1. Dal momento che la vivibilità non è un diritto, ma una merce con un prezzo che non tutti si possono permettere, credo sia utile partire dalla spazializzazione- territorializzazione dell’iniquità sociale perseguita, attuata e sancita dalle istituzioni pubbliche:
- non tutti i luoghi hanno la stessa qualità e amenità,
- l’insediamento di un individuo o un gruppo in una determinata parte di territorio e di città è in larga misura determinato dalla sua capacità a pagare,
- la localizzazione di attività di pregio o degradanti, la dotazione di infrastrutture e la erogazione di servizi secondo criteri e standard diversificati in funzione dei gruppi di popolazione ai quali sono destinati, lo spostamento di abitanti da una parte all’altra del territorio codificano e rafforzano ineguaglianza e discriminazione,
- gli interventi per migliorare la vivibilità, che spesso consistono in una banale barcellonizzazione degli spazi pubblici, accelerano l’allontanamento forzato degli abitanti più deboli e la loro sostituzione con altri più desiderabili.
L’ingiustizia sociale, di cui la localizzazione e condizione abitativa è solo una manifestazione, è sempre esistita. In passato, però, si raccontava che compito delle istituzioni era di lavorare per mitigarla, adesso accentuare le differenze e racchiuderle spazialmente, recintarle, è un obiettivo esplicitamente perseguito.
Le dichiarazioni del signor Swart, ministro della giustizia del Sud Africa che, nel 1953, spiegava
“ in a country we have civilised people, we have semicivilised people and we have uncivilised people. The Government gives each section facilities according to the circumstances of each (circumstances significa financial conditions)”
ben descrivono le politiche pubbliche nei confronti di coloro che impropriamente chiamiamo nuovi arrivati, e che più semplicemente sono i nuovi senza diritti.
2. Ricondurre la vivibilità all’interno di un ragionamento sul ciclo investimento-disinvestimento-reinvestimento. (vedi il fondamentale contributo di Neil Smith) aiuta a capire la complementarità e interdipendenza degli interventi il cui intento dichiarato è di accrescere la qualità urbana e di quelli punitivi nei confronti degli abitanti dei cosiddetti ghetti, cioè, quartieri o zone con le seguenti caratteristiche:
- confini riconoscibili e riconosciuti,
strade che segnano il limite tra il quartiere e il resto della città o, nel caso di insediamenti periferici, un isolamento fisico segnalato dalla presenza di barriere difficilmente valicabili - autostrada, linea ferroviaria, fabbriche, zone “speciali” - o dalla carenza di trasporti pubblici.
- condizioni di vita mediamente peggiori rispetto al territorio circostante,
minore dotazione di servizi, carenza di manutenzione degli immobili da parte dei proprietari privati e pubblici, degrado degli spazi pubblici.
- omogeneità della popolazione al suo interno e eterogeneità rispetto al contesto,
la popolazione può essere composta da gruppi diversi e talvolta in conflitto fra loro, autoctoni e immigrati, immigrati di diversa provenienza, ma presenta generalmente comuni condizioni di debolezza, per reddito, occupazione, età, a causa delle quali è considerata una comunità “a parte”;
l’insediamento di individui e famiglie immigrate è indotto, facilitato ed incentivato;
la concentrazione del disagio è spesso aggravata dai criteri di assegnazione degli alloggi pubblici
- limitate possibilità di effettiva “partecipazione”,
gli immigrati non possono votare, gli autoctoni non sono proprietari o le loro proprietà valgono così poco da non consentire il trasferimento ad altra zona,
- localizzazione appetibile per l’investimento- reinvestimento immobiliare,
il valore potenziale del terreno e le aspettative di sviluppo immobiliare sono condizione indispensabile per assurgere alla cronaca, prima come quartiere problema, zona a rischio, ghetto e poi come laboratorio, quartiere risorsa, area rivalorizzata e restituita alla città;
la rimozione degli abitanti, almeno parziale e selettiva, è uno degli ingredienti della valorizzazione (bonifica!) del quartiere, perché la terra su cui sorgono i ghetti vale molto, e potrà valere molto di più se “liberata” dagli attuali abitanti.
Il vecchio slogan renewal=removal è ancora attuale.
they told us to dream about what the neighbourhood could be… they did not tell us that the dream meant we shouldn’t be included (dichiarazione di un abitante cacciato nel corso del programma HOPE VI, per la rigenerazione dei quartieri degradati, The Baltimore Sun, 2004).
3. Gli interventi area based, come sono quelli per aumentare la vivibilità urbana, vengono attuati contestualmente – quando non ne sono un prerequisito - alla privatizzazione o riprivatizzazione di tutto quello che è - era pubblico.
La privatizzazione degli spazi pubblici, ed in genere dei beni comuni, viene presentata come una misura indispensabile per accrescere la loro produttività.
Cercare il più alto e miglior uso di ogni bene (highest and best use) non è più solo un’aspettativa del mercato, ma una sorta di imperativo morale per le amministrazioni.
In questa logica, la gentrification non è altro che un’evoluzione naturale e benefica verso un uso più redditizio del suolo e tutto quello che può ostacolarla (lacci e laccioli) è sospetto. Gentrification è sinonimo di sviluppo, si dice, e compito degli urbanisti è di facilitarne la realizzazione.
Nella seconda metà del settecento la recinzione delle terre comuni, e la loro privatizzazione, fu uno degli elementi all’origine della rivoluzione industriale, e quindi alla nascita dell’urbanistica moderna. Per mitigare gli effetti dannosi della industrializzazione e urbanizzazione sulla salute e sulle condizioni di vita si affermò il principio della responsabilità delle pubbliche istituzioni di regolare l’uso del suolo e la necessità che ogni città avesse un patrimonio di spazi pubblici.
Anche ora la recinzione e privatizzazione degli spazi pubblici è uno degli elementi che concorre all’affermazione della cosiddetta rivoluzione postindustriale, ma esattamente opposto è il ruolo assunto dall’urbanistica (dagli urbanisti) postmoderna che partecipa attivamente alla spartizione di questo enorme bottino: teorizza la città per parti, individua le aree da recintare (distretti speciali e entrerprise zones nelle quali sono sospese regole e leggi, siti per eventi speciali e abitanti speciali), valorizza il suolo per cacciare gli uomini, disegna e costruisce spazi difendibili e città sicure.
Nel complesso manca una adeguata consapevolezza delle conseguenze che l’enclosure dei commons (l’uso di termini arcaici è adatto in attesa di compilare un vocabolario per definire il furto e all’appropriazione dei beni comuni) avrà sulla/e città. La privatizzazione e/o ri-privatizzazione di tutto quello a cui può essere attribuito un prezzo è un elemento costitutivo della trasformazione della società e quindi delle città.
Una mobilitazione per la inappropriabilità e incommerciabilità dei commons è necessaria e possibile.
Riferimenti bibliografici
Nicholas Blomley, 2004, Unsettling the city. Urban land and the politics of property, Routledge
Garrett Hardin, 1968, The tragedy of the commons, “Science”, n. 162, p. 1243-48
Neil Smith, 1996, The revanchist city, Routledge
Riferimenti biografici
Paola Somma, già professore associato di urbanistica, Università IUAV Venezia, 1980-2000 e visiting professor presso l’AUB American University di Beirut, 1998-1999. Fra le sue pubblicazioni: Spazio e razzismo, Angeli; 1991, Beirut: guerre di quartiere e globalizzazione, L’Harmattan Italia, 2000; (a cura di); At war with the city, Urban International Press, 2004.
PRIMA GIORNATA - mercoledì 24
INTRODUZIONE
9.00 - 9.20 Edoardo Salzano. Introduzione alla argomenti del corso e loro proiezione futura
9.20 - 9.45 Ilaria Boniburini. Le parole chiave: presentazione e distribuzione del ‘glossario’.
LA CITTA’ INVIVIBILE
9.45 - 10.00 Giovanni Caudo. Introduzione alla prima sessione.
10.00 - 10.40 Paola Somma. Vivibilità, ghetti, recinzioni
10.40 - 11.20 Elisabetta Forni […]
11.20 - 11.40 Pausa caffè
11.40 - 12.20 Ferdinando Fava […]
12.20 - 13.00 Giancarlo Paba […]
13.00 - 13.30 Inizio discussione
13.30 - 15.00 Pausa pranzo
15.00 - 17.00 Discussione
17.00 – 17.30 Traiettorie (da confermare)
18.00 – 19.30 Visita ad Asolo con Spritz
20.00 Cena presso il Centro Spirituale Dorotea
SECONDA GIORNATA - giovedì 25
RIQUALIFICAZIONE URBANA: UN’OCCASIONE PER CHI?
PERCHE’ I CONTI NON TORNANO
9.00 - 10.00 Mauro Baioni. Introduzione alla giornata (con eventuali richieste di chiarimenti sul caso studio da parte degli studenti)
10.00 - 11.00 Elettra Malossi, Graziella Guaragno, Giulia Angelelli, Chiara Girotti, Barbara Nerozzi Bologna – piani generali e riqualificazione urbana.
Prima parte: il piano generale del 1985 ultimo ultimo prodotto della tradizione di buon governo bolognese e al contempo “causa” della diffusione dei programmi complessi.
11.00 -11.30 Pausa caffè
11.30 -13.30 Bologna – piani generali e riqualificazione urbana.
Seconda parte: attuazione e modifica del piano regolatore. La stagione dei programmi complessi. Il nuovo piano strutturale.
13.30 - 15.00 Pausa pranzo
15.00 - 17.00 Discussione
18.00 – 19.30 Visita ad Asolo con Spritz
20,00 Cena presso il Centro Spirituale Dorotea
TERZA GIORNATA - venerdì 26
ORIENTARE LA RIGENERAZIONE URBANA VERSO IL RECUPERO DELLA VIVIBILITA’:
PIANI, POLITICHE, INTERVENTI
9.00-9.20 Ilaria Boniburini. Introduzione alla giornata. Cenni al contesto politico-economico in cui avvengono le trasformazioni urbane delle città europee. Criteri e punti di vista adottati per la lettura dei casi studio con riferimento ad alcune parole del glossario (disagio, vivibilità, competizione, …)
9.20- 10.20 Maria Cristina Gibelli: Rigenerazione urbana o riqualificazione. Esempi di politiche urbane europee finalizzate a obiettivi di vivibilità da contrapporre alla ‘delega in bianco’ dell’iniziativa ai privati. Questioni di governance e partecipazione.
10.20-10.40 Pausa Caffè
10.40-11.40 Raffaele Radicioni: La “Spina 3” di Torino con eventuali richieste di chiarimenti sul caso studio da parte degli studenti
11.40-12.40 Giorgia Boca. Il programma Urban a Cosenza con eventuali richieste di chiarimenti sul caso studio da parte degli studenti
12.40-13.30 Discussione
13.30- 15.00 Pausa Pranzo
15.00 – 16.30Discussione
17.00 – 23.00 Partenza per Gita a Bassano del Grappa e Cena nei dintorni
QUARTA GIORNATA - sabato 27
VERSO UN RECUPERO DELLA VIVIBILITA’
IL PRG DI NAPOLI
9.20 -9.40 Gabriella Corona. Il contesto sociale, politico, economico e territoriale di Napoli. Le premesse del piano, dal piano delle periferia alla ricostruzione dopo il terremoto.
9.40- 10.10 Roberto Giannì. Gli atti e i documenti del piano. Dal Documento di indirizzo, ai tasselli del mosaico, al piano adottato, all’approvazione. Presentazione di tavole ed elaborati.
10.10-11.00 Gabriella Corona intervista Vezio de Lucia: gli obiettivi del piano, gli attori e il loro ruolo, il rapporto pubblico/privato (soprattutto nella fase della ricostruzione), i beneficiari.
11.00-11.10Pausa caffè
11.10-11.50 Gabriella Corona, Roberto Giannì, Vezio de Lucia. Lettura critica del piano ex post: Che cos’è rimasto? Che insegnamenti trarne in via generale?
11.50-12.30 Discussione
12.30- 13.00 Edoardo Salzano. Conclusioni della Scuola 2008 e avvio della Scuola 2009
13.30 Pranzo all’osteria La Trave a Pagnano e commiato
PRESENTAZIONE
I segnali di crisi percepiti in questi ultimi anni hanno reso più evidenti i difetti della seconda stagione di crescita tumultuosa iniziata negli ormai lontani anni ’80. Alla dispersione insediativa, alla crisi dell’azione pubblica, all’aggressione del paesaggio abbiamo dedicato le passate edizioni della scuola. Quest’anno vorremmo soffermarci sulla vivibilità delle città. Nonostante i programmi e i piani concepiti a partire dagli anni ’90 (spesso in alternativa alla pianificazione ordinaria) abbiano fatto sovente ricorso a parole come “riqualificazione” e “qualità urbana”, gli effetti prodotti non sono corrispondenti agli obiettivi dichiarati. Per capire le ragioni che hanno determinato questo scarto occorre, come nelle passate edizioni della scuola, capire i presupposti e leggere criticamente i fenomeni in atto, recuperare concetti e strumenti troppo frettolosamente abbandonati, sperimentare percorsi di riflessione e di iniziativa ‘controcorrente’. L’ipotesi che vogliamo sottoporre ad un’analisi critica durante le giornate della scuola è centrata sul tema ‘riqualificazione/rigenerazione urbana. Vorremmo spiegare perché, per assicurare la vivibilità, non sono utili ‘interventi spot’, affidati troppo incautamente ai promotori di iniziative immobiliari, ma occorrano più che mai politiche e piani.
Per affrontare il tema della vivibilità, ci affidiamo nella prima giornata all’intelligenza e alla sensibilità di alcune persone che – nei rispettivi campi professionali – hanno saputo descrivere con acutezza la città invivibile e che solleciteranno docenti e partecipanti a riflettere sulle ragioni che hanno determinato la perdità di vivibilità e sugli strumenti per per promuovere il suo recupero.
Nelle giornate centrali vogliamo spiegare perché e sotto quali aspetti ‘i conti non tornano’, facendo riferimento ad alcune grandi città italiane nelle quali la stagione dei programmi complessi ha dato impulso a numerose iniziative di trasformazione, di cui oggi possiamo valutare gli esiti e le criticità, puntuali e in relazione alla città nel suo complesso.
La giornata conclusiva è dedicata ad un luogo e ad una vicenda eccezionali: Napoli, la città che ha conosciuto negli ultimi anni sia l’avvio di una stagione di pianificazione di ampio respiro, sia il più desolante abbandono del governo del territorio. La giornata sarà incentrata su un’intervista a Vezio De Lucia, il primo ‘assessore’ alla vivibilità di una grande città italiana.
INTRODUZIONE
mercoledì 24
Edoardo Salzano: Il direttore di eddyburg.it introduce gli argomenti del corso e la loro proiezione futura.
Ilaria Boniburini: Parole chiave (riqualificazione e rigenerazione, vivibilità e disagio, benessere e povertà, competizione e concorrenza).
LA CITTÀ INVIVIBILE
mercoledì 24
Se comprendiamo la città, se non perdiamo la sensibilità, se non diventiamo assuefatti – gran parte del lavoro è fatto. Per questa ragione la scuola prende le mosse da un gruppo di interventi che raccontano la città dal punto di vista delle persone e della società. L’attenzione si soffermerà su alcune questioni chiave: la domanda insoddisfatta di occasioni di prossimità, i problemi tuttora irrisolti (la casa, i servizi, l’accessibilità e la mobilità, il lavoro), una concezione più larga dell’abitare che non sia ristretta alla sola domanda/offerta di abitazioni. Intervengono: Giancarlo Paba, Elisabetta Forni, Paola Somma, Ferdinando Fava
Modera la discussione: Giovanni Caudo
CONTRIBUTI DEI PARTECIPANTI: traiettorie fotografiche o filmate di percosi casa-scuola, casaservizi, casa-lavoro ecc. nella città così com’è, percorsa da cittadini improduttivi… (donna, anziano, uomo con carrozzina, pendolare ecc.).
Verso sera: visita ad Asolo, con spritz
RIQUALIFICAZIONE URBANA: UN’OCCASIONE PER CHI?
PERCHE’ I CONTI NON TORNANO
giovedì 25
Siamo tutti consapevoli che il ‘motore della crescita’ urbana è da ricercare nell’intreccio di interessi economici e politici. L’ambizione esplicita della stagione di programmi di riqualificazione era quella di utilizzare la ‘forza propulsiva’ di questo motore per rendere migliori le città, rinunciando ove necessario alle coerenze complessive e alla predeterminazione di regole e obiettivi stringenti. E’ andata come si riteneva? Come sono stati ripartiti i benefici e i costi di queste trasformazioni? Potrebbe andare in modo differente?
BOLOGNA E L’EMILIA ROMAGNA: piani generali e programmi di riqualificazione. Un bilancio critico.
Intervengono: Elettra Malossi, Graziella Guaragno, Giulia Angelelli, Chiara Girotti
Modera la discussione: Mauro Baioni.
Verso sera: visita ad Asolo, con spritz
ORIENTARE LA RIGENERAZIONE URBANA VERSO IL RECUPERO DELLA VIVIBILITA’:
PIANI, POLITICHE, INTERVENTI
venerdì 26
Raffaele Radicioni: TORINO, grandi eventi, contratti di quartiere, piano strategico. Un bilancio critico.
Maria Cristina Gibelli: Rigenerazione urbana o riqualificazione. Esempi di politiche urbane finalizzatea obiettivi di vivibilità da contrapporre alla ‘delega in bianco’ dell’iniziativa ai privati
Modera la discussione: Ilaria Boniburini.
CONTRIBUTO DEI PARTECIPANTI:
Giorgia Boca: Embrioni di rigenerazione in una piccola città del Sud: Cosenza.
Giornata un po’ più breve per collocare una piccola gita tardo-pomeridiana nel territorio; proposta anche gita del sabato pomeriggio, facoltativa, lungo le strade dell’architettura e del buon vino, per coloro che vorranno fermarsi un po’ di più.
VERSO UN RECUPERO DELLA VIVIBILITA’:
DIBATTITO FINALE
sabato 27
Dedichiamo l’ultima giornata ad un luogo e a una vicenda eccezionali: Napoli. La città che ha conosciuto negli ultimi anni sia l’avvio di una stagione di pianificazione di ampio respiro, sia il più desolante abbandono del governo del territorio.
Gabriella Corona intervista Vezio De Lucia, il primo ‘assessore’ alla vivibilità di una grande città italiana. Questi alcuni dei possibili temi dell’intervista.
(1) Perché fondare la vivibilità di Napoli su una variante di salvaguardia e su un piano regolatore (due grandi temi che ricuciono: mobilità e parchi).
(2) L’ufficio di piano di Napoli: una scommessa durata vent’anni.
(3) La vivibilità e le battaglie di eddyburg.it sul consumo di suolo, la deregulation, i programmi complessi: quale legame.
(4): la casa: il grimaldello per una nuova stagione di interventi straordinari oppure un’occasione per rendere le città più vivibili?
Seguirà il rinfresco conclusivo.
MODALITA’ DI SVOLGIMENTO
Come nelle edizioni passate ogni giornata sarà aperta dalle comunicazioni dei docenti invitati alla scuola. Dopo le presentazioni gli studenti discuteranno tra loro e prepareranno le questioni da porre alla discussione. Nel pomeriggio la discussione proseguirà sulla base delle domande proposte dagli studenti.
A metà settimana è prevista una gita organizzata per conoscere i luoghi e un incontro con gli amministratori del territorio che ci ospita.
Sede della scuola è il piccolo centro di Asolo (TV), posto su un colle aguzzo tra Bassano del Grappa e Valdobbiadene. Le lezioni si terranno presso l’Istituto delle suore Dorotee di Asolo, dove si potrà soggiornare usufruendo di condizioni agevolate per gli iscritti alla scuola.
La scuola si terrà, come di consueto dal 24 al 27 settembre.
Le iscrizioni e l’organizzazione degli aspetti logistici sono affidati all’associazione ZONE onlus.
MODALITA' E CONDIZIONI DI ADESIONE
Per partecipare alla Scuola di Eddyburg occorre scegliere una delle seguenti modalità di adesione:
A) PARTECIPANTE – La quota di iscrizione è di 500 € che comprende: la frequenza a tutte le lezioni e il materiale didattico; il pernottamento di 4 notti, da martedì 23 a venerdì 27; trattamento di pensione completa per i giorni 24, 25 e 26 settembre, che include una breve escursione e cena in agriturismo; il pranzo conclusivo del 27. Sarà rilasciata una ricevuta di pagamento valida ai fini fiscali.
B) PARTECIPANTE NON SOGGIORNANTE – La quota di iscrizione è di 400 € che comprende: la frequenza a tutte le lezioni e il materiale didattico; i pranzi dei giorni 24, 25, 26 e 27 settembre. Sarà rilasciata una ricevuta di pagamento valida ai fini fiscali.
C) PARTECIPANTE Junior– Questa modalità di adesione è riservata agli studenti e agli urbanisti under 35 che provvedono personalmente alle proprie spese, ed è subordinata ad un contributo di 320 € all’associazione Zone onlus. Sarà rilasciata una semplice ricevuta non valida ai fini fiscali. La quota comprende quanto descritto per gli studenti residenti di cui al punto A).
E’ ammesso un numero massimo di 40 studenti, dei quali non più di 20 junior. Saranno ammessi i primi quaranta partecipanti che si sono iscritti.
Per accertarsi della disponibilità dei posti contattare Ilaria Boniburini (Zone onlus) tramite email:
ilariaboniburini@zoneassociation.org; oppure al numero di telefono: 347.3196786.
Bibliografia iniziale di riferimento
Raffaele Radicioni
Documentazione sulla realizzazione di “Spina 3” negli Atti del Convegno: “ Spina 3” È la moderna Torino? scaricabile dal sito: http://www.cittabella.net/files/Atti%2019.03.08.pdf
“A Torino e non solo” numero 23 di Nuvole, Luglio 2008. Giornale online: www.nuvole.it. Qui in allegato gli articoli Il governo del territorio: il caso di Torino: di Raffaele Radicioni; Torino polimorfa. Modello di sviluppo e élite civica di governo di Silvano Belligni; Da soli o in compagnia? Alcune sfide per le nuove politiche abitative (e per le scienze sociali) di Manuela Olagnero.
Francesco Indovina (a cura di) (1992). La città occasionale. Firenze, Napoli, Torino, Venezia. Milano: Franco Angeli.
Vedere in particolare i capitoli: Torino: un sogno immobiliare contro il declino. Di Paolo Chicco e Silvia Saccomani; Pianificazione e progetti a Torino di Maria Garelli.
Adriana Castagnoli (1998). Da Detroit a Lione. Trasformazione economica e governo locale a Torino (1970 – 1990). Milano: Franco Angeli.
Arnaldo Bagnasco (1986). Torino. Un profilo sociologico. Torino: Giulio Einaudi editore
Egidio Dansero (1993). Dentro ai vuoti. Dismissione industriale e trasformazioni urbane a Torino. Torino: Edizioni Libreria Cortina.
Arnaldo Bagnasco (a cura di) (1990). La città dopo Ford. Il caso Torino. Bollati Boringhieri.
Bruno Maida (a cura di) (2004). Alla ricerca della simmetria. Il Pci a Torino. 1945 – 1991. Torino: Rosemberg & Sellier.
Vedere in particolare il Capitolo di Claudio Rabaglino Dalla teoria alla pratica. Ambiente, trasporti e urbanistica nell’azione amministrativa delle giunte rosse.
Mazza Luigi e Carlo Olmo (a cura di) (1991). Architettura e Urbanistica a Torino 1945 –1990. Torino: Allemandi.
E inoltre:
Città di Torino - IRES: "La configurazione sociale nei diversi ambiti spaziali della città di Torino e i processi di mobilità residenziale", reperibile nel sito "www.ires.piemonte.it", alla voce "Quaderni di ricerca", Quaderno di ricerca n. 115.
IRES "La mobilità in Piemonte nei primi anni del 2000", reperibile sempre nel sito "www.ires.piemonte.it" alla voce "Quaderni di ricerca", Quaderno di ricerca n. 110.
Città di Torino"Osservatorio condizione abitativa. 3° Rapporto Anno 2006", reperibile nel sito "www.comune.torino.it", nella rubrica "informazioni disponibili".
Alla città di Napoli è dedicata una cartella di Eddyburg. Al suo interno segnaliamo in particolare i seguenti articoli relativi al piano regolatore:
Red., Approvato definitivamente il PRG di Napoli (29.03.2004)
Gabriella Corona, Politiche sostenibili per la città: Napoli come caso di successo (14.03.2005)
Roberto Giannì, Contenuti essenziali del PRG (18.09.2004)
Antonio di Gennaro, PRG di Napoli: Strategia vincente (04.02.2006)
Per chi volesse approfondire, due libri fondamentali:
Vezio De Lucia (1998), Napoli. Cronache urbanistiche 1994-1997, Baldini e Castoldi: Milano.
Gabriella Corona (2007), I ragazzi del piano, Donzelli mediterranea: Roma.
Su Eddyburg sono disponibili la recensione del libro di Gabriella Corona scritta da Francesco Erbanie la prefazione di Piero Bevilacqua.
Gli atti e i documenti di piano, cui farà riferimento Roberto Giannì, sono consultabili e scaricabili dal sito istituzionale del comune di Napoli.
Particolarmente utile è la lettura del Documento di indirizzi, approvato dal Consiglio Comunale il 19 ottobre 1994, con il quale sono state stabilite le linee fondamentali della nuova stagione di pianificazione cittadina della prima Giunta Comunale guidata da Antonio Bassolino.
Qui trovate una piccola galleria di immagini sulla Scuola estiva di pianificazione di eddyburg, 2005. Con alcune delle divertenti caricature di Elena Tognoni
Per andare alla Galleria di immagini cliccare qui sopra
Bibliografia iniziale di riferimento
Elisabetta Forni
Michele Piccolomini (1993). Lo sviluppo sostenibile: una sfida per le città. in ReS ,n.7
Serge Latouche (2007). Breve trattato sulla decrescita serena. Torino: Bollati Boringhieri.
Inoltre alcuni testi di letteratura:
Patrick Chamoiseau (1994). Texaco. Torino: Einaudi.
James Hillman (2004). L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi. Milano: Rizzoli
Beppe Rosso e Filippo Taricco (2008). La città fragile. Torino: Bollati Boringhieri
Enzo Scandurra (2007). Un paese ci vuole. Troina (EN): Città Aperta. In particolare la parte seconda: Rimembranza
Ai margini del "Città e territorio festival" di Ferrara si era valutata la possibilità di iniziare delle attività in comune sulla città, in collaborazione tra la CGIL di Vicenza (Oscar Mancini), l’associazione ZONE onlus (Ilaria Boniburini) ed Eddyburg (Edoardo Salzano). Era nata l’idea di partecipare all’European Social Forum (ESF), che si sarebbe tenuto a Malmö (Svezia) dal 17 al 21 settembre 2008. Il tema del Forum di quest’anno è: "Making another Europe possible! East and West together, building alliances for struggles and alternatives". La struttura tematica e il programma del Forum sono consultabili alla pagina ufficiale dell’ESF. Successivamente la partecipazione si è allargata a una associazione costituita da numerose organizzazioni sindacali, Lavoro in movimento (Marco Berlinguer) e alle CGIL di Venezia e Padova.
La partecipazione al Forum Sociale Europeo è stata vista come l’occasione per avviare, con una platea internazionale, ampia e motivata, un lavoro comune sul tema della costruzione di città più vivibili. L’obiettivo assunto è di promuovere la collaborazione di movimenti, organizzazioni e gruppi che possano ragionare insieme sia per comprendere i fenomeni e le tendenze in atto sia per costruire azioni per il superamento dei problemi individuati.
L’attività di massima proposta dal gruppo suddetto al Forum aveva come tema " La città come bene comune. gruppi etnici e sociali insieme per costruire una città vivibile"; era prevista la sua articolazione in due seminari, dedicati rispettivamente a " Quali problemi e quali opportunità" e a " Quali azioni per il futuro". L’attività proposta rientra nell’asse tematico 1: " Working for social inclusion and social rights – welfare, public services and common goods for all" .
Il programma è stato trasmesso a una lista composta da numerose persone e organizzazioni che ci sembravano potenzialmente interessate a partecipare, con una lettera che precisava la richiesta di collaborazione.
Nell’Assemblea di Kiev (inizio giugno 2008) l’organizzazione dell’ESF iniziava le operazioni di accorpamento, esaminava le circa 800 proposte pervenute e individuava, a seconda dei temi proposti, gruppi da aggregare per costruire eventi nei quali confluissero associazioni diverse. L’iter dell’iniziativa (dalle premesse alla conclusone di questa fase) è stato espresso in una Newsletter (13 giugno 2008), che è stata trasmessa a tutti gli indirizzi della lista inizialmente formata (vedi Allegato).
Il gruppo italiano si è subito dichiarato disposto ad aderire alla proposta di aggregazione, per più d’una ragione: perché i temi proposti dagli altri gruppi sono molto vicini al nostro; perché l’aggregazione garantisce una platea di partenza, per il dibattito e lo scambio, più ampia; perché il nostro interesse è soprattutto quello di stabilire collegamenti per un lavoro da sviluppare in futuro.
Da allora è iniziata una complessa azione di contatti e scambi di documenti e proposte con i gruppi e le associazioni coinvolti, sia per definire gli aspetti organizzativi sia per mettere a punto titolo, contenuti e modalità di conduzione e svolgimento delle attività.
In conclusione, la nostra proposta iniziale è confluita in un iniziativa che coinvolge sette gruppi e circa 13 organizzazioni di diversa nazionalità, campo di azione e obiettivi. Il tema concordato con le altre organizzazioni che hanno aderito alla proposta di aggregazione è: "Quale futuro scegliamo: la metropoli neoliberale o una città comune e solidale?". L’obiettivo è quello di contribuire a comprendere meglio il modello dello sviluppo urbano neoliberista e gli effetti delle politiche neoliberiste sulle nostre città. A partire dall’analisi del disagio e delle conseguenze negative derivanti dai processi di gentrificazione, crescente esclusione sociale e razziale, aumento dell’ ineguaglianza e precarietà, si vogliono proporre approcci e azioni alternativi alle pratiche dominanti, sia a livello locale che globale.
I gruppi che hanno aderito sono i seguenti:
GR 1, AITEC; AIH; FALP
GR 2, eddyburg.it; CGIL VI, PD e VE; Lavoro in movimento; Zone onlus
GR 3, Union of Chambers of Turkish Engineers and Architects
GR 4¸LO-distriktet i Skåne;
GR 5, TAKSAV
GR 6¸ITUC
GR 7, Network Camere del Lavoro CGIL - Dipartimento Politiche Immigrazione CGIL Nazionali
Il nostro gruppo (GR2) si è assunto il ruolo di coordinare le comunicazioni e il lavoro inerente alla programmazione e preparazione delle attività, di gestire la pagina web del Forum relativa all’iniziativa comune e di formalizzare la registrazione.
L’iniziativa concordata prevede due appuntamenti: un seminario e un workshop, di tre ore ciascuno. Il programma di massima proposto, e tuttora in corso di definizione è il seguente:
Seminario
1. Presentazione con una breve introduzione delle attività.
2. Elementi per capire la città neoliberista e i suoi effetti. Descrizione dei caratteri del modello di sviluppo urbano neoliberista, i suoi modi di riproduzione e gli impatti sulla città e la popolazione: gentrificazione, esclusione sociale, diseguaglianze ecc. Questo intervento dovrebbe essere preparato congiuntamente dai Gruppi 1 e 2.
3. Presentazione di alcuni casi studio nei quali gli effetti del neoliberalismo sono evidenti: analisi del disagio, illustrazione dei problemi, testimonianze di lotta, azioni intraprese ecc. I casi studio saranno presentati dai gruppi 3, 4, 5, 6 e 7.
4. Proposte per approcci e azioni alternative per contrastare le tendenze e i problemi identificati: concetti, principi e strategie di massima. Questa parte sarà argomentata in prevalenza dai gruppi 1 e 2.
5. Dibattito
Workshop
1. Rendiconto sommario del dibattito svoltosi durante il seminario.
2. Presentazione delle attività in corso e programmate dalle varie organizzazioni e gruppi per contrastare il modello neoliberista. È previsto un breve contributo da parte di ciascuna delle organizzazioni.
3. Dibattito sui programmi e le attività di cui sopra e identificazione di possibili azioni e attività comuni.
4. Approvazione del documento/verbale finale.
Una seconda newsletter (5 agosto 2008, in allegato) informa del punto d’arrivo sopra sintetizzato. Nelle prossime settimane daremo conto delle caratteristiche di ciascuno dei gruppi e associazioni che partecipano agli eventi ora descritti, nei nomi delle persone che li rappresenteranno a Malmö, dei materiali che ci saranno inviati e, via via che sarà possibile, dei contenuti degli interventi. Nonché, ovviamente, del programma definitivo.
LA CITTÀ COME BENE COMUNE
GRUPPI ETNICI E SOCIALI INSIEME PER COSTRUIRE
UNA CITTÀ VIVIBILE
Il Forum Sociale Europeo è un’occasione per avviare - con una platea internazionale, ampia e motivata - un lavoro comune sul tema della costruzione di città più vivibili, a partire dal concetto di città come bene comune.
L’obiettivo è di promuovere la collaborazione di movimenti, organizzazioni e gruppi che possano ragionare insieme sia per comprendere i fenomeni e le tendenze in atto sia per costruire azioni per il superamento dei problemi individuati.
il tema dei seminari e dei dibattiti
La città già presenta oggi gravi forme di esclusione economica e sociale che provocano un generale disagio. Le dinamiche migratorie inseriscono in questa situazione ulteriori elementi di complessità, i quali vengono accentuati dall’insistenza sul discorso della sicurezza, fomentato dalle forze politiche nella ricerca di un facile consenso.
Il diverso grado di mobilità, fisica, economica e culturale, espresso dal diverso uso della città, costituisce una delle variabili decisive al fine di cogliere le dinamiche che strutturano le attuali disuguaglianze sociali. D’altra parte la città – per la sua stessa natura, per la sua storia, per i principi della sua organizzazione – è il luogo nel quale si manifestano l’incontro, il conflitto e il superamento di questo e nel quale quindi possono esprimersi lo scambio, il reciproco arricchimento culturale e la definizione delle regole della convivenza. Questa potenzialità è costituita e rappresentata, sia materialmente che simbolicamente, dagli spazi pubblici e dalla loro utilizzazione.
Seminario I: Quali problemi e quali opportunità
Si vuole approfondire l’analisi sui problemi che derivano dal fatto che alle differenze e segregazioni di carattere socio-economico si aggiungono quelle derivanti dalla crescente multietnicità determinata dalle migrazioni di popolazioni attraverso i confini nazionali.
La pluralità dei riferimenti culturali, già tipica della società contemporanea occidentale, e la presenza di sistemi culturali importati dagli immigrati, diversifica ancora di più il paesaggio culturale. Questa potenziale ricchezza, che potrebbe contribuire a trasformare le coordinate di senso in più direzioni, viene a connotarsi invece come uno dei problemi della convivenza tra autoctoni e immigrati. La compresenza di una molteplicità di comportamenti diversi nei confronti delle istituzioni del vivere sociale (abitare, nutrirsi, matrimonio, famiglia, religione, modi di socializzare) provoca incomprensione e conflitto, soprattutto quando tali comportamenti sono visibilmente in contrasto con i principi della cultura in maggioranza. Si realizzano così discriminazioni nei confronti delle minoranze, innescando conflitti di tipo razziale.
È possibile che le diverse presenze concorrano invece a costruire città più vivibili? In altri termini, differenze sociali e differenze etniche possono diventare occasioni per accrescere la vivibilità delle città europee?
II Seminario: Quali azioni per il futuro
Sulla base dell’approfondimento dei problemi e delle opportunità ci si propone di individuare gli argomenti, gli strumenti, le iniziative capaci di far sì che le diverse presenze sociali e culturali concorrano a costruire città più vivibili. Il quadro generale è costituito dall’insieme delle politiche urbane (abitazione, welfare, ambiente, ecc.), ma si ritiene che il centro del ragionamento possa essere costituito dall’uso degli spazi pubblici.
L’uso degli spazi pubblici. I migranti hanno tendenzialmente e per motivi assai diversi, un rapporto stretto con la città in cui vivono e/o lavorano. È un rapporto che può essere qualificante per la città, perché essi spesso recuperano spazi pubblici dimenticati o sottoutizzati, piazze, giardini, strade. Dall’altra parte, abbiamo cittadini autoctoni che, per complesse ragioni, hanno progressivamente abbandonato lo spazio pubblico, o lo frequentano per ragioni strettamente legate al consumo di merci e di eventi. Ma i cittadini autoctoni appaiono sempre più spaventati dall’altro, dallo ‘straniero’.
Sicurezza e benessere. Il tema che recentemente sembra influenzare di più la vivibilità degli spazi di vita, e in particolare degli spazi pubblici è quello della sicurezza urbana. Se è vero che essa è riconducibile ad una percezione di pericolo legata ai profondi mutamenti in atto nella struttura sociale e fisica della città e della società, è anche vero che essa tende sempre più ad essere ridotta e ricondotta al problema dell’immigrazione che viene identificata come sinonimo di disordine, delinquenza e disagio. La domanda di sicurezza, spontanea o indotta, rimette in discussione l’utilizzo degli spazi pubblici, luoghi da sempre capaci di assicurare una migliore qualità alla città, ponendo in primo piano le esigenze di controllo del territorio e la promozione di forme di appropriazione da parte di particolari gruppi.
Pubblico e privato. Il deperimento della sfera pubblica a favore della sfera privata accresce la difficoltà di costruire un dibattito pubblico e riduce quindi la capacità di costruire, attraverso il dialogo e la condivisione, un ‘progetto’ nell'interesse generale dei cittadini: un progetto non proteso verso molteplici interessi particolaristici. Occorre quindi promuovere azioni che rimettano al centro lo spazio pubblico, materialmente e simbolicamente, come spazio di incontro e di dibattito per la costruzione di una città comune.
È possibile attraverso la progettazione condivisa tra autoctoni e immigrati, fisica e immaginaria dello spazio pubblico, e contemporaneamente del dibattito pubblico, costruire città più vivibili? Come?
CGIL Vicenza, Venezia, Padova
eddyburg.it
Lavoro in Movimento
Zone Onlus
Il tema della qualità urbana insieme alla qualità sociale costituisce un pezzo rilevante della strategia della rete delle Camera del lavoro ma non è ancora diventato pratica sindacale diffusa.
Nel sindacato, da tempo, siamo abituati ad analizzare le trasformazioni del lavoro ovvero il passaggio al “nuovo modo di produzione” che definiamo postfordista.
Ne esaminiamo le conseguenze dal punto di vista della precarizzazione del lavoro, dell'indebolimento dei diritti e delle tutele, della compressione del costo del lavoro.
In generale siamo però meno abituati ad esaminare l'altra conseguenza di questo “nuovo modo di produzione” ovvero lo sviluppo disordinato generato dalla fabbrica postfordista che esternalizza i costi aziendali sulla collettività ovvero sul territorio nell’accezione “ di sistema vivente ad alta complessità esito di molti cicli di territorializzazione” secondo la bella definizione di Alberto Magnaghi.
Tutti noi sappiamo che nella vecchia fabbrica fordista tutto si faceva in casa. La grande fabbrica segnava anche simbolicamente il territorio: Torino era la Fiat, Olivetti era Ivrea, Marzotto si identificava con Valdagno, la Lanerossi era Schio, tanto per rimanere in casa.
Il postfordismo è il rovesciamento di questa impostazione.
Conviene esportare fuori dalla fabbrica una serie di funzioni, si risparmia. È una corsa alla riduzione delle dimensioni produttive, la fabbrica snella tende a procurarsi all'esterno ciò che prima produceva all'interno.
Nasce così l'impresa a rete, il lavoro si disperde nel territorio. Prima le reti erano corte, distrettuali, oggi le reti diventano sempre più lunghe, tendono a stendersi ed articolarsi su scala planetaria, connettendo segmenti di produzione, saperi tecnologici e reti commerciali, dislocate magari in continenti diversi.
Il cambiamento è reso possibile dalla rivoluzione delle nuove tecnologie dell’ I.C.T. che velocizzano le comunicazioni e dalla ricerca del capitale di luoghi di produzione a minor costo del lavoro.
Così la fabbrica postfordista esternalizza, nasce l’impresa rete, il lavoro si disperde nel territorio e nascono come i funghi i capannoni in mezzo alla campagna e nei nuovi P.I.P. della Tremonti concepiti come siti a minor costo.
La fabbrica just in time elimina il magazzino perchè esso viaggia sulle nostre strade congestionate che a loro volta attirano attività commerciali, il tutto genera una mobilità multidirezionale delle merci e delle persone, quasi sempre su mezzi privati che congestiona il traffico e soffoca la nostra esistenza.
Una mutazione gigantesca, formata dalla somma di trasformazioni diffuse e capillari, ha investito negli ultimi decenni il Veneto e l’intera pianura padana. Un diluvio di cemento che ha deturpato uno dei paesaggi più belli d'Europa.
Con mirabile capacità di sintesi scrive il vicentino Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera: “Un blocco di cemento di 1070 metri cubi: è questa la dote portata alla provincia di Vicenza da ogni abitante in più dagli anni 90. Crescita demografica: più 52 mila abitanti pari al 3%. Crescita edilizia: 56 milioni di metri cubi, pari ad un capannone largo 10 metri, alto 10 e lungo 560 km. Ne valeva la pena? Valeva la pena di insultare ciò che resta delle campagne care a Meneghello con giganteschi scheletri di calcestruzzo tirati su spesso solo per fare un investimento incentivato dalle varie leggi Tremonti e oggi tappezzati di cartelli "affittasi capannoni"?"
Ne valeva la pena di tutto questo cemento? Ne valeva la pena di capannoni, nel migliore dei casi, pensati per produzioni povere realizzate con tecnologie semplici, non più in grado di reggere la competizione internazionale?
Eppure, non ci sfugge come declino industriale e boom del mattone siano processi strettamente correlati.
Di fronte ai problemi posti dalla ineludibile riconversione industriale molti hanno scoperto il business degli investimenti immobiliari: Tronchetti Provera e Benetton sono i nomi più noti.
Ma il boom del cemento, soprattutto a Nordest, ha “slabbrato” e paralizzato il tradizionale assetto policentrico del Veneto, determinando il collasso della viabilità. La tangenziale di Mestre è ormai diventata la metafora di questo nuovo modo di produzione.
Si affermano nuovi modi di costruire. Le strade-mercato, una successione lineare di fabbriche ed edifici mostra che ha invaso ormai l’intera pianura padana. Più in generale, quello che un tempo era campagna è diventato un paesaggio reticolare della piccola impresa disseminato di case laboratorio. Nuovi monumenti suburbani crescono come funghi, sono i centri commerciali che sostituiscono le vecchie piazze cittadine.
Un modello di urbanizzazione costoso in termini di distruzione di suolo agricolo, di aumento di spese di energia e di tempo nonché insostenibile da un punto di vista ambientale e scarsamente competitivo rispetto ad altri modelli territoriali.
Una dispersione insediativa per la quale gli americani coniarono il termine “ sprawl town” letteralmente: città sdraiata sguaiatamente.
In sostanza, un ambiente urbano a marmellata sempre più privo di forma e memoria dei luoghi e vissuto come alienante soprattutto dalle nuove generazioni.
Caro Alberto, nella “ sprawl town” dove sta la porta della città?
Confindustria invoca nuove infrastrutture in modo settoriale, ovvero non sistemico. Se c'è un problema di traffico la soluzione è semplice: facciamo una nuova strada, meglio se autostrada. Non occorre essere urbanisti per sapere che "l'errore più grave è quello di pensare di risolvere un problema così grave come quello del traffico isolandolo dal più generale contesto della pianificazione urbanistica territoriale”.
Appunto, la pianificazione urbanistica è mancata soprattutto nel Nord del paese e i risultati sono sotto i nostri occhi.
Il tema della difesa del territorio come bene comune nell’accezione patrimonio fisico, sociale e culturale costruito nel lungo periodo, se messo in correlazione con le dinamiche del postfordismo, può essere terreno per costruire una moderna critica all’attuale fase dello sviluppo capitalistico. Lo sfruttamento dell’uomo sulla natura è un aspetto del più generale sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della conseguente ricerca di una diversa ragione dello sviluppo. Un discorso ecologico cioè non può essere disgiunto da un discorso sociale e viceversa. Per questo l’innovazione delle procedure urbanistiche va considerata, valutata e giudicata all’interno di un programma sociale centrato su nuove regole di convivenza.
Quindi se la coscienza di luogo è minacciata dalle devastazioni ambientali prodotte dal capitale, mi chiedo se su questo terreno non sia possibile costruire una nuova coscienza di classe. Se cioè non sia possibile un incontro tra il movimento sindacale e i tanti comitati, associazioni, gruppi, spesso nati spontaneamente attorno a un evento, una minaccia, un progetto. Perchè da questo incontro possa nascere una nuova coscienza collettiva, essa non può che essere fondata sulla consapevolezza dell’impossibilità del mercato di risolvere i problemi derivanti dal carattere intrinsecamente sociale e collettivo della città e del territorio, in contrasto con il carattere individualista proprio dell’ideologia che sta alla base del sistema capitalistico, ovvero dell’attuale sistema economico sociale.
giacimenti patrimoniali locali per modelli di sviluppo peculiari e unici” di cui ha parlato Magnaghi.
Ma questo obiettivo, a mio parere, non potrà essere raggiunto senza una politica capace di tagliare le unghie alla rendita che passa attraverso una riforma del regime dei suoli e il rilancio del metodo della pianificazione urbanistica, ponendo fine alla sciagurata pratica dell’urbanistica contrattata. Essa ha determinato, osservata da Nordest tre dinamiche:
Ricostruire una città umana significa eliminare la congestione, restituire alle piazze la loro funzione originaria di luogo d’incontro, di scambio di esperienze, significa rendere accessibile per i deboli, come per i forti, i luoghi della vita collettiva ed i luoghi della vita privata, significa fare della città il luogo nel quale i differenti ceti, i differenti mestieri, funzioni sociali, differenti etnie, abitudini, culture si mescolano e si scambiano reciproci insegnamenti. La visione è un invito alla socialità, se possibile alla socievolezza, la città come luogo della libertà e della crescita personale”.
E’ una visione che, tradotta nel nostro linguaggio più consueto, si propone di affermare il diritto all’ambiente, alla mobilità, alla casa, al lavoro, alla salute, all’istruzione e poi anche opportunità formative e culturali.
Nota. Testo scritto da Oscar Mancini per il convegno "Terra futura" (Firenze, maggio 2007)
Con l’insediamento del Presidente Vendola e della Giunta da lui nominata nell’aprile 2005 si è aperta una nuova stagione per la Regione Puglia. Una forte spinta all’innovazione data da una straordinaria ricerca di partecipazione democratica di vari strati della popolazione regionale non poteva che coinvolgere anche il tema dell’assetto e del governo del territorio. Può essere interessante osservare quindi, in maniera per quanto organica possibile, come questo tema è stato approcciato in un territorio, quale quello pugliese, dominato da una sorta di immobilismo cronico e sfruttamenti particolaristici ripercorrendo ciò che a riguardo già è stato scritto e pubblicato su Eddyburg.
Un buon punto di partenza per cominciare ad orientarsi nel panorama pugliese è rappresentato dal programma per il governo del territorio estratto dal sito della Regione nel 2005. L’assessore regionale Angela Barbanente delinea una piattaforma concreta da cui partire per il governo del territorio regionale di cui due sono gli aspetti fondanti: l’assetto del territorio e le politiche abitative. Per quanto concerne l’assetto del territorio, vengono individuate delle linee guida che individuano i punti critici su cui l’Amministrazione si impegna ad incentrare tempestivamente la sua azione di governo.
In primo luogo la Regione Puglia si propone di superare l’incertezza e la confusione normativa derivanti dalle due leggi regionali in materia di governo del territorio, 56/1980 e 20/2001. L’Amministrazione opta per utilizzarli, anziché rivederli, conferendo loro un diverso indirizzo politico, scelta motivata principalmente per tempi ed l’efficacia dell’azione governativa. Questa linea intrapresa risulta chiara e confermata anche nella lunga intervista rilasciata ad Eddyburg dall’assessore Barbanente nel settembre 2007 “Ridare impulso alla pianificazione: sfida in Puglia”, nella quale proprio il fatto di adattare la strumentazione prevista dalle leggi vigenti ad una nuova concezione politica, viene individuato come il nodo di svolta per conferire impulso alla pianificazione e al territorio più in generale.
Altra azione cardine viene individuata dalla Giunta nella rottura del modello gerarchico e centralistico che ha dominato, sin dall’inizio, il governo regionale del territorio in Puglia. Questo è stato associato alla necessità della messa in atto di più agili, efficaci e trasparenti procedure di approvazione o verifica di conformità dei piani e di ogni altra forma di autorizzazione in merito alle trasformazioni d’uso del suolo, operando da un lato uno straordinario sforzo di recupero dei ritardi accumulati, anche attraverso la definizione di “corsie accelerate” per specifici temi di rilevanza strategica, dall’altro, agendo sul duplice fronte della semplificazione procedurale e del decentramento di funzioni. Per affrontare queste tematiche la Regione Puglia si è impegnata fortemente e su più livelli, a partire dall’approvazione di un documento di indirizzo relativo alla pianificazione di area vasta. Attraverso tale accordo si promuove la collaborazione tra Regione e Province in materia di pianificazione territoriale e urbanistica e si esplicitano le ragioni del rilancio del ruolo delle autonomie locali nel sistema di governo del territorio regionale al fine di creare un reale sostegno e spinta all’innovazione delle pratiche di pianificazione locale. Riconosciuto l’esaurimento della spinta all'espansione urbana, la pianificazione viene orientata decisamente verso obiettivi di miglioramento della qualità dell’ambiente e della vita dei cittadini, di bonifica di aree inquinate, di riqualificazione di aree degradate e recupero dei tessuti urbani consolidati.
L’approccio alla questione ambientale che nelle linee guida era affrontata in termini di “ rinnovamento delle forme di tutela del paesaggio secondo le indicazioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio” e di “ costruzione di rapporti sinergici fra il sistema di governo del territorio e le iniziative di tutela ambientale e programmazione dello sviluppo” viene a delinearsi più nettamente il 13 novembre 2007, quando la Giunta Regionale approva il documento programmatico del nuovo Piano Paesaggistico Regionale che definisce i presupposti, l'impianto e le modalità di redazione del nuovo piano.
Infine, echi di stampa arrivano da “la Repubblica”, cronaca di Bari 31 marzo 2007: nell’articolo " Puglia. Urbanistica, scatta la rivoluzione: più legalità con i nuovi piani" la nuova stagione di piani viene presa a simbolo di impegno al cambiamento e a legalità.
Punta Palascìa rappresenta certamente uno dei punti più suggestivi del tratto di costa tra Otranto e Santa Maria di Leuca.
Essendo il luogo più ad Est d'Italia il sito è oggetto di interesse ogni inizio anno da parte di migliaia di persone in quanto da qui è possibile per primi vedere l'alba del nuovo anno.
L'area è interessata da diversi progetti per una maggiore valorizzazione delle risorse ambientali e paesaggistiche.
Risale a qualche anno fa, per iniziativa della Giunta Fitto alla Regione Puglia, la decisione di fare del Faro di Punta Palascìa un museo sul Mar Mediterraneo: in questo contrastando un progetto di vendita a privati per la realizzazione di un ristorante "sulle onde".
A livello nazionale il Ministero dell'Ambiente progetta di includere questo Faro nell'ambito di un progetto che coinvolge altri quattro fari per metterli a sistema (Genova, Gibilterra, Tunisia, Alessandria d'Egitto). Con questo affermando con forza che le acque del Mediterraneo sono acque di pace e di accoglienza.
Ciononostante, ed in contrasto con l'orientamento degli Enti Locali, nonchè contro la volontà popolare, è in essere un tentativo di deturpazione "ulteriore" del sito con la realizzazione di strutture ad opera della Marina Militare.
Il Comitato Giù le mani da Punta Palascia si ripropone di contrastare questo progetto con ogni mezzo messo a disposizione dalla nostra Costituzione, sicuro di avere dalla sua parte l'appoggio e l'affetto della popolazione.
Il Comitato
Premessa
Condivido il desiderio di fare chiarezza, in primo luogo sulle parole. D’accordo, quindi, a contrastare la temibile deriva che, mediante la progressiva scialbatura dei termini (nel senso proprio di “confini”, in questo caso dei significati), ne produce prima l’omologazione e poi il lento di-senso, talvolta semplicemente per caso, senza intenzionalità da parte di alcuno. Ma talaltra no: in quest’ultima circostanza sarei anche disposto a menare, se solo potessi identificare i responsabili.
Con questo animo, e giacché di glossario si deve trattare, propongo quattro lemmi (a-d) che cercano anche di rispondere alle sollecitazioni/domande sul modesto testo che ho inviato per la documentazione preparatoria. Trattano tutti, ovviamente, dello stretto ambito storico-archeologico, né potrei avventurarmi altrove, e sono rappresentati da parole singole o locuzioni ormai indissolubili, sui quali si è da tempo manifestato un qualche tipo di di-senso. Aggiungo un neologismo (e) che mi servirà per affrontare, a voce, un ragionamento più ampio.
Archeologia del paesaggio
Riassumo qui quanto scritto nel testo preparatorio perché la definizione precisa degli strumenti di indagine può tornare utile per inquadrare anche le relative visioni disciplinari. La grande fortuna della definizione landscape archaeology inizia già da quando il termine, in senso epistemologico, cavalcava e, ad un tempo, contribuiva a costruire il definitivo riconoscimento degli strumenti propri dell’Archeologia nel momento cruciale del suo affrancamento dalla Storia, in riferimento ad una archeologia che guardasse ai contesti (e non solo per distinguere le pratiche di ricerche condotte direttamente sul terreno ma senza il ricorso allo scavo). Nel testo preparatorio ho scritto che, guardando con attenzione ai termini che formano la definizione originaria nonché alla sua traduzione italiana, e confrontandoli con i risultati delle ricerche che vi afferiscono, occorre prendere atto che, in realtà, tali ricerche non si occupano - né pervengono alla ricostruzione - di “paesaggi”, semmai di “assetti territoriali antichi”. Perché una archeologia, o storia, del paesaggio, dovrebbe occuparsi della sequenza delle rappresentazioni culturali dello spazio vissuto, considerando nella sua dimensione diacronica anche lo sguardo delle compagini umane sui luoghi che hanno frequentato o abitato stabilmente. Una ricerca sulle antiche percezioni, dunque, imperniata sulle pratiche della sacralizzazione dello spazio, sulle sue descrizioni, sul discernimento, sulla razionalizzazione e sulle fobie, e non (o non solo) tesa esclusivamente alla ricostruzione dell’assetto insediamentale e del suo funzionamento economico in un momento dato (il “paesaggio” nuragico, romano, medievale…), scelto in base allo specifico indirizzamento tematico della ricerca (tradotto: in base alla formazione disciplinare del gruppo di ricerca); oppure, ma con senso corrispondente, a formare una sequenza di istantanee di alcuni di questi “momenti”, colti nel loro sviluppo e “scelti”, di solito, in funzione dell’indice più alto di attestazioni materiali sul terreno.
Sembra in fondo che, per chiarire l’oggetto specifico di questo tipo di ricerca, sia meno ambigua l’espressione braudeliana “Archeologia dello spazio”, che ha però avuto scarsa fortuna. E lo sarebbe soprattutto quella nostrana, “Topografia Antica”, se non pagasse un debito inestinguibile ad un pestifero provincialismo intellettuale. Detto questo, occorre però affermare con forza che, a prescindere dal nome che la identifica, è su questo tipo di analisi che si è basato il primo superamento dello stadio tassonomico della conoscenza archeologica territoriale, attraverso il quale si è entrati nello spazio delle relazioni (cfr. sotto s.v. “Contesto”) dei processi di formazione, sviluppo, dismissione dei “sistemi” urbani e territoriali.
Patrimonio (giacimento, bene, risorsa) culturale…
Il politicamente-corretto ha prodotto nel linguaggio quotidiano involucri ipocriti per parole vecchie ma oneste, che l’uso vernacolare aveva forse reso ruvide (…ma sei cieco?, sembri uno spazzino! non fare l’handicappato…) ma certo non insignificanti, producendo contestualmente l’ironico fiorire di caricature (a partire dal non-trombante monicelliano all’ultimo, geniale, diversamente bianco), che infine ci hanno portato a percepire queste ormai usuali perifrasi come più volgari e offensive degli originali. Ma ancor peggio sono i neologismi finalizzati alla persuasione, anche se coniati a fin di bene. Ad esempio, questa apprensiva attenzione nel sottolineare mediante le parole che i “beni” culturali sono, appunto, beni, non vi sembra voler coprire il fatto che non lo sono affatto o, almeno, non nel senso “produttivo” del termine? Sembra volerci convincere che un qualcosa che risorsa economica non è né vuole essere, lo sia e, ad un tempo, dell’urgenza che sia percepita come tale. Una sorta di giustificazione di tanta (troppa?) attenzione e troppo (sic!) denaro dedicati a cose che stanno lì e non producono e, anzi, talvolta impicciano. Come se, ad un certo punto, la naturalezza con la quale si diceva monumento, opera d’arte, bel paesaggio, la serena ammissione di un gradevole vizio con la quale si era affrontato a viso scoperto “il culto moderno del monumento”, fosse stata pervasa dal senso di colpa derivante da sindrome di improduttività industrial-turistico-commerciale, e costretta a cercarsi un alibi. Col rischio che il primo commercialista di passaggio la prendesse sul serio, quella perifrasi, ben pensando di venderseli, i giacimenti-beni-risorse. Per persuadere con le parole sarebbe assai meglio impegnarci tutti con qualcosa del tipo “eredità” culturale, che fa pur sempre riferimento ad un patrimonio, ma implicitamente indica anche una responsabilità per il futuro e l’impegno per meritarla. E tacitamente insinua l’incertezza di esserne i veri destinatari.
Conservazione/tutela
Il problema non è qui nella perdita di significato, o nel fraintendimento delle parole, ma nel fatto che, nell’uso quotidiano e soprattutto mediatico, siano ormai considerate sinonimi. L’affermazione, specie per gli addetti ai lavori, è ovvia, così come la differenza tra i due termini, ma una riflessione su di essi può rivelarsi utile. Si dirà: la tutela non può che mirare alla conservazione e dunque decidere di tutelare equivale a manifestare l’intento di conservare: la sinonimia è dunque ammissibile. Ma se il serbare originario vale il nostro conservare, il cum-serbare latino rafforza il senso di appartenenza, suggerendo una volontà di portare “con sé”, magari “per sempre”. Questa funzione si pone in evidente parallelo con lo scopo del “monumento” letto, ricordando prima Arnaldo Momigliano e poi Lucien Fevre, come “ammonimento”, cioè prodotto della storia - principalmente della storia fatta da e per i “potenti” della terra - che intende ammonire, per ricordare ma anche per spingere il consenso in una direzione predeterminata. Mentre la tutela, intesa come protezione, insegnamento, cura, ma anche come potestà e responsabilità, subito rimanda, specie nella percezione del quotidiano, a contesti educativi (il vecchio tutore, ma anche il tutore ortopedico): in altre parola da applicare a qualcosa che può, anzi deve, crescere, svilupparsi, modificarsi, oltre (e forse a prescindere da) l’atto tutelante. Nel conservare si nasconde l’intento di fissare qualcosa ad un punto dato per serbarne memoria, dalla scala del personale a quella globalizzata: conservare fa dunque parte del lato immobile delle culture, quello della tradizione e delle identità (cfr. F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma.-Bari 2006). Tutelare dissimula invece la possibilità - e la volontà - di un progetto di modifica, insito nel flusso di una vitalità incontenibile anche se, come nel nostro caso, legata a qualcosa che vivo non è più. Insomma: attenzione alla sinonimia, che rischia di smorzare il potenziale progettuale dell’opera di tutela e ridurne il suo già arduo obiettivo all’accantonamento statico di oggetti vecchi (o al loro restauro, ma questo è un altro discorso). Infine, una suggestione: Marc Augè ci ricorda il significato originario di seduzione, da se-ducere, attrarre a sé, convincere, trascinare: corrispondente certo ma, direi, oppositivo al cum-serbare. La seduzione del paesaggio, e non solo quella estetica (la sua arguzia, direbbe Farinelli) è la più radicata delle seduzioni, che trascina (seduce) soprattutto per il suo carattere continuamente mutante. Pericoloso, dunque, tentare di immobilizzarla “conservandola”.
Contesto (storico, archeologico…)
L’archeologia “contestuale”: un’altra definizione che, durante la stagione delle rivendicazioni epistemologiche, intendeva imprimere un corso non “object oriented” (come direbbero gli informatici) alla ricerca storica sul territorio. Partiamo a dal livello conoscitivo: ho scritto nel testo introduttivo che un catasto delle presenze archeologiche allo stato grezzo, in assenza cioè di sintesi interpretativa, risulta essenziale nella prassi della tutela puntuale (oggettuale), ma del tutto insufficiente sia per l’individuazione dei paesaggi “storici”, sia per la salvaguardia paesaggistica, sia, come è ovvio, per gli effetti di queste pratiche sulla pianificazione urbanistica e territoriale. Proprio da questo punto di vista l’attenzione per i contesti sarebbe, a tutti gli effetti, soluzione ad un tempo teoricamente pregnante e pragmaticamente operativa. Il problema semmai è dar conto di questa ingombrante aggettivazione - storico? archeologico? - in applicazione ad un cum-textum, ambito di relazioni culturali para e supra testuali, appunto, che difficilmente può essere esente da un coinvolgimento di tipo storico. Insisto su questo punto, e sulla impossibilità (nonché sul pericolo insito nel) distinguere i paesaggi “storici” dagli altri: io tento di “sviluppare l’idea nelle sue conseguenze operative (ecco l’urbanista…)” ma voi provate a mettervi nei panni di uno storico del territorio, o di un amministratore della tutela che giornalmente è chiamato a operare questa scissione tra sacro e sacrificabile. E soprattutto proviamo a circostanziare non tanto le risposte, quanto le domande che il Progetto dovrebbe rivolgere alla Storia, in funzione della semplice osservazione che la conoscenza dei processi storici che hanno determinato la forma dei luoghi nei quali si vive, dovrebbe servire a garantire non tanto la conservazione di quelli più meritevoli (e chi lo decide?) quanto l’equilibrio, o almeno il compromesso, tra rispetto dei processi passati e necessaria evoluzione di forme e funzioni, attraverso rinnovati processi e non mediante il congelamento di alcuni che abbiano il solo requisito di essere, per qualche verso, previi.
Cioè superare, e insisto anche su questo punto, la consolidata opinione che un contesto “storico” sia un contenitore di oggetti storici particolarmente evidenti e, possibilmente, fisicamente ben conservati. E questo vale anche per il Progetto “storico” per eccellenza, l'unico che elegga la memoria culturale e i suoi feticci ad assoluti protagonisti: il progetto di tutela, di recupero, di valorizzazione. Anzi: il travaglio del pensare per “monadi” e non per “contesti” tipico della nostra cultura e da questa proiettato su secoli, ormai, di legislazioni sui Beni Culturali, è in questo caso esasperato - in modo che talvolta sfiora il ridicolo - dal contrasto tra un apparato legislativo (la Convenzione Europea, ma anche, in certe parti, lo stesso Codice Urbani) che dice di guardare alla tutela del contesto ed una oggettiva difficoltà ideologica e culturale a capire (prima ancora di far capire) i Contesti. I quali, peraltro, sono caratterizzati in modo maledettamente ineluttabile dal non essere tutelabili attraverso la conservazione in vitro delle loro singole componenti. Quali esse siano.
Cronodiversità
Il neologismo, infine. Colpito dalla buffa coincidenza tra le definizioni di biodiversità e quelle di “sfera del diritto territoriale” offerte da N. Irti (Norma e luoghi, Laterza, Roma-Bari 2006), nonché profondamente invidioso della fortuna comunicativa (oltre che scientifica) della Biodiversità, ho coniato il neologismo, che tento di spiegare nel testo introduttivo. Qui vorrei solo richiamare la giusta osservazione di Edoardo a un mio scritto, che riporto integralmente:
“oltre a documentare la presenza della storia sul terreno, sarebbe necessario spiegare […] la sensazione positiva che provoca nell’uomo contemporaneo l’essere immerso in un contesto che in qualsiasi modo riconosce come “storico”, a prescindere dalla certificazione scientifica di questo stato”. Mi sembra contraddittorio con la definizione del paesaggio come “percezione”. Se nella valutazione del paesaggio domina la sensazione, per quale ragione occorre documentarne le presenze storiche? E se tutti paesaggi sono storia, tutti i paesaggi di conseguenza dovrebbero suscitare sensazioni positive: belli o brutti, di eccellenza o degradati, significanti o amorfi”.
Con il fine di tentare di fare chiarezza su questo punto, che neppure a me è ben chiaro (come è ben evidente!). Da un lato, razionalmente, cerco di orientare il senso della mia disciplina verso una visione meno “per monadi” di quella che, per tradizione e per tipo di cultura, la disciplina stessa mi impone. Mi si chiede, allora, giustamente: “ma perché occorre documentare le singole presenze storiche?”. Semplice: perché è questo il mio mestiere e non posso rinnegarlo: quel tipo di ricerca mi fornisce le basi giuste per sviluppare qualsiasi tipo di ragionamento successivo; inoltre: perché esiste una Legge che ne impone la salvaguardia singola (diretta) e, in modo perfettibile, anche quella contestuale (indiretta). La posso contestare nei modi e nei termini ma la devo osservare e, anzi, oggi sono tenuto a farla osservare; per farlo non posso che documentare secondo tradizione, cioè punto per punto. Però: posso orientare la mia ricerca (e, perché no, provare a ri-orientare anche la Legge) nel tentativo di contribuire al progetto di un futuro che mi piaccia di più: lascio allora, irrazionalmente, lo stretto ambito disciplinare e provo a volgermi al paesaggio - che è qualcosa di più e di più complesso sia della ricostruzione storica di uno o più assetti territoriali antichi, sia della “percezione” di insider o outsider, del dettato di convenzioni e codici, delle “definizioni” di geografi, ecologi, giuristi, archeologi... Mi rendo allora conto che, malgrado le mie affermazioni di principio circa la storicità insita in tutti i paesaggi, ce ne sono alcuni - vi prego perdonatemi - più storici di altri. E, contemporaneamente: a) capisco la mia contraddizione, b) scorgo una diffusa condivisione di questa esperienza percettiva, c) intuisco che non dipende assolutamente dalla presenza di nuraghi, pievi, necropoli etrusche e villaggi medievali, d) soprattutto mi rendo conto che questa prospettiva è cambiata nel tempo e cambia, rapidissima anche se quasi inavvertibile, in continuazione. Oggi brutto domani bello, la storia, nel paesaggio, lavora con l’inganno: che “fascinosa bellezza” quella miniera abbandonata sulla riva del mare che, se progettata oggi, sarebbe considerata un eco-mostro; e che disastro ambientale l’organizzazione centuriale romana nel momento in cui veniva imposta ai paesaggi dei celti o dei nuargici. La cronodiversità, esattamente come la biodiversità, è garanzia di vita (culturale) sulla terra: occorre manutenerla ma non si può prevederne l’evoluzione, né istituirla ex novo, né bloccarla in una sua fase.
Vorrei in questa sede proporre una riflessione sul concetto di paesaggio traendo spunto da una mia recente esperienza. Questa è consistita nella partecipazione a un comitato di esperti nominati dalla giunta regionale della Sardegna al fine di fornire consulenza alla redazione del Piano Paesaggistico Regionale (d’ora in poi PPR, www.sardegnaterritorio.it/pianificazione/pianopaesaggistico).
Oggi si discute molto in Sardegna di piani e di identità paesaggistica. Anche pensando al paesaggio, l’identità, se è anche altro, non può non essere un progetto del futuro in rapporto col passato nel contesto del resto del mondo. Che lo si sappia o meno, è sempre così. Se le identità sono soggettivamente plurime, e lo sono sempre, può essere considerato urgente sviluppare il senso della comunità di tutti i sardi, il senso dell’appartenenza e dell'unità di passato e futuro che lega l'insieme dei sardi al di là delle proprie diversità interne. Questo affinché un nuovo patriottismo sardo (non etnicisticamente sostanzialista e fissista) diventi supporto e impegno a farci riscoprire il senso della cittadinanza, sarda italiana europea mediterranea e planetaria, ma anche il senso della legalità e dell’impegno civile, senza di che ogni pianificazione non può avere fondamento stabile e unitario. Un piano che si dice paesaggistico comporta prima di tutto promozione di attività in campo politico, sociale, culturale, economico, scientifico, artistico e così via.
Anche nel caso specifico della pianificazione paesaggistica, promuovere l’identità come rapporto e progetto deve significare promuovere, gestire e amministrare luoghi e occasioni d'incontro tra le diverse discipline scientifiche, tecnologiche e artistiche, favorendone lo studio complessivo, la diffusione e anche la formazione di professionalità specifiche oltre ad un’utilizzazione collettiva.
Identità e paesaggio sono nozioni tanto poco dicibili quanto molto efficaci e onnipresenti. Il concetto stesso di paesaggio, mutuato dalla Convenzione Europea del Paesaggio del 2000 e definito come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni…”, se ci ha fatto discutere, non è però by-passabile. Questa percezione delle popolazioni locali, che genera il loro paesaggio e ne fonda territorialmente l’identità, sembra ad alcuni troppo rispettosa di percezioni paesaggistiche non condividibili, le quali infatti anche in Sardegna producono i danni che tutti lamentiamo. Eppure il paesaggio deve pensarsi come un processo di percezione di un territorio, senza implicare che ogni percezione (e azione che ne consegua) sia positiva e rispettabile. Infatti ogni percezione è da considerare, e da tenere in conto, come forza in campo, senza di che si continuano a fare errori "centralistici" o "illuministici" o “dirigistici” (Gambino, Romani, Camporesi). Conoscere gli elementi della percezione comune del proprio paesaggio da parte di una popolazione, e le diversità interne di questa percezione, è condizione imprescindibile per la pianificazione, soprattutto quando di quelle percezioni si voglia sia utilizzare e sia mutare qualche aspetto. Tenere conto della percezione delle popolazioni è condizione politicamente neutra, preliminare a ogni piano. Ma non ci sono solo teste da cambiare in fatto di percezioni correnti sarde sul paesaggio, ci sono certo elementi del senso comune vecchio e nuovo in fatto di paesaggio che possono giocare un ruolo positivo anche in fase di pianificazione, per non fare la fine del Parco del Gennargentu. Non si può programmare un aggiornato senso comune sardo paesaggistico fingendo che nelle teste dei sardi di oggi ci sia tabula rasa di percezioni, gusti, abitudini e codici emotivi in fatto di paesaggio. Essi infatti pur se più o meno espliciti, anzi di solito molto impliciti e anche per ciò potenti ed efficienti, giocano un ruolo nel bene e nel male. I pianificatori devono almeno essere coscienti del fenomeno, se non anche attrezzati a riconoscerlo e ad affrontarlo, con la consapevolezza dello stato della Sardegna di oggi che guarda al suo futuro.
Per struttura geologica, associazioni florofaunistiche e segni della storia umana, la varietà frantuma il paesaggio sardo, vero mosaico geo-bio-antropico. Ma come il mosaico in figura, anche il paesaggio sardo è percepibile nella sua unità, fatta, per esempio, dalle presenze unificanti di orizzonti larghi e piatti (e forme arrotondate), dove è caratteristica la macchia mediterranea (con innovazioni come il ficodindia o l’eucalipto), o le lagune costiere con faune tipiche. E sono solo esempi di tratti unificanti. L’unità si deve anche ai segni della preistoria (come, per esempio, le migliaia di nuraghi in tutta l’isola), della storia (come le chiesette romaniche spesso solitarie), o ai modi della presenza umana, a lungo quasi nulla in buona parte delle coste, che ha stabilizzato ovunque un habitat accentrato e rado (con distinzione netta tra abitato e disabitato), dove dominano i segni della lunga durata delle due grandi attività della cerealicoltura e della pastorizia (Angioni e Sanna), con l’openfield ma anche coi muretti a secco, e gli effetti dell’azione dell’incendio estivo e del maestrale che piega tutto il piegabile a sud-est.
La Convenzione Europea del Paesaggio, salutata subito in tutta Europa come felicemente innovativa, definisce il paesaggio “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Credo che non ci sia antropologo culturale che non sia di questo parere, quando pensa al paesaggio o si sforza di definirlo (a me, a conferma, è venuta spesso in mente la pagina di Ernesto De Martino sul Campanile di Marcellinara), sebbene anche l’antropologo sia pronto a osservare che ritenere il paesaggio una percezione (soprattutto visiva) delle popolazioni non implica per forza il riconoscimento di un valore positivo. In ogni caso però, tale percezione sarebbe utilizzabile sì come valore positivo, ma comunque sempre da rilevare e analizzare. Infatti anche nel caso che una certa percezione del paesaggio sia ritenuta inadeguata, arretrata o comunque negativa vi si può intervenire, se non altro perché si può criticare e modificare meglio ciò che meglio si conosce, si documenta, si analizza. Sempre nella Convenzione di Firenze, l’antropologo non può non apprezzare il mettere insieme la nozione di paesaggio con quelle di processo e di dinamica, e quindi di progetto. L’urbanista, il territorialista, il naturalista non hanno, mi pare, difficoltà a pensare la processualità e la dinamicità nel paesaggio e nella sua percezione, quando si tratti di progettualità e pianificazione esplicita e programmatica. Più difficile è farsi prendere sul serio quando si tenti di mettere in evidenza che le dimensioni dinamiche e processuali del paesaggio, ma più in generale le dinamiche e i processi territoriali, hanno aspetti oscuri e impliciti che non sono meno importanti di quelli chiari ed espliciti e propri dei vari specialismi abituati giustamente a partire dalla rilevazione e dall’analisi per arrivare al progetto, al piano, alla norma, alla sua applicazione. Vanno affrontati, infatti, con forme e modalità diverse di costruzione della conoscenza. C’è anche qui un problema di "ricostruzione” del modo di conoscere il territorio, che è ancora tenacemente fondato sulla conoscenza analitica, e basato su percorsi lineari che conducono dall’analisi al progetto e che in un certo senso affidano a grandi apparati informativi il ruolo di sistema nervoso centrale della conoscenza territoriale.
La definizione di paesaggio della Convenzione Europea di Firenze viene riproposta nella sua sostanza nella legge 42/2004 o Codice Urbani (Trentini), e prenderla sul serio, in parola, spinge a chiedersi, com’è successo nel caso del PPR sardo, quando si parla di percezione del paesaggio a chi, a quali ceti o strati o classi delle popolazioni locali occorra prestare attenzione, e magari dare voce e credito. Riflettere sul paesaggio come percezione, latamente sensoriale e soprattutto visiva, posta subito a intendere che anche in piccole porzioni di territorio le percezioni sono tanto stratificate e differenziate almeno tanto quanto è stratificata socialmente e culturalmente la popolazione locale o comunque interessata a quel territorio. In effetti le comunità locali, soprattutto nelle coste, ma anche nei paesi dell’interno, attraverso i rappresentanti democraticamente eletti, in Sardegna molto spesso si sono fatte interpreti, “piuttosto che delle sensibilità profonde e dei valori del paesaggio storicamente configuratosi dall’integrazione tra uomo e ambiente, di gruppi ed interessi che nulla avevano a che fare con la tutela del paesaggio come bene ambientale di interesse strategico collettivo e sovra-comunale” (Relazione Tecnica, www.sardegnaterritorio.it/pianificazione/pianopaesaggistico).
Spesso si è fatto cenno ai potentati dell’economia turistica internazionale, che cercano di determinare la configurazione generale del paesaggio, e se è così, "non si comprende perché a ciò non debbano concorrere anche le istituzioni sovra-comunali e le istituzioni scientifiche che indagano sui processi degli ecosistemi e sulle conseguenze nella lunga durata degli interventi sul territorio". Concepire il paesaggio come percezione dei diretti interessati o comunque interessati a un territorio, lungi dal semplificare generalizzando, pone di fronte alla complessità dei problemi e richiede, operativamente non solo in quanto pianificatori, cercare di attingere una “integrazione delle percezioni dei vari soggetti ed una sintesi che recepisca l’interesse generale”, magari slegato dagli interessi contingenti di parte più o meno leciti. Intendere il paesaggio come percezione, dunque, a parte tutta la miriade di altre osservazioni, costringe a tenere conto dei ruoli di ognuno e di organizzare la partecipazione democratica ai processi di pianificazione paesaggistica, evitando il più possibile il prevalere casuale o di mero potere lobbistico, anch’essi legati e coerenti con interpretazioni soggettive del paesaggio e quindi anche a interessi sul territorio. La visione dinamica del paesaggio come percezione obbliga poi a una pianificazione in cui anche la fantasia visiva, applicata al futuro, previdente e quasi preveggente, abbia ruolo progettuale primario (Assunto, Cazzani, Ritter).
Giulio Angioni è ordinario di Antropologia Culturale all’Università di Cagliari, studioso della Sardegna, specialmente contadina e pastorale, e della storia degli studi antropologici: www.giulioangioni.net.
Le diverse origini semantiche di territorio e paesaggio
Paesaggio e territorio hanno una diversa semantica. La questione non ha solo un significato etimologico, ma assume un’importanza operativa nel momento che le politiche sul paesaggio sono sempre più rivolte ai cittadini come attori - ne fanno fede la Convenzione europea sul Paesaggio, ne sono prova i comitati che si mobilitano per difendere il loro paesaggio.
Ritorneremo su questo punto nelle conclusioni. Per ora ci basta accennare che il paesaggio nasce come presa di distanza dal “paese”, vale a dire come momento di contemplazione e riflessione sul territorio. Si deve, inoltre, aggiungere che sia territorio che paesaggio sono termini che si riferiscono a concetti, sono cioè paradigmi che servono ad estrarre da una realtà preintesa e non definita alcuni caratteri significativi rispetto alle intenzioni del soggetto; conseguentemente non esistono concetti univoci e consolidati, bensì relativi e variabili a seconda delle epoche, del senso comune, degli apparati disciplinari, della cultura e delle pratiche reali all’interno dei quali il termine viene concretamente definito.
Dal nostro punto di vista, cioè di pianificatori e progettisti che operano sul territorio è, inoltre cruciale quale concetto di paesaggio sia assunto negli apparati legislativi che tendono più che a sostituire un concetto con un altro ad operare una stratificazione dei diversi paradigmi, peraltro spesso non definiti e perciò con non pochi aspetti controversi se non addirittura contraddittori.
Tutto il territorio è (anche) paesaggio?
Vorrei iniziare questa riflessione a proposito dei rapporti tra i concetti di paesaggio e quelli di territorio – riflessione che è finalizzata ad evidenziare le conseguenze sul piano operativo dei diversi concetti utilizzati - con una domanda apparentemente banale: tutto il territorio è paesaggio? o sono “paesaggi” solo alcuni territori dotati di particolari caratteristiche e valori? Se rivolgete questa domanda agli esperti della disciplina paesaggistica nella stragrande maggioranza dei casi vi sarà risposto che ovviamente tutto il territorio è anche paesaggio e che non esistono solo paesaggi belli, ma anche paesaggi degradati o, più spesso, paesaggi della quotidianità - paesaggi che senza avere caratteri di particolare valore, tuttavia raccontano una loro storia e presentano una loro identità. Tuttavia la risposta non è così scontata se ancora negli anni ’80 del secolo scorso – in occasione del dibattito che fu aperto dalla approvazione della L 431/85 (la cosiddetta legge Galasso) che istituiva i piani paesistici (o piani urbanistico-territoriali con particolare considerazione dei valori paesistici-ambientali) – uno dei più autorevoli geografi italiani – Lucio Gambi – sosteneva che non tutto lo spazio è territorio e non tutto il territorio è paesaggio. Solo un territorio costruito con cognizione e coscienza dai propri abitanti, secondo Gambi, poteva essere definito come “paesaggio”. Gambi metteva in evidenza due fattori che, a sua avviso erano costituivi del concetto di paesaggio. Il primo è la sua costruzione sociale; il secondo è che questa costruzione sociale è avvenuta o avviene seguendo certe regole condivise che fanno sì che “un paesaggio” presenti una identità definita che si traduce anche in una riconoscibilità visiva.
A ben considerare questo paradigma di paesaggio è una versione storico-geografica del paesaggio inteso come territorio dotato di valore estetico e di testimonianze storico culturali – cioè il concetto di paesaggio che deriva dalla tradizione legislativa italiana, in una certa misura accolto nella legge 1497 del ’39 e che tutt’ora presiede alla individuazione dei cosiddetti “beni paesaggistici” e all’applicazione dei relativi vincoli.
La tendenza generalizzata dei pianificatori è – come si è accennato – di eliminare queste caratteristiche di valore dalla nozione di paesaggio e tuttavia questa posizione apre problemi rilevanti – sia sul piano concettuale sia sul piano operativo – problemi che in buona parte devono ancora essere risolti, a meno, ovviamente di elidere completamente il concetto di paesaggio in quello di territorio.
La definizione della Convenzione europea del paesaggio
L’importanza politica, la problematicità operativa
I concetti di paesaggio che attribuiscono questa “qualità (l’essere paesaggio) alla totalità del territorio e non soltanto ad alcune parti dotate di specifici valori trovano un fondamentale riferimento nel primo articolo della Convenzione europea del paesaggio siglata nel 2000, recepita con modifiche dal Codice dei beni culturali del paesaggio e da qui entrata nella legislazione regionale e nel PIT adottato. La Convenzione recita, infatti: " Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.
E’ evidente che la definizione implica che ciascuna parte del territorio è (anche) paesaggio dal momento che “un paesaggio” è “un territorio” così come è percepito dalle popolazioni. La definizione è indubbiamente importante da un punto di vista politico perché pone le “popolazioni” al centro della nozione di paesaggio, ma apre problemi spinosi dal punto di vista della pianificazione. In particolare occorre rispondere a tre domande:
a) come articolare il territorio in “determinate parti”?
b) cosa significa percepire un territorio (o se si preferisce un territorio percepito)?
c) quali popolazioni?
La prima e la terza domanda sono evidentemente collegate; la questione potrebbe essere risolta se il territorio fosse nella realtà attuale articolato in ambiti ciascuno dei quali riferito ad una specifica società locale, qualcosa di simile a quanto poteva essere osservato nel mondo preindustriale. Ma ai nostri giorni le articolazioni del territorio significative dal punto di vista dei caratteri paesaggistici e ambientali – ad esempio le unità di paesaggio con cui i piani provinciali, sia pure con criteri estremamente difformi articolano il territorio – non hanno alcuna relazione con specifiche società locali. Lo stesso concetto di società locale, intesa in senso comunitario, è contraddetto da stili di vita e comportamenti in cui il territorio viene vissuto come una rete fatta di relazioni e di nodi, piuttosto che di aree compatte. D’altra parte le circoscrizioni amministrative, in particolare i Comuni, che potrebbero essere considerati almeno in certi casi gli embrioni di nuove forme di socializzazione comunitaria hanno confini che quasi mai coincidono con delimitazioni paesaggistiche o ambientali significative. Non possiamo, quindi, nell’Italia contemporanea immaginarci una corrispondenza fra forme di organizzazione fisica del territorio e forme di organizzazione socio-culturale e probabilmente una stretta corrispondenza fra le due realtà non è mai esistita neanche nel passato se non in qualche particolare valle alpina o appenninica.
In altri termini, quali sono le “popolazioni” del Chianti, o della Val d’Orcia o della Versilia o della Lunigiana (faccio riferimento agli ambiti di paesaggio identificati dal Piano d’inquaramento territoriale della Toscana)? Sono solamente gli abitanti? O la gente che comunque ha un interesse (economico, culturale, affettivo) rispetto a questi territori?. Interessata ai destini delle colline di Fiesole o della Val d’Orcia o dei Monti del Chianti o delle coste toscane non è forse una popolazione assi più vasta, a volte una popolazione distribuita a livello mondiale? Perché dovremmo disinteressarci di un paesaggio in cui non abitiamo ma che amiamo e con cui sentiamo legami di appartenenza? Dobbiamo immaginarci un territorio in cui ognuno si sente padrone in casa propria come negli antichi municipi?
Infine, anche ammettendo che ogni popolazione decida rispetto allo specifico territorio in cui è insediata, dobbiamo ammettere che non vi è – salvo casi eccezionali – un’unica percezione del territorio stesso. Le percezioni non sono mai “ingenue” sono sempre mediate da apparati culturali e da interessi. Una ricerca sul Montalbano – un rilievo collinare montuoso ben definito da un punto di vista morfologico e con una sua identità storica - condotta recentemente ha dimostrato che gli abitanti hanno rispetto al paesaggio di questo territorio valori e d interessi diversi a seconda che siano coltivatori diretti, imprenditori agricoli, residenti stranieri, residenti pendolari e anche a seconda dell’età e della cultura all’interno di ciascun gruppo? Quale percezione deve prevalere? Quale è il paesaggio del Montalbano nel momento che si riconosce che il paesaggio non è un percezione immediata ma una costruzione culturale?
Lascio il compito di rispondere esaurientemente a queste domande ai sostenitori entusiasti della convenzione europea del paesaggio; qui mi limito ad osservare che i principi della Convenzione non possono essere applicati sic et simpliciter, ma hanno bisogno di un’elaborazione politica e culturale di non poco conto. Torniamo dunque al problema cui abbiamo accennato all’inizio di queste note, accettando dalla Convenzione europea in prime battuta l’idea che tutto il territorio sia paesaggio, senza affrontare per ora i nodi problematici aperti dalla definizione contenuta nel primo articolo dalla Convenzione stessa. Possiamo notare che nella legislazione italiana e specificatamente nel Codice dei beni culturali e del paesaggio siano presenti entrambe le nozioni. Il paesaggio come territorio dotato di particolare valore, nella normativa riguardante i beni paesaggistici e il paesaggio/territorio che si manifesta in tutte le possibili forme (dall’eccezionalità al degrado) negli articoli che riguardano la pianificazione paesaggistica. Qui si apre un’altra contraddizione sostanzialmente non risolta nel PIT toscano e che inevitabilmente ci riporta alla questione iniziale cioè alla distinzione fra i concetti di territorio e paesaggio. Distinzione che negli anni ’60-’70 del secolo scorso era stata risolta assorbendo completamente la nozione di paesaggio in quello del territorio (il paesaggio da molti urbanisti veniva addirittura considerato una frivolezza borghese) ma che viene riproposta in modo esplicito ed ineludibile dalla normativa vigente quando recita che:
"Lo Stato e le regioni assicurano che il paesaggio sia adeguatamente conosciuto, tutelato e valorizzato. A tale fine le regioni, anche in collaborazione con lo Stato, nelle forme previste dall'articolo 143, sottopongono a specifica normativa d'uso il territorio, approvando piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l'intero territorio regionale, entrambi di seguito denominati "piani paesaggistici".
I piani paesaggistici, in base alle caratteristiche naturali e storiche, individuano ambiti definiti in relazione alla tipologia, rilevanza e integrità dei valori paesaggistici.
"Al fine di tutelare e migliorare la qualità del paesaggio, i piani paesaggistici definiscono per ciascun ambito specifiche prescrizioni e previsioni ordinate"
(Art. 135 del Codice)
Il Codice sottolinea in più punti la specificità della disciplina paesaggistica rispetto a quella urbanistica e territoriale. Questa indicazione fondamentale non incontra problemi quando si riferisce a parti altrettanto specifiche del territorio, come i “beni paesistici” o le aree vincolate ex lege dell’art. 142. Le difficoltà e i problemi nascono quando il piano paesaggistico interseca e si sovrappone alla “normale” pianificazione territoriale, come nella definizione degli ambiti paesaggistici (che coprono tutto il territorio) per cui il decreto prescrive che siano individuate “...le linee di sviluppo urbanistico ed edilizio compatibili con i diversi livelli di valore riconosciuti e con il principio del minor consumo del territorio, e comunque tali da non diminuire il pregio paesaggistico di ciascun ambito, con particolare attenzione alla salvaguardia dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell'UNESCO e delle aree agricole”.
Riassumendo: sembra che il Codice preveda una doppia disciplina paesaggistica. Una riservata ai beni e alle aree di particolare valore culturale o ambientale e una a tutto il territorio. Ed è questa seconda tipologia di disciplina che incontra notevoli difficoltà nella sua traduzione in termini di piano perché la distinzione fra paesaggio e territorio e quindi di ciò che è soggetto all’una o l’altra disciplina è quanto mai problematica.
Ricapitolando i termini del problema. All’art. 136 del Codice si dice che:
1. Ai fini del presente codice per paesaggio si intendono parti di territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni;
2. La tutela e la valorizzazione del paesaggio salvaguardano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili.
Inoltre, riassumendo altri articoli del codice stesso:
3. La disciplina paesaggistica riguarda l’intero territorio ed è specifica;
4. La disciplina paesaggistica è sovraordinata e cogente rispetto alla normale pianificazione urbanistica e settoriale.
Dunque sembrerebbe che la “traduzione” della Convenzione europea nel Codice possa essere la seguente. “ Paesaggio” sono i valori del territorio espressi come manifestazioni identitarie percepibili (da chi?). da cui segue che: La pianificazione paesaggistica è specifica anche se integrata con la normale pianificazione territoriale ed è volta alla tutela e valorizzazione di quei valori del territorio che sono percepiti come identitari (da parte delle popolazioni)".
La disciplina paesaggistica nel PIT della Regione Toscana
Vediamo ora come il Piano di Indirizzo Territoriale adottato tratta la disciplina paesaggistica. Impresa non semplice perché questa, anche se ha il suo cuore nello Statuto del PIT (la disciplina del PIT) è tuttavia distribuita in varie parti del piano:
Nello Statuto del territorio, la disciplina (specifica) paesaggistica è distribuita in modo ineguale nelle diverse invarianti e irregolarmente all’interno di ciascuna invariante. E’ praticamente assente nella prima invariante “ la città policentrica toscana”, del tutto assente nelle invarianti “ la presenza industriale” e “ le infrastrutture di interesse unitario regionale”, scarsamente presente nell’invariante “ il patrimonio costiero”, mentre appare ripetutamente nell’invariante “ il patrimonio collinare”. Va da sé che l’invariante “ I beni paesaggistici di interesse unitario regionale” si occupi di paesaggio nel senso di oggetti o aree dotati di un particolare valore, cioè nell’accezione restrittiva della nozione di paesaggio cui abbiamo fatto cenno all’inizio di queste note.
Non voglio in questa sede operare una disamina puntuale degli articoli e di commi dello Statuto che hanno un riferimento in qualche modo al paesaggio. In sintesi possono essere avanzate le seguenti notazioni.
A) Nonostante l’affermazione di principio che tutto il territorio è anche paesaggio, sembra che questa qualità sia riservata quasi esclusivamente al territorio collinare, mentre è assente nelle altre parti del territorio regionale e soprattutto nel territorio urbanizzato.
B) La tutela del paesaggio è quasi integralmente espressa come raccomandazioni ed indirizzi ai piani provinciali e comunali. Vale a dire che a livello regionale non vi è alcuna norma immediatamente prescrittiva, se si fa eccezione di un comma che riguarda il “ patrimonio collinare”che a seguito delle osservazioni presentate è stata estesa anche al patrimonio costiero:
- Il comma 8 dell’art 21 che recita: “ Nelle more degli adempimenti comunali recanti l’adozione di una disciplina diretta ad impedire usi impropri o contrari al valore identitario di cui al comma 2 dell’art. 20, sono da consentire, fatte salve ulteriori limitazioni stabilite dagli strumenti della pianificazione territoriale o dagli atti del governo del territorio, solo interventi di manutenzione, restauro e risanamento conservativo, nonché di ristrutturazione edilizia senza cambiamento di destinazione d’uso, né eccessiva parcellizzazione delle unità immobiliari”.
Tuttavia il valore prescrittivo della norma (che suona come una disposizione di salvaguardia) è condizionato dall’individuazione, ancorché provvisoria, dell’ambito in cui si applica (cioè dei confini del “ patrimonio collinare”), mentre sembra che una simile definizione non sia prevista nel PIT.
C) Le direttive e gli indirizzi contenuti nello Statuto sono genericamente rivolti alla tutela di valori paesaggistici (a volte definiti come identitari), ma quasi mai individuano con precisione questi valori. Un’eccezione è costituita dall’art 22 dove sono individuate alcune risorse del patrimonio collinare aventi valore paesaggistico. Tuttavia la norma si limita ad impegnare la Regione, le Province e i Comuni ad una corretta gestione di tali risorse.
D) La tutela del patrimonio collinare (continuiamo a riferirci a questa invariante strutturale, perché è l’unica che con i limiti già accennati appaia una disciplina specificatamente paesaggistica) si basa quasi esclusivamente su valutazioni ex-post dei progetti di trasformazione sulla base di criteri peraltro ambigui e facilmente eludibili, ad esempio:
a) la verifica pregiudiziale della funzionalità strategica degli interventi sotto i profili paesistico, ambientale, culturale, economico e sociale e – preventivamente – mediante l’accertamento della soddisfazione contestuale dei requisiti di cui alla lettere successive del presente comma;
b) la verifica dell’efficacia di lungo periodo degli interventi proposti sia per gli effetti innovativi e conservativi che con essi si intendono produrre e armonizzare e sia per gli effetti che si intendono evitare in conseguenza o in relazione all’attivazione dei medesimi interventi;
c) la verifica concernente la congruità funzionale degli interventi medesimi alle finalità contemplate nella formulazione e nella argomentazione dei “metaobiettivi” di cui ai paragrafi 6.3.1 e 6.3.2 del Documento di Piano del presente Pit.
d) la verifica relativa alla coerenza delle finalità degli argomenti e degli obiettivi di cui si avvale la formulazione propositiva di detti interventi per motivare la loro attivazione, rispetto alle finalità, agli argomenti e agli obiettivi che i sistemi funzionali - come definiti nel paragrafo 7 del Documento di Piano del presente Pit - adottano per motivare le strategie di quest’ultimo.”
In sostanza, lo statuto del PIT assegna ai Comuni il compito di verificare la congruità degli interventi che loro stessi propongono rispetto alla loro “funzionalità strategica”, agli “effetti innovativi e conservativi”, all’“efficacia di lungo periodo” alla “congruità funzionale”, e ad altri requisiti ancora più indecifrabili. E’ difficile immaginare che un Comune dichiari una propria previsione – magari lungamente contrattata - come non strategica, non innovativa, non funzionale e non efficace nel lungo periodo e che “le finalità degli argomenti e degli obiettivi di cui si avvale la formulazione propositiva dell’intervento non sia coerente con le finalità degli argomenti e degli obiettivi adottati dai sistemi funzionali del PIT”, il tutto dopo una verifica condotta e certificata magari dagli stessi estensori del piano.
Generalizzando l’esempio emerge l’idea che sta alla base di tutto il PIT. Il PIT non prescrive che le trasformazioni del territorio debbano corrispondere a regole statutarie - le regole con cui questi territori sono stati costruiti nel corso della storia e che definiscono a tutt’oggi la loro sostenibilità e la loro identità (ad esempio: nei territori collinari gli insediamenti devono porsi sulle dorsali e mai sulle pendici dei versanti; devono essere aderenti agli insediamenti esistenti e non creare nuovi poli di urbanizzazione; non devono utilizzare il tipo insediativo della lottizzazione); l’idea del PIT è, invece, che tutto si possa fare sulla base di verifiche rispetto a criteri estremamente vaghi se non fumosi, verifiche svolte a posteriori da parte degli stessi Comuni proponenti.
Impossibile un esame dettagliato della disciplina paesaggistica contenuta nel PIT e distribuita, come è stato notato - in una molteplicità di documenti. Tuttavia, in questo quadro complicato è doveroso proporre un esame, ancorché sintetico, delle descrizioni e direttive contenute nelle schede riferite agli ambiti paesaggistici e ai relativi obiettivi di qualità, componenti fondamentali del piano paesaggistico secondo il Codice.
Il territorio regionale è articolato i 38 ambiti paesaggistici. Per ogni ambito è stata preparata una scheda organizzata come una griglia in cui le diverse componenti territoriali (insediamenti e infrastrutture, territorio rurale, geologia, idrografia, ecc.) sono incrociate con i caratteri strutturali ed ordinari del territorio e con i valori relativi alla loro qualità ambientale, storico-culturale ed estetico-percettiva. Infine ogni scheda contiene, sempre per le stesse componenti, l’individuazione delle “relazioni strutturali e delle tendenze in atto” e degli obiettivi di qualità paesaggistica.
Il contenuto delle schede è abbastanza vario, perché si tratta di un tentativo di sistematizzazione di quanto poteva essere ricavato dai documenti esistenti in particolare dai PTC che sono estremamente diversificati sia per quanto riguarda l’approfondimento dei quadri conoscitivi, sia per quanto riguarda l’incisività e l’efficacia della normativa. In ogni caso è apprezzabile l’inquadramento metodologico delle schede che cerca di introdurre elementi di chiarezza concettuale in un panorama obiettivamente complicato.
Quanto agli obiettivi di qualità alcuni hanno un carattere specificatamente paesaggistico, altri riguardano politiche di natura economica e funzionale tuttavia in qualche modo legate agli obiettivi precedenti. Le schede sono chiaramente disomogenee, soprattutto per quanto riguarda l’identificazione dei “valori”, che in larga parte sono desunti dai decreti relativi ai vincoli paesaggistici esistenti. Sono evidentemente incomplete nell’identificazione delle relazioni strutturali e tuttavia possono essere prese come base di una disciplina paesaggistica, come elementi di uno statuto in cui la distinzione concettuale fra territorio e paesaggio possa produrre risultati positivi piuttosto che confusione e sostanziale inefficacia.
Inutile aggiungere, data l’impostazione generale del PIT che le schede rimandano alle Province e ai Comuni una loro traduzione operativa.
Conclusioni
Accettando in linea di principio la nozione di paesaggio contenuta nella Convenzione del paesaggio e recepita (sia pure in modo contraddittorio) nel Codice, vale a dire che si intenda per “paesaggio” i valori identitari del territorio, così come sono percepiti ed elaborati culturalmente dalle popolazioni comunque interessate (il cui nucleo è evidentemente costituito dagli abitanti), una disciplina specificatamente paesaggistica non può che basarsi sul riconoscimento di questi valori identitari. Tuttavia - sono sicuro che questa mia affermazione susciterà la contrarietà di alcuni esperti di paesaggio (mi auguro non di tutti) - la relazione fra paesaggio e popolazioni non può avere una natura meramente fenomenologica e riferita al presente.
Vi è una curiosa contraddizione fra il concetto di paesaggio come “eredità culturale e memoria” da tutelare e rinnovare e l’idea che chi abita qui e ora il nostro pianeta debba decidere cosa sia da considerare risorsa e cosa sia da buttare. Occorre quindi, quando si tratta di paesaggio, cioè di valori identitari del territorio, abbandonare il concetto di “risorsa” a favore del concetto di “patrimonio”. Il paesaggio perciò dovrebbe essere concettualizzato come patrimonio territoriale, cioè come un sistema costituito da strutture di lunga durata e delle regole inerenti la loro conservazione e trasformazione. Nella definizione di queste strutture e regole hanno voce le popolazioni attuali, ma anche quelle del passato, cioè coloro che le hanno faticosamente costruite e gestite, lasciandole a noi come eredità, e le popolazioni future, cioè quelle cui si riferiscono i concetti di sostenibilità. Definire lo statuto del territorio significa perciò individuare le strutture e le regole che formano il patrimonio territoriale che intendiamo trasmettere alle generazioni future, non come eredità immodificabile, ma come una combinazione di invarianti, cioè elementi da conservare nei loro caratteri costitutivi e di regole che devono presiedere alla loro trasformazione, regole che sono iscritte in parte nel loro codice genetico e in parte devono essere scritte di nuovo per rispondere ai problemi posti dall’innovazione tecnologica, dalla competizione, dal mercato.
Il territorio è quindi “un tutto” un sistema complesso, da cui i diversi punti di vista - ambientale, funzionale, paesaggistico - estraggono alcuni elementi e alcune relazioni come significative rispetto a specifiche intenzioni pragmatiche e anche semplicemente culturali e contemplative. Perciò il punto di vista ambientale legge il territorio come sistema di ecosistemi. Il punto di vista funzionale come complesso di risorse con le loro performances; il punto di vista del paesaggio legge il territorio – per ripetere le parole con cui Gian Franco di Pietro introduce il Piano territoriale di coordinamento di Arezzo - come “ l’unica impalcatura (territoriale) che sussiste... il luogo riconoscibile, la dimora, la grande casa comune, la dove si torna e si riconosce, la fonte del senso di appartenenza”.
Questa frase che a me sembra particolarmente felice sintetizza alcune qualità specifiche del concetto di paesaggio che finora abbiamo cercato di spiegare. La profondità storica, la strutturalità, l’essere fonte del senso di identità e di appartenenza. Senso di identità e di appartenenza che in certi casi sono dati, dove le trasformazioni della società locale hanno avuto una certa sedimentazione e in altri deve essere costruito. Lo statuto del territorio – come piano paesaggistico – articolato in diversi livelli strutturali che possono accordarsi con diversi livelli istituzionali - è una grande occasione per rendere attuali le identità storiche e per costruire nuovo senso di appartenenza.
In eddyburg:
- il testo e alcune riflessioni sulla convenzione europea del paesaggio sono contenute nella cartella BBCC, paesaggio, ambiente;
- critiche e commenti relativi al nuovo PIT della Regione Toscana sono raccolte nella cartella dedicata alla vicenda di Monticchiello.
Il debutto
In Sardegna, ancora fino a mezzo secolo fa, le strade che portano al mare sono quelle di sempre, pochi tratturi percorribili con disagio pure dai pastori.
I sardi non hanno abitato volentieri in prossimità dei litorali. Il mare ha portato invasori e malattie e nel tempo non ci sono stati motivi in grado di convincere la popolazione a insediarsi nei pressi dei litorali, verso i quali i pregiudizi hanno resistito a lungo. Poi, quando il mare non è più un pericolo, ha prevalso un sentimento di sostanziale disinteresse nei confronti di spiagge e scogliere. Dove, ancora al tempo di “Sapore di sale”, non succede quasi nulla, e nessuno crede che un giorno quei luoghi selvaggi saranno usati per redditizi investimenti immobiliari. I viaggiatori più attenti, che giungono in Sardegna nei primi decenni del Novecento, osservano con stupore come le risorse dell’ isola non siano state ancora sfruttate in chiave turistica, nonostante gli esempi della Sicilia. e della Corsica. Così c’è chi pensa, come lo studioso Maurice Le Lannou, che quei paesaggi, così lontani dal Continente, resteranno ancora per molto tempo fuori dai circuiti, “le sue strade sconosciute alle lunghe file di pullman zeppi di gente”.
Nessuno all’epoca coglie appieno il senso di queste considerazioni. Di turismo si parla con disincanto, e i sardi che scrivono dell’isola, per spiegarla agli istranzos, dimenticano di dare informazioni sugli ambienti costieri, molti dei quali sono sconosciuti anche alle comunità locali, almeno a quelle che abitano nei paesi dell’interno. Ma il turismo arriva a un certo punto anche in Sardegna, d'improvviso. E trova impreparata la sua classe dirigente, che appena intravista questa prospettiva, si prodiga per agevolarla senza incertezze e senza precauzioni. Da tempo si auspica che l’isola muova velocemente i suoi passi nella competizione per lo sviluppo del Mezzogiorno. La grande povertà dei sardi è la condizione sempre evocata nei discorsi politici, presupposto di patti, non sempre nell’ interesse comune, da contrarre per combattere la disoccupazione. Si pensa di promuoverla la Sardegna ed escono i libri in bianco e nero a cura della Regione, che celano la precarietà degli insediamenti, timbrati per il passaggio dei disinfestatori e le insufficienze infrastrutturali, mitigano i dati sull'emigrazione, offrono versioni pittoresche del banditismo.
Nel frattempo Pasquangela Crasta malediceva la famiglia per via dell'usanza che nelle divisioni patrimoniali vedeva penalizzate le femmine, alle quali andavano di solito le terre vicine al mare. E odiato i fratelli, fortunati eredi delle vigne esauste di cannonau e dei pascoli di collina.
Cortigiani e turisti
Anita Ekberg si bagna nella vasca di fontana di Trevi, e non nelle acque di Gallura, quando il giovane Aga Khan è arrivato in Sardegna. Si diffonde in fretta il mito del principe benefattore, che può contare sulla presenza a Porto Cervo di esponenti delle casate nobiliari ( da Margaret d’Inghilterra ai coniugi di Liegi), dei veri ricchi ( mister Miller della Banca mondiale), di attrici del calibro di Ingrid Bergman, tutti suoi ospiti.
Le coste isolane, sono pronte per entrare nel giro delle cose da vendere. La politica decide di fare conto sulla grande intrapresa turistica, per poli di sviluppo E non si fa granché per fare crescere le iniziative a conduzione familiare, per suscitare lo sviluppo dal basso, come diciamo oggi ( il gruppo di Rovelli – la Sir – sta già provvedendo alle prime assunzioni a Porto Torres, alimentando il sogno infranto della chimica).
Le notizie sui movimenti in corso arrivano a speculatori e faccendieri che intuiscono di poter contare a lungo sull’onda della reclame. I costi delle aree sono bassi e ce n’è per tutti. Per contro è debole la volontà di governare il territorio, come se la politica avesse deciso di stare a guardare, compiaciuta, la calca attorno alla mercanzia. Così chiunque venga in Sardegna per fare affari, ha buon gioco: i timbri per sancire la legittimità di progetti di qualunque foggia, si ottengono in fretta.
Così ognuno presenta i suoi conti. Nei primi anni Settanta “Costa Smeralda” progetta la sua crescita (370.000 vani), mettendo in secondo piano l’attività ricettività. Una circostanza che non emerge; e prende forza l’idea secondo cui il tornaconto del turismo è proporzionale alle case edificate, e mai è evidenziata adeguatamente la grande, sostanziale differenza, tra palazzinari e albergatori o pizzaioli.
I comuni e la Regione stanno al gioco e rilanciano. La previsione di crescita, pari a oltre settanta milioni di metri cubi darealizzare un po’ dappertutto, è una quantità abnorme che comincia a preoccupare le persone di buo senso. D’altra parte i segni della frenetica attività edilizia di quegli anni sono evidenti un po’ dappertutto. Si riconosce nei paesaggi alterati, in alcune marine brutalmente cancellate, il procedere rapido e sciatto di chi ha sfruttato la congiuntura favorevole. Il trattamento iniquo toccato a Pasquangela Crasta si è volto nel frattempo a vantaggio. I figli hanno venduto le terre poco buone battute dal vento salmastro per un bel po’ di soldi. Il villaggio realizzato nei luoghi detestati, fronte mare, è frequentato dai divi della televisione, e a Pasquangela viene ogni tanto il sospetto che gli istranzos abbiano fatto un ottimo affare.
Resistenze alle riforme
Negli anni Ottanta. “Costa Smeralda” non è più il giocattolo del principe. E’ un'agguerrita impresa che tratta alla pari con le istituzioni, nello sfondo il dibattito per l’approvazione della legge urbanistica regionale e dei primi Piani paesistici. L' iter si conclude nel 1993 tra polemiche e ambiguità. Sono fissati i principi di tutela erga omnes ma si offrono i presupposti per derogare sui casi che contano. “Costa Smeralda” che influisce molto sul processo di formazione delle decisioni della Regione insieme al progetto di “Costa Turchese” della famiglia Berlusconi, sempre in Gallura.
Le altre imprese fanno il tifo, confidando nell’effetto domino. Si spera di bucare il sistema delle regole attraverso qualche accordo in deroga con le parti pubbliche. Mediante un procedimento impudentemente fondato sull’eccezione: difficile da realizzare, nonostante la linea di alcuni soggetti in causa che confina con la subordinazione agli interessi privati. La partita si trascina negli ultimi dieci anni con vari tentativi di accordo. L’obiettivo è la rivalsa nei confronti di una stagione di riforme – specie il vincolo di inedificabilità nella fascia dei 300 metri dal mare – con il proposito di eliminarle.
Ma la strumentazione, pure lacunosa, è più stabile di quanto non appaia. E saranno proprio i gravi difetti – denunciati da un’ associazione ambientalista – a persuadere i giudici della necessità di invalidare i Piani paesistici. Con la conseguenza di un vuoto dilazionato pericolosamente ( e consapevolmente). Trascorrono quasi due legislature – maggioranza di centrosinistra prima, poi di centrodestra – senza che si avvii il processo per ripristinare la legalità. Un vantaggio di cui si giovano in molti, com’ è ovvio, senza che si sappia garnchè di una fase oscura nella storia della Regione.
Gli anni recenti
Soru ha esposto le sue idee nel 2004 e i più allenati al linguaggio della politica hanno tra l'altro colto l’alto livello dello sdegno per il malgoverno dei territori costieri. Mettere un freno all’aggressione a quei paesaggi è l'obiettivo dichiarato. Punto in evidenza nel programma del centrosinistra, molto esitante al riguardo, che poi ha vinto le elezioni, com’ è noto.
C’è chi ha auspicato la inconcludenza di sempre – tra ritardi e conflitti – mentre il malcontento è attizzato, sindaci di destra in prima linea, qualcuno di sinistra nelle retrovie. Ma il Piano è stato approvato. Uno strumento dichiaratamente intransigente. Un passo rilevante, una svolta per la tutela del paesaggio sardo, con riconoscimenti importanti nei confronti del modello, che mette la Sardegna all’avanguardia tra le regioni italiane, la prima a cimentarsi con il Codice Urbani.
Il paesaggio, bene comune, è al centro del progetto e le trasformazioni ammesse sono pochissime, mai per fare case da vendere. I territori che non hanno subito modifiche saranno conservati. Si vuole dare la certezza di ritrovarla integra quella spiaggia, quella scogliera, quella campagna: ai sardi prima che ai turisti. Sono previsti progetti estesi di riordino urbanistico per rimediare a forme di degrado. L'idea di fondo è quella di valorizzare e potenziare gli insediamenti esistenti, soprattutto quelli abitati tutto l'anno, in grado con pochi accorgimenti, di dare ospitalità meglio dei finti villaggi frontemare. Ai quali fa pericolosamente da controcanto lo spopolamento progressivo dei paesi dell’interno: il più cupo degli squilibri, con prevedibili effetti nel territorio e nel corpo sociale.
Circola la domanda riguardo al reale consenso sul progetto, posta proprio per via dell'intransigenza senza eccezioni ( protestano i proprietari di piccoli appezzamenti in agro che vedono nelle opportune limitazioni la negazione di un diritto atavico). Nello sfondo i mugugni sui rapporti tra i poteri, dato che il presidente esercita il suo limitando mediazioni pur di attuare il programma. E ancora: ci si chiede com’è che il Piano, avversato con forza dai tifosi del neoliberismo, non susciti passioni nella sinistra sarda.
Vedremo nei prossimi mesi il grado di consenso attorno al progetto anche alla luce delle modalità attraverso cui i comuni costruiranno le loro proposte di pianificazione e dalle quali potranno venire idee per migliorare il Piano paesaggistico. Molto dipende da come le forze politiche si atteggeranno ( i detrattori sono al lavoro, molte le cause al Tar di imprese e comuni di destra). L’auspicio è quello di consegnare alle generazioni future un'isola bellissima che non può consentirsi altri sprechi.
I nipoti di Pasquangela sono quasi tutti disoccupati o camerieri per un mese.
Per chi vuole approfondire, ampio materiale disponibile nella cartella SOS Sardegna
In calce, i pdf scaricabili della traiettoria
LA STRADA
Fiumefreddo Bruzio è un piccolo paese in provincia di Cosenza, abbarbicato su una rupe del monte Cocuzzo, che, oltre ad avere un bel centro storico molto ben tenuto, ha una terrazza panoramica, da cui è possibile apprezzare la vista verso la costa. Il turista che si accinge a fotografare il suggestivo panorama probabilmente resterà deluso, trovandosi di fronte una fascia, più o meno ampia, stretta tra mare e montagna, in mezzo alla quale strada e ferrovia gli appariranno forse come gli unici elementi ordinatori nel più totale caos edilizio.
Quella strada è la statale 18, la Tirrenica Inferiore, la prima Salerno-Reggio Calabria del ’900. Anche se alcuni tratti erano preesistenti, la strada venne interamente costruita negli anni ’30, quando in pieno fascismo si procedette al riordino stradale di tutto il paese. Fino ad allora l’unica vera via d’accesso alla Calabria era la cosiddetta Strada delle Calabrie, un tracciato ottocentesco che, seguendo la romana via Popilia, partiva da Capua, si inerpicava sul Pollino, attraversava Cosenza e l’entroterra e raggiungeva Pizzo Calabro, per poi proseguire fino a Reggio lungo la costa. Questa strada oggi esiste ancora come SS19 ed è stato il tracciato ricalcato, per volere di Giacomo Mancini, dall’A3 negli anni ’70; contemporaneamente ai lavori dell’autostrada, anche la statale 18 fu modificata, con parziali ampliamenti e cambiamenti nel tracciato.
A ben vedere, quella fascia che da Fiumefreddo sembrava così continua e omogenea è al suo interno variamente articolata e il nostro turista potrà ben rendersene conto dal basso, percorrendola in macchina e apprezzando quel caos spesso informe da una prospettiva diversa. In un’ora e mezza circa di macchina, da Paola, la città di San Francesco, a Pizzo Calabro, la città del gelato, vedrà come quel caos assume diverse configurazioni, tutte originate, però, dal fatto di trovarsi su una stessa strada.
Si parte da Paola, in provincia di Cosenza, si percorre un tracciato a mezza costa che lambisce molti piccoli comuni (S.Lucido, Torremezzo, Falconara Albanese, Fiumefreddo, Longobardi, Belmonte) fino ad arrivare ad Amantea, uno dei centri più popolati; da qui si prosegue nella provincia di Catanzaro, attraversando Nocera, Falerna, Gizzeria, tutte frazioni marine dei rispettivi paesi collinari; si attraversa per qualche chilometro la parte costiera del comune di Lamezia Terme, il più grande di tutto il percorso, e di altri piccoli comuni (Maida, Curinga, Francavilla), per arrivare infine nel territorio della provincia di Vibo Valentia, con l’ultimo comune di Pizzo Calabro.
Questi 80 km circa possono essere letti in base ad alcuni elementi, quali la delimitazione della strada, le modalità di accesso, gli allineamenti, la densità edilizia, la presenza di spazi pedonali definiti, il tipo di incroci, quantità e qualità del mix funzionale; l’insieme di questi elementi ci permette di riconoscere una certa varietà di paesaggi. La diversità individuata trova spesso una conferma in quella che è la storia del territorio e la politica regionale e provinciale, ma mantiene sempre un minimo comune denominatore: la costante presenza dell’edificato, a carattere prevalentemente residenziale.
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IL VIAGGIO
Il basso tirreno cosentino da Paola ad Amantea (km 317-340)
Il nostro viaggio inzia a Paola, all’incrocio con la statale 107, proveniente da Cosenza; siamo più o meno equidistanti dai due capi della SS18, a 250 km da Salerno e a 217 da Reggio Calabria. Ci troviamo a mezza costa, ad una quota molto più alta rispetto al mare; la statale qui è l’unica via di comunicazione, dato che l’A3 è ancora all’altezza di Cosenza. I lati della strada sono disseminati di “casette”, generalmente articolate secondo lo schema commercio/bottega + appartamento genitori + 1 o più appartamenti per i figli, e di qualche albergo-ristorante: piccoli saggi di sprawl. Va avanti così per diversi km: gli edifici ora si addensano, ora si diradano, in relazione alla vicinanza con i centri abitati lambiti, ma mai attraversati. Si tratta per lo più di piccoli e piccolissimi centri: con l’eccezione di Paola e Amantea che si attestano rispettivamente sui 17.000 e sui 13.000 abitanti, non superano i 5.000 abitanti.
Hanno tutti, però una caratteristica comune: il centro storico si trova sulla costa e spesso il lungomare è parte integrante del paese; originariamente, infatti, non erano attraversati dalla statale, che passava ad una quota più alta. Con la modifica del tracciato degli anni ’70 la crescita edilizia si è poi orientata verso la statale che è rimasta così una strada periferica rispetto al centro.
In questo tratto, dunque, la SS18 è una vera e propria strada extraurbana, delimitata da guard-rail, lungo la quale gli edifici si allineano solo in prossimità dei centri abitati. Ai paesi si accede mediante semplici incroci a raso, localizzati in genere in corrispondenza delle originarie strade di crinale. In molti casi sono semplicemente le insegne, più o meno vistose, a suggerirci la nostra localizzazione.
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Il paese-nastro: Amantea e Campora (km 340-351)
A darci il benvenuto nel comune di Amantea, oltre al consueto cartello, troviamo anche un semaforo. Nulla di straordinario, se non fosse che, allo scatto del verde, entriamo in un tratto di statale molto diverso dal precedente; a meno di cento metri dal semaforo un marciapiede, un portico e fronti perfettamente allineati; ancora qualche centinaia di metri e un altro semaforo ci introduce in una vera e propria via cittadina.
Amantea, come i piccoli centri già incontrati, vive soprattutto d’estate, ma non solo; si tratta di zone stabilmente abitate, dove si trovano scuole, uffici, e servizi di vario genere. Proseguendo, troviamo alcuni elementi “canonici” delle strade urbane: il commercio ai piani terra, edifici che arrivano anche a 5 piani, un mix funzionale “a grana fine”, spazi pedonali ben definiti, parcheggi a bordo strada. L’espansione verso la costa qui è cosa recente. Si tratta dello stesso fenomeno già osservato nel tratto precedente – la crescita edilizia da un centro esistente verso la statale – con la differenza che qui il centro storico è in collina e non sul mare.
Dopo circa 4 km, la via cittadina ritorna ad essere strada extraurbana; gli edifici a bordo strada ci sono ancora, ma sono “sparsi” qua e là, senza un ordine preciso. Prima di arrivare alla galleria di Coreca, uno dei pochi punti paesaggisticamente interessanti di tutto il percorso, notiamo che verso l’interno, sulla collina, sta succedendo qualcosa; strade in mezzo al vuoto e, in alto, una nuova serie di villette. E’ qui che la città ha deciso di espandersi e le opere di urbanizzazione sono già pronte.
Attraversata la galleria ci si trova nella zona di Campora S.Giovanni; una fascia non più larga di 150 m, stretta tra la montagna da un lato e la ferrovia e il mare dall’altra, si snoda fino al km 351. Qui, sulla sinistra, perpendicolare alla statale, si apre il “corso” di Campora, lungo il quale si densifica l’edificato. Questa fascia oggi è interamente costruita: l’edilizia prevalente è sempre la stessa – edificio con più appartamenti per la stessa famiglia con commercio e/o spazio lavoro al piano terra – ed è corredata di spazi esterni che diventano nel migliore dei casi piccoli orticelli privati; è assente, però, quell’ordine “cittadino” riscontrato ad Amantea. Il tipo di edifici e la grande varietà di stili ci suggerisce che la crescita edilizia è avvenuta nel tempo per singole aggiunte, a seconda delle dimensioni dei lotti di proprietà e secondo il proprio gusto personale.
Amantea e Campora ricadono nello stesso confine amministrativo; a separare i due “centri” una fascia lunga meno di 10 km. Quelle nuove urbanizzazioni prima della galleria di Coreca, dunque, sono una presa d’atto della pianificazione comunale di una saldatura edilizia che lenta e inesorabile è avvenuta negli ultimi trent’anni, legalmente e abusivamente. Per questa ragione possiamo sicuramente parlare di un paese-nastro: un’unica entità amministrativa, in cui due centri hanno polarizzato la crescita edilizia. Se e quanto questa crescita sia stata controllata non è ancora ben chiaro; certo è che questa fascia oggi appare come uno spazio “ibrido”, simile ad una strada extraurbana nella forma, ma dove le pratiche d’uso sono simili a quelle di una qualunque strada cittadina.
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Da Campora a Nocera (km 351 – 357)
Un tratto breve ma interessante quello che inizia al km 351, dopo il semaforo che segna l’uscita dal centro di Campora, perchè rappresenta uno dei pochi momenti di tregua lungo il nostro percorso tra gli edifici. Si tratta inoltre del primo tratto veramente costiero della SS18: l’accesso alla spiaggia, infatti, è direttamente a bordo strada. Da un punto di vista amministrativo siamo a cavallo tra il comune di Amantea, ultimo centro della provincia cosentina, e quello di Nocera Terinese, primo centro della provincia di Catanzaro. Pochi i segni di antropizzazione: due o tre edifici, l’immancabile porticciolo turistico, un distributore di benzina. Intorno molti piccoli campi coltivati.
Il fatto che questo tratto sia rimasto sostanzialmente libero non è certo un caso; come sempre accade è un fatto di pura convenienza, sia economica che logistica. Attraversiamo, infatti, una zona troppo lontana dalle attrezzature e dai servizi di Amantea e dallo svincolo autostradale di Falerna, che sta più a sud, perché possa essere presa d’assalto dalle seconde case o diventare sede di residenze stabili. Ma c’è probabilmente anche un fatto culturale: Amantea e Campora sono comunque legate a Cosenza, verso la quale c’è un forte pendolarismo. Nocera è già rivolta verso Lamezia Terme, così come lo saranno tutti gli “agglomerati” che incontreremo verso sud. Una zona di confine, dunque, una frontiera fisica e culturale che segna una prima importante discontinuità nel nostro percorso.
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Il villaggio nastro: Nocera e Falerna (km 357 – 364)
Al km 357 la visuale si riapre verso il mare. La strada qui è più alta rispetto ai bordi, di circa 5-6 m; una costellazione di piccoli e grandi edifici ci accompagna per circa 7 km. Per qualche chilometro gli edifici sono tutti ad una quota più bassa, sia a destra, dove hanno un accesso direttissimo al mare, che a sinistra; i collegamenti sono rappresentati da ripide rampe carrabili e scalette per i pedoni. Il confine tra i due comuni, Nocera Torinese e Falerna, entrambi frazioni marine dei rispettivi paesi a monte, non è segnato; al km 360 le indicazioni di un incrocio ci avvertono che siamo in prossimità dello svincolo autostradale di Falerna; da qui fino a Reggio Calabria la statale e l’A3 proseguiranno quasi parallele.
Oltre l’incrocio la strada e i suoi bordi ritornano sulla stessa quota: siamo su uno dei tratti originari della statale (l’unico percorso finora è quello tra la galleria di Coreca e il km 351), come testimoniano anche alcuni edifici più datati e un allineamento seguito rigorosamente anche dalla crescita edilizia degli ultimi decenni. Al km 363 il lato destro diventa un quasi-lungomare attrezzato, luogo deputato alle “vasche” estive, con chioschi, panchine, alberi; il quasi sta nel fatto che tra la promenade e il mare c’è un ampio parcheggio a pagamento. I cartelli ci informano che un pezzo di questo quasi-lungomare è di Falerna, mentre l’altro pezzo ricade nel territorio di Gizzeria (altra frazione marina di un paese collinare). L’edificato e il lungomare terminano di colpo quando la ferrovia (che da Campora abbiamo sul lato sinistro) si fa più vicina alla strada, troppo per lasciare spazio a qualsiasi costruzione.
I 7 km compresi tra Nocera e Falerna ( e Gizzeria per un breve tratto) sono l’opposto del sistema Amantea/Campora. Lì c’è un nastro che è cresciuto in relazione alla presenza di due centri piccoli ma stabilmente abitati; qui c’è la crescita di un nastro fatto di alberghi, villaggi e seconde case. Una crescita che è avvenuta per singole unità immobiliari o al massimo per piccole lottizzazioni, e che non ha mai visto formarsi un centro; il lungomare infatti è cosa recente e la sua differenziazione formale a seconda del comune di appartenenza è solo l’ultimo esempio di un’assenza storica di un coordinamento sovracomunale in questa crescita.
Completamente spopolato da settembre a giugno, congestionato ai limiti della praticabilità nei mesi estivi, vista anche l’assenza di una strada alternativa, il villaggio formato da Nocera e Falerna è un continuum di edifici, grandi e piccoli, più o meno vicini al mare (alcuni molto – forse troppo – vicini). C’è una probabile spiegazione dietro questa situazione: la presenza dell’autostrada. Non pare solo un caso, infatti, che lo svincolo autostradale sia più o meno al km 360, a 3 km dall’ingresso di Nocera e a 4 km dall’uscita da Falerna. Una quasi perfetta equidistanza che diventa ancor più interessante se si pensa che a 20 km a sud dallo svincolo di Falerna c’è quello di Lamezia Terme e che negli ultimi trent’anni molti lametini hanno eletto Nocera e Falerna a luoghi prediletti per le vacanze estive di lungo periodo.
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Da Falerna a Lamezia Terme (km 364 – 371)
Usciti da Falerna, restiamo nel comune di Gizzeria per circa 7 km; percorriamo un altro lungo tratto sostanzialmente libero, almeno per ora: le gru, infatti, sono già in azione per colonizzare gli ultimi spazi vuoti. Anche in questo caso possiamo spiegare la mancanza di edifici con la lontananza dall’autostrada; lungo la strada incrociamo solo qualche hotel e qualche attività commerciale isolata, che danno il nome alla località. Gli spazi aperti sono generalmente incolti, vengono coltivati solo piccoli appezzamenti di terreno. La ferrovia costeggia ancora la strada sul lato sinistro e in alcuni punti sono separate solo da pochi metri.
Verso la fine di questo tratto incontriamo il centro di Gizzeria Marina; anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un villaggio estivo ma stavolta di dimensioni più compatte e ridotte. La statale, qui, lambisce l’agglomerato, il cui centro si trova sul lato destro, a ridosso del mare. Anche questo piccolo villaggio conferma le considerazioni fatte precedentemente: oltrepassato l’abitato, ci troviamo all’incrocio con una diramazione della SS18 che raggiunge il centro di Lamezia Terme. I villaggi estivi crescono dunque a ridosso dei punti di accesso al mare da Lamezia: per chi proviene dall’autostrada Nocera e Falerna, per chi proviene dalla statale Gizzeria. I conti tornano.
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Da Lamezia Terme a Pizzo (km 371-372)
L’incrocio con la diramazione della 18 segna il confine tra Gizzeria e Lamezia Terme; siamo ancora molto vicini al mare, tuttavia il turista che arriva qui dall’interno probabilmente non avrà la sensazione di trovarsi a così poca distanza dalla costa: non un’indicazione, un cartello, solo piccole strade, alcune sterrate, che si perdono nella vegetazione. Lungo la strada troviamo solo pochi piccoli capannoni: tra questi spicca quello occupato dal “centro culturale islamico”. Una grossa comunità marocchina è presente sul territorio e, come spesso accade, ha trovato uno spazio stabile lontano dal centro più grande, quello di Lamezia. Gran parte di loro risiede proprio a Gizzeria Marina, ed è quindi logico trovare qui una struttura di questo tipo: vicino a casa loro, lontano dalla casa degli altri.
Procedendo oltre, oltrepassiamo, tra il km 373 e il km 375, un altro nodo importante della statale, dove si incrociano , in una grande rotonda, gli accessi all’aeroporto, alla stazione di Lamezia, alla superstrada per Catanzaro e alla provinciale che raggiunge il centro di Lamezia. Proseguiamo con un tratto in sopraelevata che ci evita il transito sulla rotonda; da qui fino a Pizzo il paesaggio è abbastanza omogeneo: pochissimi edifici, molti campi coltivati - soprattutto frutteti specializzati - , i vivai come attività prevalente. In questo contesto risaltano particolarmente i capannoni, nuovi e vecchi, nell’area dell’ex-SIR, in quella che è la più grande area progettata per essere industriale del meridione ma di fatto mai utilizzata.
Il mare da qui resta abbastanza lontano per vedere costruzioni a ridosso della strada, ma non mancano gli ingressi ai resort e ai grandi complessi turistici immersi nel verde. Anche in questo caso, per capire il perchè della conformazione della strada dobbiamo rapportarci all’A3, che qui corre parallela, come anche la ferrovia, alla 18. La lontananza dal mare e il fatto che qui sia l’autostrada il corridoio privilegiato per il trasporto su gomma ha fatto sì che questo pezzo rimanesse un’eccezione nel panorama di continuum costruito lungo la statale.
Statale 18 e A3 si ricongiungono sotto il viadotto ferroviario presso il bivio dell’Angitola (che prende il nome dall’omonimo lago) e da qui seguono poi tracciati diversi fino a Vibo Valentia; il fatto che questo bivio sia un vero e proprio crocevia (qui arriva anche la statale 19, la vecchia Strada delle Calabrie) è testimoniato dalla presenza costante nel tempo dei bazar sotto i piloni.
Oltre il viadotto, continua il carattere di eccezione di questo tratto rispetto non solo al continuum di edifici tra Paola e Pizzo ma rispetto a tutta la statale 18 nel tratto calabrese. In questo caso, la mancanza di costruito è dovuto alla morfologia della strada, che in questo tratto sale di quota con strettoie e continui tornanti. Gli edifici fanno di nuovo la loro comparsa arrivati al km 428, all’ingresso di Pizzo. Ritroviamo qui i caratteri di via urbana che avevamo già visto ad Amantea, con una densità edilizia sensibilmente maggiore. Anche in questo caso l’apertura della statale ha comportato una saldatura da un centro storico, che si trova ad una quota più bassa, verso la nuova strada a monte.
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QUALCHE CONSIDERAZIONE
Dovendo descrivere in sintesi il nostro viaggio alla scoperta della SS18, potremmo raccontare di tre paesaggi principali che, forse non a caso, rientrano nei confini amministrativi delle tre province:
1) quello del cosentino, da Paola a Campora, in cui lo sprawl è di tipo puntuale (singoli edifici disposti seguendo la logica dei lotti di proprietà) e in cui tutto sommato si registra la presenza di centri grandi e piccoli costruiti e cresciuti secondo una logica più “urbana”, con un mix funzionale abbastanza consolidato
2) quello del catanzarese, dominato dai nastri di seconde case e villaggi, che assomiglia più alla periferia estiva di un centro più grande come Lamezia che a un insieme di piccoli centri dotati di una loro autonomia, in cui prevale la monofunzionalità
3) quello del vibonese, come già detto l’eccezione nel panorama di tutta la costa tirrenica calabrese, dove la lontananza dal mare e dall’autostrada e l’orografia hanno interrotto il continuum di edifici che caratterizza il resto della statale.
L’elemento chiave per la lettura della traiettoria è il tipo di residenza. Da una parte c’è la residenza stabile, di chi abita un luogo tutto l’anno. Dall’altra c’è la residenza stagionale, la “seconda casa”, abitata solo da giugno a settembre. Possiamo dunque parlare di centri abitati veri e propri (la definizione di urbano è impropria viste le dimensioni dei comuni) e di “luoghi di aggregazione estiva”, per indicare quegli agglomerati che centri diventano solo d’estate. I primi sono quasi tutti nel territorio cosentino, mentre in quello catanzarese prevalgono i secondi.
Gli 80 km analizzati condensano probabilmente tutta la diversità di paesaggi lungo l’intera statale nel tratto calabrese; una diversità che però trova sempre una ragione comune nella presenza della statale e da questo punto di vista può essere considerata assolutamente unitaria. Semplificando, possiamo dire che i diversi paesaggi lungo la SS18 corrispondono ad altrettante modalità di sfruttamento edilizio della costa.
Come si è arrivati a tutto questo? E quali esaltanti prospettive ci regalerà il futuro? Alla prima domanda è facile rispondere: anni di mancanza totale di pianificazione o di gravi carenze negli strumenti urbanistici esistenti, a livello regionale, provinciale e comunale. Anni in cui gli abitanti stessi hanno dimostrato scarsa sensibilità verso il proprio territorio. Anni in cui non si è riusciti a frenare o a coordinare le spinte autonomistiche dei comuni, anche di quelli più piccoli, che hanno puntato su politiche, non solo urbanistiche, autoreferenziali. E c’è, last but not least, un’illegalità diffusa, che ha favorito l’abusivismo, soprattutto quello di piccolo “taglio” costantemente ripetuto.
Il futuro non sembra molto più roseo per quanto riguarda la pianificazione: se è vero che le tre province stanno finalmente preparando i piani territoriali è anche vero che ormai si troveranno di fronte ad uno stato di fatto difficilmente modificabile. Quali le soluzioni possibili? Prendere atto della tendenza esistente e agevolare la saldatura come sta facendo Amantea con le nuove lottizzazioni? Dichiarare guerra aperta all’abusivismo e procedere con le demolizioni per ripristinare lo status quo come sta faticosamente provando a fare il sindaco di Falerna? Cercare di lavorare sulla sensibilizzazione degli abitanti come cerca di fare la Regione con un programma, “Paesaggi e identità”, volto a coinvolgere la popolazione e le istituzioni locali nella lotta agli ecomostri costieri? Ce lo dirà forse il turista che tra qualche anno si affaccerà di nuovo sulla terrazza di Fiumefreddo per ammirare il panorama.
Qui una traiettoria nel parmense, qui una lungo la costa ligure e qui, in calce all'articolo, un'altra lungo la statale adriatica. I "compiti a casa" della "Scuola di Eddyburg" 2007
In calce, il pdf scaricabile della traiettoria
"Sazia e disperata
Con o senza tv
Piatta monotona moderna
attrezzata ben servita consumata,
afta epizootica, nebbia, calce
copertoni bruciati
cataste di maiali sacrificati….”
Cccp – “Rozzemilia ”
Una piccola introduzione
Un percorso dal Po alle colline dell’Appennino, da Casalmaggiore (Cr) a Fornovo Taro (Pr), lambendo Parma percorrendo la tangenziale ovest. Nel tratto di pianura fino a Parma percorrendo l’Asolana e poi, una volta “scavalcato” il capoluogo imboccando Via Spezia. Non si tratta di un percorso omogeneo, tuttavia se si osservano i Sistemi Locali di Lavoro (SSL) ci si accorge che il percorso scelto rappresenta un asse che attraversa il SSL di Parma. Il tragitto fotografa quindi aspetti molto interessanti delle trasformazioni territoriali in un passaggio cruciale della vita economica parmense: il passaggio da un’economia la cui chiave di volta è da quasi un secolo l’industria agroalimentare, a un’economia basata sul cosiddetto “terziario avanzato”, la logistica e il settore immobiliare.
Una realtà economica che ha lasciato la sua impronta sul paesaggio con sedimentazioni stratificate nel tempo. Il paesaggio rurale caratterizzato da agricoltura intensiva associata spesso a zootecnia e attività casearie. Alcune grandi industrie multinazionali locali che hanno generato una filiera industriale verticale sparsa sul territorio, senza creare un vero e proprio distretto come nel resto della regione (eccezion fatta per quello del prosciutto di Langhirano). Questo il quadro di insieme per iniziare la riflessione sul paesaggio che sfuma dal finestrino in una bella giornata d’Agosto, tra Casalmaggiore e Fornovo, attraversando quella che è stata definita Food Valley.
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Da Casalmaggiore a Parma
Appena superato il ponte sul Po, oltre il guard-rail sfila un paesaggio agrario in cui ai capannoni si alterano vecchie case e che riflette la storia produttiva sopra menzionata. E’ un paesaggio prevalentemente agricolo, regolare, punteggiato da rotatorie che rompono appena la monotonia della retta di asfalto che taglia quasi perfettamente a metà la pianura parmense da nord a sud. La presenza insediativa è molto diradata e bisogna attendere di arrivare nella piccola frazione di Osteria per osservare una concentrazione insediativa degna di menzione. Si tratta di vecchie case rurali trasformate in villette o in attesa di diventarlo e di un pugno di costruzioni nuove che stanno cominciando a sorgere in questa zona, particolarmente appetibile per i bassi costi degli immobili rispetto al capoluogo e alle zone limitrofe. Le nuove villette, da qui in poi sempre più frequenti, costituiscono un’importante mutazione genetica del tessuto sociale di questa zona, i cui abitanti si scollano progressivamente dal tessuto produttivo circostante. Un fenomeno qui appena percettibile ma che di chilometro in chilometro si fa più evidente.
Prendendo una delle viuzze laterali probabilmente arrivi in una di quelle trattorie sperdute in pianura, dove per una modica cifra puoi farti un buon pasto che inizia sempre, quasi senza chiedertelo, con del salume buono e, se sei fortunato, ti capita che nel piatto ti mettano anche il prelibato culatello. Ma devi saperlo. Gli unici cartelli sulla strada sono per improbabili cantanti di piano bar o di liscio che si esibiranno in qualche festa dell’Unità o dell’Avis, lì nei dintorni.
Dopo 9 chilometri l’Asolana passa attraverso Colorno, sede della residenza estiva della duchessa di Parma, Maria Luigia, un paese incastrato tra zone agricole e i primi insediamenti industriali di una certa consistenza. San Polo, frazione di Torrile, 6 chilometri dopo Colorno, è il luogo che più di ogni altro in questo percorso esprime l’equilibrio tra insediamenti e produzione. La frazione, sviluppatasi ai margini dell’Asolana è dominata dalla mole grigia di un grande mangimificio lungo il percorso è possibile osservare ergersi in mezzo alle colture i silos o la silouhette allungata dei capannoni. Nonostante la forte pressione demografica che ha fatto registrare uno degli incrementi di popolazione più consistenti degli ultimi in anni in provincia, il Comune di Torrile ha avuto un’urbanizzazione meno consistente, soprattutto confrontando il trend degli altri comuni limitrofi e del capoluogo. Le attività agricole perdono terreno anche in conseguenza della crisi industriale del comparto alimentare, costretto a confrontarsi con mercati molto competitivi, tuttavia la perdita di suolo agricolo si limita in pianura al 6%, modesta in confronto alle media provinciale, la più alta in regione (-19%).
San Polo è anche l’ingresso in quella che potremmo chiamare l’area metropolitana di Parma: gli appezzamenti agricoli non dominano più lo spazio ma sono semplici intervalli, verrebbe quasi da definirli “vuoti”, tra i capannoni e i piccoli insediamenti residenziali, fino al cavalcavia sulla A1, che taglia perpendicolarmente l’Asolana.
Subito sull’autostrada si stagliano sul lato sinistro della strada i palazzoni del complesso residenziale di Paradigma, un’area monofunzionale ad alta densità. Dritti fino all’imbocco della tangenziale, vere proprie nuove mura che debilitano il contesto urbano “vero e proprio”, si innalzano sovrastando i parcheggi zeppi d’auto anche in Agosto, come torri di vedetta, due mall, Centro Torri e Eurotorri. Un intreccio cavalcavia e rotatorie per poi lambire dal lato ovest la città di cui si vedono i tetti più alti sfocati nell’aria afosa e appiccicaticcia.
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Da Parma a Fornovo
La tangenziale, a due corsie per senso di marcia, corre ad anello intorno alla città; il tratto nord è il più vecchio, mentre oltrepassata la via Emilia, a sud-ovest è uno dei pezzi più recenti; dall’anonimo ripetersi di viadotti e curve segnalate con sensori luminosi si spunta dal sottopasso in via Spezia, ormai fuori dalla città. Alcune industrie attorno alla strada, superstiti dello sviluppo industriale degli sessanta, sopravvivono alla loro trasformazione in uffici, banche o attività commerciali. L’ex Simonazzi fa capolino sulla destra a Vigheffio, un’industria di imbottigliamento di prodotti alimentari, tra le più importanti della provincia, passata da diverse proprietà ed ora in mano alla multinazionale Sidel: un destino emblematico della realtà industriale parmense….
A Vigheffio, prima frazione in direzione Collecchio, si notano villette, palazzine e i prati incolti da cui si innalzano cartelli che illustrano il loro destino: riempire quello che sempre più viene considerato vuoto, uno spazio che andrebbe “sprecato” se usato per l’agricoltura, e che renderebbe molto bene dal punto di vista immobiliare. Il Comune di Parma dagli anni sessanta ad oggi ha avuto un’urbanizzazione dai ritmi vertiginosi (+27.4%), in particolare negli anni ’90, nonostante abbia subito un calo demografico dal 1980 in poi, arrestatosi solo a metà degli anni ’90 registrando nel 2003 un saldo positivo rispetto al 1960 pari all’11.7%.
Dati analoghi a quelli del Comune di Collecchio, cosicché la via Spezia da Parma a Collecchio quasi un continuum: residenziale a bassa densità nella zona di Vigheffio, attività artigianali e piccole industrie oltre i pioppi in fila indiana a separare la strada dal fosso, a Lemignano e Stradella, prime frazioni del Comune di Collecchio. Da Stradella in poi il paesaggio, come dire, si rilassa. Cominciano a vedersi i primi rilievi collinari e si diradano le costruzioni. I piccoli rilievi sembrano pettinati accuratamente in attività agricole e la vista è sicuramente più gradevole….
Poi arriva Collecchio all’ingresso del quale una serie di rotatorie ti chiede di scegliere se passare dentro il paese o by-passarlo tramite una tangenziale con gli immancabili cartelli Parmalat. E l’impronta di quello che fu il settimo gruppo industriale italiano, che ha lasciato un segno indelebile sul paesaggio. Innanzi tutto il centro sportivo del Parma F.C., il vecchio giocattolo dei Tanzi, che occhieggia discreto con un cartello posto di fronte a fila di alberi proprio all’ingresso del paese.
La crisi del gruppo di Collecchio è una sorta di rimosso nella coscienza civile della provincia, non una riga è uscita dall’università sul crac finanziario più grande della storia europea e i giornali locali ne parlano con pudore non parlando nemmeno di crac Parmalat ma di crac Tanzi, quasi a voler scongiurare un coinvolgimento che suona quasi come un “excusatio non petita”. Collecchio non è solo la Parmalat ma senza la Parmalat Collecchio forse non avrebbe avuto la sua tangenziale gigantesca e deserta come ti immagini una strada americana, in questi giorni di Agosto, simile a quella di Parma, sebbene di formato ridotto per girare intorno a un paese di 8 mila anime.
Uscendo dalla tangenziale di Collecchio si esce di fatto da quella che abbiamo già definito l’area metropolitana di Parma e la via Spezia si snoda tra il Parco Fluviale del Taro e il parco dei Boschi di Carrega e il paesaggio appena oltre le prime colline coltivate concede le cime dei castagni di uno dei tratti collinari più pittoreschi del parmense. Il ristorante messicano proprio lì, sulla strada dice che sei arrivato a Gaiano, un pugno di case compatte e un po’ datate di qua e di là dalla strada a due corsie che taglia i campi che si estendono fino alle colline della val Parma. Per un lungo tratto solo campi punteggiati di case coloniche e capannoni dedicati alla zootecnia. La forte vocazione produttiva di queste aree è minacciata dalla suaccennata crisi agricola e zootecnica, che in quest’area è più forte che in pianura. La vocazione zootecnica del settore primario parmense è fortissima, tant’è che le aziende agricole che possiedono allevamenti sfiorano il 55%, 10 punti percentuali in più che in regione. La dimensione della crisi si può leggere nel drastico calo del numero di aziende agricole dotate di allevamenti (-47.2% dal 1990 al 2003; Emilia-Romagna -38,8%). Oltre al fenomeno della concentrazione è anche l’abbandono di queste attività a contribuire alla diminuzione del numero di aziende.
La strada comincia salire sulle prime colline costeggiando il torrente Taro e attraversando piccole frazioni come Ozzano Taro e Riccò. Dopo qualche curva si addentra a Fornovo, la vecchia Forum Novum di fondazione romana, punto strategico sulla riva destra Taro, punto nevralgico dal punto di vista militare in passato e oggi snodo di vie di comunicazioni importanti per la provincia. La Via Spezia a Fornovo tocca l’A15. Anche qui l’attività principale è quella agro-industriale, ma affiancata dalla chimica e dall’estrazione del metano, e sono queste attività altre a sorvegliare il ponte che porta all’imbocco dell’autostrada. Il ponte apre la visuale alla valle del Taro, appena oltre un bar grande e piuttosto affollato vista la vicinanza all’autostrada e il periodo. E di fatti è usanza per tanti abitanti di Parma uscire dell’A15 a Fornovo quando si torna dal mare per contenere i costi di un’autostrada incredibilmente cara. .E’ qui che mi fermo per il caffè, a viaggio concluso
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Conclusioni
La rottura di quell’equilibrio tra forma e sostanza, tra economia e territorio e benessere, peraltro anche in precedenza piuttosto precario, che si sta consumando nella provincia di Parma credo possa avere effetti piuttosto gravi e non solo sul paesaggio ma anche sul piano sociale.
Rompere l’equilibrio tra a agricoltura e industria, puntando tutto su logistica e terziario può rivelarsi un errore incredibile. Innanzi tutto i prodotti agro-indutriali parmensi sono concorrenziali in particolare per la loro qualità e quindi strettamente dipendenti da un equilibrio tra produzione e salvaguardia di determinate caratteristiche ambientali. L’evoluzione urbanistica e le politiche industriali devono essere molto attente a questo meccanismo, e devono cercare di rafforzarlo invece di indebolirlo.
Non è soltanto un problema di paesaggio: spesso, quello che vediamo è anche quello che mangiamo.
Qui una traiettoria lungo la costa tirrenica calabrese, qui una lungo la costa ligure e qui, nel pdf in calce all'articolo, un'altra lungo la statale adriatica. I "compiti a casa" della "Scuola di eddyburg" 2007
In calce, i pdf scaricabili della traiettoria
E' una breve traiettoria, 35 Km circa sulla Strada Provinciale 1 Aurelia, dal porto di Savona allo snodo viario di Voltri sito nel centro dell'arco ligure alle soglie della periferia di Genova. Il segmento scelto è forse il meno noto, ma contiene tutti i tratti caratteristici e soprattutto i problemi del territorio ligure. In primo luogo occorre specificare che per i liguri, l'Aurelia non è solo una strada. E' il filo conduttore del territorio. Un filo di una collana in cui ogni paese della costa sa di essere collocato e sa che attraverso essa può far parte di un insieme che ha una identità precisa. Questa consapevolezza però è abbastanza recente.
L'Aurelia infatti non è la strada romana. La via Aurelia che partiva da Roma terminava a Pisa. La strada romana ligure che si chiama Æmilia Scauri, costruita nel 109 a.C., secondo la testimonianza del geografo Strabone raggiungeva Vada Sabatia - l'odierna Vado Ligure - presso Savona, partendo da Luna (Luni), ma il tracciato non coincide quasi mai con quello dell'attuale Aurelia.
Il tratto ligure dell'Aurelia contemporanea nasce all'interno del grande disegno napoleonico di organizzazione del territorio europeo, come segmento della strada imperiale di prima classe da Parigi a Napoli. La continuità territoriale della regione si può considerare dunque una conquista recente: basti dire che in nessun dialetto ligure esiste una parola che significhi Liguria.
Per i liguri percorrerla è fondamentale: è la conoscenza di se stessi come liguri, ovvero connotati da quel territorio. L'Aurelia è specifica di questo territorio: "non è che una ricucitura, un orlo a giorno tra il mare e le montagne" (Maggiani).
Su questo orlo a giorno è concentrata gran parte della vita dei centri rivieraschi e ogni suo cm quadrato è sempre più denso di attenzioni, di tensioni e di azioni che mutano gli scenari e i panorami già di per sé vari e complessi.
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Chiamarlo viaggio è un po' presuntuoso, ma solo cento anni fa muoversi via terra su questo lembo di costa era difficilissimo, si preferiva decisamente il mare, perchè era meno rischioso. Chi vive in questi luoghi avverte questi limiti, non si ci si può muovere a 360°,ci si può solo spostare lungo una linea; verso est ci si ritrova a Genova, che attrae ma è più facile che respinga, cambiando direzione di marcia sempre sulla stessa linea si va ad ovest, verso il confine francese.
Gli spostamenti con l'auto o con il treno possibili sono generalmente solo ad est e ovest, perché a sud c'è il mare e a nord le montagne. Questa schematicamente è la condizione mentale dell'orientamento spaziale di chi vive in Liguria. Inoltre è diverso spostarsi da un luogo all'altro, dal viaggiare. Il viaggio è la condizione ottimale per vedere cose nuove, ma anche per vedere consapevolmente per la prima volta cose che si avevano da sempre sotto gli occhi.
E' uno splendido pomeriggio di inizio settembre e mentre raggiungo il punto di partenza e percorro già l'Aurelia verso ovest lasciandomi alle spalle Genova, mi viene alla mente un brano di un famoso viaggiatore che ha percorso anch'esso questi tratti di strada: "Erano le prime ore del pomeriggio e splendeva il sole. Sotto il mare era azzurro, pieno di creste bianche di spuma verso Savona. Lontano al largo del promontorio l'acqua giallastra e quella azzurra si fondevano. Davanti a noi un piroscafo mercantile navigava lungo la costa. «Vedi Genova?» «Oh sì.» «Il prossimo promontorio dovrebbe coprircela» «La vedremo ancora a lungo. Dietro vedo ancora la punta di Portofino». Finalmente non riuscimmo più a scorgere Genova. Guardai indietro quando girammo la punta del promontorio ma non vidi che il mare e sotto, nella baia, una fetta di spiaggia piena di barche da pesca e sopra, sul fianco della collina, un paese e promontori a perdita d'occhio lontano lungo la costa." (E. Hemingway, Che ti dice le Patria, in Quarantanove racconti).
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Km 572 della SP1, che qui si chiama Corso G. Mazzini; infatti, pur rimanendo se stessa, l'Aurelia quando entra nei centri urbani si adegua e assume i nomi dei riferimenti storici o geografici locali. Infatti siamo vicino al Priamar fortezza del XVI secolo, costruita dai Genovesi, che divenne nell'ottocento un centro di guarnigione militare e prigione e dove vi fu recluso, tra gli altri, G. Mazzini. Attualmente il Priamar è un contenitore culturale di grande prestigio, la scultura che compare dal finestrino dell'auto e sembra dare il via al viaggio è la Rosa nel deserto di Arnaldo Pomodoro. Dopo pochi metri si svolta a sinistra in via Antonio Gramsci e si ha ora il privilegio di osservare un grosso vuoto. Uno spazio vuoto fa sempre un grosso effetto in questa regione che ne é spesso priva, ma generalmente non dura per molto. Questo è il luogo dove sorgeva lo stabilimento Omsav/Italsider, le cui vicende sono molto bene narrate da Bruno Lugaro (giornalista del quotidiano locale Il Secolo XIX), nel libro intitolato Il fallimento perfetto.
E qui sta per crescere il Crescent denominato già crescempio, una costruzione residenziale lunga 150 m e alta 8 piani. Nel libro si traccia una precisa e approfondita cronistoria delle aree che, da proprieta' demaniale e ad uso industriale (ovvero le aree Omsav/Italsider), si sono trasformate, con metodi poco chiari, in terreno di proprieta' di privati, con destinazione d'uso residenziale. Un'area che per secoli è stata occupata prima dagli spalti della fortezza genovese e poi dagli impianti industriali. Un'area vasta più di 250.000 mq, dei quali soli 33.500 di proprietà privata; un'area superiore a quella occupata dall'intera città murata del 1800; un'area che ha uno sviluppo sul mare di oltre 1200 metri. Un'area di grandissimo valore; un patrimonio, quasi tutto di proprietà pubblica, sul quale si gioca l'avvenire della Città.
La via fiancheggia il porto e in piazza Leon Pancaldo si passa accanto alla torretta medievale simbolo di Savona che appare sempre più sparuta, vicino alle altezzosità algide delle architetture griffate Bofill. Anche dal finestrino di un auto in transito questa architettura, né dritta né storta , comunica instabilità e fredda estraneità, non pare sia abitata, dai savonesi è già stata simpaticamente denominata "Il box doccia di Godzilla".
Superate le vecchie funivie che servivano per il trasporto del carbone, l'Aurelia percorre un tratto di strada più recente (1933) realizzata all'interno di un più vasto progetto comprendente l'allargamento della strada esistente per Vado Ligure: l'intervento presentava alcuni aspetti interessanti sotto il profilo tecnico e dimostrava la volontà di conferire alla nuova strada un carattere fortemente monumentale. Il tratto più vicino a Savona era stato realizzato in viadotto, con l'acqua che circondava la strada da due lati. L'intervento è ancora percepibile dalla banchina della Darsena Vecchia: l'effetto originario è tuttavia andato completamente perduto, a causa dei riempimenti e delle edificazioni. Notevoli anche, per l'imponenza, le opere di sostegno presso la punta della Margonara, che ancora oggi caratterizzano l'immagine di questo segmento di costa. Per queste caratteristiche, che dimostrano come volesse essere utilizzata anche come macchina di comunicazione, il tratto tra Savona e Albissola Marina è stato fatto oggetto, sia pure con intenzioni diverse, di interessanti rappresentazioni pittoriche: un ciclo di affreschi, dipinto da Raffaele Collina (1932- 1934) che adorna la sala di giunta del palazzo comunale di Savona, e una tela di Mario Rossello intitolata Un chilometro di strada da Albissola e Savona (1975). L'opera, lunga 35 metri, è stata esposta con l'aiuto di un congegno capace di far scorrere in un periodo di circa 7 minuti la tela davanti al pubblico.
Usciti dalla galleria Valloria, al km 570 circa, si raggiunge punta della Margonara; su rocce prospicienti la strada appaiono improvvisamente, come fantasmi, alcuni lenzuoli con scritte di protesta contro la cementificazione annunciata del tratto di costa della Margonara. Qui è prevista la realizzazione di un porticciolo e la costruzione di una torre residenziale di 120 m. Il progetto è anch'esso d'autore, pare però sia un ciclone riciclato, ma tanto che importa il genio globale non ha bisogno di contestualizzarsi. Anche la Madonnina sullo scoglio di fronte sembra augurarsi una sorte migliore.
"Ma il cielo è sempre più blu " cantava Rino Gaetano ed è meglio lasciarsi alle spalle questi incubi per percorrere la passeggiata degli artisti, il lungomare di Albissola Marina, con i suoi colori e le sue ceramiche, "la cui industria fa concorrenza a quella di Vallauris" diceva Liégéard (lo scrittore che ha nel 1887 ha coniato il nome di Costa Azzurra): "La strada principale (l'Aurelia) è una lunga interminabile fabbrica di terraglie che espone marmitte ad ogni porta, che appende casseruole ad ogni finestra. E' un miracolo se il turista non mette i piedi sopra un piatto....che sta seccando sul marciapiede".
Ancora oggi ci si accorge subito che non è un luogo come un altro: la pensilina con la panchina di ceramica, la vela di ceramica al bordo della spiaggia, i lampioni colorati. Qui nel secolo passato vi fu una grande concentrazione di episodi artistici, in gran parte legati alla ceramica, da cui l'Aurelia si propone ancor come grande vetrina. Vi sono rimasti fortemente impressi due momenti magici vissuti ad Albissola marina nel secolo scorso: gli anni trenta, con alcuni edifici di pregio che si affacciano sulla strada, e il secondo dopoguerra che ha trovato la sua migliore espressione nella passeggiata degli artisti. Inaugurata nel 1963, costituisce con i suoi 800 metri di sviluppo lineare e 4000 metri di superficie un grande museo “calpestabile”. La sua particolarità è costituita dalla presenza di 20 pannelli di pavimentazione policromi di 10 x 5 m realizzati su disegni di 20 artisti (Caldanzano, Capogrossi, Crippa, De Salvo, Fabbri, Fontana, Franchini, Gambetta, Garelli, Lam, Luzzati, Porcù, Quattrini, Rambaldi, Rossello, Sabatelli, Salino, Sassu, Siri, Strada).
Il successivo tratto di strada una volta, attraversato il ponte sul torrente Sansobbia che scende dalle valli di Stella (paese di Pertini), è sempre intasato di traffico che confluisce dal vicino casello autostradale e guidare in certe ore del giorno è un'impresa di grande pazienza e attenzione.
Superata la galleria di Albisola Capo, aperta nei primi anni del secondo dopoguerra, si entra in una dimensione completamente differente, in cui l'Aurelia riacquista il carattere di grande spazio aperto. Siamo al Km.567: la storia ritorna con le sue memorie ad ogni curva e qui si trova una lapide che ricorda delle vittime di un bombardamento aereo del 1944.
Un altro cartello ci avvisa che siamo entrati nella Riviera del Parco del Beigua, un altopiano che sovrasta la zona e che dà il nome anche ad un Parco Naturale Regionale.
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Questa alternanza di litorali e di promontori, di spazi urbani e di spazi naturali, crea un effetto di pausa e di attesa che rende gradevole il percorso; purtroppo le opere stradali di contenimento a monte sono dei tagli nei vari promontori che abbiamo incontrato di notevole entità; hanno in alcuni casi ferite permanenti, dove le frane a volte invadono la carreggiata stradale nonostante gli imbrigliamenti delle pareti.
In alcuni tratti sembra che ci siano solo cielo e mare poi improvvisamente, sotto il parco Bottini, si svolta e qui c'è uno dei punti di vista dove particolare è il gradimento estetico in quanto appare improvvisamente l'armonico fronte mare del centro storico di Celle Ligure.
La brutta edilizia speculativa degli anni ’60 e ’70 qui prende una pausa. Ultimamente sono stati curati in questi Comuni di riviera gli arredi stradali, le passeggiate a mare e il rifacimento delle facciate dei vecchi palazzi; inoltre, la dismissione della ferrovia in questo tratto ha permesso di ricucire il paese con la spiaggia e in altri di formare una lunga passeggiata costiera. L' Aurelia lambisce il centro storico di Celle a monte, senza separarlo dal mare, come invece succede negli altri centri.
Altro promontorio, Punta dell'Aspera, km 561 circa, ed ecco il nuovo esteso porto di Varazze; questa volta la sorpresa ha un sapore surreale perchè i tetti verdi tipo baita delle valli alpine sbucano improvvisamente dal mare.
L'Aurelia, che per Celle era di Levante, (ma per Varazze è a ponente) prende il nome di via Savona, in quanto a levante dell'abitato, e passa in mezzo ai capannoni dei cantieri per la realizzazione di imbarcazioni, attività che ha reso famosa Varazze nell'800. Anche qui, al posto di queste aree produttive, sorgeranno alti palazzi residenziali.
La strada corre adiacente alla passeggiata di Varazze, il traffico in questo punto è notevole e molti pedoni la attraversano qua e là, bisogna stare sempre molto attenti, le macchine sono spesso posteggiate nella sede dell'Aurelia. In questo tratto stanno predisponendo delle opere a mare, pennelli e barriere sommerse per proteggere la spiaggia dalle erosioni. E' inevitabile, quando si realizza un'opera a mare si modifica l'andamento dei depositi, ma non la loro quantità. Se la spiaggia aumenta da una parte, diminuisce da un'altra.
Ora l'Aurelia, che qui si chiama via Genova in quanto a ponente di Varazze, ultimo paese della costa nella provincia di Savona, sale faticosamente con curve e contro curve verso i Piani d'Invrea (km 555 circa). La consueta apparizione dell' astronave dell'Autogrill della Autostrada A10 Genova - Ventimiglia, ci segnala la momentanea adiacenza delle due uniche vie stradali orizzontali della costa. Poi ci si rimmerge nella vegetazione ancora rigogliosa della suggestiva Punta d'Invrea.
Una curva dopo l'altra qui si avverte il piacere di viaggiare quasi volando fra cielo mare. Le cicale riescono a farsi sentire anche da un viaggiatore distratto e tornano alla mente le parole di una famosa la descrizione di C.E. Gadda: "qui la cicala persiste. Le tombe dei Marchesi Centurione vedo che non difettan d'epigrafe, nella frescura e nella penombra della piccola chiesa dove i maggiori hanno pace, dove arriva ancora, sommesso come una divozione, lo stridere antico: dai lecci, dalla vastità polverosa del meriggio....."
Ma siamo quasi al confine provinciale sul torrente Arresta, al km 554. E si entra in tutt'altra realtà. Cogoleto, ora è un centro balneare ma ha un’antica tradizione industriale. Il lungomare è stato risistemato e anche il centro storico è molto migliorato negli ultimi tempi: forse i lampioni sono persino eccessivi, come certe barriere antiattraversamento della passeggiata, (forse è solo eccessivo campanilismo da parte mia in quanto abito ad Arenzano ).
Purtroppo questi due paesi adiacenti una cosa in comune l'hanno di certo ed è l'area della ex Fabbrica Stoppani nella valle del Lerone, torrente che segna il confine fra i due territori comunali. Infatti alla prima curva a 90° verso nord eccola là la famigerata azienda chimica costruita ai primi del ‘900, che produceva additivi per la cromatura e per la nichelatura, causando un inquinamento del suolo e delle acque le cui dimensioni sono perfino difficili da immaginare. Dati della Regione Liguria parlano di 92.000 mc di fanghi tossici stoccati nella discarica di Pian di Masino contenenti elevatissime quantità di metalli pesanti, mentre l'agenzia regionale protezione ambiente (Arpal) ha trovato concentrazioni di cromo esavalente nelle acque di falda 64.000 volte superiore. Da molto tempo è in atto una vicenda che vede coinvolti tutti gli Enti territoriali per bonificare il sito e poterlo utilizzare per un progetto che possa rappresentare la possibilità di creare nuove prospettive di lavoro, non in contrasto con l'ambiente.
Con notevoli e impattanti muraglioni l'Aurelia aggira un altopiano costituito da un antichissimo cristallino marino,ampiamente lottizzato da residenze per vacanze negli anni ’60 – ’70. Valicata la Colletta, l'Aurelia prende il nome di Via di Francia e scende di nuovo verso il mare nel centro di Arenzano; recentemente sono state costruite due rotonde che hanno sfoltito il traffico proveniente dal casello autostradale e soprattutto interrotto le discese troppo ardite di alcuni automobilisti e motociclisti. Questo è il luogo dove vivo e lavoro e pertanto è per me sede di mille problemi, pur essendo oggettivamente un paese gradevole e con molte risorse sia ambientali sia per risolvere i suoi problemi .
L'Aurelia anche qui divide il frontemare del centro storico dalla passeggiata, costituendo, come nel caso di quasi tutti gli altri centri attraversati, un pericolo costante per i pedoni. Purtroppo, anche se spesso ci sono semafori, in alcuni tratti si crea confusione, congestione e distrazione, che anche quest'anno hanno causato delle vittime. Da tempo si cerca di trovare un tracciato alternativo, ma visto il territorio compresso e complesso non è stato ancora possibile trovarne uno fattibile.
Abbandonato il centro di Arenzano si transita in una galleria al Km 547 denominata del Pizzo, in quanto attraversa il Promontorio del Pizzo. Questo tratto di strada è sempre stato oggetto di interventi in relazione alla situazione instabile delle rocce soprastanti; nel corso di tali opere è andato perduto uno dei punti più suggestivi del percorso, l'arco scavato nella roccia di cui restano delle fotografie d'epoca, il Garbo du Pizzo.
Siamo al Km 546 dove, in una vasta ansa, l'Aurelia circumnaviga un camping, sovrastante una vasta Cava detta della Lupara,oggi in disuso, nella quale vi sono in atto progettazioni e realizzzazioni infrastrutturali. Ma al Km 545 si incontra ancora Vesima formata da due nuclei: il primo è quello che si è sviluppato attorno all'antico convento dei Padri Cruciferi, costruito nel 1155 e poi diventato dimora estiva di nobili famiglia genovesi, mentre il secondo, a Punta Nave, conosciuto anche come Villa Azzurra, è diventato famoso dopo che l'architetto Renzo Piano vi ha insediato il proprio quartier generale. La struttura che si vede vicino alla galleria di Villa Azzurra segnala la localizzazione del sito. Nei pressi si posso notare dei resti del muro a sostegno a mare del percorso ottocentesco, mentre alcuni tratti della vecchia strada sono stati dismessi a causa della rettifica in galleria del tracciato attuale (1980-1990) che utilizza il sedime ferroviario a sua volta dismesso. Questo tratto di curve e contro curve, sebbene un po' pericoloso, è l'ultimo contatto dell'Aurelia con il mare prima che si immerga nel tessuto cittadino periferico della cosiddetta grande Genova. In alto si intravede la chiesa del borgo Crevari. Uno slargo sul mare, capolinea dell'autobus n.1, segna il confine tra la città e la riviera. A Voltri, snodo viario antico e moderno, incrocio di ponti e viadotti, dove si può andare anche verso Nord, attraverso il passo del Turchino, e verso Sud, perchè qui sul mare si è ormai esteso il porto di Genova, si conclude questo piccolo viaggio.
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Considerazioni
Il percorrere con l'intenzione di guardarlo e l' attenzione necessaria per poi raccontarlo fa sì che anche un breve tragitto percorso mille volte diventi improvvisamente ricolmo di tante informazioni inaspettate. Inevitabilmente, su una strada come l'Aurelia non si può che percorrere parallelamente altre strade: una sola nello spazio presente, le altre nella dimensione temporale, in un passato e un futuro prossimo.
Viaggiare per questa strada con lentezza, con gli occhi aperti, aderendo alle sue curve, alla circolazione della vita delle comunità attraversate, godendo della continua mutazione dei punti di vista, è davvero ritrovare un filo conduttore, non solo fra un luogo e l'altro, ma fra passato e futuro senza troppa nostalgia per il primo e paura per il secondo, per quanto siamo di nuovo di fronte ad un fenomeno analogo a quello degli anni ’60 – ’70, quando Italo Calvino così bene descriveva la situazione ligure: “Certo, in questo affidarsi alla domanda del mercato come all'unica realtà sicura c'è anche una profonda sfiducia per la civiltà contemporanea, da cui ci si aspetta sempre il peggio e da cui non resta che strappare giorno per giorno qualcosa che è come indennizzo d'un bene perduto. Un fondo di diffidenza e pessimismo cova sotto l'efficienza e l'immediatezza: è l'eredità che i secoli di vita guardinga e ostinata hanno trasmesso agli abitanti di questa regione, come condizione di sopravvivenza. Oggi la Liguria sta diventando qualcosa di completamente diverso da quello che è stata: economicamente fa parte d'un tutto italiano ed europeo che presenta sempre meno soluzioni di continuità; e ancor più è diversa la popolazione. Come negli ultimi centocinquant'anni una diaspora di liguri mise radici nelle Americhe, così negli ultimi decenni masse nuove si sono stabilite in Liguria, (omissis). Nel giro di poche generazioni si parlerà della Liguria in nuovi termini, che ancora non riusciamo a prevedere. A rappresentare un antico modo di "vivere in Liguria "non resterà che la patella attaccata allo scoglio."(1973).
Alla luce di quello che è successo e probabilmente succederà, non si può che convenire con queste parole, sebbene molto amare. Non si può inoltre nemmeno dire che questa porzione di territorio non sia stata pianificata. Ormai siamo alla terza o quarta generazione di piani regolatori, compresi i numerosi piani regionali e provinciali che certamente hanno prodotto delle norme la cui assenza sarebbe stata disastrosa, soprattutto riguardo al periodo ’80 – ’90.
Purtroppo l'assalto non è finito, anzi, si ripresenta più duro che in passato: l'aggressione delle coste da parte di "pirati contemporanei", che mirano solo a rapinare le risorse di tutti e lasciare accumuli di materie informi e nocive, è più imminente che mai. Non resta che ritrovare attraverso la partecipazione degli abitanti delle nuove sensibilità, per comprendere quanto sia necessario bonificare l'ambiente delle nostre vite, non solo dall' inquinamento da petrolio o da cromo, ma da quello di un mercato perverso e volgare, dalla disarmonia, dal disamore dei luoghi e dalla disequità sociale che avvelenano, a volte senza che ce ne rendiamo conto, di infelicità le nostre anime. In questa ottica, pare sia un progetto della Regione Liguria, che si intitola Aurelia e le altre in quanto propone, attraverso una lettura strutturata e articolata della strada, di individuare un grande parco culturale e paesistico, oggi non ancora adeguatamente apprezzato e conosciuto. La conoscenza di questa arteria vitale penso che possa far comprendere, anche agli stessi patrocinatori del progetto, che l'Aurelia e quindi la Liguria non necessitano, per essere alla moda, di mostuose spettacolarità, gli basta essere se stesse.
Qui una traiettoria lunco la costa tirrenica calabrese, qui una nel parmense e qui, in calce all'articolo, un'altra lungo la statale adriatica. I "compiti a casa" della "Scuola di Eddyburg" 2007
Lo scritto di Roberto Camagni riprende e sviluppa una delle lezioni tenute alla seconda edizione della Scuola di eddyburg (2006). Il testo visibile sul monitor non compende: le tabelle e le figure, l’intera parte dedicata al confronto tra Milano e Monaco di Baviera e la bibliografia. Il testo integrale è scaricabile in formato .pdf (in calce)
Premessa
La città è innanzitutto un grande bene pubblico, fatto di strade, parchi, stazioni, aeroporti, reti di mobilità e di comunicazione, servizi, tutti elementi che implicano una spesa pubblica, nazionale o locale, in conto capitale o in conto corrente.
Essa può essere anche considerata un “bene di club” - una categoria intermedia fra i beni pubblici, che sono a disposizione di tutti e per i quali non esiste una “rivalità” nell’uso, e i beni privati (tipicamente “rivali”) - in quanto la sua disponibilità:
- avvantaggia chi è socio del club, e cioè nel caso della città, innanzitutto gli stockholder urbani (proprietari), e poi in modo decrescente i residenti e i city-users, ma in modo limitato gli esterni;
- fornisce una utilità proporzionale alla dimensione del club (“effetto rete” o “esternalità di rete”, tipico ad esempio dei soci di un network telefonico); nel caso della città, questo effetto deriva dalla presenza di economie di agglomerazione [1].
Ad essere ancora più precisi, possiamo dire che la città è un bene “collettivo”, creato e definito da investimenti e decisioni sia pubbliche che private.
Da tutto ciò segue una conseguenza importante: il valore economico delle sue singole parti non è determinato dall’azione singola, ma dall’azione collettiva, esterna al singolo attore, dal fatto cioè che si verificano sinergie e esternalità incrociate con tutte le decisioni – localizzative, di investimento, di gestione – che avvengono o sono avvenute nell’intorno fisico del luogo in cui la decisione individuale si è realizzata.
Come si vedrà, questo elemento risulta estremamente importante allorché si tratta di reperire le risorse per effettuare gli investimenti pubblici che fanno vivere la città. Il tramite, logico prima che economico, è costituito dalla rendita fondiaria urbana, il valore dell’unità fondiaria o immobiliare su cui si realizza l’investimento privato: se tale valore infatti dipende in misura rilevante dagli investimenti che la pubblica amministrazione realizza nel contesto urbano nonché dagli investimenti che altri soggetti privati realizzano nell’intorno, esso può essere almeno parzialmente tassato.
Il problema del finanziamento degli investimenti pubblici è divenuto cruciale negli anni recenti, in presenza della cosiddetta crisi fiscale dello stato: per effetto di numerosi elementi – globalizzazione, interventi pregressi di finanza pubblica allegra che hanno creato un vistoso debito pubblico, espansione delle tipologie di beni pubblici cruciali nella nuova fase di sviluppo ma anche necessità di alleggerire il peso fiscale sulle attività economiche – lo stato non è più in grado di realizzare tutti gli investimenti pubblici che appaiono necessari (Camagni, 1999).
Questo lavoro intende esplorare le modalità con le quali oggi è possibile finanziare la realizzazione di beni pubblici, senza incrementare il debito pubblico esistente: attraverso la tariffazione dell’uso e la realizzazione a carico di privati (project financing), o attraverso varie forme di tassazione degli incrementi di valore patrimoniale che si vengono a manifestare per effetto degli investimenti pubblici stessi o in occasione di trasformazioni urbane rilevanti.
Quest’ultimo caso viene affrontato alla fine del lavoro, attraverso una analisi comparativa delle modalità di tassazione immobiliare (oneri di urbanizzazione e concessori) nel caso dei grandi progetti di trasformazione urbanistica a Milano e a Monaco di Baviera. Emerge nel caso milanese una forte differenza, a favore del privato e a sfavore del pubblico, rispetto al caso tedesco, una differenza facilmente estendibile al caso italiano.
I beni pubblici tariffabili e il project financing
L’intero ragionamento sul finanziamento degli investimenti pubblici prende le mosse dall’evidenza della crisi del modello tradizionale, che vedeva lo stato farsi carico di tutte le anticipazioni necessarie, stampando moneta (fino agli anni ’70) o emettendo titoli del debito pubblico. Lo sviluppo economico che ne seguiva, generando redditi (profitti, salari, rendite) e consumi, permetteva, attraverso la tassazione, di ripianare il debito (Fig. 1).
La crisi fiscale dello stato, generata dall’accumularsi esplosivo di deficit di bilancio pubblico e dal costo del conseguente servizio del debito per interessi, ha generato una impossibilità per lo stato di contrarre nuovi debiti per finanziare gli investimenti pubblici. Di qui la ricerca di modalità nuove di finanziamento dei pur necessari interventi, nell’attesa di generare risparmio pubblico sufficiente attraverso la riduzione delle spese correnti.
Al fine di identificare una delle possibili soluzioni, facendo intervenire il privato nel finanziamento delle opere pubbliche, occorre costruire una tipologia dei beni pubblici. Essi si distinguono dai beni privati per due caratteristiche essenziali: la non-rivalità nell’uso (la mia fruizione di una piazza non implica la non-fruizione di altri, se non vi è congestione) e la non-escludibilità (impossibilità tecnica di escludere selettivamente qualcuno dall’uso). Emergono quattro categorie di beni (Fig. 2):
- i beni privati, escludibili e rivali,
- i beni pubblici puri, non-escludibili e non-rivali,
- i beni tariffabili ( toll goods), escludibili e non-rivali,
- i beni comuni, non-escludibili ma rivali.
Due categorie intermedie emergono con piena rilevanza territoriale. Innanzitutto i commons o beni comuni, che sono disponibili in quantità limitata ma che, non avendo un costo, vengono spesso sperperati (“la tragedia dei commons”): aria, acqua, balene e pesci nei mari e nei laghi, ma anche suolo e paesaggio. Le possibili risposte risiedono alternativamente in un forte controllo pubblico, nella privatizzazione ove possibile (secondo gli insegnamenti di Coase: un privato gestore di un lago pescoso non consente l’esaurimento delle trote), o in un faticoso ma virtuoso processo di reidentificazione collettiva con il patrimonio e le identità locali (Magnaghi, 2005).
La seconda categoria è costituita dai beni tariffabili, in quanto tecnicamente escludibili: grazie a quest’ultima caratteristica infatti, tali tipi di beni possono essere soggetti a tariffazione, e dunque possono essere assegnati ai privati con un contratto di concessione di costruzione e gestione. Il settore pubblico in questo caso non deve impegnare risorse finanziarie ma solo controllare il rispetto degli obblighi contrattuali sulle caratteristiche delle opere, la loro manutenzione e le modalità di tariffazione. E’ chiaro che in questo caso l’utente deve pagare un prezzo per l’uso dei beni (autostrade, ponti, infrastrutture in generale), un prezzo che garantisca la profittabilità privata dell’operazione; il privato, naturalmente, non regala nulla, anche se apparentemente fornisce un bene pubblico.
E’ per questa categoria di beni che, al di là del tradizionale contratto di concessione, è possibile fare ricorso a nuove fattispecie contrattuali come la cosiddetta finanza di progetto (project finance) (Carbonaro, 1993; Camagni, Mutti, 1994; Imperatori, 1998; Medda, Carbonaro). Si tratta di una tecnica di finanziamento di un progetto basata sulla certezza del flusso di cassa che esso può generare al fine del ripagamento del servizio del debito e sulla “bontà” del progetto stesso, anziché su garanzie patrimoniali fornite dal promotore/debitore. In sostanza, si passa dal concetto tradizionale di “finanziamento per un progetto” a quello di “finanziamento di un progetto”: non si valuta da parte del finanziatore la capacità di rimborso del promotore e la sua solidità patrimoniale, ma le prospettive reddituali del progetto (Tab. 1).
Operativamente, la finanza di progetto prevede la creazione di una società di progetto (“veicolo finanziario”), giuridicamente distinta rispetto ai singoli promotori, che cura la realizzazione dell’iniziativa, e una rete di attori, pubblici e privati, con compiti complementari: finanziatori, imprese di costruzione, fornitori, enti pubblici locali e non che garantiscono contratti di concessione, impegni normativi e di servizio e contributi a fondo perduto (Fig. 3). La struttura contrattuale fra questa rete di attori, e in particolare fra attori pubblici e attori privati, è assai più complessa di un montaggio finanziario tradizionale; per questo è essenziale un rapporto di fiducia reciproca.
I vantaggi di questa forma di realizzazione, al di là del fatto che non impegna l’ente pubblico in un investimento diretto, sono costituiti dal fatto che in generale l’operatore privato è più efficiente nella realizzazione dell’investimento, in quanto apprezza in modo assai più stringente il costo del tempo. D’altra parte, il privato deve essere messo nella condizione di assumere interamente il rischio del progetto: l’eventuale supporto pubblico per l’evidenza di una insufficiente redditività deve essere definito ex-ante e non assumere la forma di garanzia contro rischi di aumenti di costi o di minore domanda. In quest’ultimo caso infatti (project financing “sporco”, spesso utilizzato in Italia) viene meno l’incentivo all’efficienza privata, e dunque il vero vantaggio economico di ricorrere a questa forma di finanziamento.
Nel caso infine che le tecnostrutture pubbliche di realizzazione diano sufficiente garanzia di efficienza, il project finance appare inutile e maggiormente costoso: si aggiunge infatti il profitto del promotore privato ai costi complessivi da sostenere, e il maggiore costo per interessi rispetto a una grande struttura pubblica. Per questa ragione ad esempio SNCF non ha fatto ricorso a questa tecnica nella realizzazione delle nuove linee TGV in Francia (salvo il caso del tunnel sotto la Manica).
Tasse di scopo e recupero di plusvalori fondiari
Il ricorso alla finanza di progetto, o ai metodi più tradizionali di concessione di costruzione e gestione per le grandi infrastrutture (beni pubblici escludibili, come abbiamo visto), non esaurisce le modalità di finanziamento dei beni pubblici urbani. Come è possibile vedere in Figura 4, altri strumenti a carattere fiscale sono disponibili, che presentano solide giustificazioni dal punto di vista economico.
Al di là di possibili trasferimenti pubblici da parte del governo centrale, a fronte di riduzioni di esternalità negative o per favorire esternalità positive, altri due tipologie di interventi sono percorribili:
- la tassazione di eventuali produttori di diseconomie esterne (pensiamo alla utilizzazione di auto privata in città, che può essere tassata con tasse di scopo, con tariffazione della sosta o dell’attraversamento – parking pricing e road pricing ) e la utilizzazione diretta delle entrate per approntare modalità alternative di mobilità ( earmarking), e
- la tassazione dei plusvalori fondiari, effettivi o potenziali, che derivano dalle decisioni di fornitura di beni pubblici urbani (in genere infrastrutture di mobilità, ma anche servizi o interventi sulla qualità urbana).
Per comprendere appieno questa seconda fattispecie, è necessario un breve excursus sulla teoria della rendita fondiaria urbana.
Beni pubblici e rendita fondiaria.
E’ importante subito comprendere che la rendita fondiaria urbana, intesa come il valore di scambio per l’uso del suolo, è ineliminabile: essa infatti si manifesta come la controparte in termini di valore dei vantaggi localizzativi offerti da ciascuna particella di suolo urbano. In conseguenza, essa è indipendente dal regime di proprietà dei suoli, anche se, in diversi regimi di proprietà, cambiano le modalità della sua appropriazione (utilità individuali o rendita burocratica di chi è addetto alla allocazione delle risorse territoriali: in entrambi i casi, essa è facilmente monetizzabile, a fronte, appunto, dei vantaggi localizzativi).
Infine, la rendita fondiaria urbana costituisce strumento potente di allocazione “ottimale” delle attività nel territorio. Si dimostra infatti facilmente come uno dei modelli storici maggiormente rilevanti in questo caso, il modello di von Thünen, non solo interpreti insieme la struttura delle localizzazioni settoriali e il profilo della rendita dal centro alla periferia, ma indichi contemporaneamente il modello insediativi ottimale dal punto di vista, duplice, della massimizzazione del reddito complessivo e della minimizzazione dei costi di trasporto [2].
I vantaggi localizzativi a loro volta sono creati dalla localizzazione dei seguenti asset:
- i beni pubblici di accessibilità,
- i beni pubblici di qualità urbana e ambientale,
- i servizi pubblici localizzati,
- la dimensione complessiva della città e la sua generale attrattività (efficienza, qualità della vita, identità).
I primi tre casi stanno alla base della rendita differenziale, a carattere micro-territoriale, specifica di ogni unità spaziale; il quarto sta alla base della formazione della rendita assoluta, a carattere macroterritoriale, che si manifesta su tutte le unità di suolo urbano in modo simile.
Dunque: i vantaggi localizzativi (e la conseguente rendita fondiaria)sono creati dagli investimenti pubblici, dalla pianificazione e da quello che gli economisti classici chiamavano lo “sviluppo generale della società”. In conseguenza la rendita fondiaria sarebbe “un reddito non guadagnato”, che deriva da quanto accade per decisione in parte pubblica e in parte privata nello spazio circostante di ogni unità territoriale.
Importante è la conseguenza pratica che segue da questo ragionamento: come affermava Alfred Marshall alla fine dell’ottocento, se la rendita fondiaria fosse tassata al 100%, ciò costituirebbe uno sconvolgimento politico maggiore, ma dal punto di vista economico non genererebbe alcun effetto, “il vigore dell’industria e dell’accumulazione non ne sarebbe necessariamente danneggiato”[3].
Da tutto quanto precede, si può derivare la giustificazione per il secondo tipo di interventi, citato nel paragrafo precedente, per finanziare la produzione di beni pubblici urbani: la tassazione dei plusvalori fondiari derivanti dall’offerta e la localizzazione di nuovi beni pubblici (in una percentuale da definire “politicamente”)[4].
Questo tipo di interventi può assumere tre forme parzialmente differenti (Camagni, 1999):
- il “ recapture” di plusvalori patrimoniali immobiliari derivante dalla fornitura di beni pubblici localizzati (ad esempio, nuove stazioni lungo linee di trasporto pubblico metropolitano); le betterment levies inglesi e i contributi di miglioria specifica introdotti per qualche anno nella nostra legislazione negli anni ’60 appartengono a questa categoria [5];
- la tassazione dei developer, che trasformano terreni urbani divenuti appetibili grazie alla sopravvenuta (maggiore) centralità, anche attraverso procedure negoziali divenute normali nella maggior parte dei paesi avanzati;
- la internalizzazione di esternalità: con questo termine si intende la valorizzazione di terreni adiacenti alle aree di nuova accessibilità (nuove stazioni) attraverso la concessione di permessi di costruire edifici a varia funzionalità, in modo da poter generare plusvalori fondiari e immobiliari rilevanti da far rientrare nella disponibilità pubblica attraverso una tassazione. Nella maggior parte dei casi internazionali, il developer è costituito qui da una grande agenzia pubblica, ma niente vieta che si tratti di privati con i quali avviare una negoziazione pubblico/privato (come nel caso, ricordato in Fig. 4, parte di una procedura complessa di project financing).
Dunque, si procede in genere alla tassazione della rendita fondiaria in presenza di trasformazioni, cioè allorché si manifesta (e il privato si appropria di) una differenza fra la rendita potenziale e la rendita attuale:
- perché gli usi storici sono divenuti impropri (aree dismesse)
- per effetto del degrado cumulativo (“ rent gap theory”)
- per urbanizzazione di aree agricole perturbane
- per processi di riqualificazione del centro storico
- per effetto della predisposizione di nuovi beni pubblici (metro, ..).
Si chiede al privato di partecipare genericamente ai costi pubblici di manutenzione della città, più specificamente ai nuovi costi pubblici che sono implicati dalle trasformazioni (oneri di urbanizzazione) o agli investimenti pubblici che valorizzerebbero il patrimonio privato.
[omissis]
Conclusioni
In questo lavoro si sono volute esplorare le diverse forme possibili di finanziamento della “città pubblica” in epoca di crisi della finanza locale. Si sono analizzate le diverse forme di project financing e soprattutto le diverse forme di “ri-cattura” dei plusvalori fondiari e immobiliari conseguenti alle operazioni di trasformazione urbanistica. Tali plusvalori emergono proprio per effetto della costruzione dell’insieme di opere e infrastrutture pubbliche (oltre che dei conseguenti investimenti immobiliari privati), in presenza di un “non-lavoro” da parte dei proprietari: emerge così una giustificazione forte perché una parte di essi possa ritornare al pubblico proprio per finanziare le opere.
Si sono poi analizzate le modalità con cui in Italia si utilizzano gli oneri di urbanizzazione allo scopo di realizzare le normali infrastrutture e sovrastrutture, e si è effettuato un confronto fra un Programma Integrato di Intervento a Milano e simili programmi negoziati fra pubblico e privato a Monaco di Baviera. Appare evidente che a Milano l’introduzione di una procedura di negoziazione urbanistica - se pure ha certamente consentito di flessibilizzare e accelerare i processi di trasformazione - non ha in nessun modo alterato la storica sotto-tassazione delle trasformazioni urbane e degli incrementi di valore generati. Ad essere ottimisti, il pubblico ottiene solo un terzo di quanto realizzato a Monaco.
Questo appare dunque un campo aperto al miglioramento delle pratiche negoziali da parte dei comuni, spesso colpevolmente inerti o incapaci di difendere adeguatamente l’interesse pubblico; ma anche un campo in cui sarebbe essenziale il supporto di una nuova legislazione urbanistica nazionale e di nuove regole sulla tassazione delle rendite e dei plusvalori immobiliari.
[1] Si veda al proposito il Cap. 1 del mio manuale di economia urbana: Camagni, 2000.
[2] Si veda al proposito Camagni, 2000, cap. 6.
[3] Interessante notare come, in successive ristampe dei suoi Principles, Marshall abbia censurato questa frase: era intervenuta nel frattempo l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, che scomunicava, insieme al marxismo, il “georgismo”, la dottrina che prevedeva un’unica imposta del 100% sulla rendita e l’abolizione delle imposte su profitti e salari. Si veda Camagni, 2000, p. 193.
[4]La cosiddetta “regola d’oro” della finanza locale afferma che, in equilibrio, la spesa in beni pubblici eguaglia il “surplus” della città (differenza fra valore prodotto e costi) e questo eguaglia (è assorbito da) la rendita fondiaria.
[5] Il limite di questa tipologia consiste nel fatto che si tassano plusvalori potenziali ma non realizzati su alcun mercato (almeno finché il proprietario non aliena il suo immobile rivalutato), e questo dà luogo a probabili e costosi contenziosi.
Beni/merci
Beni e merci sono termini che si riferiscono ai medesimi oggetti. Si tratta di punti di vista diversi. Se considero, a esempio, una pagnotta o una casa o un paio di scarpe dal punto di vista dell’utilità che ne traggo, quell’oggetto è per me un bene; se invece lo considero come qualcosa da scambiare con qualche altra cosa (magari per guadagnarci sopra), allora è giusto definirlo come merce. Il bene è destinato all'uso, la merce allo scambio. In riferimento a questa distinzione gli economisti classici parlavano di “valore d’uso” e “valore di scambio”, grosso modo coincidenti con il valore degli oggetti inteso come bene o come merce.
Naturalmente ci sono beni che non sono merci: l’aria, l’acqua, l’amicizia, la solidarietà, sono certamente beni, ma non sono merci.
Produzione/consumo; consumo/fruizione
Nell’attività economica si distinguono due momenti principali: la produzione (che è l’attività di formazione di beni nuovi mediante l’impiego di beni esistenti, ivi compresi il lavoro e la cultura del produttore) e il consumo (che è l’impiego dei beni prodotti,o di altri beni esistenti in natura, da parte del produttore o del processo produttivo). Il produttore consuma abiti, cibo, aria e acqua, cultura e altri beni materiali o immateriali; il processo produttivo consuma materie prime, naturali o a loro volta prodotte da un altro processo produttivo, e lavoro.
È opportuno distinguere il consumo, destinato al proseguimento del processo produttivo, dalla fruizione, finalizzata invece alle esigenze dell’uomo. Si tratta della medesima attività, ma, per riprendere una distinzione già fatta, quando parliamo di consumo ci riferiamo alla merce (e al valore di scambio), quando parliamo di fruizione ci riferiamo al bene (e al valore d’uso).
Reddito: rendita, profitto, salario
A differenza di quanto accadesse qualhc decina d’anni fa, nel linguaggio corrente (ma anche in quello politico e amministrativo) oggi reddito e rendita sono termini tra loro molto confusi; spesso si adopera l’uno come sinonimo dell’altro. Nel governo del territorio, in tutti i suoi aspetti, la rendita assume un significato molto importante, quindi è necessario definirla con sufficiente precisione.
L’economia classica distingue tre forme di reddito (cioè di guadagno). La rendita è il reddito derivante a un soggetto per il fatto che è proprietario di un bene, utile e scarso (questi due requisiti definiscono un bene “economico”); egli può cederne o meno l’uso (o la proprietà) a qualcuno che lo desideri o ne abbia bisogno. Il profitto è il reddito derivante a un soggetto (il capitalista) che associa diversi elementi (materie prime, lavoro, impianti fissi etc.) e organizza un processo produttivo finalizzato alla produzione di merci. Il salario è il reddito percepito dal soggetto (il proletario) che mette a disposizione, per un determinato periodo di tempo, la sua capacità di lavorare.
La rendita fondiaria è quella che deriva dalla proprietà di una terra (fondo); quella edilizia dalla proprietà di un edificio: la rendita immobiliare comprende l’una e l’altra. La rendita immobiliare è costituita dalla rendita assoluta e dalla rendita relativa o di posizione. La prima corrisponde al minimo comune denominatore di tutte le rendite immobiliari in quella determinata area, la seconda dipende dalla maggiore o minore appetibilità di quel determinato immobile rispetto agli altri.
La rendita non puà essere eliminata del tutto. Essa però può essere fortemente controllata e ridotta da un’attenta politica urbanistica, mentre è aperto da oltre un secolo il dibattito sull’opportunità che la rendita immobiliare, che dipende dalle decisioni e dagli investimenti della collettività (storica e attuale), torni alla collettività mediante la politica fiscale.
Sviluppo / crescita
Sviluppo è un termine ambiguo. Per meglio dire, è adoperato in modi diversi, e assume diversi significati. E’ un termine relativo, che acquista un significato positivo o negativo a seconda del fenomeno cui si riferisce. È certamente positivo lo sviluppo intellettuale di una persona, è certamente negativo lo sviluppo di una malattia.
Nel linguaggio corrente, il termine sviluppo è riferito all’economia, alla crescita cioè di una serie di dati quantitativi a loro volta correlati a grandezze che si ritengono funzionali al benessere umano, come l’occupazione, il reddito delle persone, il fatturato delle imprese, la quantità di merci prodotte. Espressioni quali sviluppo ineguale o sviluppo squilibrato esprimono l’idea che lo sviluppo possa avere anche aspetti negativi e innescare processi non giusti, ma raramente si critica il fatto che concetto di sviluppo sia stato ridotto a quello di crescita quantitativa.
Ora è dimostrato che lo sviluppo, inteso nel significato corrente, provoca (ha già provocato) danni gravi e minacce paurose al destino del genere umano. Da qui è nata una riflessione e - in sede internazionale - il tentativo di correre ai ripari. Pur senza criticare a fondo il concetto di sviluppo (e i concreti processi economici e sociali in cui esso si manifesta) la Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo dell'ONU ha proposto una mediazione, espressa nel termine sviluppo sostenibile.
Sostenibile / durevole
Per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo che «soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ai loro». È certamente – come dimostrano gli stessi testi ufficiali - una "definizione di compromesso". Gia ai tempi della Commissione dell’Onu che coniò il termine (1989) la sostenibilità non era contraddittoria con la crescita, sebbene esprimesse chiaramente la convinzione che le condizioni del pianeta impongono del “limiti” allo sviluppo economico. Sebbene sia certamente un compromesso avanzato e una definizione severa, non esprime ancora pienamente una critica di quella ideologia della crescita indefinita che è congeniale al modo capitalistico di produzione. Ma è difficile che una critica siffatta potesse trovare consenso unanime all'interno dell'Assemblea generale dell'ONU.
Quanto compromesso fosse avanzato è comunque testimoniato dalle successive trasformazioni del termine. Mentre originariamente la sostenibilità era riferita all’ambiente, e in particolare alla sua componente naturale, successivamente si è parlato della necessità di garantire alla sviluppo sostenibilità ambientale, economica, sociale. La scarsità delle risorse non pone quindi limiti invalicabili alla crescita, pochè non è stabilita nessuna priorità alla sostenibilità ambientale ma essa è posta sullo stesso piano di quella sociale e, soprattutto, di quelle economica. Si sa che nel conflitto tra ambeinte ed economia à la seconda che vince. Di fatto che oggi, nel linguaggio corrente, "sostenibile" è divenuto un sinonimo di "sopportabile", arretrando un bel po' dalla severità della definizione elaborata dai saggi coordinati da Gro H. Brundtland. Nella lingua francese il concetto di sviluppo sostenibile viene sostituito da quello di “developpement durable”, “sviluppo durevole”, che forse esprime meglio il concetto originario.
Risorse / patrimonio
Tra le definizioni di risorsa che più si avvicinano all’uso nel linguaggio corrente vi è questa: “i mezzi di cui si dispone e che possono costituire sorgente di guadagno e di ricchezza” (Il Nuovo Zingarelli, 1983). Cioè il termine risorsa suggerisce un’utilizzazione economica del bene, disponibile o accumulato naturale o frutto del lavoro dell’uomo. Il termine patrimonio è apparentemente molto simile: “complessodi elementi materiali e non materiali, di valori e simili, aventi origini più o meno lontane nel tempo, peculiari di una persona, una collettività, una nazione”. Strettamente connesso al termine patrimonio è però l’dea della conservazione e della trasmissione agli eredi. Non a caso il francese patrimoine è declinato nell’inglese heritage, eredità. Significative le definizioni francesi (Larousse, Dictionnaire de la langue française, 1989): “Ensemble des biens de famille reçus en heritage” e “Bien commun d’une collectivité, d’un groupe humain, de l’humanité consideré comme un héritage transmis par les ancètres” (“Insieme dei beni di famiglia ricevuti in eredità” e “ Beni comuni d’una collettività, d’un gruppo umano, dell’umanità, considerato come un’eredità trasmessa dagli antenati”).
Il termine risorsa evoca quindi l’dea di uno sfruttamento economico del bene, della sia trasformazione in merce, della sua commercializzazione, mentre il tyerminme patrimonio contiene in sé l’idea della conservazione e della trasmissione, e in qualche misura quella dell’appartenenza a una comunità: dalla famiglia, allargata verso i posteri, della comunità, dell’umanità intera.
Comune/individuale; pubblico/privato
Nel linguaggio corrente si tende a confondere privato con individuale e comune (o collettivo) con pubblico. Sono termini tra i quali è bene distinguere: parlo di comune e individuale quando mi riferisco all’uso, parlo invece di privato e pubblico quando mi riferisco alla proprietà e alla gestione.
Così, per esempio, un servizio di trasporto collettivo, autobus o treno, può essere organizzato o gestito da un soggetto pubblico (il comune, la provincia o un’azienda appartenente a enti pubblici), ma anche da un soggetto privato. E un mezzo di trasporto individuale, come a esempio la bicicletta, può essere messo a disposizione dei cittadini da un soggetto pubblico, come avviene in molte città europee.
Ambiente, territorio, paesaggio
Ambiente, territorio, paesaggio sono termini usati spesso come equivalenti. Sarebbe utile invece distinguerli, poiché si riferiscono ad aspetti differenti della medesima realtà.
In ecologia l’ambiente, secondo Mario Di Fidio, è «l’insieme dei fattori abiotici (fisici e chimici) e biotici (animali e vegetali) in cui vivono i diversi organismi ed in particolare l’uomo» (Dizionario di ecologia, Milano, Pirola, 1996, p. 40). Con riferimento specifico alla società umana, l’ambiente ha assunto un significato più ampio: esso è tutto ciò che riguarda l’uomo, lo può influenzare e, viceversa, può esserne influenzato.
Per territorio intendiamo invece una porzione di ambiente delimitata da un confine. Sovente si tratta di un confine amministrativo a cui corrisponde, in genere, un ente definito, appunto, territoriale. Secondo Piero Bevilacqua il territorio è la «natura degli storici: vale a dire l’ambito territoriale e spaziale, regionalmente delimitato, entro cui uomini e gruppi, formazioni sociali determinate, vengono svolgendo le proprie economie, in intensa correlazione e scambio con esso» (Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Roma, Donzelli, 1996, p.9. ).
Il termine paesaggio esprime in ultima analisi la forma del territorio, il suo aspetto esterno, fisico. È stato definito e interpretato a partire da considerazioni prevalentemente estetiche, oppure di tipo geografico, riferite a una serie di variabili più estesa di quelle percepibili visivamente, come il clima, la morfologia, l’idrologia e la vegetazione, per arrivare ad abbracciare nuovamente il rapporto fra l’ambiente naturale e l’azione dell’uomo. Così, a esempio, per Emilio Sereni il paesaggio agrario è «quella forma che l’uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale» (Storia del paesaggio agrario italiano, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 21).
Negli anni più recenti si è posta l'attenzione sul ruolo del paesaggio come elemento che caratterizza l’identità di una determinata popolazione, e quindi anche al modo in cui il paesaggio è percepito dalla popolazione che lo vive.
Alla domanda che intitola il seminario odierno viene voglia di rispondere: “Tutti in teoria, nessuno in pratica”.
Perché è questa, purtroppo, l’esperienza di chi cerca – da semplice cittadino, ancorché talvolta organizzato insieme ad altri in associazioni, comitati, ecc. - di cimentarsi nell’arduo compito di impedire almeno gli scempi più vistosi, le distruzioni più assurde, le speculazioni più evidenti.
1. Un po’ di storia. Il PURG del ’78 e la sua (mancata) attuazione
Vediamo il caso della mia Regione, il Friuli-Venezia Giulia, un tempo additata come modello in Italia proprio in fatto di pianificazione del territorio. Fu la prima, infatti (in realtà la seconda, dopo l’Umbria), a dotarsi di uno strumento di pianificazione che oggi si direbbe d’”area vasta”, vale a dire il Piano Urbanistico Regionale Generale (PURG) approvato nel 1978.
Un piano, certo, ancora “sviluppista”, anche se va tenuto conto che a PURG ormai pronto si verificò il terremoto del Friuli del maggio ’76, il quale – come tutte le “emergenze”, almeno in Italia – produsse da un lato la conseguenza di irrobustire la forte corrente di pensiero ostile all’urbanistica in quanto tale. Dall’altro lato, con l’enfatizzazione del successo dei sindaci nel gestire la ricostruzione, pose le basi psicologiche e politiche per una progressiva enfatizzazione del ruolo delle comunità locali nelle scelte territoriali.
Il PURG avrebbe potuto, tuttavia, rappresentare una buona base di partenza nel senso di una gestione del territorio “sostenibile” o meglio fondata sul principio della tutela della biodiversità e quindi delle reti ecologiche (più che delle sole aree protette intese in senso tradizionale), avendo previsto il sistema degli ambiti di tutela ambientale (76) e dei parchi regionali (14), estesi su circa il 30 % del territorio regionale. Un sistema, va detto e sottolineato, che nasceva da un forte coinvolgimento nella stesura del piano delle migliori conoscenze scientifiche allora disponibili in merito alle valenze ambientali presenti sul territorio regionale.
Un sistema che non sarebbe stato difficile, volendo, far evolvere verso un’autentica “rete ecologica” (in parte lo era già). Si preferì invece ripiegare su una gestione molto tradizionale e burocratica della materia, delegando ogni iniziativa sui parchi e gli ambiti di tutela ai Comuni e trasformando così un’idea originale e innovativa nell’ennesima occasione per la spartizione più o meno clientelare – e casuale - di incarichi per la progettazione di piani e per la realizzazione di opere pubbliche, non di rado discutibili (il prolungamento della “Napoleonica” in Comune di Trieste, ad esempio). Risultato : alcuni “parchi di carta” e nessuna effettiva tutela degli ecosistemi.
E ovviamente neppure del paesaggio.
Senza contare che talvolta fu la stessa Giunta regionale a decretare la “morte” di alcuni ambiti di tutela, a vantaggio di interessi economici privati evidentemente ben rappresentati in sede politica (è accaduto ad alcune preziose aree naturali della pianura friulana, distrutte dalla sciagurata politica dei riordini fondiari).
L’esperienza fallimentare di quegli anni avrebbe potuto essere di insegnamento almeno per evitare di ricadere in errori analoghi. Era infatti del tutto evidente come non fosse saggio affidare al livello comunale (in una sorta di devolution ante litteram) la responsabilità della gestione di un patrimonio tanto prezioso, quanto delicato e soggetto ad innumerevoli pressioni e minacce.
E invece la successiva legge urbanistica regionale, la n. 52 del 1991, rappresentò un ulteriore decisivo passo verso la rinuncia della Regione – a vantaggio dei Comuni – ad un ruolo “forte” sia nella pianificazione territoriale, sia nella tutela del paesaggio. Basti riflettere alla sub-delega ai Comuni (senza indirizzi e direttive di sorta) della competenza sulle autorizzazioni paesaggistiche e all’autentico abominio cui sono oggi ridotte gran parte delle Commissioni Edilizie Integrate comunali.
Una rinuncia, va ricordato, non accompagnata da alcun contrappeso istituzionale, come avrebbe potuto essere ad esempio un rafforzamento della trasparenza e della partecipazione (che è anche, inevitabilmente, controllo) da parte dei cittadini, insieme all’inserimento organico del ruolo di alcuni organi dello Stato (le Soprintendenze, ad esempio) nell’elaborazione dei piani.
Per tacere del fatto che fu completamente ignorato un problema sostanziale : l’inadeguatezza tecnica e strutturale di molti Comuni (quelli più piccoli, in primo luogo, che sono però la stragrande maggioranza) a gestire attività e procedure complesse come quelle relative ai PRGC ed ai PRPC (Piani regolatori particolareggiati comunali).
Il tutto nell’assenza totale di un quadro di riferimento sovracomunale o d’area vasta, perchè il PTRG (Piano territoriale regionale generale) previsto dalla 52/1991 in sostituzione del PURG, com’è noto, non ha mai visto la luce. Benché, com’è forse meno noto, fosse stata prodotta in funzione del PTRG medesimo una copiosa – e costosa – serie di studi preparatori e lo stesso PTRG fosse in realtà pronto nella seconda metà degli anni ’90 (in due versioni successive, come hanno spiegato altri relatori di questo convegno).
Nel frattempo alcune importanti novità, che avrebbero dovuto indurre la Regione ad adottare un approccio più consapevole rispetto ai valori ambientali (magari riprendendo, sviluppando e soprattutto applicando sul serio le previsioni già contenute nel PURG), erano pur intervenute.
Prima fra tutte la cosiddetta legge “Galasso” (431/1985) sulla tutela del paesaggio.
Invece, non soltanto non fu colta la fondamentale novità di questa legge, che concepiva il paesaggio meritevole di tutela non più come meri “quadri naturali” identificati da vincoli puntuali, bensì come insieme di ambienti naturali (le aree costiere, i fiumi, i laghi, le montagne, i boschi, ecc.) da assoggettare in quanto a tutela e specifica pianificazione.
Non soltanto ci si rifiutò di cogliere questo aspetto, ma ci si attardò in un miope arroccamento a difesa dell’”autonomia” regionale, contro le “ingerenze” statali, arrivando ad impugnare la legge davanti alla Corte Costituzionale.
Un errore tragico – se di mero errore si trattò – la cui responsabilità ricade ovviamente sulla classe politica al potere in quegli anni, ma anche sul livello tecnico dirigenziale.
Nel frattempo e da allora in poi, naturalmente, l’urbanistica – comunale – ha marciato (e marcia) a pieno ritmo, producendo gli effetti che ognuno può constatare de visu sul territorio.
A dirigerla non c’era ovviamente un quadro di riferimento generale, né un sistema organico di tutele per l’ambiente naturale ed il paesaggio (inesistenti entrambi, come si è detto). C’erano - e ci sono – inevitabilmente soltanto gli interessi, più o meno organizzati di categorie, lobbies, gruppi economici grandi, piccoli e piccolissimi, tutti adeguatamente rappresentati nelle amministrazioni comunali.
Tant’è che il processo di formazione e discussione di un PRGC (o di un PRPC) si riduce spesso - di fatto - ad un penoso gioco autoreferenziale, senza alcun momento di reale trasparenza, tra sindaci e consiglieri (spesso soltanto alcuni consiglieri) comunali, più o meno “ispirati” dai diretti interessati alle trasformazioni, con professionisti e funzionari ridotti al ruolo di notai di decisioni altrui.
Tutto (o quasi) legittimo, beninteso, “legale” e nel rispetto delle regole canoniche. Nulla a che vedere con l’abusivismo anarchico dilagante in altre parti d’Italia. E tuttavia gli effetti negativi sul territorio non sono molto dissimili da quelli che si possono notare in una regione giustamente vituperata per la sua dissennatezza urbanistica, come il vicino Veneto.
Basti pensare a cos’è diventata l’area del pordenonese, oppure all’incredibile congerie di centri commerciali – con relative infrastrutture - a nord di Udine, tanto per citare solo due esempi.
Anche qui, come in Veneto (e non solo), un’allucinante sfilata di capannoni ed edifici dalle più svariate destinazioni, disseminati lungo le statali e le provinciali, al di fuori di qualsiasi logica, con le inevitabili (e queste sì logiche !) conseguenze : congestione viabilistica, scomparsa del paesaggio agrario, spreco di territorio, ecc.
Nessuno, men che meno i Comuni, ha saputo resistere alla spinta verso la proliferazione di zone produttive o “miste” artigianali-commerciali, o artigianali poi trasformatesi in commerciali, o commerciali tout court, qua e là sul territorio. Non si è voluto costruire un serio coordinamento delle scelte insediative, per evitare almeno che ogni Comune si costruisse (con soldi pubblici, si badi !) la propria zona artigianale e poi anche quella commerciale, con tutto l’inevitabile corredo di infrastrutture viarie e non.
Nessuno, neppure le organizzazioni agricole, che pensasse ad una vera tutela del suolo coltivabile di fronte all’inarrestabile espansione del cemento e dell’asfalto.
O meglio, qualcuno c’era (e c’è ancora) : i soliti rompiscatole ambientalisti, riuniti in associazioni (quelle “storiche”, su questi temi : WWF e Italia Nostra, in pratica, e basta), oppure in comitati spontanei di cittadini. Ma si sa, gli ambientalisti sono fondamentalisti per antonomasia, non hanno in mente lo “sviluppo”, soltanto i “vincoli”…
La natura ed il paesaggio, in un simile contesto, non potevano certo aver sorte diversa dal resto del territorio.
2. I PRGC dell’area triestina
Conviene soffermarsi, per ragioni che diverranno più chiare in seguito, soprattutto su alcuni esempi tratti dalla realtà del capoluogo regionale, Trieste, e del – minuscolo ma prezioso - territorio circostante.
Una serie di piani regolatori, nella seconda metà degli anni ’90, ha disegnato il futuro del territorio nei tre Comuni costieri della provincia triestina.
Il PRGC di Trieste, approvato nel ’97, nacque con l’intento dichiarato apertamente dal sindaco di allora (Riccardo Illy) di servire “al rilancio dell’attività edilizia triestina, da troppo tempo in crisi”. Non per nulla, assessore all’urbanistica nel periodo cruciale della discussione sul PRGC, fu nominato dal sindaco un uomo di punta del locale Collegio Costruttori (l’ing. Cervesi) ... Gli effetti concreti di quel piano sono sotto gli occhi di tutti, specie lungo la fascia costiera.
Va ricordato che la Regione tentò, intervenendo con gli strumenti limitati di cui disponeva in base alla citata legge urbanistica del ‘91, di porre rimedio almeno alle storture più evidenti del piano nelle aree di maggior pregio ambientale. Ne derivò un’asperrima battaglia politico-legale tra il sindaco (oggi presidente) e la Giunta regionale di allora, condotta dal primo in nome dell’”autonomia” comunale e – purtroppo – vinta davanti al Consiglio di Stato alla fine del ’99, proprio per la mancanza del piano paesistico previsto dalla “Galasso”. Come si vede, gli errori – politici e tecnici – prima o poi si pagano : il guaio è che di solito non li paga chi li ha commessi e in definitiva li paga l’ambiente.
Il PRGC di Muggia (approvato nel 1999) nasce invece sotto il segno dello “sviluppo turistico”, inteso naturalmente nell’accezione italiana, e quindi prevede colate di cemento, interramenti a mare, nuovi porti nautici e quant’altro lungo tutto il piccolo tratto di costa salvatosi (in parte) dagli scempi compiuti nei decenni passati (grazie alle giunte comunali “di sinistra” di allora). Il piano contiene sì un’analisi abbastanza accurata delle valenze naturalistiche e paesaggistiche, ma le contraddice sovrapponendovi previsioni edificatorie assolutamente inammissibili.
Il PRGC di Duino-Aurisina, sempre del ’99, pur con qualche cedimento e ingenuità, è l’unico a fondarsi su una profonda analisi dei valori ambientali e culturali ed a porsi programmaticamente l’obiettivo di tutelare con rigore lo straordinario patrimonio racchiuso su un territorio piccolo ma estremamente complesso e diversificato (ma anche piuttosto mal gestito fino ad allora).
Manco a dirlo, questo è il piano che corre i maggiori rischi di essere svuotato e stravolto dall’amministrazione comunale in carica.
Nessun esito, pur avendone in teoria la potenzialità, ha avuto il tentativo della Regione (tardo frutto della breve stagione in cui un barlume di consapevolezza si era fatto strada ai vertici della Giunta) di redigere un piano paesaggistico – ancorché sotto falso nome – per l’intera fascia costiera triestina.
Correva l’anno 2000 ed al potere c’era una Giunta di centro-destra, nefasta certo per molti aspetti (compreso un tentativo subito abortito di mettere mano alla legge urbanistica in combutta con i peggiori figuri dell’INU nazionale), ma mai quanto quel che sarebbe venuto dopo.
Ci ha pensato infatti, qualche anno dopo, il neo-eletto presidente della Regione (Illy, sempre lui…) a decretare – in aperto spregio della legislazione statale in materia - che il piano paesaggistico della costiera triestina “…non saranno inserite previsioni che contrastino o contraddicano gli strumenti urbanistici dei comuni interessati”, affossandolo quindi sul nascere.
Non sia mai che a qualcuno venga in mente di rivedere la villettizzazione prevista dal PRGC di Trieste proprio in quell’area!
3. L’urbanistica e il paesaggio in Friuli Venezia Giulia nell’era di Illy
Nel programma della Giunta Illy, sui temi della pianificazione territoriale e del paesaggio non c’è nulla, e assai poco anche su quelli ambientali. C’è parecchio invece per quanto concerne le politiche industriali, l’innovazione e la competitività del sistema produttivo regionale, ecc.
Un sintomo abbastanza chiaro, per chi l’avesse voluto cogliere, dell’indirizzo che il nostro intendeva dare all’attività dell’amministrazione regionale.
Gli atti successivi non facevano che confermare l’impressione di una Giunta intenta a rispondere soprattutto alle “esigenze” – spesso soltanto presunte - del sistema produttivo, così come rappresentate dalle istanze organizzate dello stesso (Confindustria in primis, ovviamente).
Ecco quindi, similmente a quanto fatto a Trieste per compiacere la lobby dei costruttori, l’enfasi estrema sulle infrastrutture di trasporto (ferrovie ad alta velocità, ma anche – e soprattutto – strade ed autostrade) e su quelle energetiche (elettrodotti, rigassificatori per GNL).
Il tutto, ben inteso, anche quando aveva ed ha ovvie e pesanti ricadute territoriali, paesaggistiche ed ambientali, al di fuori di qualsiasi quadro programmatico e pianificatorio: l’infrastruttura come postulato, come a priori. Non quindi un approccio problematico, che cerchi di capire – il più possibile oggettivamente, sulla base di studi, analisi costi-benefici, valutazioni strategiche e di impatto ambientale – quali e quante infrastrutture servano davvero al Friuli Venezia Giulia e siano compatibili con i valori irrinunciabili del suo territorio, bensì il progetto dell’opera come punto di arrivo che non si può discutere, al quale vanno subordinati piani e strumenti di tutela.
E’ per questo che il WWF, avendo iniziato subito un scrupoloso monitoraggio sull’attività della Giunta Illy in campo ambientale, ha infine riassunto le proprie valutazioni in un documento organico (v. allegato 1), inviato a tutti i possibili “portatori di interesse” e referenti istituzionali (anche nazionali), senza però –apparentemente – suscitare particolari reazioni nel mondo politico, neppure da parte della cosiddetta “sinistra radicale”.
L’impostazione politico-culturale della Giunta Illy porta talvolta anche a situazioni al limite del grottesco, come quella in cui il nostro diventa addirittura “certificatore di qualità paesaggistiche”. Accade a Sistiana, febbraio 2005, quando il presidente della Regione incontra il sindaco di Duino-Aurisina (un ex collega, in fondo…) e l’imprenditore privato (un altro collega…) che in quella baia vorrebbe realizzare un ignobile mega-progetto turistico-immobiliare e “attesta” l’alto valore paesaggistico dell’intervento, proponendo addirittura. delle “migliorie” (peraltro ridicole o impossibili a realizzarsi). Di fronte ad un progetto, si badi bene, tenuto segreto a tutti (ma non a lui) allora e per molto tempo anche dopo.
Ma bisogna pur aiutare le iniziative imprenditoriali.
Inutile dire che gli uffici regionali competenti in materia, di fronte a tanto autorevole certificazione, si sono prontamente adeguati….
Del resto, ancor prima a Lignano, la pineta di proprietà dell’EFA (carrozzone pseudo-assistenziale ma in realtà immobiliare, di proprietà della Curia di Udine), pur assoggettata a vincolo paesaggistico nei primi anni ’90 proprio per decisione della Regione, è stata sventrata per far posto ad alcuni edifici sportivi privati (che avrebbero potuto benissimo trovar posto altrove). In questo caso, non si è esitato ad applicare la normativa regionale sui lavori pubblici ereditata dalla precedente amministrazione di centro-destra, trattandosi sì di un intervento privato, ma sostenuto da un contributo regionale e quindi parificato ad un’opera di pubblica utilità. Una normativa, ça va sans dire, che permette di scavalcare agevolmente piani e vincoli ed è assai sbrigativa sotto il profilo delle valutazioni ambientali e paesaggistiche.
Non che il nostro sia del tutto allergico alla pianificazione, beninteso. Basta che i piani siano costruiti a sua immagine e somiglianza e cioè contengano tutto ciò che lui vuole (infrastrutture, ecc.) e non contengano ciò che non vuole (vincoli paesaggistici o ambientali insuperabili, ad esempio). Ecco quindi che, di fronte ad alcune – grosse - difficoltà insorte nell’iter di un progetto che gli sta particolarmente caro, cioè la linea ferroviaria ad alta velocità Venezia – Trieste, spunta improvvisamente l’urgenza (neppure accennata, come detto, nel programma di Giunta) di un Piano Territoriale Regionale. O meglio, di una legge che ne indichi finalità e procedure. L’obiettivo vero è però un altro, come vedremo.
Ecco, quindi, il solerte assessore alla pianificazione territoriale (nonché all’energia, alla mobilità e alle infrastrutture di trasporto…), Sonego, approntare di gran carriera quella che sarebbe diventata poi la legge regionale 30 del 2005. La quale all’art. 5 espone sinteticamente tutte le proprie “coordinate culturali”: l’economicismo di fondo, la confusione dei piani e degli obiettivi, la demagogia e l’indeterminatezza delle enunciazioni. E’ infatti questo, probabilmente, il primo caso in cui ad un Piano territoriale si impongono “equi-ordinate” finalità strategiche quali “la conservazione e la valorizzazione del territorio regionale, anche valorizzando le relazioni a rete tra i profili naturalistico, ambientale, paesaggistico, culturale e storico” insieme alle “migliori condizioni per la crescita economica del Friuli Venezia Giulia e lo sviluppo sostenibile della competitivita’ del sistema regionale”.
Che cosa significhi poi, anche dal mero punto di vista semantico, “lo sviluppo sostenibile della competitivita’ del sistema regionale”, è questione troppo ardua per essere risolta dalle modeste capacità del sottoscritto e richiederebbe ben altre doti esegetiche.
Ma tant’è, così si scrivono le leggi oggi in Friuli Venezia Giulia.
I contenuti “programmatici” della legge 30 sono stati successivamente ripresi, pari pari, nella nuova legge urbanistica regionale, la n. 5 del 2007, che ha sostituito la precedente n. 52 del ’91.
Per una disamina puntuale del testo normativo, si veda l’allegato 2, riferito in realtà al disegno di legge originario; le modifiche introdotte in fase di approvazione non sono però tali da mutare la sostanza dell’articolato e quindi neppure il giudizio del WWF su di esso. Un altro importante commento alla legge regionale 5/2007 è quello del compianto Luigi Scano, pubblicato su www.eddyburg.it
Naturalmente, il vero obiettivo della legge 30 era ben altro. Vale a dire le infrastrutture. Il Capo II della legge è infatti costruito con l’obiettivo dichiarato di “preservare la possibilità di realizzare infrastrutture strategiche ovvero di dotare la Regione di strumenti che ne facilitino la realizzazione”. Ecco quindi, sempre rigorosamente al di fuori di qualsiasi previsione pianificatoria, strumenti come la sospensione provvisoria dell’edificabilità “sulle domande di concessione o di autorizzazione edilizia in contrasto con progetti che siano stati dichiarati di interesse regionale”. La dichiarazione spetta, ovviamente, alla Giunta regionale. Il testo originario del disegno di legge indicava esplicitamente alcuni di questi progetti strategici: le “opere ferroviarie di attuazione del Corridoio V e quelle ad esso complementari” e le “opere del nuovo collegamento stradale Cervignano-Manzano e quelle ad esso complementari”. Indicazioni poi espunte, per pudore, nel testo definitivo.
Con tali premesse, appariva abbastanza chiaro cosa ci si potesse aspettare dal PTR.
Il piano vero e proprio è stato preceduto da un – corposissimo – “Documento preliminare al PTR”, sul quale è stato anche avviato un pretenzioso quanto vuoto ed insulso “processo partecipativo”, ispirato (si vorrebbe far credere) ai principi di Agenda 21.
Si rimanda al commento di dettaglio del WWF su tale elaborato (v. allegato 3). Basti dire che dalle 550 (!) pagine del documento non emerge alcun indirizzo chiaro, per quanto concerne elementi imprescindibili di ogni serio strumento di pianificazione territoriale, come le questioni ambientali e del paesaggio: imprescindibili specie per un PTR che si vorrebbe abbia anche valenza di piano paesaggistico!
Invece, anche qui, emerge con assoluta evidenza l’approccio essenzialmente economicistico alle questioni territoriali e l’enfasi sulle infrastrutture strategiche, accanto a “perle” di assoluto valore umoristico – ancorché involontario – quali l’impagabile finalità del Piano consistente nell’“offrire sostegno alla zootecnia ed al pascolo (con reintroduzione di cavalli, mucche, ovini che a livello di coscienza collettiva contribuiscono a ‘fare paesaggio’)”.
Men che meno, si rinvengono nel documento preliminare, indicazioni forti in merito ad una concezione moderna del paesaggio e dell’ambiente naturale, concezione che pur era presente – almeno in nuce – nel PURG del 1978. Una concezione, cioè, che si incentri sulla tutela degli ecosistemi, più che di singole “isole” di pregio naturalistico, che di conseguenza punti alla tutela e al recupero delle connessioni funzionali tra gli ecosistemi stessi attraverso un sistema di reti ecologiche e di corridoi naturalistici (tenuto conto, ovviamente, della straordinaria concentrazione di biodiversità presente – malgrado tutto - nel pur limitato territorio regionale). Una concezione, va riconosciuto, ardua da accettare per chi concepisce il futuro del Friuli Venezia Giulia essenzialmente come “piattaforma logistica” e le “reti” le vede rappresentate soltanto da strade, ferrovie ed elettrodotti…
Naturalmente, però, le infrastrutture non possono attendere i tempi, inevitabilmente lunghi, di un PTR. Ecco quindi che, a latere di tutto ciò, si percorrono anche altre strade.
Una di questa è quella che punta ad estorcere al Governo impegni – politici ed economici – per le cose che interessano. Ecco allora il Protocollo d’intesa tra la Regione Friuli Venezia Giulia e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, predisposto la scorsa estate dal presidente della Regione raccogliendo anche i contributi di vari esponenti politici di maggioranza ed opposizione e – ahinoi – sottoscritto dal Presidente del Consiglio il 6 ottobre 2006.
Il commento del WWF sul Protocollo è reperibile all’allegato 4. Qui basti rimarcare che, in perfetta continuità con quanto detto prima a proposito di infrastrutture, il Protocollo contiene una nutrita “lista della spesa” relativa alle opere – viarie – che la Regione chiede di finanziarie, ovvero di sostenere nelle successive fasi progettuali, ovvero di agevolare (è il caso della superstrada Sequals-Gemona) mettendo in riga i funzionari recalcitranti che in qualche Soprintendenza si ostinano a non volersi sottomettere ai desiderata dei sindaci e delle categorie economiche. Il tutto, al solito, prescindendo da qualsiasi pianificazione o programma, come dimostra il caso eclatante del collegamento autostradale tra la A 23 e la A 27 attraverso il traforo della Mauria, opera – voluta da alcuni ambienti economici soprattutto veneti - inserita a forza nel Protocollo soltanto perché “prevista” da un’intesa estemporanea stipulata nell’aprile 2004 tra il presidente del Friuli Venezia Giulia, quello del Veneto ed il ministro delle Infrastrutture. Sono questi gli unici atti programmatici che contano e che devono prevalere, secondo il nostro, su qualsiasi piano e programma.
Il guaio è che finiscono per prevalere anche su elementari considerazioni di sostenibilità tecnico-economica delle opere (per non parlare della sostenibilità ambientale), sulle doverose esigenze di coinvolgimento ed informazione dei cittadini, scavalcando di fatto perfino procedure di valutazione pur prescritte da Direttive europee come la V.A.S..
Proprio come accade con la linea ferroviaria ad alta velocità Venezia –Trieste.
Al Protocollo ha fatto seguito quest’anno un “atto aggiuntivo”, che ne aggiorna alcuni contenuti senza mutare la sostanza, né l’approccio politico-culturale di fondo. Stiamo tentando, in questi giorni, di far percepire ai decisori politici nazionali, l’inopportunità di assecondare Illy su questo terreno, ma la battaglia è in salita: già alcuni parlamentari eletti in Friuli Venezia Giulia hanno assicurato pieno sostegno all’atto aggiuntivo e lo stesso Prodi ha di recente promesso che lo firmerà quanto prima, sia pure previa verifica tecnica sui contenuti.
Bisogna però pur produrre uno straccio di piano, anche perché lo prescrivono le normative nazionali, almeno per quanto concerne il paesaggio (D. Lgs. 42/2004 e s.m.i.). Ovviamente, bisogna che il piano corrisponda, almeno nella forma, a quanto previsto dalle norme statali. Ecco allora intervenire l’Intesa interistituzionale tra la Regione, il Ministro per i beni e le attività culturali ed il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare “per l’elaborazione congiunta del piano territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici”, predisposta dal solerte Sonego e inviata per la sottoscrizione a Roma.
Un sintomo di rinsavimento? Mica tanto, perché il testo dell’Intesa proposto dalla Regione prevedeva (art. 3) che gli “indirizzi preliminari e generali di cui tener conto nell’elaborazione del PTR” siano costituiti, ovviamente, dal “Documento preliminare al PTR”, quello delle 550 pagine di cui sopra, con mucche, cavalli e ovini che contribuiscono a fare paesaggio.
Per fortuna, in extremis, qualcuno a livello ministeriale ha pensato bene di cassare questo punto. Ora si tratta di vedere se gli organi ministeriali (per il MBBAACC si tratta della Direzione regionale per il Friuli Venezia Giulia), ai quali è stato affidato il compito di seguire l’iter del PTR, avranno la forza di riappropriarsi del proprio ruolo, mettendo un freno alla deriva “sviluppista” ed infrastrutturale del Friuli Venezia Giulia. In fondo, a tutt’oggi, la competenza prevalente in merito alla tutela del paesaggio appartiene allo Stato e la Regione Friuli Venezia Giulia non ha certo ben meritato finora, in questo campo.
L’esame del PTR, disponibile in bozza ma non ancora adottato, è in corso e da un primo esame si può dire che quanto prodotto dagli uffici regionali non si discosta granché dal “Documento preliminare” citato prima.
E’ da augurarsi che non intervengano pressioni politiche, dirette o indirette, ad interferire con il lavoro dei tecnici dei ministeri, incaricati di interagire con gli uffici regionali nella definizione dei contenuti del PTR.
Un segnale pericoloso in questo senso è però rappresentato da quanto accaduto di recente.
4. Di nuovo Sistiana
Succede infatti che una parte (quella più corposamente edilizia, manco a dirlo) del progetto “segreto” per la cosiddetta valorizzazione turistica dalla baia di Sistiana, ottenga l’autorizzazione paesaggistica dal Comune di Duino-Aurisina. Qui si potrebbe aprire un – penoso – capitolo sul funzionamento delle Commissioni Edilizie Integrate, ma è meglio rinviarlo ad un altro momento.
Succede poi che il nuovo Soprintendente BPAASAE del Friuli Venezia Giulia, l’arch. Rezzi, annulli l’autorizzazione comunale, con una corposa e dettagliata motivazione, evidenziando in particolare la difformità della relazione paesaggistica presentata rispetto a quanto previsto nel DPCM 12/12/2005.
Plaudono gli ambientalisti, ma il sindaco è in campagna elettorale e l’argomento baia di Sistiana ne diventa il clou. Tanto che a pochi giorni dal voto il sindaco rilascia una nuova autorizzazione paesaggistica, anche perché nel frattempo il Comune ha incassato parte degli oneri di urbanizzazione dai proponenti del progetto…
Il sindaco viene rieletto con buon margine, ma un paio di mesi dopo il Soprintendente annulla per la seconda volta l’autorizzazione, rincarando la dose nelle motivazioni: il progetto era infatti rimasto tale e quale e così pure la relazione paesaggistica.
Pochi giorni dopo, è di passaggio a Trieste per un convegno di Confindustria sul turismo il ministro Rutelli, il sindaco di Duino-Aurisina e Illy colgono l’occasione al volo per perorare con lui la causa del progetto di Sistiana, che ora “è fatto bene” garantisce personalmente il presidente (già autoinvestitosi del ruolo di esperto paesaggista, come si è visto, cfr. sopra par. 3).
Il tentativo di mettere nell’angolo il Soprintendente è palese e spudorato. Vi si associa anche il sottosegretario agli interni (!), in quanto triestino e, soprattutto, fedelissimo di Illy (fu presidente del Consiglio comunale quando Illy era sindaco).
Piccolo dettaglio, tutto sommato irrilevante visti i tempi che corrono: il sindaco di Duino-Aurisina è di Forza Italia e guida una giunta di centro-destra, mentre il centro-sinistra – in teoria lo stesso schieramento che sostiene Illy - è all’opposizione.
Rutelli se la cava invitando il sindaco a rivolgersi ai superiori romani del Soprintendente. Pare però che l’incontro richiesto con l’arch. Cecchi non abbia ancora avuto luogo.
Intanto il Comune di Duino-Aurisina ha presentato ricorso al TAR contro l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica. Il WWF e Italia Nostra si affiancheranno all’Avvocatura dello Stato nel sostegno alla Soprintendenza e ha chiesto che il ministero faccia altrettanto (v. all. 5).
Il sindaco di ha però dichiarato il Consiglio comunale che anche la Regione interverrà nel giudizio, a fianco del Comune.
Se una Giunta regionale si comporta così per un progetto, è pensabile che non metta in moto tutte le leve politiche a sua disposizione anche per ottenere un trattamento di favore sul PTR?
5. Conclusioni
Tutto ciò può aiutare a dare risposta alle domande che compaiono nel programma della Scuola a proposito del tema di questo seminario?
Probabilmente solo in parte.
Il problema vero non sono infatti gli accorgimenti normativi e procedurali che consentano di meglio equilibrare il rapporto tra i vari poteri, oppure che garantiscano un corretto rapporto tra i cittadini e le istituzioni, oppure ancora che definiscano il rapporto tra la tutela e le decisioni sulle trasformazioni.
Beninteso, modifiche anche rilevanti alle norme attuali – sia in campo urbanistico, sia in quello paesaggistico, sia in quello ambientale – sono senz’altro necessarie e del resto sono state anche già proposte (si pensi ad esempio alla proposta di legge prodotta proprio da Eddyburg in materia di pianificazione del territorio). Tra queste, tengo a sottolineare l’urgenza di una modifica del Codice dei beni culturali e paesaggistici, che restituisca al Ministero BBAACC e alle Soprintendenze la facoltà di intervenire nel merito delle autorizzazioni paesaggistiche rilasciate da Comuni e Regioni e non più soltanto per vizi di forma come oggi accade.
E’ chiaro altresì, ed è stato più volte ricordato autorevolmente in varie sedi, che un ripristinato ruolo di effettivo controllo sui beni paesaggistici da parte del Ministero BBAAC, non può assolutamente prescindere dal deciso potenziamento delle strutture periferiche (e non solo) dello stesso, oggi ridotte in condizioni di vergognosa indigenza.
Si potrebbe continuare a lungo, elencando le tante proposte di riforma necessarie ed urgenti.
Il problema vero, si sarebbe detto un tempo, è però la “volontà politica” di farle queste riforme e di farle funzionare. Volontà che non c’è, a quanto posso vedere, né a livello centrale, né – come credo di aver dimostrato – neppure a livello locale (almeno per quanto riguarda la mia Regione), anzi.
C’è piuttosto esattamente la volontà opposta, cioè quella di utilizzare tutti gli strumenti e gli organi istituzionali per asservirli agli interessi economici predominanti. C’è in buona sostanza la completa sottomissione del ceto politico - di centro-sinistra come di centro-destra - agli interessi delle lobbies confindustriali e immobiliari (quasi sempre coincidenti).
C’è anche l’asservimento sostanziale dei media a questo contesto politico-economico. Con la conseguente assuefazione della maggior parte dell’opinione pubblica al “pensiero unico” dominante.
Non scopro nulla, sia chiaro.
Però mi pare questo il nodo principale che bisogna provare a sciogliere, se si vogliono cambiare veramente le cose.
Il come farlo è problema che supera le mie capacità di immaginazione. Quel che so è che vale la pena di impegnarsi ad analizzare i problemi e battersi per diffondere con ogni mezzo l’informazione: qualcuno che ascolta prima o poi lo si trova e posso garantire che questa è un’attività che da molto fastidio al “Palazzo”. Prova sufficiente, credo, per concludere che è anche un’attività utile.
Nella sezione SOS Carso una ricca documentazione sulle vicende della Baia di Sistiana richiamate nel testo.
Nella pagine di eddyburg sono disponibili anche il testo della nuova legge urbanistica e una disamina critica di Luigi Scano.
PRESENTAZIONE
L’edizione 2007 della scuola estiva di eddyburg si occuperà del paesaggio e si terrà in Puglia, a Corigliano d’Otranto (25 km da Lecce, 23 da Otranto), nello splendido Castello de’ Monti, dal 26 al 29 settembre.
Come nelle passate edizioni saranno proposte riflessioni sui principi e sulle finalità del governo del territorio, informazioni sull’evoluzione della legislazione e dei contenuti degli strumenti di pianificazione, illustrazioni di esperienze particolarmente significative.
L’edizione di quest’anno prenderà avvio con una giornata dedicata al significato e all’utilizzazione di alcune parole chiave per la pianificazione paesaggistica che nel corso di questi ultimi anni hanno subito uno slittamento e talvolta uno svuotamento rispetto al loro significato originario. La parte centrale della settimana sarà dedicata all’illustrazione delle iniziative promosse dalle amministrazioni regionali della Sardegna (la prima regione ad avere attuato il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio) e della Puglia (impegnata a restituire alla pianificazione il ruolo di strumento fondamentale per il governo delle trasformazioni del territorio). La giornata conclusiva della scuola, infine, sarà dedicata ad approfondire il tema delle relazioni tra istituzioni, cittadini, associazioni e movimenti nella tutela del paesaggio.
L’attività della scuola sarà preceduta durante l’estate da un lavoro di preparazione che vedrà coinvolti:
- un gruppo di esperti chiamati a costruire il glossario, contenente le definizioni delle parole-chiave, distribuito ai partecipanti e illustrato nella prima giornata della scuola;
- un gruppo di collaboratori di eddyburg, che preparerà i materiali per il seminario conclusivo;
- uno o più partecipanti, ai quali sarà chiesto di rappresentare con fotografie o video alcuni episodi di trasformazione del paesaggio italiano
I documenti prodotti, prima e durante il corso, saranno poi raccolti e selezionati, per confluire in una possibile successiva pubblicazione, su cd-rom e – se possibile – editoriale.
PROGRAMMA
Mercoledi 26, Prima giornata
Voci per un glossario
Riflessione collegiale con l’aiuto di esperti di altri settori sul significato e sull’uso di parole strettamente connesse al tema generale della scuola, come conservazione / tutela, sviluppo / crescita, sostenibile / durevole, risorse / patrimonio / beni, identità culturale / identità locale; e, naturalmente, paesaggio / ambiente / territorio.
L’obiettivo della giornata è quello di raccogliere una pluralità di voci e di testi per districarci da equivoci, slittamenti semantici, strumentalizzazioni, distorsioni e confusioni che governano l’uso di questi indispensabili strumenti del nostro lavoro che sono costituiti, appunto, dalle parole.
Abbiamo invitato a concorrere a una riflessione critica e alla costruzione di un glossario, proseguendo il lavoro iniziato nella seconda edizione della Scuola, esperti di diverse discipline
Nella mattinata verrà illustrato il glossario predisposto nel corso dell’estate da Giovanni Azzena, soprintendente ai beni archeologici per le province di Sassari e Nuoro e docente di Topografia antica alla Facoltà di Architettura dell'Università di Sassari, Paolo Baldeschi, docente di Urbanistica alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze ed esperto di pianificazione territoriale, urbanistica e pianificazione del paesaggio ed Edoardo Salzano, docente di Urbanistica alla Facoltà di Pianificazione del territorio dell’Università Iuav di Venezia e direttore di eddyburg).
Dopo le presentazioni gli studenti, riuniti in piccoli gruppi assistiti da un tutor, discuteranno tra loro e prepareranno le questioni da porre alla discussione. Nel pomeriggio la discussione proseguirà sulla base delle domande proposte dagli studenti.
Giovedi 27, Seconda giornata
Gli strumenti istituzionali
Il rilancio della pianificazione paesaggistica costituisce un’occasione per comprendere in che modo le riflessioni (e in particolare la memoria di quanto di buono è stato acquisito nel passato), può essere tradotto in azioni positive ed efficaci. La pubblica amministrazione è chiamata ad intervenire in prima persona, ma non sempre la sua azione appare coerente ed efficace. Discutiamo dei limiti e delle potenzialità dell’agire pubblico a partire dall’illustrazione di un’esperienza matura: il piano paesaggistico della Sardegna.
Nella mattinata verranno presentate tre comunicazioni: (1) Il quadro normativo della pianificazione paesaggistica (Edoardo Salzano), (2) L’attuazione del Codice nelle Regioni (Georg Frisch); (3) Il piano paesaggistico regionale della Sardegna (Edoardo Salzano). Dopo le presentazioni i gruppi di studenti prepareranno le questioni da porre alla discussione.
Nel pomeriggio, sulla base delle questioni poste degli studenti, si discuterà degli argomenti illustrati nella mattina. Nel corso della discussione interverranno anche Giorgio Todde, Sandro Roggio, Giulio Angioni, Giovanni Azzena, testimoni diretti della vicenda della Sardegna.
Venerdi 28, Terza Giornata
Voci di chi ci ospita
Tra scuola e territorio c’è un necessario legame. La Puglia racconta come sta affrontando la sfida della pianificazione territoriale e paesaggistica.
Angela Barbanente, assessore all’assetto del territorio della Regione Puglia racconterà la difficile esperienza in corso, i programmi di lavoro avviati, le difficoltà legate alla concreta situazione della società, della politica e dell’aministrazione in questa regione del Mezzogiorno e le speranze incontrate nel lavoro sul territorio.
Successivamente si svolgerà visita ad alcuni dei siti più rilevanti dell’area, preceduta e preparata da una presentazione di Marcello Guaitoli, preside della Facoltà di Beni culturali dell’università di Lecce e autore della Carta del rischio archeologico della Puglia,
Sabato 29, Quarta giornata
Seminario conclusivo: chi sono i custodi del paesaggio?
La difesa del territorio da cattive forme di urbanizzazione e infrastrutturazione è tema del tutto aperto. Sulle pagine di eddyburg e su quelle dei quotidiani si moltiplicano le denunce e gli appelli. I due più significativi provvedimenti legislativi degli ultimi anni (codice e convenzione) propongono visioni differenti e complementari; la prima, tutta interna al mondo delle istituzioni e degli strumenti di piano, la seconda aperta (sbilanciata?) al confronto con i soggetti e alla definizione di politiche.
Il degrado del territorio si è manifestato in tutto il paese, ma è particolarmente minaccioso in alcune sue parti. Gli strumenti impiegati (in primo luogo la pianificazione urbanistica) non sono stati sufficienti. Le istituzioni che dovrebbero difenderlo spesso lo aggrediscono: i comuni, le regioni, la cattiva pianificazione. Oppure non lo difendono adeguatamente: l’amministrazione dei Beni culturali, le province. Le popolazioni sempre più spesso protestano, in un rapporto spesso conflittuale e comunque sempre difficile con le istituzioni, ma non sanno o non possono proporre.
Dall’analisi critica scaturiscono una serie di domande. La tutela deve precedere le decisioni di trasformazioni, oppure l’una e l’altra devono essere stabilite contestualmente? Se la tutela del paesaggio è competenza della Repubblica (quindi dello stato, delle regioni, delle province, dei comuni) in che modo si articolano le diverse responsabilità nella concreta impostazione e gestione dei processi delle decisioni)? Quali conseguenze derivano nell’impiego degli strumenti previsti dalla legislazione vigente e quali loro modifiche sono necessarie? In un’epoca delle nostra storia nella quale la politica e la stessa democrazia rivelano segni vistosi di crisi, in che modo si deve o si può porre il rapporto tra i cittadini e le istituzioni? e quello tra la protesta e la decisione?
Alla relazione critica e a queste domande forniranno le loro risposte Alberto Magnaghi, presidente della associazione “Rete del Nuovo Municipio”, Stefano De Caro, direttore generale del Mibac per i beni archeologici, Marcello Guaitoli, preside della Facoltà di Beni culturali dell’università di Lecce, Oscar Mancini, segretario della Camera del lavoro di Vicenza, Dario Predonzan, responsabile territorio del WWF del Friuli-Venezia Giulia, e altri ospiti della Scuola di eddyburg. La discussione sarà moderata da Francesco Erbani, giornalista
ORGANIZZAZIONE
Articolazione delle giornate
Nelle prime tre giornate le comunicazioni dei docenti saranno concentrate nella prima parte della giornata (3 ore complessive, compreso pause). Alle comunicazioni seguiranno:
- una sessione di lavoro collegiale degli studenti, suddivisi in sottogruppi, per selezionare le domande da porre ai docenti (1-2 ore di lavoro di gruppo, affiancato da tutor della scuola);
- una una sessione di confronto collegiale sulla base delle domande poste dai gruppi (il pomeriggio, più rilassati e disposti alla chiacchiera, con eventuale prolungamento a cena e dopo cena).
L’ultima giornata comprenderà, oltre al seminario conclusivo, una sintesi delle giornate precedenti predisposta e illustrata dai partecipanti.
Attività facoltative
La presenza di persone che hanno lavorato a piani paesaggistici, la consapevolezza che nessuna rivista pubblica in modo sufficiente i piani e che i siti degli enti che li pubblicano integralmente non consentono una lettura agile, il fatto che i partecipanti spendono risorse per stare con noi, e infine il fatto che sia una “scuola”, induce offrire agli iscritti la possibilità di avere, nelle ore serali, l’illustrazione di alcun piani con interessante contenuto paesaggistico. Si chiede agli iscritti di prenotarsi, e si attiveranno le illustrazioni che raggiungano almeno 10 richieste.
Iscrizioni
E' stato raggiunto il numero massimo di persone ospitabili nei locali della Scuola. Non si accettano perciò ulteriori richieste di iscrizioni, mentre si renderanno note le modalità per ottenere i materiali prodotti.
“Avere il territorio come alleato vuol dire saper usare con intelligenza le sue irregolarità, i suoi punti alti e bassi, le sue curve, i suoi passaggi fissi e segreti, le zone abbandonate, le sue alture, ecc. traendo il massimo da tutto questo per il vantaggio delle azioni” (Carlos Marighella, Piccolo Manuale della Guerriglia Urbana)
E naturalmente non solo alla guerriglia urbana, è utile “avere il territorio come alleato”.
Ci sono molti modi per attraversare il territorio, il paesaggio, e altrettanti per riportarne impressioni, suggestioni, informazioni: dal pellegrino con bastone e blocchetto per appunti/schizzi, al regista della pellicola on the road, alla fantozziana famigliola che immortala l’annuale transumanza da casa al campeggio.
Ai partecipanti alla Scuola estiva di Eddyburg, che si è tenuta quest’anno al castello di Corigliano d’Otranto, è stato proposto di cercare di unire la lenta sistematicità del pellegrino coi suoi acquerelli, al fluire continuo del racconto parallelo alla strada, tipo Easy Rider, o più autarchicamente Il Sorpasso, o la bozzettistica naïve delle diapositive delle vacanze, spesso ricche di informazioni sparse che basta saper evidenziare. Obiettivo: alimentare con una “materia seconda” autoprodotta, una riflessione sia personale che collettiva, il percorso di apprendimento e scambio proposto dalla Scuola.
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Ma che sarà mai, una traiettoria nel paesaggio contemporaneo?
Sin dai primi vagiti novecenteschi dell’approccio della pianificazione territoriale ai temi della tutela del paesaggio, tutti sottolineano come si tratti di entità in costante mutamento ed evoluzione: vuoi per le lente trasformazioni dei suoi elementi naturali e/o legati all’agricoltura, vuoi per gli interventi più o meno vistosi dell’uomo in termini edilizi e infrastrutturali, vuoi infine per la particolare prospettiva in cui colloca questo insieme la sensibilità dell’osservatore e il contesto di osservazione.
Una delle prospettive più caratteristicamente “moderne” di osservazione del paesaggio, è senza dubbio quella rappresentata dall’automobile. Senza scomodare il solito Le Corbusier, che privilegiava comunque un paesaggio fruito ad alta velocità e dominato dagli elementi tecnologici delle (sue) architetture e infrastrutture urbane, forse va ricordata la definizione che il fondatore del Touring Club, Luigi Bertarelli dava dei paesaggi inquadrati per la prima volta dal finestrino di un’auto: “la riscoperta della Patria dimenticata”.
Ed è proprio a questo tipo di “riscoperta” che gran parte degli itinerari scelti si sono ispirati.
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Paesaggi urbani, metropolitani, dell’insediamento diffuso con qualche brandello di campagna. In qualche modo resi unici e fluidi dai nastri delle arterie di comunicazione, che arrivano a dominare, esplicitamente o implicitamente, sia le immagini che il punto di vista generale delle “traiettorie”. È una modernità certo invadente, e certo di notevole impatto: ma è l’ambiente nel quale siamo immersi, esposto nei termini più quotidiani e meno enfatici possibili.
Con quest’ambiente, piaccia o meno, dobbiamo confrontarci: da studiosi, operatori culturali, divulgatori, ma prima ancora da cittadini.
I risultati delle “traiettorie” riportati in questa cartella sono organizzati secondo un testo illustrato, che restituisce le riflessioni sui paesaggi attraversati, e una serie di materiali scaricabili, composti dagli scatti fotografici “in tempo reale”, con brevi didascalie e materiali di orientamento.
Come dicono sempre i critici cinematografici: buona visione.