salvatore Lo Balbo della Sindacato edili della CGIL - equivale ad un reddito mensile complessivo di almeno 2600 euro, «… palesemente non accessibile ai lavoratori dipendenti, agli studenti, ai disoccupati, ai pensionati o alle false partite IVA» (S. Lo Balbo, 2014).

Tutto ciò dimostra come sia impossibile pensare di risolvere il problema abitativo, riguardante prevalentemente categorie di lavoratori a basso reddito, con la semplice incentivazione dei meccanismi di mercato e pone il problema, che affronteremo più estesamente nel punto successivo, della necessità di un rinnovato e consistente intervento pubblico nel settore dell’edilizia residenziale (eventualmente anche dando una diversa destinazione e finalizzazione a molti dei fondi già stanziati quali: gli oltre due miliardi previsti per l’edilizia sociale privata del Fondo Investimenti per l’Abitare, istituito nell’ottobre 2009 con il contributo della Cassa Depositi e Prestiti, del Ministero delle Infrastrutture e di diversi gruppi bancari ed assicurativi; gli 800 milioni del Piano Nazionale di Edilizia Abitativa di cui al Dpcm 16 luglio 2009; il miliardo e mezzo di fondi cosiddetti ex-Gescal a disposizione delle Regioni dal 2011; i fondi dei Programmi europei 2014-2020).

5. Il Titolo II ed in particolare l’articolo 16 del disegno di legge Lupi affronta il tema del “Rinnovo urbano” finalizzato alla «rifunzionalizzazione, valorizzazione e recupero del patrimonio e del tessuto esistente, delle periferie, delle aree dismesse e per il ripristino ambientale e paesaggistico delle aree degradate»: un tema ovviamente centrale se si vuole vincere la battaglia contro ogni ulteriore consumo di suolo, imponendo il drastico ridimensionamento delle abnormi previsioni di nuove espansioni urbane contenute nella quasi totalità dei piani regolatori comunali vigenti.

Una prima osservazione di merito riguarda il concetto stesso di “Rinnovo urbano”, troppo spesso nel passato associato ad operazioni di pura speculazione edilizia, altamente impattanti nei confronti della storia dei luoghi, del tessuto sociale preesistente, del paesaggio e dell’ambiente. Si dovrebbe, a nostro avviso, più correttamente utilizzare il concetto di “Rigenerazione urbana” od ancor meglio di “Rigenerazione urbana sostenibile”, promuovendo l’elaborazione e l’attuazione di programmi unitari, costruiti e gestiti in forma partecipata dalle comunità locali, in grado di integrare l’urbanistica e l’edilizia con politiche settoriali di diversa natura, quali quelle riguardanti il sistema della mobilità, la multifunzionalità e l’accessibilità ai servizi a scala urbana, il risparmio energetico e l’utilizzo di fonti rinnovabili, le connessioni ecologiche, nonché la riduzione delle emissioni inquinanti e la mitigazione degli effetti conseguenti ai cambiamenti climatici in atto, favorendo il benessere degli abitanti e l’inclusione sociale. Programmi e progetti coerenti con le strategie definite a monte dagli strumenti della pianificazione urbana e territoriale e non frutto di scelte estemporanee o dettate da interessi particolari quali quelle consentite ed in una certa misura incoraggiate dal comma 7 dell’articolo 16 del disegno di legge Lupi nel quale si stabilisce che «… le operazioni di rinnovo urbano possono essere realizzate anche in assenza di pianificazione operativa o in difformità della stessa, previo accordo urbanistico tra Comune e privati interessati alle operazioni».

In realtà la logica che sembra sottendere tutto l’articolato della legge Lupi, anche sul fronte del “Rinnovo urbano”, appare ancora una volta essere quella che per consentire la ripresa di un mercato dell’edilizia da anni in profonda crisi sia necessario e sufficiente eliminare ogni ulteriore laccio e lacciolo all’iniziativa privata. Al pubblico spetterebbe fondamentalmente solo un ruolo di incentivazione e di sostegno all’iniziativa privata, attraverso la riduzione degli oneri, agevolazioni fiscali, premialità volumetriche ed una sburocratizzazione dei procedimenti e dei controlli. Sembra del tutto sfuggire, a chi ha redatto il testo di legge, la reale natura della crisi attuale derivata proprio da un eccesso di fiducia nelle virtù taumaturgiche di un mercato privo di regole e da un un progressivo depotenziamento delle strutture di governance e delle capacità manageriali della pubblica amministrazione.

E’ in realtà difficile immaginare di poter uscire dalla crisi ed avviare una ripresa economica nel nostro paese utilizzando le stesse ricette che hanno generato la situazione attuale. In un interessante e documentato studio di recente pubblicazione (Lo stato innovatore) Mariana Mazzucato, docente di innovazione economica presso l’Università del Sussex in Gran Bretagna, osserva come i paesi europei più duramente colpiti dalla crisi siano quelli che hanno registrato minori investimenti pubblici in aree fondamentali per la crescita economica quali quelle della formazione del capitale umano, dell’adattamento alle nuove tecnologie, della ricerca e dello sviluppo e come anche negli Stati Uniti - considerati la nazione anti-statalista per eccellenza - il successo delle aziende più innovative in campo informatico e farmaceutico non vi sarebbe stato se non fosse stato preceduto da ingenti investimenti guidati dal settore pubblico. Solo il pubblico infatti può disporre di capitali “pazienti” in grado di sostenere investimenti strategici (mission-oriented) di lungo periodo in aree nuove e ad alto rischio d’insuccesso, non stimolati da una convenienza spicciola, ma dalla percezione di opportunità future: investimenti che possono orientare ed attrarre anche operatori e capitali privati, in un rapporto pubblico/privato di tipo simbiotico e non parassitario (evitando la socializzazione dei rischi e la privatizzazione dei guadagni e quindi garantendo anche al pubblico un congruo “profitto”).

Ma per avviare con successo un nuovo processo di crescita economica, sostiene sempre Mariana Mazzucato, non sono sufficienti gli investimenti pubblici “intelligenti”, serve anche una nuova visione del settore pubblico: un settore pubblico che non solo sostenga l’innovazione, ma che sia anche “innovativo al suo interno”, sviluppando competenze e spirito imprenditoriale, attirando individui di talento, evitando la frammentazione dei progetti e concentrando gli interventi nei settori strategici prioritari.

Mariana Mazzucato indica tra i settori in cui prioritariamente lo stato dovrebbe investire quelli della ricerca di base, delle nano-tecnologie, dell’informatica, dell’energia e delle tecnologie pulite. Non è però difficile cogliere le possibili analogie delle riflessioni della Mazzucato con le problematiche connesse all’avvio e alla realizzazione di complessi programmi di rigenerazione urbana. Anche in questo caso appare del tutto illusorio immaginare che vi siano - nell’attuale situazione di recessione ed in presenza di un elevatissimo stock di immobili invenduti sia di tipo residenziale che non residenziale - operatori privati disposti ad investire ingenti capitali in progetti dai tempi e dagli esiti incerti ed ancor più in progetti fortemente innovativi nell’uso delle risorse energetiche, delle tecnologie costruttive e dei materiali, in grado di riqualificare e rigenerare parti significative dell’organismo urbano coniugando gli aspetti edilizi con quelli sociali ed urbanistici. Anche in questo caso alla base del processo vi deve essere, da parte di una pubblica amministrazione rinnovata al proprio interno, la capacità di elaborare una chiara visione strategica delle trasformazioni urbane necessarie, un piano condiviso e regole precise, a cui devono corrispondere una adeguata programmazione delle risorse finanziarie pubbliche e private da impegnare e l’attivazione di efficienti strutture di progettazione e di gestione.

E’ questa, tra le altre, una delle ragioni di fondo che ci fa dubitare del fatto che abbia oggi un senso sprecare tempo e risorse intellettuali attorno ad un dibattito per molti aspetti puramente ideologico su di un progetto di legge che avrebbe la pretesa di definire nuovi fondamentali principi e nuove norme per l’urbanistica ed il “governo del territorio”, ma che in realtà si presenta come un incoerente insieme di norme arretrate dal punto di vista della cultura urbanistica e delle direttive comunitarie europee ed arretrate persino rispetto a molte delle leggi urbanistiche approvate in anni recenti dalle Regioni: norme che non forniscono alcun concreto strumento per uscire dall’attuale situazione di emergenza ambientale, economica e sociale.

Se realmente si vogliono affrontare le tematiche di un governo sostenibile del territorio, dello stop al consumo di suolo e della rigenerazione urbana, un buon punto di partenza può invece essere quello indicato dalla Conferenza nazionale degli Ordini degli Architetti tenutasi a Padova nello scorso mese di maggio, che in un documento di sintesi ha recepito e fatto propri i risultati di una serie di giornate seminariali di studio organizzate dalla Fondazione Barbara Cappochin a cui hanno partecipato alcuni dei principali protagonisti dei più interessanti interventi di rigenerazione urbana realizzati nel corso degli ultimi quindici anni in Svezia, Danimarca, Finlandia, Germania, Francia e Italia (si veda la pubblicazione Eco-quartieri: Strategie e tecniche di rigenerazione urbana in Europa, Marsilio editore).

Il documento, predisposto dal Comitato scientifico organizzatore degli incontri seminariali ed approvato dalla Conferenza degli Ordini degli architetti, parte dalla considerazione che per avviare politiche di rigenerazione urbana all’altezza dei tempi, in grado di promuovere una nuova stagione di interventi finalizzati all’inclusione sociale, alla riqualificazione ecologica ed ambientale degli spazi urbani e dei territori metropolitani, alla mobilità sostenibile, alla messa in sicurezza ed alla riabilitazione energetica del patrimonio edilizio, in una fase quale quella attuate caratterizzata da stagnazione e declino economico, appare assolutamente necessario rilanciare gli investimenti pubblici concentrando le risorse nelle situazioni di maggior disagio, rimettere quanto prima ordine nella caotica sovrapposizione di norme e provvedimenti oggi in vigore, ma soprattutto deve essere definito un quadro legislativo di riferimento chiaro nelle finalità, che offra strumenti giuridici adeguati a superare gli ostacoli determinati dall’attuale frammentazione della proprietà immobiliare e che strategicamente garantisca un flusso costante di finanziamenti, da attribuirsi secondo criteri trasparenti e con precise priorità, necessari ad innescare programmi nei quali - con la regia degli enti locali - convergano risorse sia pubbliche che private.

Una disciplina organica che consenta di superare l’attuale governo frammentario e settoriale delle politiche urbane, integrando i diversi aspetti sociali, economici ed ambientali che devono caratterizzare uno sviluppo realmente sostenibile.

Un quadro legislativo che, sull’esempio della Francia, definisca chiaramente le competenze dei diversi organi istituzionali ed i rapporti di collaborazione che devono intercorrere tra settori e livelli dell’amministrazione pubblica, nella convinzione che - pur nel rispetto delle autonomie locali - sia oggi necessario dar vita ad una agenzia nazionale, articolata a livello regionale, di supporto tecnico e di verifica per l’attuazione nei tempi programmati degli interventi di rigenerazione urbana.

Sulla base di dette considerazioni il documento approvato dalla Conferenza nazionale degli Ordini degli Architetti ritiene urgente la predisposizione di una legge di programmazione per molti aspetti analoga a quella che fu la legge n. 457/1978, anche se certo oggi l’accento va posto su problematiche più complesse rispetto a quella allora centrale del fabbisogno abitativo. Una legge che concentrando e razionalizzando l’uso delle risorse finanziarie pubbliche per interventi fortemente innovativi in ambito urbano, sia in grado di fungere da volano per una più generale ripresa degli investimenti privati e delle attività economiche nel nostro paese.

Un Programma pluriennale per la Rigenerazione Urbana Sostenibile in Italia

Una nuova legge di programmazione dovrebbe in primo luogo definire le finalità dei programmi di rigenerazione urbana, favorendo l’integrazione delle politiche settoriali promosse dai diversi ministeri e dalle Regioni ed il coordinamento delle risorse finanziarie messe a disposizione dallo stato con quelle della programmazione comunitaria europea. Tra le finalità generali un aspetto oggi centrale è senza dubbio costituito dalla necessità di evitare ogni ulteriore consumo di suolo, attraverso una coerente pianificazione urbana e territoriale che privilegi il recupero statico, energetico, funzionale ed architettonico del patrimonio edilizio esistente, che salvaguardi il territorio rurale e le attività agricole anche in ambito urbano e che localizzi preferenzialmente gli interventi in prossimità delle reti del trasporto collettivo.

I programmi di rigenerazione urbana predisposti dai Comuni, o dalle associazioni di più Comuni, per poter essere ammessi a finanziamento dovranno dunque risultare parte integrante di una più ampia visione dello sviluppo della città e del contesto territoriale, di un più generale progetto di miglioramento della qualità della vita dei cittadini e di riconversione ecologica dell’organismo urbano, che tenda alla chiusura dei cicli naturali relativi all’energia, all’acqua, all’alimentazione, alla riduzione del consumo di materie prime e dell’inquinamento, alla raccolta differenziata ed al riciclo dei rifiuti, alla lotta ai cambiamenti climatici ed alla mitigazione dei loro effetti (resilienza urbana). Dovrà quindi essere dimostrata la coerenza tra i programmi riguardanti specifici quartieri ed aree urbane e gli strumenti della pianificazione urbanistica, con una attenta valutazione delle ricadute sociali ed ambientali in ambiti territoriali più estesi.

In particolare, poi, i programmi di rigenerazione urbana dovranno essere caratterizzati da una elevata qualità degli spazi pubblici e dei servizi progettati e da una accentuata mixitè funzionale e sociale, integrando all’interno dello stesso quartiere residenza, attività lavorative, servizi sociali e commerciali e prevedendo una quota minima di edilizia sociale con caratteristiche spazialmente e tipologicamente non discriminanti al fine di evitare la segregazione territoriale e sociale. Parte integrante dei programmi saranno altresì le azioni ed i provvedimenti specificamente finalizzati allo sviluppo di nuove economie e di nuova occupazione, alla sicurezza sociale ed al superamento delle disuguaglianze sociali, garantendo a tutti gli abitanti l’accesso ai fondamentali diritti di cittadinanza. Essenziale a questo fine è anche promuovere e rendere istituzionale la partecipazione attiva degli abitanti alla progettazione e gestione dei programmi d’intervento (Forum di quartiere ai quali andranno attribuiti poteri effettivi di indirizzo e di controllo e di cui siano assicurate l’autonomia ed indipendenza di fronte ai poteri pubblici). Con la partecipazione degli abitanti sarà d’altra parte possibile conservare la memoria storica e l’identità dei quartieri valorizzandone il patrimonio di relazioni sociali formatesi nel corso degli anni.

Nella valutazione e selezione dei programmi ne andranno inoltre considerati gli aspetti più innovativi e sperimentali, di tipo tecnologico, tipologico, sociale e procedurale, precisandone le modalità di monitoraggio e verifica dei risultati ed evidenziandone la riproducibilità in contesti diversi e l’utilità ai fini dell’aggiornamento legislativo e normativo nazionale e regionale.

Per quanto concerne la ridefinizione delle competenze, fermo restando che i programmi dovranno essere predisposti e presentati dalle amministrazioni locali e che la titolarità e responsabilità degli stessi dovrà essere dei Sindaci o delle associazioni di Comuni, è fondamentale che a livello governativo vi sia chiarezza su quale Ministero debba assumersi la responsabilità di un Coordinamento Interministeriale per le Politiche Urbane, vera e propria cabina di regia in grado di tradurre in provvedimenti operativi i programmi pluriennali e le linee di indirizzo di volta in volta definite. Una cabina di regia che dovrà definire i criteri sociali, demografici, economici e ambientali da utilizzarsi per l’individuazione a scala nazionale dei quartieri e delle aree urbane su cui prioritariamente intervenire e nei quali prioritariamente concentrare le risorse finanziarie gestite dai diversi Ministeri competenti per specifiche politiche di settore (Infrastrutture e trasporti, Ambiente, Economia e Finanze, Sviluppo Economico, Istruzione, Università e Ricerca, Lavoro e Politiche Sociali). Al Coordinamento Interministeriale spetterà inoltre la definizione del quadro di riferimento e degli indirizzi generali dei Contratti di Rigenerazione Urbana, di durata non superiore al quinquennio, da sottoscrivere con gli enti locali, nonché dei criteri atti a verificare la coerenza dei progetti presentati dagli enti locali con le finalità generali del Programma nazionale.

Per superare i tradizionali vincoli burocratici delle nostre amministrazioni e rendere più snelle le procedure è d’altra parte auspicabile che, sull’esempio della Francia, venga costituita una apposita Agenzia Nazionale per la Rigenerazione Urbana Sostenibile, finalizzata a collaborare con il Comitato Interministeriale per la selezione a livello nazionale e regionale dei siti in cui intervenire (con incentivi e speciali misure premiali per le associazioni di Comuni), a fornire alle comunità locali il supporto tecnico ed operativo necessario per la progettazione e realizzazione degli interventi, a definire gli impegni finanziari dei diversi partner pubblici e privati garantendo la disponibilità dei finanziamenti in tempi certi. Tra i compiti dell’Agenzia vi dovranno anche essere quelli di contribuire alla formazione delle equipe incaricate di implementare gli aspetti sociali ed economici degli interventi e di attivare i processi partecipativi, nonché di monitorare, verificare e certificare la qualità dei progetti sulla base di appositi indicatori ed il rispetto della tempistica.

Nell’ambito della legge di programmazione andranno definiti nuovi, più efficaci strumenti giuridici in grado di consentire interventi estesi a comparti urbani caratterizzati - come spesso avviene - da una situazione proprietaria frazionata ed andranno precisati condizioni e parametri di riferimento atti ad assicurare l’effettivo interesse pubblico nelle relazioni tra enti pubblici, banche e società private e/o nella costituzione di società miste pubblico-private finalizzate alla progettazione e realizzazione di interventi di trasformazione urbana (criteri di di selezione degli operatori privati, regole perequative e compensative…).

Infine, oltre ad indicare le risorse finanziarie del bilancio statale e dei programmi comunitari europei utilizzabili per l’attuazione del programma pluriennale, riteniamo sarebbe importante che la legge favorisse la promozione di nuovi strumenti finanziari in grado di attirare gli investimenti privati (fondo di rotazione, raccolte obbligazionarie di scopo, fondo di solidarietà per la realizzazione di alloggi sociali, forme di micro-credito…).

E’ di questa legge di programmazione (congiuntamente ad una legge che affronti seriamente il tema del consumo di suolo) che il nostro paese ha urgente bisogno, piuttosto che di una pasticciata ed approssimativa legge urbanistica che peggiora la legislazione esistente. Tanto più in considerazione del fatto che il disegno di legge Lupi rinvia ad una futura Direttiva Quadro Territoriale (denominata DQT) la definizione degli “obiettivi strategici di programmazione dell’azione statale” e la definizione degli strumenti e degli “indirizzi di coordinamento” tra lo stato, le regioni e gli enti locali, che pure dovrebbero costituire elemento essenziale del provvedimento legislativo. Una Direttiva per la cui stesura si prevede una delega in bianco al Governo sottraendone la competenza al Parlamento.

3 settembre 2014
Sergio Lironi è Presidente onorario di Legambiente Padova

Il credito di cui l’INU ancora gode grazie alla sua storia ottuagenaria e al suo status di “ente morale” rende necessario esprimere le ragioni per le quali riteniamo negativa non solo la sua sostanziale adesione al progetto Lupi nella sua forma renziana, ma anche la fuorviante argomentazione che svolge nel documento. Significativa, quest'ultima, delle pratiche adoperate dagli intellettuali quando vogliono fare da cuscinetto tra il potere e la società.

L’incipit del documento dell’INU è già di per sé illuminante: si esprime «apprezzamento per il tentativo di promuovere finalmente l’approvazione di una legge quadro sul governo del territorio». Una lode senza se e senza ma al disegno di legge, il quale costituirebbe il positivo esito di un «ventennio di riforme proposte dall’INU». Che oggi l’INU sottolinei questa continuità e se ne attribuisca il merito non meraviglia chi, come noi, ricorda il ruolo che l’INU svolse nel lubrificare il cammino della legge Lupi degli anni di Berlusconi. In estrema sintesi l’odierno documento dell’INU riduce la sua critica a segnalare che vi sono «alcuni elementi critici»: c’è insomma qualcosa che non va, ma si può aggiustare.

I tre capoversi conclusivi sono i più interessanti per una riflessione sul ruolo che l’INU ha assunto nel processo di assoggettamento dell’Italia all’egemonia del neoliberismo. Essi, se letti con attenzione critica, sono esemplari di una funzione tipica degli intellettuali, qualora vogliano aiutare un determinato gruppo di potere in lotta per la conquista dell’egemonia, tentando di rendere vane le parole d’ordine dei gruppi antagonisti neutralizzandole e/o inglobandole. Gramsci li avrebbe definiti «pugilatori a pagamento».

Vogliamo riportarli per intero:
«Da una riforma realmente innovativa l'Inu si aspetta la valorizzazione della componente ambientale e urbanistica, piuttosto che quella strettamente edilizia, promuovendo tattiche di rigenerazione urbana fondate sui "beni comuni". Al contrario la rigenerazione urbana, per come è concepita nel ddl, rinvia alla semplice operazione di demolizione e ricostruzione di fabbricati e infrastrutture. La procedura è descritta come intervento in cui lo Stato ha mero ruolo di regolazione delle forze di mercato, mentre è esclusa la funzione di promotore e partner, come investitore o realizzatore di programmi a finalità sociale o di aiuto alle imprese. In altri termini, non si configura come politica urbana. Sulla stessa falsariga, la proposta di legge per contrastare il consumo di suolo appare sbilanciata sui soli aspetti quantitativi, sia in termini assoluti che in termini di una raffinata articolazione in classi qualitative di suoli, che però distoglie dalla questione centrale del progetto urbanistico, ovvero dalla necessità di ridurre il suolo impermeabilizzato».

L'INU – prosegue il documento -«rilancia e offre una definizione di rigenerazione urbana generalizzata, che comprende la produzione di ricchezza pubblica e privata, le strategie dell'adattamento climatico, le politiche di inclusione sociale, le azioni di messa in sicurezza dei territori e l'innovazione della produttività d'impresa, gli interventi dell'infrastrutturazione fisica e quelle della rete immateriale a sostegno dello sviluppo, del lavoro e della creatività urbana. Una definizione che comprenda anche l'inclusione di validi strumenti per la prevenzione del rischio idrogeologico, strumenti che nel ddl mancano».

Conclude infine il documento:
«L'Inu ritiene che una base su cui impostare questo cambiamento nel ddl ci sia, ed è la volontà manifestata dal testo di integrare la materia urbanistica e quella fiscale, che merita apprezzamento. I nuovi atti di governo del territorio dovranno essere strettamente integrati nelle politiche di bilancio degli enti locali e ne dovranno costituire effettivamente il motore e l'elemento di verifica. La fiscalità immobiliare è centrale per la possibilità di dare attuazione alle politiche urbane di rigenerazione diffusa, tramite interventi che possono beneficiare di sgravi fiscali, differenziando la fiscalità afferente alle operazioni di rigenerazione rispetto a quelle che consumano nuovo territorio».

Insomma, basta qualche aggiustamento retorico nelle parole d’ordine della proposta Lupi lasciandone immutati i contenuti sostanziali: l’ulteriore rafforzamento dell‘appropriazione privata della rendita immobiliare, il primato della valorizzazione economica sul benessere sociale, la generalizzazione della contrattazione pubblico/privato (quindi, nella situazione di fatto, della prevalenza del secondo) nelle scelte sull’uso del suolo, l’abbandono della riserva di una determinata quantità pro capite di spazi pubblici (standard urbanistici), la sostituzione della ”inclusione” (nuovi recinti?) alla ”equità” (diritto alla città), la riduzione delle garanzie del controllo tecnico-amministrativo pubblico (“sburocratizzazione”).

Ci sembra che non ci sia nulla da aggiungere.

Riferimenti

Sul ruolo svolto dall'INU nel primo tentativo di approvare una legge conforme al pensiero di Maurizio Lupi si vedano i numerosi documenti riportati nella cartella "Tutto sulla legge Lupi" dell'archivio di eddyburg, in particolare l'eddytoriale n.65. Sulle vicenda dell'INU e sulla svolta che l'Istituto conobbe alla fine degli anni Novanta vedi l'articolo "Venti anni di Urbanistica informazioni - Commiato", nonchè gli eddytoriali n. 38 e 57 del 2004, n. 76 del 2006, del 114 e 119 del 2008.
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