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Il Post online, 20 settembre 2016

Molto era lecito attendersi dalla Biennale di Architettura del cileno Alejandro Aravena, fresco premio Pritzker e noto non già come ideatore di arditi grattacieli e costosissimi musei, bensì come attento rammendatore di periferie ed esperto di edilizia sociale, nonché inveterato fautore dell’idea di architettura come bene pubblico. Ed è un fatto che la mostra di quest’anno (a Venezia dal 28 maggio al 27 novembre) – che segue quella di Rem Koolhaas del 2014, più orientata sull’analisi degli elementi primari dell’architettura, dalle porte alle finestre ai muri (un analogo approccio, anche se in sedicesimo, era nella recente e godibile Architecture as Art all’Hangar Bicocca di Milano) – segni una rottura rispetto alle tante edizioni in cui il concettualismo di cervellotiche fantasie metteva il visitatore dinanzi a opere di fatto indistinguibili dalle installazioni della Biennale di arte contemporanea, o peggio a faraonici progetti che talora coprivano indicibili affari. Più che porre interrogativi, come David Chipperfield nel suo Common Ground del 2012, Aravena è tutto orientato sulle possibili soluzioni, che declina sulla falsariga di alcuni temi maggiori negli spazi dell’Arsenale e del Padiglione centrale ai Giardini.
Tra questi temi richiamo: l’impiego di materiali del luogo (il bambù in Messico e in Corea, il legno in Ecuador e Thailandia, il travertino in Cile…; per non parlare dell’architettura interamente “di riciclo” di Alexander Brodsky in Russia); il rispetto delle tradizioni costruttive locali (spiccano fra gli altri i casi di Fuyang in Cina e soprattutto le realizzazioni di Anupama Kundoo in India); il recupero e la rifunzionalizzazione di edifici abbandonati (Souto de Moura a Braga), ma anche di materiali di scarto (notevole il progetto di Hugon Kowalski per le discariche di Mumbai, ma già subito al principio il visitatore è accolto da un’ominosa stanza ingombrata dai montanti d’acciaio dismessi dalla Biennale d’Arte 2015); la centralità del progetto abitativo all’interno di una specifica comunità (dall’inurbamento dei pastori mongoli a Ulan Bator alle difficili periferie della Lisbona della crisi ridisegnate da Inês Lobo; ma interessante è anche il disegno di Alexander d’Hooghe per un mercato per gli immigrati a Bruxelles, e, in un altro contesto, le pratiche di confronto continuo con la comunità locale promosse dal Rural Studio in Alabama). Insomma, un trionfo di principi eticamente nobili, e un rigetto dell’architettura spettacolare e fine a se stessa (dall’Istituto Veneto, all’Accademia, occhieggia par contre una mostra dedicata alla compianta Zaha Hadid).

Ora, non vi è dubbio che quanto si perde in spettacolarità in questa Biennale si guadagna invece nella pregnanza di molte delle soluzioni esposte, con alcune punte di assoluto interesse, come i diversi approcci al problema dei migranti (dai campi profughi del Sahara Occidentale alle soluzioni per i rifugiati in Germania proposte dallo Studio Bel di Berlino), le idee per agevolare l’accesso all’istruzione (le scuole “all’aperto” delle Ande e della foresta Amazzonica; la scuola galleggiante di Kunlé Adeyemi in Nigeria; i progetti di François Kéré in Burkina Faso o di Anna Heringer in Bangladesh; la rete di scuole di Luyanda Mpahlwa in Sudafrica), il fiorire di progetti cinesi volti a recuperare le tradizioni abitative indigene lungamente represse (per lo più a vantaggio dell’urbanizzazione forzata nei tristi palazzoni delle metropoli), o le mille sfide per il recupero del tessuto sociale e civile nelle città più problematiche del Sudamerica, dalle favelas di Asunción a quelle di Lima e Medellín. Non solo: colpisce vedere come diversi padiglioni nazionali si mantengano strettamente nel solco dei principi indicati dal curatore, a cominciare proprio da quello cinese (tutto dedicato alle pratiche abitative tradizionali, anziché – come accade di norma – ad avveniristiche proiezioni nel futuro), quello statunitense (che propone timidi tentativi di ricostruzione delle parti abbandonate di Detroit) e quello italiano (una selezione di 20 realizzazioni edilizie, urbanistiche e paesaggistiche in diversi luoghi della Penisola, tutte accomunate da un denominatore di aderenza all’ambiente e di uso comunitario); e in fondo anche Austria, Finlandia e Germania, con la loro viscerale e preoccupata attenzione al destino dei migranti, affrontano dinamiche urbane che hanno un risvolto socio-politico primario. Se meritano menzione, fra gli altri, anche lo studio della controversa storia di Manila nel padiglione filippino, e soprattutto la sofisticata e commovente riflessione sullo spazio abitativo dei malati di Alzheimer proposta dall’Irlanda, nulla però vale quanto il padiglione polacco, che per la prima volta dedica attenzione esclusiva ai volti e alle storie di chi materialmente costruisce gli edifici, dunque ai muratori, alle loro vite, alle loro condizioni di lavoro.

Ma proprio alla luce di questa lodevole novità di principio della Biennale di Aravena, non si può non segnalare da un lato qualche stonatura, dall’altro un’occasione perduta. Le stonature cadenzano il percorso espositivo in modo talora sorprendente, e a tratti rischiano di compromettere la credibilità del filo conduttore: cosa c’entra con il discorso qui perseguito la faraonica – e nemmeno recentissima – ristrutturazione dello spazio di Punta della Dogana ad opera di Tadao Ando per conto del magnate francese Pinault (si arriva perfino a proporre un’apologia delle colonne con cui l’archistar giapponese voleva immortalare all’esterno il proprio passaggio, e che un’avveduta mobilitazione popolare fortunatamente seppe sventare)? Era proprio necessario dedicare un’immensa sala agli esperimenti luministici di Jean Nouvel per il controverso Louvre di Abu Dhabi? E perché celebrare in questo contesto certi progetti di habitués della Biennale – le contorsioni di Herzog & de Meuron, gli instabili cubetti di Richard Rogers, le incerte pianificazioni di Kazuyo Seijima in Giappone, l’aeroporto per droni in Rwanda di Norman Foster, o il centro visitatori di un museo sudanese di David Chipperfield? In più d’un caso la spiegazione esiste: chi voglia avere una precisa visione delle dinamiche finanziarie e d’interesse che si muovono alle spalle di quanto ci viene proposto (a cominciare dal ruolo della Rolex e di Deutsche Bank, profumati sponsor delle ultime Biennali di Architettura), farà bene a leggere le analisi di Paola Somma sul sito eddyburg, che si pongono in feroce antitesi rispetto al “capitalismo compassionevole” di questo tipo di mostre, e ne mettono in dubbio alcuni assunti fondamentali (per es. l’ineluttabilità dell’inurbamento di enormi masse umane, o la credibilità dell’“imperialismo umanitario”); comunque la si pensi, si potrà per esempio prendere con maggior cautela la gragnuola di statistiche e di analisi offerte dal padiglione speciale Conflicts of an Urban Age, dedicato al tumultuoso sviluppo urbano di alcune delle più grandi metropoli del mondo, scelte e presentate secondo criteri forse non del tutto limpidi.

Infine, si può parlare di occasione perduta nella misura in cui le lunghe didascalie che accompagnano i progetti si intrattengono per lo più sempre sulle medesime questioni generali (non sono l’unico a sentire a tratti fastidio per una retorica pur teoricamente condivisibile), e raramente illustrano con chiarezza – al di là dei moventi ideologici – un fattore centrale, ovvero come le varie iniziative architettoniche e/o urbanistiche si siano concretamente sviluppate, quali soggetti pubblici e/o privati le abbiano promosse, ideate e finanziate, e quale sia o sia stata la ricaduta sulla società del luogo. È per esempio interessante contemplare un video sulla rinascita urbanistica e sociale di certi quartieri di Medellín e sulla creazione di uno spazio pubblico in loco, ma poi uno va alla Mostra del Cinema, vede Los nadie di Juan Sebastián Mesa (peraltro premiato nella Settimana Internazionale della Critica), e si domanda come stiano insieme le due cose. Tatiana Bilbao e altri lavorano sugli spazi vuoti di Città del Messico: ma qual è l’atteggiamento del potere (quello legittimo e quello de facto: si pensi alla Zona di Rodrigo Plá) dinanzi a simili iniziative? Lo stesso vale per es. per la riqualificazione di una pericolosa zona di Durban curata da Andrew Makin, o per le delicate esperienze di Al Borde in Ecuador. O ancora: in più d’un caso si mostrano i limiti dell’“edilizia sostenibile” intesa in senso ortodosso (la sua scarsa durevolezza, messa in luce dagli svizzeri Christ & Gantebein; la sua inerente fragilità, studiata da Michael Braungart), ma non ci si spinge a mettere in questione il concetto stesso e le più profonde implicazioni del suo sbandieramento.

Marginale, ma come sempre non del tutto assente, Venezia. Sull’importanza che le Biennali di Architettura hanno avuto per illustrare, legittimare e preparare l’assalto speculativo a Venezia, disponiamo ormai di una cronistoria precisa, ancora una volta a cura di Paola Somma (Mercanti in Fiera, Corte del Fóntego 2014). Quest’anno, se l’Istituto svedese propone la città lagunare come modello che va oltre la modernità (celebrando anzitutto il suo sapiente utilizzo del legno), d’altra parte i riflettori sono puntati su Marghera: “Up! Marghera on Stage” propone il Padiglione Venezia, sollecitando giovani architetti under35 a proporre soluzioni per il grande malato della Laguna, recentemente oggetto anche delle cure di Renzo Piano e del suo gruppo di giovani architetti. Un malato destinato – sotto gli auspici del primo sindaco di Venezia laureato in architettura – a risorgere come una “nuova Manhattan” sotto il peso di torri e grattacieli: in barba a tutti gli slogan caritatevoli.

Visita guidata attraverso la città e la Laguna e incontro pubblico con Edoardo Salzano, il 16-17 settembre 2016, organizzati dalla scuola di eddyburg.


Le ragioni dell’iniziativa.
Le qualità di Venezia sono prodotte dal rapporto equilibrato e dinamico che si è per secoli manifestato tra gli elementi fisici della città e dell'ambiente e il concreto e complesso tessuto sociale ed economico che della ricchezza della città costituisce una fondamentale componente. Questo equilibrio oggi è compromesso, a causa degli interessi economici dominanti, assecondati dalla politica. Non è sempre andata cosi. Tra il 1975 e il 1985, l’amministrazione comunale si è misurata con i problemi che oggi appaiono insuperabili e ha proposto iniziative e programmi per conservare la complessità sociale della città unitamente alla ricchezza della sua struttura fisica. Recuperare la conoscenza di quella stagione è premessa indispensabile per chi è convinto che si deve e si può contrastare la trasformazione di Venezia in un palcoscenico per il turismo di massa e in una riserva di caccia per gli interessi di pochi soggetti.
Programma
Venerdì 16.09.2016 | 9,30-18,30
In giro per la città e nella Laguna
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Per comprendere le poste in gioco, gli interessi dominanti e le possibili alternative, percorreremo un itinerario che attraversa la città e la laguna, con una serie di incontri organizzati in luoghi significativi.
Trasporti contro natura: fare a meno dell’acqua. Incontro con Maria Rosa Vittadini
Abitare è difficile: politiche per la casa a Venezia. Incontro con Anna Renzini
Laguna e città sotto assedio turistico. Incontro con Lidia Fersuoch
Difesa e riconquista degli spazi pubblici: Poveglia, una storia esemplare. Gita in barca, su un mezzo riservato al nostro gruppo, a cura de Il Caicio, un'associazione costituita nel 2004 da un gruppo di giovani Veneziani interessati al recupero delle tradizioni marinare, con un occhio di riguardo alla marineria veneziana, attraverso la costruzione, il restauro, il mantenimento e soprattutto l’utilizzo delle imbarcazioni tradizionali.

La visita guidata è riservata agli iscritti. Le iscrizioni sono terminate.

Sabato 17.09.2016 | 10,30-12.30
Eddy racconta 

Incontro pubblico, con partecipazione libera, presso l’aula magna del Liceo Guggenheim, 
Campo dei Carmini, Dorsoduro, 2613
Per recuperare la conoscenza della stagione amministrativa 1975-1985, ci affidiamo al racconto-intervista di uno dei principali protagonisti di quel periodo, Edoardo Salzano, all’epoca consigliere comunale e assessore all’urbanistica.
Quello che so di Venezia: dalla modernità all’omologazione.
La mia esperienza amministrativa: colloquio con Silvio Testa.

Seguirà la presentazione dell'associazione eddyburg
da parte di Edoardo Salzano, Maria Cristina Gibelli e Paolo Dignatici

L'invito all'incontro pubblico con Edoardo Salzano è scaricabile qui.
Presto su eddyburg renderemo disponibili i documenti sui temi trattati e sulle due giornate.

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Quest’anno, all’interno del recinto della Biennale, oltre ai padiglioni nazionali sono stati allestiti i padiglioni di due multinazionali: Rolex, sponsor dell’intera manifestazione, la cui filosofia è perfettamente riassunta nello slogan che campeggia su un manifesto pubblicitario “un Rolex non cambierà il mondo, lasciamo questo compito a chi ne indossa uno”, e Deutsche Bank, che ha finanziato l’allestimento della sezione “Conflicts of an Urban Age” e la relativa conferenza, svoltasi il 14 e il 15 luglio, entrambe curate dalla London School of Economics. Alla cerimonia di apertura dell’esposizione, il rappresentante di Rolex era sul palco accanto al presidente Paolo Baratta e al direttore Alejandro Aravena, mentre la conferenza Shaping Cities è stata inaugurata, oltre che da Baratta e da Ricky Burdett, professore alla LSE, da Paul Achleitner, presidente del consiglio di sorveglianza di Deutsche Bank.

In cambio della loro munificenza, ai due benefattori è riconosciuto un ruolo attivo e non solo una presenza simbolica. Se l’influenza di Rolex si manifesta soprattutto nella scelta di alcune archistar, gli invitati eccellenti la cui partecipazione è irrinunciabile per il “ritorno di immagine” che spetta allo sponsor, quella di Deutsche Bank è forse meno evidente, ma più pervasiva, e bene illustra il crescente potere delle istituzioni finanziarie di dettare (anche) l’agenda urbana e di cooptare università, liberi pensatori, amministratori locali al fine di renderne più facile l’attuazione.

La collaborazione tra London School of Economics e Deutsche Bank risale al 2004, quando Burdett chiese un finanziamento per organizzare una conferenza a Barcellona. Da allora il legame tra le due istituzioni si è sempre più consolidato e la banca, tramite la Alfred Herrhausen Gesellschaft, la fondazione culturale che porta il nome del suo direttore morto nel 1989, in un attentato le cui circostanze non sono mai state del tutto chiarite, ha fornito appoggio costante ai programmi di Burdett. In particolare sostiene il centro di ricerca LSE Cities, la cui “missione è studiare come le persone e le città interagiscono in un mondo che si urbanizza rapidamente” e ne finanzia le conferenze per divulgare “nuovi modi di pensare e costruire le città dove nel 2050 vivrà il 70% della popolazione mondiale”. Le conferenze, che ogni anno si tengono in una diversa città, hanno tutte il titolo Urban Age, una dizione che, evocando il sistema di periodizzazione pseudoscientifico, secondo il quale le “età” del genere umano si succedono l’una all’altra- età della pietra, del bronzo, del ferro- cerca di dare alla cosiddetta “età della città” un’aura di naturale inevitabilità.

Nel 2006 Burdett è stato nominato direttore della decima Biennale di Architettura, alla quale ha dato il titolo “Città. Architettura e Società” e vi ha esposto i risultati delle indagini di LSE Cities su sedici grandi agglomerati urbani. Ne è seguito un decennio di successi accademici e di fruttuosa collaborazione professionale con gli amministratori di molte importanti città. Ad esempio, è stato consulente del sindaco di Londra Boris Johnson e coordinatore della ristrutturazione urbana attuata in occasione delle Olimpiadi del 2012 ed è stato convocato dal sindaco Marino per organizzare Roma 2025.

Delle città prese in considerazione nel 2006, cinque compaiono anche nella mostra ospitata dalla Biennale di quest’anno: Mumbai, Città del Messico, San Paolo, Cairo e Istanbul. Fra le asiatiche, è scomparsa Tokio, sostituita da Shanghai, Guangzhou, Bangkok e Ho Chi Minh City e mancano tutte le città europee, con eccezione di Londra. In Africa, al posto di Johannesburg, ci sono ora Addis Abeba, Kinshasa e Lagos.

A parte “la velocità dell’urbanizzazione”, non sono espliciti i criteri con i quali le città, o per meglio dire le megalopoli, vengono selezionate. E’ certo, però, che in tutte esistono progetti per la realizzazione di grandi opere infrastrutturali- metropolitane, tunnel, autostrade- ai quali Deutsche Bank partecipa.

Come ha detto Achleitner, che in passato ha lavorato per Goldman Sachs, Bayer, Henkel, Siemens e altri grandi gruppi finanziari, non solo la banca considera Urban Age un suo “flagship project” ma “l’urbanizzazione sostenibile” è una delle questioni cruciali verso le quali si concentra l’attenzione della fondazione Herrhausen, che rappresenta il “forum internazionale” all’interno del quale investigare e dibattere i temi più rilevanti a livello globale.

In realtà, alla conferenza della Biennale, tale auspicato dibattito non c’è stato. Studiosi di grande prestigio, da AbdouMaliq Simone a Saskia Sassen da Rahul Merhotra a Richard Sennett, hanno suggerito punti di vista problematici, altri oratori hanno perentoriamente richiesto “infrastrutture per la crescita” e ”spazio per l’espansione urbana”, altri infine hanno riduttivamente parlato dell’urbanizzazione come di un problema di design. Tra questi Burdett, che ha ripetutamente evocato il conflitto tra urbanistica “dal basso” e “dall’alto” in termini di tipi edilizi, di forma e dimensione dei lotti, di disegno di reti stradali e distributive e Joan Clos, direttore di UN Habitat, che nelle considerazioni conclusive della conferenza ha ricordato che la “politica dell’urbanizzazione spetta agli stati nazionali” e che le Nazioni Unite non possono imporla, ma solo aiutare a “pianificarla bene”. In altre parole UN Habitat può, come in effetti fa, insegnare agli urbanisti a “preparare” la terra da liberare e consegnare agli investitori, e incoraggiare le scuole di architettura ad addestrare generazioni di tecnici a “disegnare” questo esproprio su scala mondiale.

Nel suo discorso di commiato finale Ute Weiland, membro del consiglio di amministrazione della fondazione Herrhausen, con toni da perfetta padrona di casa ha ringraziato tutti coloro che hanno collaborato alla riuscita dello splendido evento e ha preannunciato il prossimo che si svolgerà in Africa.

Del fronte africano, Deutsche Bank può vantare un’esperienza secolare. Ha, infatti, finanziato l’occupazione coloniale tedesca sia dell’Africa orientale, Rwanda, Burundi e Tanzania, che di quella sud occidentale, Namibia, anticipando i capitali per la costruzione di ferrovie e per le attività di estrazione mineraria. Le modalità di questi aiuti umanitari ante litteram, da tempo documentate da accurate ricerche storiche, sono state di recente anche oggetto di vertenze giudiziarie. Nel 2001, ad esempio, alcuni membri della tribu Herero hanno citato in giudizio il governo tedesco ed una serie di società, tra le quali Deutsche Bank, con l’accusa di genocidio in relazione alle attività minerarie svolte in Namibia all’inizio del novecento. L’azione è rimasta senza esito e, piuttosto che riconoscere qualsiasi responsabilità, il governo tedesco si è impegnato ad aumentare gli investimenti per la modernizzazione del paese. Uno degli argomenti usati per respingere le accuse è stato che i reati devono essere valutati in base al contesto in cui si sono verificati e che, siccome all’epoca dei fatti il termine genocidio neppure esisteva, di genocidio non si può parlare. Solo Il 14 luglio, lo stesso giorno della conferenza alla Biennale, il portavoce di Angela Merkel ha detto che il governo tedesco chiederà ufficialmente scusa alla Namibia. Si tratta ovviamente di una casuale coincidenza temporale, è comunque auspicabile che Deutsche Bank ne informi le truppe già dislocate sul fronte dell’occupazione neocoloniale.

Riferimenti

Quarto intervento della serie "eddyburg dal fronte", dopo La cattiva coscienza della Biennale targata Rolex, e Infrastrutture: per le persone o per gli investitori? , Il muratore polacco. Altri articoli sulla Biennale Architettura 2016 ripresi dai media qui nell'apposita cartella

Vorrei mettere in evidenza l’importanza del lavoro in rete tra Enti Pubblici specie riguardo a temi rispetto ai quali i comuni difficilmente dispongono di molte risorse: le poche che ci sono vanno quindi ottimizzate. In secondo luogo illustrerò brevemente le azioni messe in campo dal comune di Rivalta insieme ad altri comuni sul fronte dell’accoglienza e integrazione dei migranti.Infine vorrei sottolineare la necessità di rivedere il sistema complessivo italiano in merito all’accoglienza.

La Pace: dovere dell'amministrazione pubblica


Penso che il dovere dell’Amministrazione Pubblica sia di offrire ai propri cittadini occasioni di incontro e di approfondimento, perché una miglior conoscenza permette di vincere i timori di ciascuno. Stimolare i cittadini a un impegno concreto sul piano della solidarietà deve essere un dovere istituzionale e occuparsi istituzionalmente di pace significa che non si tratta di buone azioni dipendenti dal “buon cuore” di un Sindaco pro tempore, bensì di un piano di interventi coordinati e produttivi sia sul territorio del comune sia nelle realtà con cui si coopera. Insomma governare una città non significa occuparsi unicamente delle sue necessità immediate e materiali (luce, strade, servizi…) perché la città è un organismo vivo e complesso che deve avere relazioni altrettanto vive e complesse.

Siamo convinti che la pace non sia “solo” assenza di guerra ma che si basi su una distribuzione più equa delle risorse, che sia uno stile di vita, un modo collettivo di intendere le relazioni umane; già Capitini sostenne che le città possono e devono impegnarsi, nella certezza che ogni passo, anche il più modesto, costituisce un elemento importante per raggiungere l’obiettivo di un mondo più giusto e più bello.

Rivalta sta cercando di rendere concrete queste affermazioni in particolare sul piano dell’accoglienza dei migranti.

L’ importanza del lavoro in rete

Circa 20 anni fa Rivalta ha fondato con altri 15 comuni della provincia di Torino, il Coordinamento comuni per la pace (per brevità lo citiamo con l’acronimo Co.Co.Pa). Ora riunisce 30 comuni della provincia ed ha diverse collaborazioni con la Regione Piemonte ed è impegnato sui seguenti fronti:

Il cammino è ancora lungo:

L’esperienza di Rivalta di Torino - Il progetto Sprar

Con altri 4 comuni, riuniti in un consorzio per i servizi socio assistenziali, Rivalta ha presentato un progetto Sprar (Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati), finalizzato all’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, che è stato approvato e verrà finanziato dal Ministero degli Interni.

Il progetto ha consentito di affidare, con un bando pubblico, a due cooperative la gestione delle problematiche dell’accoglienza, tra cui quella più delicata è l’individuazione di alloggi per i quali si stipuleranno regolari contratti di affitto, intestati alle cooperative, con i fondi assegnati dal Ministero degli Interni

I fondi del progetto sono poi destinati ad attività di apprendimento della lingua italiana e di inserimento nel tessuto sociale dei nostri territori, all’attivazione di borse lavoro, con l’obiettivo di accompagnare i rifugiati verso un’autonomia economica e sociale: in questo quadro sarà importantissimo l’apporto di volontari e associazioni che vogliano mettere a disposizione un po’ del loro tempo per aiutare il conseguimento di tale autonomia

Con questo progetto di accoglienza e integrazione, il nostro comune vuole continuare il percorso già avviato negli anni scorsi con i migranti dell’emergenza nord Africa che sono rimasti sul nostro territorio, con quelli accolti con un altro progetto Sprar in partenariato con il comune di Avigliana e con quelli affidati dalla Prefettura a una cooperativa con cui il comune, insieme alla Prefettura, ha firmato un protocollo di intesa per il volontariato di restituzione.

Che cosa è il volontariato di restituzione

Nelle ultimi mesi i nostri cittadini hanno visto gruppi di africani lavorare con i nostri volontari civici per il decoro del nostro comune; altri ci aiutano nella distribuzione della posta interna al comune, altri sono entrati a far parte di un coro e del gruppo di danze popolari per condividere anche i momenti di piacere: è un modo per entrare a far parte della comunità apportando un contributo concreto e volontario in una cornice di pace e amicizia.

Criticità del sistema di accoglienza in Italia


L’Italia sta investendo risorse economiche ed umane a fronte degli arrivi e degli sbarchi utilizzando fondamentalmente:

Purtroppo il dialogo tra questi varie realtà è assai scarso, mentre sarebbe indispensabile avere un maggior raccordo tra la prima accoglienza di urgenza e i processi di effettiva integrazione che necessariamente possono avvenire solo operando su piccoli gruppi distribuiti nei numerosissimi comuni italiani

Il Co.Co.Pa ha tempo fa sottoscritto un appello per la chiusura dei CIE che ho fornito agli organizzatori.

Circa la connessione tra i percorsi delle Prefetture e il sistema Sprar è mia profonda convinzione che occorrerebbe dirottare verso di esso le persone inizialmente accolte con gli appalti delle prefetture, procedendo a un progressivo e continuo “assottigliamento” e ricambio dei grandi gruppi e consentendo,con le risorse dello Sprar un effettivo percorso di integrazione e conseguimento dell’autonomia grazie al raccordo tra amministrazioni e realtà associative del territorio.

Insomma occorre passare dall’assistenza all’integrazione.


RIVALTA: A NETWORK OF CITIES FOR HOSPITALITY

Thank you forthis opportunity. I apologize if I’m going to read my speech, but my English isnot so fluent.
I would like tohighlight the importance of working in networks among different PublicAdministrations, over all about themes with a low level of economicavailability.
In the secondpart of my speech I’ll describe some actions that we are carrying out inRivalta Municipality
In conclusionI’ll suggest some considerations about the Italian migrants system

Peace and Public Administrations

I think that aPublic Administration has to offer citizens some knowledge opportunities,because a better knowledge of the problem allows them to overcome suspicions.
Both motivatingcitizens to a concrete solidarity engagement and committing the Administrationresources have to be considered institutional duties and not good actions dependingon the charity and good heart of a temporary Major.
Peace on theplanet is not only and “simply” the absence of war: peace is a more equaldistribution of resources, it is a lifestyle, it is a collective way tointerpret human relationships.

What we are doing in Rivalta

Rivalta istrying to translate these statements in a concrete engagement even for migrantshospitality.
About 20 yearsago, Rivalta founded with 15 other Municipalities a network, named“Coordination of Municipalities for peace” (for the sake of brevity we’ll callit CO.CO.PA.). Now we have 30 Municipalities in the province of Turin and wehave many cooperations with the Regional Government of Piedmont.
Our main goalsare:
- To promote peace culture in schools and among our citizens
- To realize decentralized cooperation projects
- To care for staff training in these topics
- To cooperate with NGOs and with cooperatives working in these fields
- To promote the guidance and control role of an Administration in migrantshospitality and cooperation projects

Furthermore, Rivaltais included in a social Welfare Consortium whose aim is to give answers to issuesof social weakness.
With other 4Administrations of this Consortium, we are realizing a project approved by theItalian Ministry ofInternal Affairs. Its acronym is S.P.R.A.R., which wecan translate as Service for the protection of asylum seekers and refugees.

The project has made itpossible to entrust, by means of a public announcement, to two cooperatives themanagement of the reception problem, including the most delicate issue, namelythe finding of an accommodation, for which regular rent contracts are issued, paidfor by the cooperatives, with funds allocated by the Ministry of InternalAffairs.
The project funds areallocated to Italian learning programs and to integration programs into thesocial activities of the various territories, to the activation of employmentgrants, with the objective that refugees might reach economic and socialautonomy.
In this framework, thecontribution of volunteers and associations wishing to devote a bit of theirtime to help the achievement of such autonomy, will be very important.
With this project forhosting and integration, our Municipality wishes to continue the path already followedin recent years with the emergency of North African migrants who have remainedon our territory.
Also, with the people whohave arrived with another S.P.R.A.R. projectin partnership with the Municipality of Avigliana and with those entrusted bythe Prefecture to a cooperative, with which the Municipality has signed amemorandum of agreement for voluntary return. The latter consists in socialworks of public utility done by the refugees for the hosting community.


The Italian migrant systeme: not so good

Coming now to theItalian system, in response to the migration flows Italy is investing manyeconomic and human resources with utterly unsatisfying results.
We have:
- Centers of shelteringfor the first hospitality (that in Italy we call C.I.E.).
- attribution to theprefectures of migrants, mostly in large groups
- public announcements,by which the prefectures entrust the management of migrant groups to the cooperatives:the latter then have to prove that they have facilities and reception capacity,but often, because of the high numbers, they limit themselves to satisfy thevery basic needs and to provide assistance for legal procedures concerning the applicationto the right of asylum.
- Furthermore there arethe S.P.R.A.R. projects (as I have mentioned before), managed by the Ministryof Internal Affairs: they are taking care of smaller groups and of the proper integration of people.
Unfortunately, thedialogue between these various institutions is very sporadic, while it would beessential to have a tighter link between the first emergency reception and theactual integration process which can necessarily be achieved only by working insmall groups proportionally distributed throughout the many Italian Municipalities.
Because of the inadequatelife conditions and of the excessive lenght of the time spent in the CIE camps,the CO.CO.PA. has recently signed an appeal for the closure of the CIE centers.I have provided this to the organizers because it’s too long to describe it here.
As to the connectionbetween the procedures of the Prefectures and the S.P.R.A.R. system, it is mydeep conviction that we should send off to the S.P.R.A.R. the people initiallywelcomed by procurements of the Prefectures. This, in order to proceed to a gradualand ongoing "thinning" of larger groups and their gradualreplacement, as well as to kick off through the S.P.R.A.R. resources an actualpath of integration and autonomy, thanks to the link between the administrationsand the territorial associations.

So it is compulsory toshift from assistance to integration.
Thank you for yourattention.
Da un'ode a un campione del calcio a un'exursus storico dell'immigrazione/integrazione in Germania, da una mostra berlinese ricca di insegnamenti alla Biennale di architettura di Venezia, dalla vita letterario nella Germania di oggi alla minaccia della "paura": segmenti di una vicenda in atto, che condizionerà il nostro futuro. Il Post online, luglio 2016


Boateng contubernale dei celesti / come zeus adirato i suoi fulmini / tu feroce hai scagliato / con tuono e polpaccio tremante / la palla di fuoco dal piede ardente / dentro la rete dei telchini / come se avessi trafitto il loro cuore / recintato gli slovacchi avevano / le punte dei capelli ritte un tempo / smorfie di diavoli emersi / dalle estreme profondità dei boschi / ora si dimenavano come pesci ornamentali / sul prato asciutto che non aveva / più buchi nei quali potessero / acquattarsi i peggiori / dei loro incubi si avveravano / come se non si fossero da tempo / bruciati sulla pelle / se avessero visto il terrore solo / l’uno nelle braccia dell’altro / sarebbero rimasti a casa / questi tremendi esseri fiabeschi / poco prima del pianto / sono scappati via dall’uomo / nero via di nuovo nel loro occidente / nel quale il sole può sempre e solo / tramontare mentre noi / partita dopo partita nella tua luce / resistiamo jérôme tu figlio / degli dèi

Quest’ode a Jérôme Boateng, il cui tiro vincente ha aperto il 3-0 con il quale la Germania ha superato la Slovacchia negli ottavi di finale, è apparsa sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung il 28 giugno scorso: l’autore è il drammaturgo e scrittore Albert Ostermaier, unico poeta compiutamente “pindarico” della letteratura tedesca contemporanea, che ha dedicato tra l’altro una raccolta ai Mondiali del Brasile (Cambio d’ala, 2014) e una profetica “Ode a Manuel Neuer” all’abilità nel parare i calci di rigore.

La scelta di Boateng – pilastro della difesa dopo la defezione di Hummels – non è forse casuale: oltre a rappresentare una pedina insostituibile nella squadra di Loew (la débâcle nella semifinale contro la Francia è arrivata pochi minuti dopo la sua uscita per infortunio), il difensore di origine ghanese appartiene infatti alla pattuglia dei giocatori che rendono questa una delle nazionali più “MultiKulti” della storia tedesca – insieme a Khedira, Mustafi, Can, Özil, Mario Gomez, Sané, per non parlare di Gündogan, Rüdiger, Tah.

Con il suo fare posato e a tratti malinconico, ma soprattutto con la sua scelta di giocare con la Germania anziché con il Paese dei suoi genitori, il Ghana (per il quale ha optato invece il più turbolento fratello Kevin Prince, che gioca nel Milan), Boateng “figlio degli dèi” rappresenta un modello d’integrazione tramite lo sport del tutto affine a quello celebrato nella mostra che si tiene quest’estate al Deutsches Historisches Museumdi Berlino, dal titolo “Immer bunter” (“Sempre più colorati”, “Sempre più vari”): la gigantografia è lì, nell’ultima sala, quella di Mesut Özil. L’esposizione è di estremo interesse in quanto condotta su due assi, che sottolineano l’importanza del tema dell’immigrazione nel discorso pubblico del Paese: da un lato un’attenta ricostruzione storica del fenomeno a partire dal secondo Dopoguerra, dall’altro l’educazione militante agli ideali di tolleranza e multiculturalismo.

Il sottotitolo della mostra dice “La Germania come Paese d’immigrazione” (“Deutschland als Einwanderungsland”), assumendo così d’emblée un dato di fatto tutt’altro che scontato. Terminata l’epoca del massiccio assorbimento di forza-lavoro (grosso modo dal 1955 al 1973, anno in cui non furono rinnovati i trattati bilaterali che favorivano l’arrivo di lavoratori dai Paesi del Sud e dell’Est), per molto tempo la politica tedesca provò a negare che la Germania fosse o potesse diventare un Einwanderungsland: esplicite dichiarazioni in tal senso si leggono nel patto di governo CDU-FDP del 1982, ma ancora nelle parole del ministro dell’interno Manfred Kanther nel 1996, ad onta di una popolazione straniera comunque sempre in crescita (i molti permessi speciali di lavoro, i ricongiungimenti familiari, i cittadini europei non più soggetti a limitazioni come Italiani e Greci, le nascite della seconda generazione).

Né va dimenticato il picco degli arrivi di rifugiati dall’Est Europa tra il 1990 e il 1993 (dai 200mila ai 438mila profughi l’anno), un esodo paragonabile in termini numerici solo a quello dei Siriani di oggi, e tanto più rilevante in quanto composto essenzialmente di richiedenti asilo, ovvero di persone che – come recitava in quattro semplici parole l’art. 16 comma 2 della Costituzione tedesca – in quanto “perseguitati politici godono del diritto d’asilo”.
È da notare che questo articolo, già ritenuto uno dei fiori all’occhiello della Costituzione del ’49, e fondamentale per esempio per l’accoglienza di profughi vietnamiti, greci e cileni negli anni ’70, venne modificato in senso restrittivo nel 1993 proprio sull’onda degli eventi: da allora, tecnicamente, non possono richiedere asilo coloro che entrino in Germania via terra; è proprio questo uno dei punti giuridici che si sono dovuti superare tramite una serie di legislazioni d’emergenza in occasione della crisi dell’autunno 2015, che ha portato nel Paese quasi un milione di fuggiaschi.

Il picco di arrivi attorno al ’90 fu alla radice di una recrudescenza di fenomeni xenofobi culminati nel pogrom contro il centro di raccolta degli immigrati di Rostock dell’agosto ’92 e nelle sanguinose aggressioni di Mölln e di Solingen, che tra tardo 1992 e primo 1993 causarono ben otto morti (tra cui due bambini) nelle locali comunità turche; e quella volta, sia detto per inciso, la protesta della politica e della società fu compatta, e duratura. D’altra parte, la reazione delle comunità straniere fu rapida e organizzata (“non vogliamo essere gli Ebrei di domani”): si creò la Deutsche Islam Konferenz come luogo istituzionale d’incontro fra il governo e le comunità islamiche per dibattere temi delicati e tuttora controversi come la cittadinanza, i luoghi di culto, il velo obbligatorio, le pratiche matrimoniali, l’adattamento alla morale corrente; nel 1994 entrarono in parlamento i primi deputati di origine turca (oggi Aydan Özoguz è ministra dell’integrazione); anche sul piano culturale cominciarono a proliferare gli artisti stranieri pronti a scrivere, cantare o girare in tedesco, dal regista Fatih Akin al gruppo hip hop degli Advanced Chemistry al prosatore Feridan Zaimoglu, autore peraltro di un testo autobiografico breve, scomodo e toccante per l’inaugurazione della mostra berlinese.

La Germania come Paese d’immigrazione
il senso di una mostra


Ora, il senso di questa mostra, ampiamente visitata da scolaresche forzatamente ignare del passato, ma anche da privati cittadini desiderosi di orientarsi in un momento politicamente complesso, è proprio quello di indicare da un lato come – e a quali condizioni, spesso non vantaggiose per gli stranieri – il miracolo tedesco si sia potentemente avvalso di forza lavoro non qualificata proveniente da altri Paesi, e abbia provato, almeno a partire dagli anni ’70 con i programmi d’istruzione linguistica e le prime concessioni sul voto locale, a battere tra mille difficoltà la strada dell’integrazione (uno dei simboli è la motocicletta donata dallo Stato nel 1964 al milionesimo Gastarbeiter giunto in Germania, uno spaurito carpentiere portoghese); dall’altro, come questo processo sia stato e sia tuttora costantemente avversato da una frangia della politica e della società refrattaria a ogni discorso inclusivo.
Quando il presidente della Repubblica Christian Wulff in un discorso del 2010 citò l’Islam come religione appartenente alla Germania allo stesso titolo di ebraismo e cristianesimo, fu travolto da polemiche d’ogni sorta; e il suo successore Joachim Gauck, attualmente in carica, non più tardi di domenica 26 giugno a Sebnitz, in Sassonia, è sfuggito all’assalto di un neonazista armato, che insieme a un centinaio di altre persone lo apostrofava come “traditore del popolo” proprio in virtù delle sue posizioni sul tema.

In prospettiva storica, colpisce vedere come, 40 anni prima della famigerata notte di San Silvestro del 2015, una vignetta di Klaus Pielert rappresentasse “il futuro skyline di Colonia” come una selva di minareti che fanno corona alle guglie del Duomo; o come già nel 1986, in una striscia di Peter Leger, vi fosse la chiara denunzia di una retorica xenofoba che ripercorreva ad litteram le orme di quella anti-giudaica del 1933. D’altra parte, una seconda mostra al piano inferiore dello stesso Deutsches Historisches Museum disegna la storia della propaganda antisemita e razzista in Germania seguendo le tracce degli adesivi d’ogni tipo comparsi da fine Ottocento ad oggi nei bagni pubblici, sulle lettere private (epistole d’amore degli anni ’20 sigillate con il motto “Gli Ebrei sono la nostra rovina”!) o sui muri delle città (per esempio gli odierni stickers “Refugees welcome” e viceversa “Nein zum Heim”). Se l’analisi politica, condotta sotto questa luce, è sottile, d’altra parte la condanna nei confronti della retorica odiosa è durissima ed esplicita, e anzi i visitatori più giovani vengono invitati in un apposito laboratorio a produrre essi stessi i propri slogan e i propri adesivi per combattere l’odio contro gli uomini e ogni atteggiamento discriminatorio.

La Germania alla
Biennale di Architettura di Venezia

Sorprende – ma conferma la centralità del tema, nonché l’urgenza di parlarne a un vasto pubblico – l’assoluta consonanza di questa mostra con l’assetto del Padiglione tedesco presso la 15ma Biennale di Architettura di Venezia. In risposta all’appello del curatore cileno Alejandro Aravena (condensato nel titolo “Reporting from the Front”), il commissario Peter Cachola Schmal (peraltro di origini pakistane) ha sfondato i muri esterni di quello che è diventato “The Open Pavilion“, trasformando una struttura chiusa in un punto di passaggio perennemente aperto da ogni lato, e dedicato a una questione chiara: “Making Heimat” (con tutto quello che di intraducibile ha il sostantivo Heimat, solo approssimativamente reso con “patria”). Dalla collaborazione con il giornalista canadese Doug Saunders, autore del saggio Arrival City (2011), nasce una struttura policentrica che affronta il problema delle migrazioni da diversi punti di vista. Per integrare i nuovi arrivati, si argomenta, sono indispensabili residenzialità a basso costo (è necessario che essi comprino casa, anziché restare in affitto o in alloggi di fortuna), prossimità al lavoro e alle opportunità d’impresa (un buon sistema di trasporti e di reclutamento), e infine reti di comunità che possano fornire aiuto in loco (anche se c’è sempre il rischio che queste reti viaggino al confine della legalità, com’è, a parere di alcuni, nel caso del vietnamita Dong Xuan Center di Lichtenberg a Berlino, o del giro di manodopera attorno al porto di Amburgo).
Ma per far sì che i nuovi arrivati non siano né si sentano destinati solo ai lavori più umili (non ripercorrano cioè la sorte dei Gastarbeiter degli anni ’60), è essenziale insistere sin dal principio sull’apprendimento della lingua, istituire scuole di alto livello nei quartieri più disagiati (si cita sempre il caso delCampus Rütli di Neukölln a Berlino, antico istituto che nel 2006 pareva destinato alla chiusura per l’intollerabile livello di violenza e che da allora è stato invece riqualificato e rilanciato), creare biblioteche pubbliche che facciano concorrenza ai centri di indottrinamento religioso, e soprattutto – come illustrano anche molte foto della mostra berlinese – dare un gran peso alla cerimonia del conferimento della cittadinanza, rendendola de facto una forma di iniziazione civile.

La Germania, ricorda il sociologo Walter Siebel, ha creato un minor numero di quartieri-ghetto rispetto a Paesi gravati da una più lunga e più tormentata storia coloniale (il padiglione offre uno squarcio ottimista anche su Offenbach am Main, in Assia, forse uno degli agglomerati più problematici da questo punto di vista): dinanzi alle crisi dei rifugiati, il Paese ha anche escogitato soluzioni abitative interessanti, sia a livello di prefabbricati sia a livello di nuovi quartieri: da Monaco a Mannheim ad Amburgo, vengono documentate in Biennale diverse soluzioni abitative. Tuttavia, la tecnica di queste costruzioni passa in secondo piano dinanzi alla loro dimensione squisitamente politica, se è vero – come ricorda Emily Bromwell in una ricerca condotta in questi mesi presso il Max-Planck-Institut di Berlino – che tutto dipende in realtà da quanto “permanenti” o “provvisorie” vengono considerate le strutture in questione (e dunque, di riflesso, i soggiorni di chi le abita), da quanto cioè esse possano o debbano assomigliare a una casa vera. Di per sé, il “Better Shelter” promosso l’anno scorso da Ikea e UNHCR è molto simile all’unità abitativa disegnata da Paul Lester Wiener durante la II guerra mondiale: tutto sta a vedere come questi rifugi, non di rado provvisoriamente definitivi, s’inseriscono nel tessuto urbano esistente.

È interessante notare che nella Biennale di quest’anno, dove il tema dei rifugiati contagia diverse partecipazioni nazionali, l’altro Padiglione interamente dedicato all’immigrazione e alle tematiche correlate è quello greco, che dispone bensì di uno spazio assai più limitato, ma preferisce utilizzarlo non solo per presentare modellini di progetti realizzati o realizzabili da Lesbo a Patrasso alla vexatissima quaestio dell’aeroporto Ellinikòn di Atene (passato da campo di rifugiati a parco di lusso in pectore), bensì anche per ospitare conversazioni e dibattiti internazionali sul fenomeno migratorio e in specie sulle esperienze di accoglienza “dal basso” di cui la Grecia è insospettabilmente ricca (chi legge il neogreco dovrebbe seguire il fantastico reportage di Nikos Belavilas attraverso i campi profughi del Paese; tutti possono invece contribuire al coraggioso esperimento di occupazione e riconversione per i migranti dell’albergo City Plaza nel centro di Atene). Non v’è dubbio, peraltro, che l’esito di questi incontri riesca spesso assai poco “istituzionale”, nel senso che anche la recente politica del governo Tsipras sui rifugiati, specie all’indomani dell’accordo di scambio con la Turchia, viene sottoposta ad aspre e motivate critiche.

La società della paura

A Berlino, l’investimento ideale della politica sul tema dell’immigrazione è chiaramente assai elevato, almeno quanto l’atavica paura che il popolo (“das Volk”, termine che dal 1989 ha assunto coloriture d’ogni tipo) ricada d’un tratto in dinamiche perverse già viste nei primi anni Trenta. Nel dibattito pubblico continua infatti l’onda lunga del fortunatissimobest-seller di Thilo Sarrazin “La Germania si distrugge da sola” (“Deutschland schafft sich selbst ab”, 2010), in cui la paura dell’invasione e della subalternità rispetto alle culture dei migranti è declinata sulle corde dell’indagine socio-demografica e del pamphlet identitario, in una prospettiva non troppo distante – ma perfino più virulenta – rispetto a quella che ha incarnato da noi Oriana Fallaci. Ma è sul piano dell’azione concreta che i segnali di allarme sono sempre meno sporadici: le manifestazioni di Pegida e NPD persistono ormai da anni senza accennare a spegnersi; gli attacchi di vario ordine e grado contro i migranti sono decuplicati nel 2015; in varie città i cosiddetti Reichsbürger (“cittadini del Reich”, negazionisti che odiano la democrazia e non riconoscono l’autorità dello Stato) sono arrivati a intralciare regolarmente l’attività dei tribunali tramite proteste e azioni di disturbo; soprattutto, preoccupa l’evoluzione del partito AfD (Alternative für Deutschland, già di impostazione conservatrice euroscettica), che rappresenta di fatto – stante l’abnorme persistenza della “große Koalition” fra Cristiano-democratici e Socialdemocratici – l’unica consistente offerta di opposizione politica, e ha virato ormai da un anno verso un estremismo di chiaro stampo xenofobo.

Ecco quindi che un’indagine sulla “società della paura” (una paura di agire che diventa paura del diverso, secondo il sociologo Heinz Bude) non può che terminare in uno dei maggiori teatri berlinesi, la Schaubühne, dove Falk Richter mette in scena il suo spettacolo “Fear“. Nella critica mordace della retorica nazionalista, omofoba e razzista, nella derisione degli ipocriti stereotipi della società tedesca, ma ancor più nella satira a tratti violenta di alcuni uomini politici dell’AfD (le sagome di alcuni di loro vengono letteralmente prese a pugni), Richter propone un testo che è quanto di più simile io ricordi alla commedia greca di Aristofane – solo declinata in una chiave “nera” e fondamentalmente tragica. Senza paura di “onomastì komodèin“, di “mettere in burla chiamando per nome”, si deridono i tic di Frauke Petry, le smorfie di Marine Le Pen, le pulsioni antiabortiste di Gabriele Kuby, o il passato dell’aristocratica Beatrix von Storch (nipote del ministro delle Finanze di Hitler): non è un caso che nel novembre scorso il partito di destra abbia tentato di bloccare lo spettacolo per le vie legali, senza peraltro riuscirvi. In “Fear” si mostrano le parole e le paure di quella vasta “zona grigia” dei quarantenni-cinquantenni incattiviti, i quali, partendo da una blanda e quasi cameratesca diffidenza nei confronti dello straniero, finiscono per trovare negli slogan xenofobi uno sbocco collettivo, e politico, al proprio disagio esistenziale. Dinanzi a un pubblico per lo più molto giovane, e per nulla turbato dagli eccessi verbali, gli attori – essi stessi tra i 20 e i 30 anni – rispettano il paradigma aristofaneo anche nel momento della “paràbasi”, ovvero quando l’interruzione della finzione scenica li fa ritornare ciò che sono nella realtà – Tedeschi meticci, figli di emigranti, ballerini nordamericani, biondissimi purosangue alternativi -, e li spinge a interrogarsi in un libero dialogo all’impronta sulla loro idea di società, sulle mistificazioni dei media, sul passato dei loro nonni (un po’ come Fassbinder e altri sfidavano quello dei loro padri), finendo a cantare con una chitarra e a piedi scalzi Fourth of July di Sufjan Stevens.

Né la Francia né l’Italia né l’Inghilterra (a tacere d’altri Paesi) stanno producendo uno sforzo comunicativo e ideologico paragonabile a quello che mobilita la Germania – in modi diversi, al livello istituzionale come a quello della cultura alternativa – per promuovere seriamente una cultura dell’accoglienza e dell’integrazione. Porre i problemi, discuterne anche con toni franchi, è un segno di civiltà; ma ovviamente non tutto è limpido: chi dimenticherà le lacrime della bimba palestinese dinanzi alle rigidità di Angela Merkel? quale politica redimerà la condanna tedesca della Grecia, una delle porte dell’Europa, a decenni di miseria? chi pagherà per l’infame accordo con la Turchia, propiziato in ogni modo proprio dalla Germania? e, per tornare ai fratellli Boateng, come non pensare che nella loro diversa riuscita abbia avuto un ruolo il fatto che l’uno ha trascorso l’infanzia con la madre nei bassifondi di Wedding e l’altro, il “contubernale dei celesti”, con il padre nel centro storico di Berlino?

Il tassista che mi porta a Schönefeld (un aeroporto piccolo e vecchio, mi spiega, niente a che vedere con quello nuovissimo che sta per aprire a Istanbul) è un sessantenne di Sanliurfa, che parla un tedesco semplice e dal forte accento turco: ha fatto per trent’anni l’operaio, poi la fabbrica ha chiuso e si è inventato questo nuovo mestiere; ora spera di sistemare il figlio, attualmente disoccupato, e di poter tornare finalmente a invecchiare nella sua Anatolia. Lui, mi dice, ama la pace, sia con la Russia sia con Israele sia – nei limiti del ragionevole – con i Curdi. È un grande ammiratore di Erdogan, e spera che faccia presto a completare il muro che separa la sua patria dal nord della Siria, perché i Siriani sono un problema. È grato alla Germania, che ha strutturato la sua vita adulta attorno al lavoro e al rispetto. È anche, mi confessa sommessamente sapendomi Italiano, un grande fan di Mesut Özil.

eddyburg informa e riflette sull'assenza del lavoro dal palcoscenico e dalle parole della Biennale. Eppure, come il padiglione della Polonia giustamente sottolinea, si tratta di un "fronte" essenziale

Un paio d’anni fa, ad un giornalista del Guardian che le chiedeva se fosse turbata dalle condizioni di sfruttamento e di insicurezza nei cantieri dello stadio al Wakrah in Qatar, da lei progettato in vista dei mondiali di calcio del 2022, Zaha Hadid rispose che «non era suo compito occuparsene come architetto». Se ci sono problemi, disse, «riguardano il governo e non me… I have nothing to do with the workers». Alcuni famosi architetti presero posizione pro o contro le dichiarazioni della collega archistar; dopo di che il bollettino delle vittime- muratori indiani, nepalesi e bengalesi morti, feriti o comunque costretti a lavorare in condizioni che Human Rights Watch e Amnesty International equiparano alla schiavitù - ha continuato ad allungarsi.

A prescindere dagli orientamenti morali dei singoli architetti che, firmando un progetto ne vengono riconosciuti come legittimo autore, ma che mai hanno nessun rapporto con chi fisicamente realizza le “loro” opere, il “fronte” delle condizioni di lavoro in edilizia avrebbe potuto essere oggetto di interessanti rapporti da presentare alla Biennale. Ma tra le diciassette voci che Alejandro Aravena ha incluso nel suo elenco di «battaglie da combattere», e tra le quali figurano «qualità della vita e banalità… sostenibilità e mediocrità», non compaiono né la dignità né la sicurezza dei lavoratori. Nel complesso, il tema del lavoro è assente dalla mostra e nei pochi casi nei quali è preso in considerazione, l’attenzione è per lo più limitata alle difficoltà degli architetti alle prese con risorse finanziarie scarse e ai loro sforzi di fare “più con meno”.

Un’eccezione positiva e non abbastanza notata è il padiglione della Polonia, progettato da Dominika Janicka, Martyna Janicka e Michał Gdak, partendo dall’assunto che i cantieri costituiscano «il primo fronte dell’architettura, la manifestazione fisica di qualsiasi progetto in corso d’opera, che, nonostante il progresso tecnologico, continua ad avvalersi in gran parte del lavoro dell’uomo» e che i lavoratori edili siano la categoria meno rappresentata tra gli attori dell’architettura. «Il contributo dei lavoratori edili è assente dal discorso sull’architettura», è la loro sintetica opinione, dalla quale è auspicabile si possa partire per creare condizioni meno inique.

Il lavoro dell’uomo è il fulcro dell’intera installazione, dalla scritta che sovrasta l’ingresso del padiglione e che ci chiede provocatoriamente «conosci chi ha costruito il tuo edificio?» ai filmati, girati dagli stessi muratori, che ci restituiscono immagini, rumori, voci da undici grandi cantieri polacchi.

Senza nessuna evocazione nostalgica di epoche nelle quali l’architetto era solo il muratore/capo cantiere e ideazione e realizzazione procedevano di pari passo, e senza ricorrere ad aneddoti di tono oleografico, ad esempio Le Corbusier che teneva a battesimo i figli del suo “muratore sardo”, l’installazione si e ci interroga sulla possibilità di instaurare una relazione “giusta” tra il lavoratore, il prodotto del suo lavoro e chi ne trae profitto. Lo stesso titolo del padiglione “fair building” è un invito a riflettere sulla possibilità di applicare alle costruzioni, come ad altri prodotti, dalla cioccolata al caffè, i marchi del fair trade, altrimenti detto commercio equo e solidale.

L’installazione si compone di due parti. Nella prima, una impalcatura a grandezza naturale, si entra in cantiere assieme a chi vi lavora; nella seconda, dove eleganti divani suggeriscono l’atmosfera dello showroom di un investitore immobiliare, l’elemento più importante è lo schema grafico, che occupa un’intera parete e che sintetizza i dati di una ricerca, condotta dai curatori intervistando 50 addetti ai lavori, sul “costo umano” della costruzione e sul peso finanziario di voci come “incidenti, immigrati, straordinari non pagati”.

Si esce dal padiglione ponendosi delle domande inquietanti, il che conferma che l’obiettivo dei curatori di mettere a fuoco «le questioni etiche che ruotano attorno all’industria edile e i punti di vista di chi ne è direttamente coinvolto» è stato raggiunto.

Peccato che l’importanza del messaggio non sia stata recepita dagli organizzatori della Biennale che quest’anno indossa la maschera del capitalismo compassionevole. Del resto, la Biennale, in quanto istituzione, non è mai stata particolarmente sensibile nemmeno ai diritti di chi lavora al suo interno. In più occasioni ha disatteso accordi sottoscritti con i rappresentati dei lavoratori, provocando anche interpellanze parlamentari, rimaste senza risposta, sul suo comportamento. E non appena ha potuto, si è liberata anche del fastidio di doversi occupare delle “risorse umane”. Dal 2004 assunzione e gestione del personale sono state affidate all’agenzia Adecco Italia che, con lo slogan “better work, better life”, sostiene progetti culturali e internazionali, «offrendo ai candidati un’esperienza di lavoro in contesti unici ed emozionanti” e che, per la Biennale, ha definito dei “percorsi ad hoc dedicati alla formazione delle hostess, degli steward e di tutto il personale, così da assicurare standard elevati nella gestione dell’accoglienza e del supporto dei visitatori».

Riferimenti

Terzo intervento della serie "eddyburg dal fronte", dopo La cattiva coscienza della Biennale targata Rolex, e Infrastrutture: per le persone o per gli investitori? Altri articoli sulla Biennale Architettura 2016 ripresi dai media qui nell'apposita cartella

First of all I would like to pay tribute to the thousands of refugees and migrants dead in the Mediterranean sea. And thank Dafni and Maria, for inviting me and Ilaria and Edoardo and Cesare.
As you know, June 20th was the celebration day of the “Refugees”. This year the celebration was named “With the Refugees”. A petition #WithRefugees was posted on the HCR site to appeal to governments to include solidarity and shared responsibility in their actions and a law drafted jointly by the Ministry of Justice and UNHCR will be presented shortly to the Assembly of People's Representatives (ARP). http://www.unhcr.org/refugeeday/

It was an opportunity to remember that behind these figures lurks the suffering and resilience endured by refugees around the world and raise public awareness to the human side of their course. But why making the difference between Refugees and Migrants, as both are running from terrible conditions of life. Misery and war are so much alike, as wars and globalization generated misery. Two sides of the same problem which feed the revolution in march on the feet of millions of people.

***
As a Mediterranean woman from the other side of the sea, I will question why such extreme despair is bringing hundreds of thousands of youth to cross the sea not caring about death. And what could be done to avoid that, and what should be done for those who already crossed.

After listening to the discussions, and presentations made, I will say that we have here an example of one of the extreme cynicism of the European Union and the States policy regarding Migrants/Refugees issue, it is «A double-edged knife».

I will briefly, speak, about my country, Tunisia.
We have between 1 million and 1.8 million refugees, who came mainly from Lybia, with a direct and immediate impact upon arrival since before uprising, on the living conditions, especially on the growth of the rents, mainly for the single women and the youth, who cannot find, anymore, affordable appartments even to share, together with an impact on market economy, on black market, in all fields, and on medical care. This phenomenon increased after the war started in Lybia, and reached a level that became impossible to manage and reduce. Besides the fact that we are dealing with a tragedy that we have to look at and handle with care and with respect to those who suffer and who run from terror.
While hundreds of thousands of youth have crossed the sea in less than 5 years, we witness, a status of « empty from a side and fill another side ». Villages, rural areas, left behind by the youth, abandonned due to various unfavourable conditions, extreme outcome of the phenomenon of rural depopulation, disappearance of craft trades, and traditional small businesses and appearance of a new black market.
With No concrete policies to improve living conditions (housing, social care etc...). No more hope, leading to a complete failure of the uprising of 2011, held by more than half of the population. An increase of poverty level and dispair, had as a consequence to be open to any extreme. Besides, the money given to thousands of very poor families to send their boy and/or girl to kill in Syria, because they could not afford meal, or because they are disappointed, bitter, lost hope, or looking for an ideal to rise and be «someone».
In parallel, UE, WB were giving Billions of euros, dollars, where did all this money go?
Initially meant for development programs for « youth », but as with no clear procedures to control wether they were used for the development policies planned to be implemented in the regions or not, they were deviated from their path, since the beginning, enriching the « islamist government » and the hundreds of thousands of allies families.
We are here the witnesses of a Demographic revolution on the marche. For decades, youth used to leave rural areas to find a job in cities, to study, in hundreds, now they leave rural areas in thousands to Europe. They abandon old medinas, a patrimony normally to be preserved, now left behind in bad conditions on the focus of speculators.
Why do they abandon their medinas and rural villages, to go and occupy neighbourhoods and old villages abandoned by europeans? Unemployment, war and insecurity, fundamentalism and terrorism, misery and starvation, matched, give desperation, terror, no vision for the future.....only cross the sea.

This Demographic revolution should be an opportunity for a kind of urbanistic change, in a positive way. In the last century, migrants were mainly europeans, migrating within Europe and to the Americas. They have built cities, neighborhoods, but they also lived in slums.

What can we do as group of reflexion to change that? What strategy could we think of to put pressure on the countries from which these youth arrive; what could be done for those who did not cross, so that they do not cross? How can Europe help in terms of expertise to stop this flow ! And How to turn up side down this “disadvantage” as seen by so many as an advantage for Europe!
This is why all the actors at different levels should be engaged, including local authorities/municipalities, national governement, European union, organisations and inhabitants networks, and professionals (architects, urbanists, etc...).
The Biennale is an opportunity for us all, from both sides of the mediteranean sea, to seriously think together to how we could contribute and directly find practical and rapid ways to implement the right answers, taking into account both positions from both sides of the mediterranean sea.
Without regulations, all will loose their identity.
The consequence will be the growth of irregular settlements, the new slums, a mixture between popular responses to the lack of adequate public policies vis-à-vis speculators.
States and Supra-Nationals such as EU, UN etc. should be more specific in sustaining states, aiming into new social policies to enhance youth capacity building and social function of habitat.

This is why it is necessary to exchange experiences, debate, dialogue and think together how to implement public policies towards popular housing, rehabilitation, restructuring abandonned buildings for social use (as of Vivere 2000 coop. in Rome).
Social production of habitat is not evicting migrants, but recycling abandonned villages and buildings. It is necessary to have adequate social policies. With high taxation on empty buildings, states could finance social housing, especially the rehabilitation of neighborhood.
There are abandonned villages, that could be revived by migrants, giving them an objective in life.
It is time for us to take seriously our responsibilities towards the future generations from both sides, towards a new urbanistic vision, rooted in human rights, diversity, and solidarity, and not on market values, racism and individual interests.
And it is time for International events such as Habitat III and the meetings of the European Ministers of Housing, to include these proposals, themes, in their agenda, because migration is not a vanishing phenomenon, but more a demographic revolution, which could have a radical influence on the urbanistic transformation of future cities. This is why we organise alternative forums, conferences and workshops, this is why we are organizing the People's Social Forum of Resistance to Habitat III in Quito this october 2016.

To conclude, Intensified border controls, push-backs and reports of abuse won’t stop migrants and asylum-seekers from continuing to try to reach Europe ; Building walls won't resolve the problem. Why don’t we approach the subject from the other side. Here in Venice, there are tracks of turkish, armenian and other cultures. To face racism and homophobia, it is better to show the positive side of this huge demographic revolution, the presence of other cultures, as consequences. But being careful not to transform cities into Slums, that come mainly from speculations.
In both ways, if we do not find immediate solutions, Europe will become, or surrounded by walls such as in the Occupied Teritories of Palestina and shortly in Hungary, or by slums. Is it what future generations deserve to get in heritage?



Soha Ben Slama

Free active and engaged citizen sharing and participating to the main events cultural, political and gender issues at local and on international level. Politically countering the extremists agenda, via art and culture, using her gift as Painter, Ceramist Potter and engraver to reach people where politics and debate cannot.
Her journey in the defense of human rights at the international level, in particular the rights of women and in the MENA region, and the violence against women, started in 1995, in charge of the Maghreb for Mahkamet Ennissa, within the International Steering Committee in the World Public Hearing on Violence against Women at the Huairou Fourth World Conference on Violence against women. Same thing for the Dowry Court in 2009 (El Taller/Vimochana). Co-Founder and ‘previously’ active member of the Tunisian Women Coalition. Co-Founder in November 2012 of the Civil Alliance against Violences and for the Freedom. In 2013, she coordinated the first Conference on the Right to Housing during the World Zero Eviction Days. Co-founder on 2014 of the Global Platform for the Right to the City. Local organizer of last two World Assemblies of Inhabitants under the World Social Forum (Tunis, 2013 and 2015). She's the current IAI coordinator for Tunisia and on that quality she carried out the responsibility of media and culture, engaged also to support the African Network of Inhabitants (Africities VII) and other events within IAI. She's actually member of the Steering Committee of the International Tribunal on Evictions ITE and key point in ITE International Steering Committee in charge of the organization of the ITEAA with the TAAFE/ITEAA Steering Committee. East Asia Tribunal on Evictions to be held on July 1st to July 5th 2016 in Taipei.

Europe as a place to be inhabited: linking immigration and the cases of abandoned spaces” nel padiglione della Grecia alla Biennale di architettura di Venezia. In calce i link al powerpoint in inglese ai testi in lingua italiana e inglese.


1. L'ESODO
VERSO L'EUROPA

Un esodo. Ciò che si sta manifestando oggi non è la semplice migrazione di persone che desiderano spostarsi in altri paesi per ragioni personali, ma un esodo, largamente provocato da condizioni economiche, sociali, politiche e ambientali. Per le sue dimensioni e le sue cause non è un fenomeno che si spegnerà rapidamente.

Le dimensioni. Qualche numero, giusto per dare un’idea delle dimensioni del problema. Le previsioni contenute nell’ultimo rapporto dell’UNHCR (UN High Commissioner for Refugees Agency) stimano in oltre 1,19 milioni il numero delle persone da reinsediare. Il gruppo maggiore è costituito dai siriani (40%), seguito dai profughi dal Sudan, dall’Afghanistan e dalla Repubblica popolare del Congo. L’UNHCR stima inoltre che nel 2050 i profughi potrebbero essere, nel mondo intero, dell’ordine dei 200-250 milioni. Il Parlamento europeo, dal conto suo, valuta in 17,5 milioni le persone che hanno abbandonato i loro paesi (soprattutto dalle regioni dell’Africa subsahariana) dal 2014.

Le cause. Queste sono le cause principali dell’esodo, e al tempo stesso gli attori che cosa le hanno provocate. In primo luogo, la trasformazione radicale delle economie locali provocata dalle varie forme dello sfruttamento operato dal colonialismo, con il conseguente trapasso da economie locali di autosussistenza a economie legate al mercato economico globale.Le trasformazioni dell’economia si sono sempre accompagnate agli interventi della politica: un’altra causa della fuga è costituita dai regimi dittatoriali e spesso corrotti, imposti o favoriti e finanziati dagli stati o dalle imprese del Primo mondo.Ancora, le guerre scatenate o fomentate per impossessarsi delle risorse, a cominciare dalla terra e dall’acqua e quelle attuate dal Primo mondo nell’illusione di combattere il terrorismo.
Infine – ma si tratta di cause non meno importanti - la fuga dagli effetti provocati dagli eventi naturali estremi innescati dal cambiamento climatico globale (siccità, inondazioni, riscaldamento globale), nonché dai luoghi dei disastri ambientali causati da inquinamenti incontrollati o incidenti industriali, tutti frutti avvelenati dello sviluppo capitalistico.

La fuga. La fuga di moltitudini di simili proporzioni avviene in modo del tutto spontaneo, e quindi assume inizialmente la forma del caos. Ma i migranti, per poter fuggire, hanno trasformato in moneta le risorse di cui disponevano. Ciò, in assenza di altre possibilità legittime, ha provocato il formarsi di attori (soprattutto non istituzionali, generalmente organizzazioni malavitose), che sfruttano le risorse dei migranti, e spesso i loro stessi corpi, in cambio del trasporto in condizioni disumane e irte di rischi dai luoghi di origine ai luoghi della speranza.
Quelli che ci arrivano sono in precarie condizioni di salute fisica e psichica.

L’approdo. L’approdo alle terre della speranza è quasi sempre drammatico. Se il vettore è l’imbarcazione e la frontiera è la costa marina spesso si paga il prezzo del naufragio e del gran numero di morti. Se la frontiera è sulla terra e il vettore sono le gambe degli uomini, delle donne e dei bambini il prezzo è vivere nella misera, nel freddo e nelle malattie dietro recinti di filo spinato alla mercé di una vigilanza a volte disumana.

La “prima accoglienza”. Quella che dovrebbe essere la prima accoglienza è essa stessa un dramma: all’arrivo i migranti sono spesso affetti da seri problemi fisici e psicologici. Nei centri di accoglienza le condizioni di vita sono spesso disumane: l’insufficienza dei servizi per i bisogni fisici, sanitari, culturali a partire dalle difficoltà di comunicazione dovute alle lingue diverse; il completo isolamento e la mancanza di comunicazione con i familiari; infine, l’incubo della selezione e l’inammissibile discriminazione dei “profughi economici”.

La “post-accoglienza”. L’ordinaria condizione dei profughi dopo la prima accoglienza è una sorta di limbo. Essi restano in attesa del loro destino. Se saranno accettati e quindi avranno un permesso di soggiorno, oppure se saranno respinti e riceveranno un foglio e saranno messi sulla strada a infinita distanza dal luogo che, senza mezzi, dovrebbero raggiungere; una condizione ancora più drammatica di quella che aveva provocato la fuga. I ”fortunati”, ottenuto il permesso di soggiorno, sono al cospetto delle difficoltà di affrontare la vita e il proprio mantenimento : trovare un lavoro, una casa, la possibilità di costruire legami sociali, l’integrazione senza perdita di identità, etc. ma anche ristabilire contatti e riunificazione con le famiglie d’origine e infine l’assoluta mancanza di strategie e progetti che prevedano la possibilità di un ritorno programmato nei paesi di origine.

Che fare. Sebbene le cause dell’esodo non possano essere eliminate in una prospettiva temporale ravvicinata, occorre intervenire nell’immediato per rendere meno disumane le condizioni del percorso.
A questo fine non è sufficiente combattere i trafficanti di migranti. È invece indispensabile realizzare canali protetti dall’origine al termine del percorso, a opera di una organizzazione internazionale e, contemporaneamente adattare misure specifiche per i diversi momenti del percorso dei migranti. Ogni fase (dallo sbarco, all’accoglienza, all’integrazione) richiede approcci, attori e progetti diversi.

Inoltre, ogni intervento immediato deve porsi in una strategia e in una visione temporale più ampia. È necessario un impegno disinteressato, sinceramente mirato a migliorare le condizioni ambientali ed economiche dei paesi di origine. Ciò comporta il superamento degli attuali programmi di cooperazione, spesso finalizzati al mantenimento della cooperazione stessa o per ottenerne vantaggi economici e politici. Per ridurre le cause dell’esodo e per investire in modo più fruttuoso le risorse disponibili è necessario un forte impegno per la pace e la decisa condanna della produzione e del commercio di armamenti.

2. OSPITALITÀ E CITTADINANZA
I PRINCÌPI

Il modo giusto di affrontare la questione dei migranti sarebbe quello di partire dai concetti di ospitalità incondizionata e di cittadinanza universale, in relazione ai diritti universali della persona, traducendoli in vera azione solidale, anziché in nuovi strumenti di sfruttamento o discriminazione.

La promessa di ospitalità incondizionata. Dobbiamo costruire un’ospitalità libera dai legami e dalle costrizioni di sovranità statale e dalla prevalenza della nozione di appartenenza nazionale, bensì fondata sui valori di compassione, responsabilità, libertà di movimento e sul diritto di essere, di esistere ovunque, senza alcuna considerazione della sovranità dei confini territoriali.

La visione di una cittadinanza cosmopolita. Dobbiamo aspirare a una cittadinanza non più ancorata alla territorialità, sovranità e nazionalità condivisa, ma basata su forme alternative di comunità politica, che vada oltre il falso presupposto che l’interesse del singolo cittadino abbia la priorità sui doveri del resto della razza umana, poiché la nazione-stato non è l’unica né la principale comunità morale.

3. L'OSPITALITÀ COME BENE COMUNE
UNA PROPOSTA

Perché non si può rimanere indifferenti. Tre buone ragioni lo impediscono: l’etica, la sicurezza, l’interesse.
L‘etica: provoca profondo degrado morale vivere nell’opulenza al cospetto di moltitudini che vivono in così drammatiche condizioni di miseria. Le notizie che ogni giorno funestano i giornali ne sono la testimonianza quotidiana.
La sicurezza: la disperazione della miseria senza sbocco alimenta il terrorismo. Le mura della fortezza saranno inevitabilmente travolte dalla giustamente rabbiosa moltitudine degli esclusi.
L’interesse: recentemente il presidente dell’Inps, Tito Boeri ha dichiarato che le entrate nel pubblico bilancio dovute ai lavoratori emigrati ammontano a 8 miliardi di Euro, mentre solo 3 miliardi escono per le loro pensioni e gli altri benefici sociali. Politiche di accoglienza diverse dalle attuali produrrebbero notevoli vantaggi sul bilancio finanziario. Si tratta di valutazioni che nel mondo attuale hanno più peso di quelle umanitarie e morali. Si consideri ancora, a questo proposito, che oggi l’insieme dei migranti paga un miliardo di euro all’anno per tentar di entrare in Europa, e altrettanto costa all’Europa attrezzarsi per respingerli. Vero è che nel secondo caso sono le imprese europee che ne guadagnano.

Il problema non è “se” ma “come”. Il problema non è "se" dobbiamo accogliere i migranti o no. Provvedere ad assistere le persone nel bisogno o nelle difficoltà è un dovere civile. Il problema è “come” includerli nel nostro futuro e nel percorso del nostro sviluppo, senza discriminazioni né sfruttamento né pretendendo di “addomesticarli”. L’arrivo di un gran numero di migranti è una sfida per ogni paese, ma è anche un’occasione per entrambe le parti: (gli ospitanti e gli ospitati), se guardiamo al problema nel contesto sociale, economico e ambientale dei diversi paesi.

Dove troppo pieno, dove troppo vuoto. Se la storia degli ultimi secoli ha reso i territori dell’esodo troppo pieni di persone, la stessa storia ha provocato in Europa vaste condizioni di troppo vuoto, da più punti di vista. Nell’ultimo secolo i paesi poveri presentano i più alti tassi di crescita della popolazione. L’Europa al contrario sta diventando troppo vuota, sotto diversi aspetti: demografici, territoriali, sociali.

Vuoto demografico. Nel 2015 l’Unione Europea contava quasi 510 milioni di abitanti, contro circa 485 milioni nel 1995 (considerando le frontiere attuali dell’Unione). Questa progressione di 25 milioni di abitanti in vent’anni non ha niente di eccezionale (appena lo 0,2 per cento di crescita annuo, contro l’1,2 per cento della popolazione mondiale nel suo insieme nello stesso periodo). Ma il punto importante è che tale crescita è dovuta, per quasi tre quarti, all’apporto migratorio (più di 15 milioni di persone). Tra il 2000 e il 2010, l’Unione Europea ha accolto quindi un flusso migratorio (al netto degli espatri) di circa 1 milione di persone. Sulla base dei trend demografici, e ove permanessero, l’Europa avrebbe bisogno di 42 milioni di nuovi abitanti entro il 2020 e di oltre 250 milioni in più nel 2060.

Vuoto sociale e territoriale. Definiamo vuoto sociale e territoriale il fatto che esistono molte aree della società e del territorio nelle quali si manifesta una forte carenza di investimenti di risorse, e soprattutto di lavoro, dovuta a sua volta al fatto che non esistono le condizioni che rendano conveniente per il Mercato intervenirvi.
Alcune tipologie territoriali:
- terreni fertili abbandonati per la concorrenza di colture industrializzate;
- lavori di manutenzione idrogeologica e boschiva abbandonati per carenza di investimenti;
- abbandono di interi paesi e di un ricco patrimonio di infrastrutture minori dovuto alle peggiorate condizioni economiche e alla conseguente emigrazione;
- concentrazione delle risorse pubbliche e private sulle infrastrutture di trasporto basato sulle grandi distanze, sulla motorizzazione individuale e sull’alta velocità;
- abbandono di colture e di allevamenti tradizionali a causa del cambiamento degli standard di comportamento sociale degli europei;
- riqualificazione degli spazi pubblici e della manutenzione di aree di verde urbano;
- altre tipologie sociali come la cura alle persone; i mestieri scomparsi a causa della “obsolescenza programmata” dei prodotti utili per esempio tutte le categorie di riparazione di oggetti, dalle scarpe ai giocattoli, agli impianti tecnologici agli strumenti informatici;
- i lavori “scartati” dai giovani europei in quanto considerati troppo faticosi o degradanti.

Cambiare il nostro modo di immaginare e di progettare. Per molto tempo ancora il flusso sarà da Sud a Nord. Dobbiamo considerare questo come un dato normale del nostro assetto demografico e dobbiamo perciò incorporare nella nostra attività di pianificazione e programmazione territoriale il nuovo sistema di bisogni (casa, servizi collettivi, lavoro, ecc.), invece di pensare che istantaneamente il flusso si arresterà o qualcosa riuscirà a impedire alle persone di approdare.

In una parola, dobbiamo immaginare e via via trasformare le nostre città e i nostri territori non solo per le persone che vivono qui da secoli ma per i nuovi cittadini (i migranti) che hanno storie e diverse nel loro passato.

Il cuore della proposta. La proposta che da più parti viene avanzata in Italia (Luciano Gallino, Guido Viale, Piero Bevilacqua, Franco Arminio, Tonino Perna,…) si riallaccia ad esperienze compiute negli USA e in Europa per affrontare la grande crisi economica del 1929. Si decise allora (il New Deal del presidente USA Franklin Delano Roosvelt) di investire ingenti risorse pubbliche per trasformare l’assetto territoriale di vaste regioni, risolvendo problemi ambientali e territoriali, e aumentando al tempo stesso la capacità di spesa dei lavoratori, riattivando così il sistema economico. Nel nostro caso le migrazioni potrebbero essere l’occasione per investire non solo risorse pubbliche ma anche risorse fisiche collettive (terreni abbandonati ed edifici inutilizzati).

Mettere insieme quello che oggi sembra troppo pieno e quello che è troppo vuoto: anche questa è, al tempo stesso, una sfida e un’occasione. La sfida è fornire un’intelaiatura nazionale ed europea, e una coerenza territoriale sistemica, a un insieme di esperienze, di tentativi e di progetti realizzati o avviati a livello locale, spesso in collaborazione attiva con gli stessi migranti.

Riace, e non solo. L’esperienza di Riace e del suo sindaco è diventata famosa perché una rivista internazionale ad ampia tiratura, Fortune, ha inserito il sindaco Mimmo Lucano nell’elenco dei grandi leadr mondiali per il 2016. Ma molte feconde esperienze sono in atto in Italia e in Europa, da parte di molti attori, istituzionali e non, che hanno scelto la solidarietà contro gli affari.

Siamo convinti che il percorso giusto è di partire dalla molteplicità delle esperienze e dei progetti locali, di portarli a sintesi con i bisogni, i desideri e le competenze dei nuovi cittadini (i migranti) e di costruire insieme progetti più ampi e complessi.

Gli attori e il ruolo Nord-Sud del progetto. Oltre alle istituzioni dei vari livelli (comuni, regioni, stati, Europa) gli attori privilegiati sono tre:
(1) il mondo dell’associazionismo e del volontariato, istituzionale ed extraistituzionale, che già lavora in questa prospettiva;
(2) le presenze già organizzate od organizzabili di persone nei paesi di provenienza per instaurare rapporti, programmi a lunga durata, che prevedano sia l’implementazione di canali di espatrio sicuro, sia il possibile ritorno dei migranti nei loro paesi di origine quando le condizioni lo favoriscano;
(3)la scuola, dalla materna all’università: senza una cultura che rispetti la differenza, l’alterità e creda nella solidarietà non è possibile costruire una società multietnica pacifica.

I primi due attori sono particolarmente utili nella prospettiva di una presenza solo temporanea dei profughi in Europa. Quelli di loro che vorranno tornare nei loro paesi di origine potranno avvalersi delle esperienze e conoscenze (dei saperi e dei mestieri) acquisiti nella fase della loro permanenza in Europa per migliorare le condizione delle loro ritrovate patrie, così come l’Europa avrà potuto arricchirsi grazie alla conoscenze delle loro culture.

Crediti
Il testo è scritto per eddyburg da Ilaria Boniburini, Paolo Dignatici ed Edoardo Salzano, con contributi e discussioni con Maria Cristina Gibelli, Piero Bevilacqua, Paolo Cacciari, Guido Viale. È stato presentato in occasione degli incontri del 25-26 giugno 2016 sul tema “La crisi dei migranti. Industria vs Solidarietà” al padiglione della Grecia alla Biennale di architettura di Venezia, organizzato dall’associazione greca degli architetti Sadas-Pea in collaborazione con eddyburg.


Scarica qui il testo in inglese: Hospitality and Citizenship; e qui il testo in italiano: Ospitalità e cittadinanza. Qui il link al powerpoint, tradotto in formato .pdf.

Ilgiornaledellarchitettura.com, 13 giugno 2016 con postilla (p.s)

Del Padiglione Italia si è già detto, scritto e visto quasi tutto. La gran parte dei report testuali e video-fotografici hanno puntato l’attenzione su un’architettura che entra in gioco in processi più o meno spontanei di costruzione o di appropriazione e si prende cura di spazi urbani o periurbani, conferendo loro maggiore qualità estetica e funzionale, e quindi anche maggiore riconoscibilità e legittimità per le attività che vi si svolgono. In questa sorta di riscoperta della funzione sociale dell’architettura vengono richiamati soprattutto gli aspetti del riuso/riciclo, della sostenibilità energetica, del low cost, di un approccio minimale, nonché il carattere partecipato che contraddistingue molti dei percorsi progettuali selezionati. Curiosamente, molte meno attenzioni sono state poste sul motivo per cui le architetture presenti nel Padiglione dovrebbero essere guardate come beni comuni, invece che come normali, ancorché particolarmente ‘curati’, interventi di trasformazione.

La cosa risalta perché il carattere politico e non squisitamente tecnico del taking care è uno tra i messaggi centrali che questo progetto curatoriale ci lascia ed è ribadito in più occasioni. Il fatto che non sia stato colto appieno è forse dovuto al fatto che a visitare il Padiglione e a scriverne è un pubblico “di settore”, abituato ad apprezzare più la modalità di costruzione, sia anche intesa per il percorso collettivo a sostegno della realizzazione di un manufatto, che non il sistema di produzione di beni e servizi cui il manufatto stesso rinvia. E così si rileva l’efficienza, il fare tanto con meno, piuttosto che l’efficacia nel trattare una data questione e nel costituire una risposta a dei bisogni. Come se a determinare la rappresentatività di queste opere nel panorama nazionale contemporaneo fosse solo il senso etico sotteso alla scelta di forme, materiali, maestranze e partenariati, e non c’entrasse ad esempio il rapporto che esse instaurano con una collettività, i modi in cui sono percepite e vissute, e le trasformazioni che inducono a livello organizzativo, sociale e politico.

Per apprezzare appieno il valore innovativo di questa proposta si dovrebbe infatti considerare come non sia scontato che, a differenza di quanto siamo abituati a vedere in una mostra di architettura, molti di questi oggetti, e in particolare i cinque dispositivi della sezione “agire”, non siano pubblici né privati, ma nascano piuttostoda un intreccio complesso di saperi e pratiche, intuizioni, occasioni e iniziative che si combinano con risorse di vario tipo e con domande non ancora del tutto espresse. Non c’è (o è molto sfumato) un committente, né c’è una figura tradizionale di esecutore, spesso sostituita da un’aggregazione di soggetti, nata attorno al progetto stesso, cresciuta con la sua realizzazione e probabilmente capace, nelle fasi successive, di mutare le proprie attività e di affinare le proprie capacità.

Oltre che per natura giuridica e titolo di godimento, i manufatti qui proposti sono degli ibridi anche dal punto di vista delle funzioni. Prendendo il caso dei cinque dispositivi, ma lo stesso si potrebbe dire anche per la gran parte dei venti progetti selezionati, il circolo virtuoso creato tra progettisti, associazioni e contesti periferici, non produce un vero e proprio ambulatorio, una biblioteca, un ufficio-sportello, una palestra o un tradizionale laboratorio d’analisi ambientale, quanto piuttosto un mix variabile tra queste e molte altre funzioni. Quando questi dispositivi troveranno collocazione, scopriremo cosa effettivamente siano e, probabilmente, li potremo definire soltanto con nuove denominazioni, perché non risponderanno alle attuali categorie, sia per le forme esteriori sia per le forme di gestione e d’uso. Per ora, si può affermare che, da un lato, si sopperisce con essi a un’offerta pubblica di servizi sempre più vincolata dall’incomunicabilità tra livelli e tra settori amministrativi, ciascuno col proprio (risicatissimo) budget, e nel dare così qualche chance in più al trattamento di nuovi bisogni, marginalità e fasce di disagio; mentre, dall’altro lato, sembrano in grado di fornire un contributo, si spera determinante, a un cambiamento culturale centrato sulla responsabilità individuale nella realizzazione di luoghi vitali e accoglienti.

Coerentemente, anche il crowdfunding attraverso cui si finanzierà la realizzazione dei cinque dispositivi, si presenta come l’unica forma possibile per sperimentare velocemente le nuove tipologie di servizi di cui sopra; capire come si sostengono economicamente e di quali figure professionali necessitano, quali valori verranno messi in gioco, come funziona nel nostro contesto, e nel medio-lungo periodo, una proprietà multipla, condivisa, replicabile e, soprattutto, “praticata” di un bene. Si configura quindi uno spostamento netto non solo rispetto alla produzione di servizi da parte dello Stato ma anche nel ruolo del mercato, posto che a produrre questi dispositivi contribuiranno migliaia di soggetti, con finalità e interessi anche molto distanti tra loro, e tuttavia comunemente intenzionati a vedere concretizzata questa operazione, innescata, strano a dirsi, da una mostra d’architettura.


postilla


La libera stampa di regime si è dichiarata unanimemente entusiasta del padiglione italiano. Schierate a falange le truppe di Dario (Franceschini) hanno cercato di convincerci che, in Italia, architettura significa prendersi cura del bene comune. A questi commenti “indipendenti” si aggiunge, ora, l’invito da parte di uno dei consulenti che ha contribuito all’ ideazione del padiglione a considerare un «aspetto politico e non squisitamente tecnico che forse è sfuggito ai visitatori», cioè il fatto che i casi esposti alla mostra non sono «né pubblici né privati». Il che vale anche per le cinque unità mobili che dovrebbero «sopperire a un’offerta di servizi pubblici sempre più risicata per mancanza di finanziamenti». Mandare in giro un pulmino col medico dai piedi scalzi o con una biblioteca ambulante è sicuramente un mezzo per mitigare il disastro prodotto dai tagli ai servizi pubblici. E’ pur sempre un regresso, però, che coincide con il considerare inevitabile il ritorno alle condizioni di disperazione descritte nei romanzi di Steinbeck, alle quali invece che con un
new deal il padiglione italiano risponde con il crowfunding. Tradotto in italiano si dice colletta e significa che i cittadini che pagano le tasse e che vedono quelle tasse dilapidate dai comitati d’affari che si sono spartiti il paese, devono ulteriormente tassarsi per garantirsi un minimo di servizi. Purtroppo è quello che accade ogni giorno e sembra l’unica possibilità rimasta ai cittadini che vogliono prendersi così cura del bene comune, con o senza gli architetti della Biennale (p.s).

Fra le varie attività di complemento alla esposizione vera e propria, la Biennale di Architettura di Venezia organizza sei incontri, a cadenza mensile, rispettivamente dedicati ai seguenti temi: infrastrutture; periferie; strutture e materiali; scarsità; ambiente; conflitti.

Il primo “sabato dell’architettura” si è svolto il 28 maggio, lo stesso giorno dell’apertura della Biennale al pubblico, e vi hanno partecipato il direttore Alejandro Aravena e il presidente Paolo Baratta.

Un’occasione importante, quindi, e dalla quale era lecito aspettarsi l’avvio di un dibattito su una serie di questioni cruciali che il tema infrastrutture inevitabilmente solleva. Ad esempio, sarebbe stato interessante conoscere cosa gli inviati della Biennale dislocati sul fronte infrastrutture ci dicono a proposito della differenza tra infrastrutture e “grandi opere” o della differenza fra concepire (pensare e realizzare) le infrastrutture come strumento per migliorare le condizioni di vita della gente oppure considerarle come una delle tante occasioni di investimento finanziario.

La presenza degli autori di due progetti molto interessanti lasciava ben sperare. Ed in effetti entrambi hanno esposto il loro lavoro con chiarezza, senza falsa modestia e senza enfasi auto celebrativa. C’era un problema sul terreno che influiva in modo negativo sull’esistenza quotidiana di migliaia di persone, hanno detto, e l’abbiamo affrontato con le armi a disposizione della nostra professione, cioè immaginando una nuova modalità di organizzazione dello spazio fisico e dandole forma concreta. In altre parole, avrebbero potuto dire, abbiamo fatto gli architetti.

Andrew Makin ha raccontato la trasformazione di Warwick Triangle, un nodo di interscambio di mezzi di trasporto a Durban, che da luogo emblematico di insicurezza e violenza, dove le autorità avrebbero voluto collocare un grande e “moderno” mall commerciale, è diventato il supporto di una miriade di attività economiche, dai venditori di cibo a quelli di tessuti, dai banchetti dove profughi da ogni parte dell’Africa lavorano come barbiere a quelli dove si pratica la medicina tradizionale.

Lavorando assieme a una NGO fondata da un ex poliziotto, che si era “stancato di arrestare la gente e aveva deciso di affrontare il problema della sicurezza da un altro punto di vista”, Makin ha progettato una serie di interventi, scale e passerelle soprattutto, per mettere in connessione i vari punti di un luogo che è attraversato ogni giorno da 460.000 pendolari e dove operano oltre 5000 venditori di strada. Grazie a questi collegamenti, da mera infrastruttura per il traffico , Warwick Triangle è diventato una infrastruttura attrezzata, una piattaforma produttiva che genera opportunità di lavoro e reddito, e quindi sicurezza, e che fa “girare” l’economia.

Anche a Medellin, l’intervento infrastrutturale pensato dagli architetti del gruppo EPM, la compagnia responsabile del servizio di rifornimento idrico, in accordo con l’amministrazione comunale, non ha comportato la costruzione di una nuova grande opera, ma una serie di interventi che hanno riconfigurato l’assetto esistente. E anche in questo caso, all’origine del progetto c’è la preoccupazione per le condizioni di vita degli abitanti e il tentativo di migliorarle fornendo una minima dotazione di spazio pubblico. La constatazione che gli unici spazi vuoti erano quelli a ridosso dei serbatoi d’acqua, recintati e per questo rimasti inedificati, ha dato origine ad un gesto progettuale di sottrazione, l’abbattimento della recinzione. Quindi il disegno paziente e intelligente degli spazi residuali ha dato avvio alla creazione di una serie di spazi pubblici attorno ai serbatoi, che sono, così, diventati il fulcro di vere e proprie oasi urbane.

Una discussione con il pubblico su questi due progetti, “piccoli” dal punto di vista delle grandi società di engineering , ma grandi in termini di capacità dei progettisti di prefigurarne l’impatto sulla vita della popolazione, impatto che oggi è evidente e documentato, avrebbe potuto essere interessante. Ma non c’è stata nessuna discussione. Dei due progetti praticamente nessuno ha parlato, né avrebbe avuto il modo di farlo dal momento che gli interventi dei progettisti di Durban e di Medellin sono stati preceduti e seguiti, per meglio dire imprigionati e soffocati , da quelli di sir Norman Foster e di Rem Koolhas.

Sir Norman Foster, algido come uno dei personaggi “cattivi” degli ultimi libri di Le Carré, ha parlato del suo progetto di aeroporto per droni in Rwanda . Senza nemmeno citare Peter Rich, alle cui costruzioni a volta in mattoni di terra si è palesemente ed ampiamente “ispirato”, si è vantato delle novità della tecnica costruttiva e del carattere umanitario di un progetto che “la comunità sente come suo”. Sir Norman, che è stato un pilota della RAF, ama molto gli aeroporti e ne ha disegnati in ogni parte del mondo, ma non disdegna neppure i progetti per valorizzare i terreni di aeroporti esistenti trasformandoli in ghetti di lusso. Suo, ad esempio, è il progetto per costruire una serie di alberghi e residenze di prestigio, una marina, un aquarium e tutto quello che prescrivono i manuali alla voce “waterfront per ricchi”, nel compendio dell’ex aeroporto Hellenikon ad Atene, che proprio in questi giorni il governo greco è stato costretto a privatizzare cedendolo, a una cordata di investitori cinesi e di Abu Dhabi. E’ un progetto che bene avrebbe figurato tra quelli selezionati di Aravena- l’area è parte del bottino della guerra che abbiamo condotto contro la Grecia ed al momento offre rifugio ad alcune migliaia di senza tetto vittime della stessa guerra- ma purtroppo gli inviati speciali della Biennalenon l’hanno avvistato.

Invece di avviare la discussione partendo dai tre casi illustrati dai progettisti, Koolhas li ha rapidamente liquidati includendoli tutti e tre nella categoria di progetti che “guardano al locale” e ci ha quindi annunciato che la “globalizzazione è finita”. Ma più che in queste dichiarazioni apodittiche, la parte interessante del suo discorso è quella dedicata alle infrastrutture come supporto all’urbanizzazione e al relativo ruolo della Biennale, che a suo giudizio lavora per l’urbanizzazione fin dal 2000. In questa parte, il suo intervento si combina perfettamente con quello successivo di Joan Clos, direttore di UN Habitat, al quale la Biennale ha affidato il compito di concludere l’incontro ma che, in realtà, ha tenuto una sorta di comizio sull’urbanizzazione sostenibile.

Che diffondere il pensiero unico sull’urbanizzazione, propugnato e propagandato dalla Banca Mondiale e dai suoi mercenari, sia una delle mission della Biennale di quest’anno è evidente dalla quantità di eventi che ruotano attorno al tema; dal progetto speciale Conflicts of an Urban Age, messo a punto da Ricky Burdett (direttore della Biennale Architettura nel 2006) e il cui padiglione è stato finanziato dalla Deutsche Bank, alla presentazione a Cà Foscari dei Laboratori di UN Habitat per diffondere i principi e le tecniche dell’urbanizzazione sostenibile.

Tutti gli eventi partono dall’assunto che non solo l’urbanizzazione è inarrestabile ma, se ben pianificata, cioè disegnata dai nostri architetti, costruita dalle nostre ditte e finanziata a tassi di usura dalle nostre banche, è positiva. Né UN Habitat né le varie agenzie che diffondono tali previsioni dicono, però, che l’urbanizzazione non è un fenomeno naturale, perché lo spostamento di grandi masse di popolazione all’interno di un paese, e da un paese all’altro, può essere contrastato, assecondato o imposto, o comunque fortemente influenzato dai governi e dai decisori economici. Non a caso “l’urbanizzazione forzata” è stata teorizzata dagli strateghi militari come arma nei confronti di popolazioni nemiche e, nel 1968, Samuel Huntington l’ha esplicitamente indicata come decisiva per debellare la resistenza dei vietnamiti. A suo parere, messo poi in pratica dai generali americani, bisognava porre i contadini di fonte a tre alternative: restare sulla propria terra (e farsi bombardare), unirsi ai ribelli ( e farsi bombardare), diventare rifugiati urbani. Oggi i governi non espongono ai loro cittadini la questione in questi termini, ma in molti casi la migrazione verso le agglomerazioni urbane è il risultato di pressioni altrettanto potenti perché enormi sono gli interessi in gioco. Anche le opzioni per i contadini sono sostanzialmente le stesse, e della loro “scelta” di diventare “rifugiati urbani” tutto si può dire tranne che sia presa senza coercizione.

Come scrivono i commentatori economici, che non dovendo esporre alla Biennale non hanno bisogno di esibire buoni sentimenti, soprattutto in Africa l’urbanizzazione è una sfida tremenda per le autorità locali, ma è un’opportunità enorme per gli affari. La rapida crescita delle città, infatti crea occasioni straordinarie. Le sfide/opportunità vanno dalla carenza di infrastrutture e di energia alla mancanza di acqua e cibo, dalla perdita di terra coltivabile ai problemi sanitari causati dall’inquinamento, dallo smaltimento di rifiuti al traffico caotico.

Tutte queste sfide/opportunità compaiono nella lista di quelle che Aravena individua come le battaglie da vincere al fronte. Si tratta di capire se le stiamo combattendo a fianco di quelli che sono bombardati o di quelli per cui l’urbanizzazione è un’ opportunità.

Detto questo, tranquillo Alejandro, venceremos!

Riferimenti

Qui il primo report di eddyburg dalla Biennale Architettura: La cattiva coscienza della Biennale targata Rolex

«Il cileno Alejandro Aravena, curatore della XVI Biennale, immagina l’architettura come un bene pubblico e l’architetto come un prestatore di servizi». Il Sole 24 ore, 29 maggio 2016 (c.m.c.)

Dal vostro inviato al fronte. Visto da Venezia il fronte dell’architettura si presenta più come una rete che come una linea retta. Una griglia involontaria di strade trafficate e di vicoli appartati, di luoghi comuni e di insolite proposizioni che aiutano a ridefinire la nostra idea dell’architettura e del progetto secondo direzioni a volte anche inattese.

Alejandro Aravena, l’architetto cileno regista e curatore di questa plateale messa in scena,è noto per l’impegno sociale esemplificato dal lavoro del suo studio nel campo delle infrastrutture, degli spazi pubblici, dei progetti di edilizia a basso costo( Elemental). L’intera Biennale da questo punto di vista è il manifesto allargato di una posizione che mette al centro l’idea di architettura come bene pubblico e una visione dell’architetto come prestatore di servizi che dà forma ai luoghi in cui viviamo.

La sua posizione non è né inedita né isolata e i suoi antecedenti storici possono essere rintracciati nella nozione di “necessario” elaborata da Tatlin nella stagione eroica della rivoluzione russa («non il meno, né il più: solo il necessario»)o in quella di Giuseppe Pagano che ,contro il formalismo delle avanguardie, rivendicava nella sobrietà i veri «benefici dell’architettura». Ma, anche se è entrata da qualche anno nell’agenda del “politicamente corretto”, quest’idea viene ancora percepita più come un obbligo sociale che come una vera condivisione intellettuale.

Credo che il merito di Aravena sia di essere riuscito a schivare in parte il pericolo di una assunzione ideologica e moralistica, aprendo a una pratica curatoriale più aperta e problematica che, accanto agli slogan dell’architettura per tutti, apre spiragli verso pratiche più interstiziali e intriganti sulle responsabilità del progetto. Come nella bella e agghiacciante installazione - The Evidence Room- che, partendo dall’ analisi forensica del campo di concentramento di Auschwitz, replica le caratteristiche degli spazi e dei luoghi di detenzione ricostruendo gli strumenti architettonici di detenzione e di tortura: frutto dell’accurata progettazione di ingegneri e di architetti al servizio del terrore.

La proposta di Aravena riguarda in fondo la necessità di ampliare la gamma delle tematiche cui ci si aspetta che l’architettura debba dare risposte, avvertendo tuttavia il limite di una sua meccanica equiparazione a strumento di servizio. Se si accoglie l’invito sintetizzato dall’immagine-manifesto - l’antropologa tedesca Maria Reiche, sorpresa da Bruce Chatwin a camminare nel deserto con una scala di alluminio per decifrare dall’alto il disegno delle tracce archeologiche disseminate disordinatamente al suolo - ci si accorge che l’insieme affastellato delle installazioni si compone infine nella complessità di linee individuali ma intrecciate tra di loro anche quando apparentemente conflittuali.

Prima tra tutte per quantità di partecipazioni, quella legata ai temi dell’emergenza; poi quella delle best practices, che riguarda sia i luoghi dell’iper sviluppo che quelli del sotto sviluppo, a partire dai rifiuti e dall’ecologia dei consumi; forse un po’ meno evidente, ma cruciale, quella infine che definisce l’architettura come una pratica di resistenza, per l’affermazione di una qualità avvertita come altrettanto “necessaria” .

Se la prima linea risulta maggioritaria in questa Biennale che ha il suo epicentro ideale nell’America Latina , le altre due forse sono , per molti motivi, più significative. L’emergenza in qualche modo è per sua natura eroica e drammatica: richiama la violenza dei conflitti etici, religiosi, sociali, la pressione delle migrazioni, l’ingiustizia insopportabile delle diseguaglianze tra nord e sud del mondo. Richiede soluzioni semplici e forti, ma legate a una condizione temporanea che difficilmente possiamo immaginare di stabilizzare in una condizione di lungo termine.

Sull’altro fronte invece , la gestione dell’ordinario non è mai eroica, richiede pazienza e negoziazione, e molto spesso non sente il bisogno del talento dell’architetto costringendolo anzi a fare più di un passo indietro: per usare la metafora del fronte, lavora in seconda linea in una guerriglia di resistenza per l’affermazione di diritti negati, di equità sempre elusa, di revoca della ghigliottina del Capitale.

Ma esiste anche un’altra linea, quelle delle piccole cose, spesso rappresentata da progetti a scala ridotta, ma sempre contrassegnata dal desiderio di trasformare l’ordinario in esemplare: l’università di Lima di Yvonne Farrell e Shelley MacNamara( Grafton architects) – un budget “sociale” per un’architettura veramente eroica per le sue prestazioni luminose, spaziali, ambientali - ; le scuole in Veneto di Cappai e Segantini che sostengono la natura collettiva e pubblica degli spazi per l’educazione; la scontrosa navigazione controcorrente di Giuseppina Cannizzo in Sicilia, con la sua quotidiana pratica di piccoli progetti trasformati in grandi architetture; l’ostinazione di Luigi Snozzi nel rivendicare il primato del collettivo nella definizione della città; le agopunture di Mazzanti negli slums sudamericani, gli interventi misurati di Barozzi-Vega in Europa, l’eroismo minimalista di Francis Kerè nel pathos del suo costante confronto tra Europa e Africa, eccetara.

Esperienze disseminate negli spazi di confine di questa Biennale, che invitano il visitatore a riflettere sulle necessari età dell’architettura nonostante tutto. È in questi interstizi che l’esposizione veneziana si rappresenta più stimolante e riflessiva, resistente alla fastidiosa ( e talvolta grottesca) estetizzazione dell’etica e alla sua neutralizzazione nell’ennesimo slogan del momento.

Un percorso fra i padiglioni della 13/ma Mostra dell'Architettura, incontrando il Venezuela attento alla collettività e la visionarietà degli Stati Uniti». Il manifesto, 28 maggio 2016, con postilla (p.s.)

Il fronte dell’architettura non riparte dal padiglione Italia, curato da Tam associati, in quanto nella definizione immaginata dal curatore della Biennale, Alejandro Aravena, l’architettura deve essere un mezzo per risolvere questioni complesse come i problemi delle periferie, dell’abitare in condizioni migliori, di progettare spazi per l’aggregazione sociale. Tutti temi che non rientrano nelle ricerche attuate dagli architetti italiani tanto meno nell’agenda politica. E questo nonostante l’architettura sia una disciplina che ha molto da dire sia sul riuso degli edifici esistenti nei centri storici, sia sul recupero sociale e architettonico dei quartieri periferici.

L’immersione totale in immagini, suoni, parole, display espositivi, subìti dai visitatori della Biennale veneziana, impone una riflessione sulla condizione dell’architettura oggi nei confronti della società. Ciò che emerge dai padiglioni nazionali, solitamente più interessanti della mostra internazionale, è invece una disomogeneità e ambiguità rispetto al tema scelto da Aravena. In molti casi, l’architettura non viene presentata come una possibilità concreta di migliorare le condizioni di vita delle persone, dalle megalopoli ai piccoli villaggi, bensì proiettando immaginari privi di ogni relazione con i temi attuali del dibattito politico internazionale ed europeo.

Nessun padiglione ha immaginato, ad esempio, come risolvere il problema dei campi di accoglienza, pianificando una strategia urbana e pensando forme di insediamento temporanee, come è accaduto a Calais con la tendopoli improvvisata dai migranti. L’Europa istituzionale e culturale dimostra un profondo disinteresse verso la capacità dell’architettura di risolvere alcune primarie esigenze come l’abitare dei migranti.

In parte, l’Austria ha cercato di raccontare, attraverso la fotografia, il processo di riuso di abitazioni esistenti da parte dei migranti, ponendosi in contrasto con le azioni governative, ma con un allestimento che non rende appieno il senso del progetto. È il padiglione del Venezuela, invece, ad imporsi come uno dei più attenti alla collettività. Risponde meglio di altri alla questione cardine: quale sia oggi il fronte dell’architettura, nonostante la complessa situazione politica che lo sta scuotendo.
Curato da Rolando Gonzalez, presenta quindici progetti che sono raccontati attraverso più temi: le politiche del territorio, l’architettura come elemento fondativo, la democrazia della conoscenza, la costruzione di un paesaggio, la governance e l’organizzazione collettiva. Nella maggior parte, si tratta di micro architetture costruite all’interno delle favelas – dai campi per le attività sportive a piccole piazze, fino agli spazi ludici per i ragazzi, tutti caratterizzati da una tecnologia povera in tubi di acciaio coloratissimi, da cui gli architetti «impegnati» italiani dovrebbero imparare.

Il padiglione degli Stati uniti, curato da Monica Ponce de Leon e Cynthia Davidson, risponde in modo visionario al fronte contemporaneo della progettualità. La scelta di indagare Detroit, la città industriale di Henry Ford e della casa discografica Motown, pone la questione del riuso delle aree industriali attraverso lo sguardo visionario e formalista dei dodici architetti invitati.

Greg Lynn, Andrew Zago, Present Future, Stan Allen, A (n) Office, Marshall Brown Projects sono solo alcuni degli architetti che hanno lavorato su quattro aree. «Il tipo di fronte dell’architettura che noi abbiamo immaginato – spiega Davidson – non è la nostalgia verso il passato di città industriale, ma il futuro. Crediamo nel potere dell’architettura per cambiare le cose. Non vogliamo costruire edifici ma un immaginario pubblico. Per ogni sito – continua Ponce de Leon – abbiamo chiesto agli architetti di lavorare con le comunità e con le organizzazioni no profit attivando un dibattito».

Indubbiamente, la scelta di un tema unico coincidente con una città industriale in profonda crisi, rafforza il legame tra il titolo del padiglione The Architecture Imagination e quello della Biennale Reporting from the front, affermando quanto sia necessario fornire ai cittadini una visione che li proietti nel futuro.

Il caso Detroit è analogo a Ivrea (incomparabili per le loro dimensioni), differente è la scelta per rinnovarsi. Se la città americana punta sulla trasformazione urbana attraverso l’architettura, Ivrea, la città di Adriano Olivetti, cerca il rinnovamento attraverso il riconoscimento Unesco come città industriale del XX secolo, non attivando nessun processo di rigenerazione urbana.

postilla

Finalmente qualcuno che non si dichiara entusiasta del padiglione italiano.
A proposito dei campi di accoglienza dei migranti bisognerebbe ricordare che la scelta dei curatori dei padiglioni nazionali è sempre occasione di conflitti e compromessi e che, nel caso particolare della Francia, la proposta dell’organizzazione PEROU di esporre i loro progetti per la Giungla di Calais è stata scartata dal governo. Ieri i rappresentati del gruppo PEROU hanno civilmente manifestato il loro dissenso di fronte al padiglione dal quale sono stati esclusi, ma i reporters embedded non se ne sono accorti.
A proposito di esclusi, va anche ricordato che le proposte degli architetti americani che da anni lavorano con i cittadini e le comunità più colpite dalla deliberata distruzione delle industrie di Detroit non sono state accolte nel padiglione americano, dove sono invece esposte una serie di soluzioni forse “immaginifiche”, ma certamente non costruite dal basso”.
Come ha denunciato l’organizzazione Detroit Resists: “il padiglione è strutturalmente inadeguato ad affrontare la catastrofe di Detroit e collabora alla distruzione in corso della città”.

«Ancora una panoramica sulla Mostra dell'Architettura di Venezia Un’indagine, quasi da imprenditore, sullo stato delle città». Ma è proprio vero che gli architetti abbiano difficoltà a rispondere, in modo adeguato, alle contraddizioni dell’economia globale di mercato» ? Il manifesto, 28 maggio 2016 con postilla (p.s.)

La Mostra di Architettura di Venezia ha ospitato negli ultimi dieci anni critici come Dejan Sudic, storici, Kurt W.Foster, professori della London School of Economics, Richard Burdett e, naturalmente, architetti, Kazuyo Sejima, David Chipperfield, Rem Koolhaas, ma è la prima volta che in Laguna fa la sua comparsa un architetto-imprenditore: il cileno Alejandro Aravena.

Nulla di cui stupirsi perché l’istituzione veneziana predilige chi può garantire al meglio il successo mediatico della manifestazione e il cileno, vincitore quest’anno del Pritzker Prize, dopo sette anni nella giuria del famoso riconoscimento, è stato ritenuto il più adatto ad assolvere questo compito.

La fama non l’ha conquistata per l’Innovation Center Uc Anacleto Angelini a Santiago o il Centro Culturale di Constitución (entrambi del 2014) e neppure per i dormitori per l’Università di St. Edward a Austin, in Texas (2008), opere che sono un combinato di geometria e tettonica com’è la tendenza in molta architettura contemporanea. La notorietà gli è stata procurata dal suo progetto Elemental, una soluzione che è apparsa a molti originale perché idonea a garantire un alloggio sociale in mancanza di risorse economiche.

Il progetto consiste nell’applicazione in ciò che Aravena definisce la «logica riduttiva» (lógica reduccionista). Con lo slogan «mezza casa buona non è uguale a una casa piccola» egli propone, con la sua impresa Elemental S.A. – della quale è direttore esecutivo mentre azionisti sono con lui la società petrolifera Copec e l’Università Cattolica – la costruzione, per nucleo familiare, di soli quaranta mq. degli ottanta necessari, lasciando i restanti all’autocostruzione.

Verso l’housing

È in questo modo che in varie località del Cile sono stati realizzati migliaia di alloggi. Si presentano aggregati in stecche di tre livelli con una porzione disegnata e una da completare, che sarà costruita successivamente dai proprietari, diversa da quella dell’architetto per materiali e colori. Il risultato sono monotoni parallelepipedi che fanno rimpiangere le tipologie in linea multipiano del modernismo.

Ha scritto sul sito madrileno Arkrit (www. dpa-etsam.aq.upm.es/gi/arkrit/), Fabián Barros (La desigualdad es elemental) che l’espediente è paragonabile a «un medico che decide di dare la metà di un trattamento vitale contro una malattia; l’altra metà dipenderà dallo sforzo dei più poveri».

Per Aravena è così che l’housing riesce a trasformarsi in «investimento e non solo in una mera spesa sociale» come recita un capitolo del suo manuale (Hatje Cantz, 2012) al quale rimandiamo per comprendere, in tutti i suoi dettagli, in cosa consiste l’architettura che lo ha reso famoso: dal primo insediamento Quinta Monroy a Iquique ai masterplan per Constitución o Calama. Torniamo, però, alla mostra veneziana e all’Arsenale, il suo centro, perché proprio descrivendola attraverso i partecipanti invitati dall’architetto cileno si può comprendere meglio il significato del titolo, Reporting from the front.

Il «fronte» è quello della città, che produce disuguaglianze, del paesaggio naturale che continua essere a rischio, delle aree rurali che si impoveriscono lì dove non trovano investimenti sufficienti a svilupparle.

La più politica delle arti

Aravena usa la metafora dell’archeologa fotografata da Chatwin su una scala per guardare dall’alto le linee Nazca sul suolo per dimostrare che la soluzione ai gravi problemi che l’umanità ancora sopporta non è questione di scarsità di mezzi ma di «inventiva», non di squilibrata distribuzione della ricchezza ma di creativà.

L’altra componente che insieme all’invenzione serve a legittimare la sua architettura (ma anche quella di altri) è la «pertinenza», ossia la critica all’«abbondanza»: l’archeologa avrebbe potuto utilizzare altri mezzi, ma (non si comprende il perché) «avrebbe distrutto l’oggetto del suo studio». Tuttavia, per assecondare la tesi che l’architettura è «la più politica delle arti» (Baratta) – dalla quale si evince che chi se ne occupa sia il più politico dei professionisti – e che necessita occuparsene a dovere, ecco le nuove narrazioni proposte da Aravena.

La rassegna miscela con sapienza e astuzia progetti di architettura vernacolare (Anna Heringer in Balgladesh) con esemplari case study (la ricerca di Rahul Mehrotra a Kumbh Mela sull’insediamento «effimero» per sette milioni di abitanti), stravaganti progetti per la metropoli (Spbr Arquitetos a San Paolo con la loro megastruttura per il parco Ibirapuera) con edifici di un ingenuo formalismo (Bernaskoni a Mosca), buona pratiche rientranti nell’ordine della sostenibilità ambientale (Al Borde in Ecuador o Amateur Architecture a Fuyang) con altre invasive e incongrue (51N4E in Albania). Il risultato è uno spaccato che chiarisce in modo netto lo stato di difficoltà che l’architettura vive nel rispondere in modo adeguato e coerente alle contraddizioni dell’economia globale di mercato.

Poche le esperienze capaci di incidere nella scala planetaria della povertà o nelle contraddizioni della città capitalista. Meritevoli di riflessione ci sono quelle esposte nei diversi progetti nei padiglioni stranieri e per una volta il Padiglione Italia con il progetto Taking Care di TAMassociati che sarà nostro impegno seguire nei suoi sviluppi futuri.

Tam associati Urbanizzazione diffusa

Molte sono le presenze di giovani architetti con opere interessanti in aree povere del mondo, come il tedesco Manuel Herz con il suo insediamento temporaneo per profughi fatto di tende e fango nel Sahara Occidentale, i paraguaiani del Gabinete de Arquitectura, artefici nell’uso di tecniche e materiali low-tech, come i loro colleghi iraniani di VAVStudio o i cileni Elton Léniz con le loro aule all’aperto sulle Ande.

Si collocano accanto a loro architetti più famosi e conosciuti come Francis Kéré già impegnato in Burkina Faso con programmi di scuole e adesso con la prestigiosa sede del Parlamento, i giapponesi Sanaa (Sejima e Nishizawa) e Atelier Bow-Wow dalla raffinata ricerca minimalista sull’abitare, il ticinese Snozzi con la sua straordinara prova, seppur datata, di Monte Carasso.
Non ci è possibile soffermarci oltre sui partecipanti alla mostra.

Interessa qui solo rilevare che, insieme a processi democratici in atto in molti paesi – dove l’architettura è strumento di critica e di socializzazione e dove si stanno costruendo luoghi e spazi migliori per le persone – al tempo stesso mai come oggi sono frustrate le possibilità di cambiamento con l’aumento del disagio e della sofferenza per milioni di loro. Sappiamo che per l’architettura non ci sono modelli urbani ai quali ispirarsi, ma dovunque è possibile individuare una urbanizzazione diffusa, banale, segregante.

Tra queste contraddizioni, gli architetti dovranno ancora per lungo tempo muoversi. L’augurio è che sappiano dare risposte concrete agli esclusi e combattere l’autoritarismo urbano, già così pericolosamente presente.

postilla

Nell’articolo si parla dello «stato di difficoltà che l’architettura vive nel rispondere in modo adeguato e coerente alle contraddizioni dell’economia globale di mercato». In realtà l’architettura come professione e la maggior parte degli architetti (almeno quelli non disoccupati) sono perfettamente adatti e coerenti alle leggi del mercato e si adeguano rapidamente alle sue parole d’ordine, come dimostrano la maggior parte degli invitati di Aravena. Oggi il motto è convincere gli elettori ed i consumatori che i problemi del mondo possono essere affrontati con soluzioni tecniche e/o di design, in modo che nello stesso giorno in cui si ha notizia nuovi naufragi e morti in mare, Renzi possa inaugurare quella che il giornale locale intitola “la Biennale dell’accoglienza” (p.s.)

edizione della Biennale di Architettura di Venezia. Potente macchina al servizio degli investitori immobiliari

1.
Preceduta da una martellante campagna pubblicitaria tesa ad accreditarne la vocazione umanitaria, è finalmente aperta la quindicesima edizione della Biennale di Architettura di Venezia. Potente macchina al servizio degli investitori immobiliari e degli sviluppatori del territorio, la Biennale è molto abile nel cogliere le parole d’ordine e gli slogan del momento e trasformarli in spettacolari eventi che catturano masse di visitatori, per la gioia del ministro Franceschini che, dove vede gente in coda, vede cultura.

Già nelle ultime edizioni, i titoli evocavano nobili principi ed aspirazioni; basti ricordare “common ground” o “l’architettura incontra la gente” inventato da Kazuyo Sejima che dichiarò di volere «un luogo d’incontro fra i cittadini e l’architettura e non una vetrina di archistar», ma la scelta di quest’anno è particolarmente astuta. La metafora bellica, infatti, non solo è appropriata alla situazione del mondo, dove le guerre scatenate dal neo imperialismo sono una condizione permanente, ma suscita l’idea che gli architetti siano al fronte e combattano per “la parte giusta”, senza peraltro indicare chi è il nemico e chi sono gli alleati. Il frequente ricorso nei proclami diramati dalla Biennale ad alcune parole chiave -migrazioni, catastrofi, casa, inquinamento, diseguaglianze, traffico, rifiuti, spreco, criminalità- dovrebbe chiarire “perché si combatte”, ma in realtà nulla dice sugli “opposti schieramenti” che si fronteggiano . Inoltre, come osserva il Financial Times nell’articolo Biennale: architects’social conscience, attribuire agli architetti la capacità di risolvere i problemi del mondo “con eleganti soluzioni da riprodurre su scala industriale” distoglie l’attenzione dalle cause dei problemi.

2.
Le risposte dei vari padiglioni sono molto diverse, come diversi sono i fronti sui quali si combattono le battaglie che ogni paese ha deciso di documentare.

2.1 Alcuni seguono in modo esplicito il filone sempre più corposo dell’architettura umanitaria, che non è più delegata a volontari e ad associazioni senza scopo di lucro (Architects sans Frontières, Architecture for Humanity), ma è ormai diventata oggetto di corsi universitari e conferenze internazionali. A consacrare l’architettura umanitaria provvederà, il prossimo ottobre, una grande esposizione al MoMa di New York dal titolo “Insecurities. Tracing Displacement and Shelter” dedicata ai modi con i quali “architettura e design hanno affrontato la nozione di shelter vista attraverso le lenti delle migrazioni e l’emergenza globale dei rifugiati” e dove sarà possibile, tra l’altro, ammirare Better Shelter, il prototipo di casetta per rifugiati messo a punto e prodotto dall’IKEA e già adottato, e acquistato, dalle Nazioni Unite.

Ovviamente, nei tentativi degli architetti di “far del bene” non c’è di per sé niente di sbagliato, il che vale per qualunque persona o professione, ma il messaggio che iniziative di questo tipo diffondono, e che si può riassumere con la formula “making markets working for aid”, dovrebbe essere criticamente analizzato, così come dovrebbe essere messa in discussione la tendenza ad affrontare la cosiddetta crisi dei rifugiati come un problema di design.

Dell’accoglienza dei migranti e dei rifugiati si occupano i padiglioni della Finlandia “Housing for asylum seekers”, della Germania “Making Heimat” e dell’Austria “Places for people” (titolo che intende essere anche un omaggio all’opera di Bernard Rudofsky ), che espongono una serie di esperimenti per dare un tetto alle migliaia di persone che ne hanno disperato bisogno.

In alcuni casi si tratta di singoli edifici espressamente pensati per la “categoria” degli immigrati, ma non mancano i progettisti che, assieme alle istituzioni per le quali lavorano, hanno la consapevolezza della inevitabilità di un ripensamento complessivo delle nostre città. Non a caso la Germania, che già l’anno scorso, alla Biennale d’arte, aveva dedicato una parte del padiglione a documentare la condizione dei rifugiati in Germania, ha chiamato come consulente Doug Saunders, il giornalista canadese autore di Arrival City.

Finlandia, Germania e Austria sono tre paesi europei alfieri dell’austerità ed i cui governi hanno adottato politiche contro i migranti, ma almeno ne parlano. Stridente è il contrasto con il padiglione della Francia, dove la proposta di PEROU, un’organizzazione presieduta da Gilles Clement, di esporre il loro lavoro e il loro progetto per la “Giungla di Calais” è stata scartata a vantaggio di un progetto più “neutrale”.

2.2. Un secondo fronte è quello della casa e dei tentativi di migliorare le condizioni di vita degli abitanti agendo sul tessuto fisico delle parti di città più “svantaggiate”.

Il padiglione del Venezuela è interamente dedicato a interventi nelle favelas di Caracas e di altri grandi centri urbani e in quello del Messico sono documentate esperienze di cooperative sociali e di partecipazione.

Anche nei padiglioni degli Emirati Arabi e della Cina, che pur non fanno espliciti riferimenti alle “lotte per la casa”, è possibile leggere l’evoluzione delle tipologie abitative e la “modernizzazione” degli insediamenti come indicatori dell’ingiustizia sociale e del conflitto fra profitto e diritti dei cittadini che sono sempre alla base della cosiddetta questione della casa. “Dignità, benessere, uguaglianza” sono, ad esempio, le priorità individuate dai curatori cinesi come criteri per il loro rapporto dal “fronte ignorato”.

Un approccio auto celebrativo è, invece, quello del Portogallo, che organizza il proprio evento espositivo alla Giudecca, un tempo zona di Venezia a forte densità operaia, dove esistevano una serie di case popolari costruite durante il regime fascista. Quando, negli anni ‘80, gli amministratori locali hanno deciso di trasformare la Giudecca in una sorta di belvedere su San Marco (“è come Brooklyn da dove si vede Manhattan”, dicono le agenzie immobiliari), gli abitanti sono stati cacciati, gli edifici sono stati demoliti e al loro posto sono sorte delle costruzioni firmate dai più famosi architetti del momento, da Aldo Rossi ad Alvaro Siza. Ora, Siza è richiamato sul campo di battaglia per raccontare come un’area “di degrado” è diventata un indirizzo di prestigio. Un caso da manuale degli effetti perversi della rivitalizzazione urbana che dimostra come, anche sul fronte della casa, le truppe di occupazione ed i loro architetti non solo distruggono territori e comunità, ma riscrivono la storia.

2.3 Il conflitto per il possesso e lo sfruttamento delle risorse ambientali è il fronte indagato nel padiglione del Peru, che lega la salvezza della foresta all’educazione di massa, e del Cile con una serie di affascinanti progetti che fanno “molto con poco” in zone rurali.

Ad una esplicita denuncia dell’imperialismo ambientale è dedicata anche Extraction, l’installazione del Canada, un’opera di land art che lega politiche globali ed effetti locali. Realizzata all’esterno del padiglione nazionale, che è stato chiuso per restauri, o come si dice, perché il governo canadese non ha apprezzato l’approccio del curatore, consiste in un buco nel terreno situato nel punto mediano tra i padiglioni di Francia, Gran Bretagna e Germania, attraverso il quale il visitatore vede un filmato che documenta la rete di interessi economici che controlla e coordina le attività minerarie del Canada in ogni parte del mondo ed il loro impatto devastante.

3.
I padiglioni nazionali offrono spunti di riflessione più articolati rispetto al padiglione generale, le cui postazioni sono presidiate da una batteria di prestigiosi invitati “a prescindere” - qualunque sia il tema o il titolo, loro ci sono - fra i quali i precedenti direttori della Biennale e tutti i campioni della “scuderia” Rolex (in molti casi le due caratteristiche coincidono) che, per le tre edizioni del 2014-2016-2018, è sponsor unico della Biennale.

Da Kazujo Sejima, che ha costruito il Rolex Learning Centre a Peter Zumthor e David Chipperfield che fanno parte del gruppo dei “mentori per l’arte e l’architettura” creato dalla ditta a scopo benefico, tutti sono in scena alla Biennale.

Il fatto che Rolex, come tutti i grandi marchi del lusso, non solo faccia costruire le proprie sedi dalle archistar, ma le usi come testimonials per i propri prodotti è una ulteriore conferma di quanto dice Renier de Graaf, associato dello studio OMA: «oggi l’architettura è uno strumento del capitale» (“architecture is a tool of capital, complicit in a purpose antitetical to its social mission”, Architectural Review, aprile2015).

Il risultato è che architetti che effettivamente si propongono di migliorare le condizioni di vita delle persone che si serviranno dei loro progetti vengono affiancati ad altri che mai hanno visto un campo di battaglia. Il teatrino di palazzo Grassi e la punta della Dogana di Tadao Ando, ad esempio, è collocato tra il lavoro di Rural Studio, un gruppo che da anni lavora e costruisce con le comunità rurali dell’Alabama, e quello dell’indiano Anupama Kundoo che recupera e reinventa tecniche e materiali. Il rischio di trasmettere, così, il messaggio che qualsiasi fronte vada bene, purché sia spettacolare, è evidente.

Nei dispacci dei corrispondenti di lusso in missione per la Biennale si parla solo di vittorie (in battaglie umanitarie, ovviamente) e sono pressoché assenti notizie di vittime, dispersi, “danni collaterali o non intenzionalmente inflitti”.

Tra le poche eccezioni, il gruppo Forensic Architecture che da anni si occupa di disvelare l’uso dell’architettura come strumento di guerra.

Di guerra si occupa anche il padiglione dell’Olanda che interpreta il titolo della mostra in senso letterale. La curatrice, i cui interessi di ricerca si concentrano sullo «spazio pubblico come zona di guerra», analizza Camp Castor la base delle Nazioni Unite che l’Olanda ha costruito e gestisce a Gao in Mali mettendo in luce il significato delle sedicenti missioni di pace e l’inestricabile intreccio tra guerra e sviluppo economico. Bella l’idea di far inaugurare il padiglione da un generale e non da un architetto.

4.
Nel complesso, la Biennale dell’imperialismo umanitario, che il Financial Times definisce la «Biennale post Piketty», ignora alcuni fronti “caldi”. Ad esempio, manca una sezione dedicata a quello che fanno in Grecia gli architetti al servizio degli investitori internazionali e ci sono poche testimonianze dall’Africa.

Degli 88 invitati di Alejandro Aravena solo 4 sono africani (due dei quali sudafricani) e solo quattro paesi africani sono presenti con un loro padiglione: Egitto, Costa d’Avorio, Nigeria e Sud Africa; tutti ricchi e/o ben connessi con la comunità internazionale. Sono scomparsi i padiglioni dei piccoli paesi, come il Rwanda che, qualche anno fa avevano provato ad accedere alla Biennale. Ora il Rwanda compare solo in quanto destinatario di un progetto umanitario di sir Norman Foster: un droneport dove far atterrare gli aiuti internazionali. Manca anche l’Angola, che nel 2012 vinse con il suo padiglione un premio ufficiale della Biennale.

Debordante, invece, e pervasiva la presenza delle grandi e ricche università americane, in particolare il MIT con docenti e ricercatori protagonisti di molti padiglioni e il cui dean è membro della giuria della Biennale.

5.
Ed infine, cosa fanno i comandanti in capo insediati al quartiere generale mentre aspettano i dispacci degli inviati più o meno embedded? Business as usual, come dimostrano i tre progetti speciali sponsorizzati dalla stessa Biennale e che sono dedicati rispettivamente a:
- urbanizzazione sostenibile, un ossimoro caro alla Banca Mondiale e ai suoi accademici, secondo i quali quale sgombrare le terre coltivabili per cederle alle multinazionali e spostare tutti in città è un fenomeno, naturale, inevitabile e benefico per tutti;
- produzione di copie di opere d’arte che si trovano in siti in pericolo a causa di guerre e cambiamenti climatico, in modo da offrire alternative per un pubblico che vuole comunque visitare i siti storici (detto in altre parole fare dei falsi per catturate i turisti);
- e infine il fronte di Marghera. Che il cuore della Biennale batta per Venezia non è una novità. Ogni edizione è servita a promuovere una o più interventi che nel loro insieme hanno trasformato la città in una dependance della Biennale (vedi Mercanti in fiera, edizioni Corte del Fontego, 2014). Ora che il centro e le isole sono state conquistate, il fronte si è spostato in terraferma.

Di Marghera si occupa anche il padiglione Venezia con un progetto fortemente voluto dal sindaco Brugnaro che, col motto “Up Marghera”, intende promuovere la verticalizzazione della gronda lagunare e della terraferma per trasformare Marghera in “una nuova Manhattan e revitalizzare Venezia e l’Italia”, consentendo (niente di nuovo sul fronte occidentale!) lauti affari ai profittatori di guerra.

eddyburg contribuirà a scoprirlo, nei prossimi mesi, non solo nel padiglione italiano. La Repubblica, 26 maggio 2016

Quanti sono i fronti sui quali si misura l’architettura che contribuisce con i propri mezzi a ridurre le disuguaglianze, a mitigare sofferenze e disagi? Tanti, secondo Alejandro Aravena, il curatore cileno della quindicesima Biennale che ora apre i battenti nei Giardini e all’Arsenale. Sono tanti e abbracciano ambiti diversi e diverse scale, diversi continenti, toccano anche l’Italia, con l’architettura che resta architettura («L’architettura è occuparsi di dare forma ai luoghi in cui viviamo », si legge nella prima sala del padiglione centrale ai Giardini), ma mette al bando lo spettacolo di sé. L’esposizione dà concreta attuazione ai propositi di Aravena, che potevano limitarsi a essere tali o rischiare un indeterminato scivolamento verso altre discipline, dalla sociologia all’antropologia, con le quali invece l’architettura coopera, rimanendo, appunto, se stessa.

In Reporting from the front sfilano tanti esempi, interventi realizzati più che progettati. Come la funicolare che il colombiano Giancarlo Mazzanti ha costruito a Medellin, un tempo capitale del narcotraffico, funicolare che insieme a impianti igienici, elettricità, linee telefoniche, conduce a una biblioteca: un complesso di infrastrutture, tutt’altro che Grandi Opere, che hanno ridotto il senso di esclusione, aiutando persino con le forme ardite della biblioteca a limitare il reclutamento dei cartelli della droga. O come le iniziative a Durban in Sudafrica, dove un gigantesco e insicuro mercato è stato trasformato in un luogo di vivacità culturale.

Gli esempi si moltiplicano, spaziano dall’Iran a Parigi, dal Vietnam al Bangladesh. C’è molto Sudamerica, molti materiali poveri e di riuso, tecniche che si raffinano nell’indigenza. Il cuore della rassegna è lo sterminato disagio urbano, sono le periferie metropolitane e le periferie del mondo. Sono i conflitti. Come quelli che documenta la Forensic Architecture dell’israeliano Eyal Weizman: l’analisi del video di un bombardamento in Afghanistan che dimostra, esaminando le strutture edilizie, come la distruzione di un palazzo sia stata l’effetto dell’attacco di un drone e non dell’esplosione di ordigni lì custoditi. Ma accanto alle grandi anche le minute dimensioni – le zanzare contro il rinoceronte, le chiama Aravena: i piccoli appartamenti della siciliana Giuseppina Grasso Cannizzo, «uno sciame capace di sconfiggere le forze voraci che imperversano nella aree urbane», spiega l’architetto cileno. E non mancano alcune grandi firme, da Richard Rogers a Renzo Piano, da David Chipperfield a Eduardo Souto de Moura, convocati non per esibire luminosi grattacieli, ma anche loro per mostrare come una spiccata capacità iconica può servire scopi sociali, dalla periferia di Catania al Sudan.

La proposta di Aravena si arricchisce con il padiglione Italia, curato dalla TamAssociati di Massimo Lepore, Raul Pantaleo e Simone Sfriso. Taking care, il titolo della rassegna sostenuta dalla Direzione generale Arte e Architettura contemporanee del Mibact. Anche qui le espressioni chiave – periferie, associazionismo, beni comuni – non vagano in un cielo di stellata retorica, ma si muovono sulle gambe di realizzazioni avvenute. Anche piccole, disperse e puntuali, ma, insistono i curatori, capaci di mostrare gli effetti «di un’architettura metabolica, che assorbe risorse per farne crescere altre». A Casal di Principe la casa di un boss della camorra è stata rivestita di tubi innocenti e la rete rossa di cantiere lascia intravedere i segni di un’estetica pacchiana. L’interno poi è stato attrezzato per ospitare le opere seicentesche provenienti dagli Uffizi. A Milano, nel quartiere popolare Gratosoglio, l’ufficio tecnico dell’assessorato allo sport ha realizzato insieme a un’associazione di skaters il Gratobowl, una pista che non è solo una palestra per esibizioni spettacolari, ma uno spazio pubblico e di convivenza. E poi c’è il Teatro sociale di Gualtieri, a Reggio Emilia, abbandonato, restaurato e riaperto. C’è la restituzione ai palermitani del lungomare di Balestrate. C’è la rigenerazione di diversi isolati del centro storico di Favara (Agrigento), trasformati in gallerie d’arte, uffici co-working, residenze per artisti. Oppure il parco dei Paduli, in provincia di Lecce, dove si coltivano olive pregiatissime e si fa manutenzione del paesaggio.

La rassegna veneziana vorrebbe mettere in relazione questi mondi, ormai rintracciabili in molte regioni italiane, comprese quelle meridionali, ma ancora polverizzati e non si sa quanto portatori di esperienze replicabili. Entrano in gioco fattori imponenti – basti pensare ai quartieri pubblici, agli insediamenti abusivi del centro-sud, alle lottizzazioni private con i centri commerciali, cioè a tutte le realtà che vanno sotto il troppo uniforme termine di periferia urbana. Accanto agli interventi esemplari, dal padiglione Italia partono anche cinque progetti, cinque camion progettati da altrettanti studi e affidati a cinque associazioni (Legambiente, Emergency, Uisp, Aib e Libera) che da Ponticelli a Cerignola, dal torinese Parco Dora al Casilino di Roma, si proporranno come presidi di qualità ambientale e sanitaria, di iniziative per lo sport, la lettura e la legalità. Anche la confezione della mostra ribalta uno stereotipo, quello comunicativo, dentro il quale si arroccano molte parole dell’architettura. L’intera grafica e il catalogo (Becco Giallo) utilizzano il graphic novel, linguaggi e forme visive aderenti a un modo diverso di fare e raccontare l’architettura.

Una città un piano: Napoli 1980 - Piano delle periferie.


Ritorniamo a Napoli, sette anni dopo la prima iniziativa che ha dato avvio al fortunato ciclo di visite guidate organizzate dalla scuola di eddyburg a Friburgo, Vienna e Lione. Le città che abbiamo scelto si caratterizzano per aver fornito, attraverso una consolidata attività di pianificazione, risposte di elevata qualità alle domande sociali della casa, della mobilità, dei servizi pubblici, della protezione ambientale. Il racconto con i nostri interlocutori - amministratori, tecnici, attivisti locali - ci ha permesso di comprendere le intenzioni sottese alle scelte di piano. La visita alle realizzazioni concrete ci ha consentito di valutare corrispondenze e scarti tra obiettivi e risultati. Un lavoro fruttuoso, di cui trovate ampia documentazione in eddyburg.

L'iniziativa organizzata a Napoli dai nostri amici, che ringrazio, si inserisce appieno nel nostro percorso, con una particolarità. Il seminario e la visita guidata sono dedicati a una vicenda piuttosto lontana nel tempo. Come sapete, il piano delle periferie è stato approvato il 16 aprile 1980 e gli interventi che andremo a osservare da vicino sono stati realizzati pochi anni dopo. Da che cosa scaturisce, dunque, il nostro interesse odierno? In questo seminario e nella visita guidata avremo modo di costatare la qualità delle realizzazioni e la loro corrispondenza rispetto alle intenzioni che hanno animato quella stagione di pianificazione (1). In questa presentazione vorrei soffermarmi su tre aspetti di portata generale.

Intervenire nella città esistente

Come sapete, viviamo da molti anni una fase di sostanziale disimpegno dello Stato nei confronti dell'urbanistica. Non è sempre stato così. I numeri del programma straordinario, incardinato sul piano delle periferie, restituiscono la misura dello sforzo compiuto allora per cambiare volto a parti consistenti della città e rispondere, in questo modo, a fabbisogni di carattere strutturale. Li riassume Antonio Cederna, in un suo articolo del 1987 che abbiamo ripubblicato in eddyburg. Tredicimila cinquecento alloggi, la metà dei quali ultimati in soli sette anni dall'approvazione del programma, una settantina di sedi scolastiche, impianti sportivi, centinaia di ettari per nuovi parchi, millecinquecento negozi e laboratori per attività artigianali. Un impegno finanziario di oltre 850 miliardi di lire per le abitazioni e di circa mille per le dotazioni pubbliche: l'equivalente di circa quattro miliardi di euro, ai valori attuali (2).

La distanza tra allora e oggi è imbarazzante. Per il recupero delle periferie di tutte le città italiane, il governo ha stanziato 500 milioni di euro, con i quali si propone di finanziare decine di interventi. Nessuna strategia e nessun programma sorregge le sporadiche iniziative attuali. La questione urbana è scomparsa dall'agenda pubblica. Politiche per la casa, misure per contrastare la crescente polarizzazione economica e sociale delle città e del territorio, interventi per fare degli spazi pubblici il luogo dove consolidare una società plurale e solidale, sostegno alle economie di prossimità necessarie per rendere meno faticosa la vita di milioni di persone: poco se ne parla, e ancor meno si fa. Si continua a sottovalutare che nella trasformazione della città esistente si materializzano le principali sfide del nostro tempo, sociali, ambientali ed economiche.


Pluralità, coralità

La seconda questione attiene al ruolo dell'amministrazione pubblica. Nel programma straordinario di Napoli l'amministrazione pubblica, per prima, ha agito coralmente, attraverso le sue articolazioni. Il sapere tecnico e la cultura hanno dato il loro contributo, sia nell'alimentare il dibattito e la critica, sia nel fornire un apporto operativo. Il mondo delle imprese è stato ingaggiato, attraverso forme ordinate di partenariato, in piena legalità e trasparenza. I cittadini sono stati coinvolti attraverso una costante e attenta opera di intermediazione, guidata dagli attivisti politici locali.

Se non vogliamo limitarci a qualche intervento estemporaneo di trasformazione urbana, oggi come allora è necessario garantire pluralità e coralità. La regia pubblica è essenziale per questo scopo. Solo l'amministrazione pubblica può esercitare le funzioni di impulso, indirizzo, coordinamento, regolazione e monitoraggio. E l'amministrazione pubblica, prima e più di ogni altro soggetto, è tenuta a garantire la massima trasparenza, apertura e rendicontazione.

Dobbiamo quindi contrastare due affermazioni che l'ideologia corrente ha reso ormai di senso comune: non è vero che il progressivo restringimento dell'iniziativa pubblica a favore del cosiddetto mercato sia di per sì salutare; non è vero che, per rendere efficace il potere pubblico, occorre esercitarlo in forma autoritaria. Al contrario - e la vicenda napoletana ne è testimonianza - è vero che la committenza pubblica può farsi portatrice di istanze progressiste e puï mobilitare le forze sane presenti nella società. Se vogliamo rigenerare le città, dobbiamo innanzitutto rigenerare l'azione pubblica.

Memoria collettiva e impegno per il futuro

Il terzo e ultimo aspetto di interesse che vorrei richiamare molto brevemente, riguarda il nostro rapporto con le vicende passate. La lunga fase di declino che stiamo attraversando induce a guardare al passato con nostalgia. Niente di più sbagliato. Non siamo qui per questo, e nemmeno per un esercizio di sterile conoscenza. Il racconto dei protagonisti e la visita ai luoghi, molto più della sola lettura dei testi, sono un tramite per appropriarci di una memoria collettiva, di una storia che non abbiamo vissuto personalmente, ma che pure è la nostra. L'empatia con le persone e i luoghi facilita il lavoro di decifrazione e interpretazione necessario per rintracciare qualche filo utile per intessere una nuova trama. Siamo qui perché ci interessa il domani, ancora tutto da inventare.

Note

(1) Nelle pagine di eddyburg sono disponibili:
- i documenti essenziali riguardanti il programma di ricostruzione post-terremoto e il piano delle periferie (disponibili a breve);
- la presentazione e il programma dell'iniziativa organizzata a Napoli il 6-7 aprile 2016.
(2) I dati riportati nel testo si riferiscono ad alcune delle voci di investimento. L'ufficio del programma straordinario ex lege 219/1981 è stato incaricato di sovrintendere alla realizzazione di opere per un investimento complessivo di 3.000 miliardi di lire (circa 6 miliardi, ai valori attuali).

La cultura urbanistica più avvertita sostiene da decenni la necessità di politiche della casa improntate al recupero del patrimonio edilizio, in alternativa all’espansione. Non molti sanno che Napoli è stata la prima città a scegliere il recupero in periferia. Agli inizi degli anni ottanta la giunta di sinistra guidata dal sindaco Maurizio Valenzi approvò un piano per le periferie, attuato con le risorse straordinarie della ricostruzione post-terremoto del 1980. Il successo di questa esperienza e il suo lascito duraturo possono essere verificati e forniscono un insegnamento di valenza generale sulle possibilità d’intervento nella città esistente.
Le aree interessate dal piano delle periferie, approvato nel 1980, con evidenziati i luoghi visitati durante l’iniziativa Una città un piano.
Ponticelli - veduta aerea
San Pietro a Patierno - veduta aerea

Eddyburg, con il sostegno dell’Ordine degli architetti di Napoli, ha organizzato una giornata di studi e una visita alle più significative realizzazioni del piano delle periferie, nei quartieri di Scampia, Secondigliano, Ponticelli e Barra. Elena Camerlingo, Giovanni Dispoto, Roberto Giannì, Mario Moraca, che hanno redatto i piani e assicurato la loro realizzazione, hanno illustrato i contenuti urbanistici e sociali del programma e guidato i partecipanti nella visita. Maria Musetta è stata la preziosa e paziente segretaria dell'iniziativa. Qui è disponibile il programma.

Nel sito abbiamo raccolto numerosi documenti che testimoniano questa straordinaria vicenda urbanistica. Possono essere scaricati da questa pagina.

L'intervento introduttivo del seminario che si è svolto il 6 aprile è disponibile qui.

Qui di seguito inseriamo alcune fotografie scattate durante le giornate del seminario:

Visita guidata - in primo piano Elena Camerlingo

Visita guidata - al centro del gruppo Roberto Gianni
Visita guidata - Il parco Troisi (foto di Tino Perna tratta da panoramio.com)
Visita guidata - Il parco di Scampia

Poco a valle del centro storico di Lione, la Saone e il Rodano si uniscono tra loro. Alla fine del settecento, Antoine Perrache, ingegnere e imprenditore, avvia un imponente opera di rettifica e regimazione del Rodano. Il punto di confluenza viene spostato di qualche chilometro a valle, ricavando una striscia di terreno di circa 200 ettari, destinata a depositi e attività industriali.

L’area prende ufficialmente il nome del suo ideatore, quartiere Perrache, ma i Lionesi la chiamano "Derrière le voûtes" (oltre i sottopassi): per raggiungerla occorre infatti superare la barriera formata dalla ferrovia e - dopo il 1970 - dall'autostrada. Isolata dal resto della città, l'area ospita, nel novecento, industrie e depositi, due prigioni, il mercato all'ingrosso e un quartiere operaio.

In seguito al progressivo declino dell'industria pesante si comincia a pensare a una possibile riconversione. Il sindaco Raymond Barre - nel 1996 - indice un concorso internazionale per la redazione di un masterplan. Alla base del progetto c'è un obiettivo ambizioso: riconquistare a usi urbani un'area che, anche nell'immaginario delle persone, è considerata un luogo degradato e poco piacevole per vivere. Per costruire il consenso si apre una fase di consultazione pubblica. 24.000 lionesi visitano l'esposizione del progetto vincitore e inviano 1000 osservazioni scritte alla municipalità. Il dibattito è serrato, ma la scelta di fondo non è messa in discussione. Comune e Grand Lyon (l'associazione intercomunale, corrispondente alla città metropolitana) siglano un accordo per la trasformazione dell'area. Viene istituita una società di scopo (l'equivalente di una società di trasformazione urbana), con il compito di definire tutte le operazioni preliminari nei successivi quattro anni: piano esecutivo, acquisizione dei suoli, avvio dei lavori preparatori e dell'attribuzione dei primi lotti agli operatori privati.

Il progetto vincitore del concorso, redatto da Oriol Bohigas (l'urbanista che, pochi anni prima, aveva trasformato il volto di Barcellona), non viene realizzato, anche a seguito delle critiche ricevute nel dibattito pubblico. La nuova amministrazione di centro sinistra, guidata dal sindaco Gerard Colomb, ne affida la revisione allo studio Grether-Desvigne. Si opta per uno “schema direttore” da attuarsi nel tempo con interventi autonomi. Lo slogan utilizzato è: uno schema-mille progetti e, in effetti, la Confluence è anche un catalogo di architetture griffate, tra cui Coop Himmelbau, Odille Decq, Jakob+MacFarlane, Kengo Kuma, Fuksas, Herzog & de Meuron. Le risorse investite sono imponenti: oltre 1 miliardo di euro per la prima fase, riguardante 40 ettari su 150 complessivi e le principali infrastrutture. Per segnare la discontinuità col passato, al quartiere viene dato un nome nuovo: La Confluence.

Quindici anni dopo, la trasformazione dell'area può dirsi a buon punto. Una nuova linea tranviaria attraversa l'area e la connette alle principali stazioni ferroviarie e della metropolitana. Un nuovo ponte pedonale, un grande museo e un parco sono posizionati all'estremità meridionale, nel punto di unione dei due fiumi. Nel cuore dell'area è realizzata una darsena interna - una sorta di piazza d'acqua - sulla quale affacciano le residenze, gli spazi commerciali e ricreativi e la nuova sede della Regione Rhone-Alpes. A nord, l'insediamento storico è oggetto di una progressiva riqualificazione, tuttora in corso. La municipalità vi trasferisce parte degli archivi comunali, l'università cattolica si insedia nelle vecchie prigioni, il recupero delle quartiere operaio è agevolato con sussidi pubblici. Le rive della Saone sono attrezzate come una lunga "promemade" nella quale si svolgono iniziative culturali ed eventi che invogliano i lionesi a scoprire il nuovo volto del quartiere e aumentano l'attrattività potenziale per gli operatori. A sud è conservata una parte produttiva, ma le nuove attività che si insediano sono legate al terziario, alla cultura e all'informazione (la nuova sede di Euronews è ospitata in un iconico cubo verde), al turismo. Nella nuova parte residenziale, dove vivono circa 8000 nuovi abitanti, un quarto degli alloggi è riservato all'edilizia sociale nelle sue diverse declinazioni. L'edilizia libera e quella sociale sono compresenti in ciascun lotto, a volte anche nello stesso edificio. Infine, l'attenzione al risparmio energetico, alla mobilità lenta, agli spazi collettivi e al verde contribuisce a definire il profilo del quartiere, pienamente allineato a quello dei nuovi ecoquartieri sorti nelle maggiori città nordeuropee.

L'esperimento di rigenerazione sembra pienamente riuscito. A ben vedere, la creazione della penisola alla fine del settecento e la sua radicale trasformazione due secoli dopo sono legate tra loro: entrambe sono state concepite e realizzate da un'amministrazione pubblica ambiziosa, determinata a costruire solide basi per lo sviluppo futuro della città. Occorre constatare che nessuno, nel nostro paese, è in grado di fare altrettanto.

Abbiamo visitato il quartiere della Confluence il 19 settembre 2015, nell'ambito dell'iniziativa Una città un piano organizzata dalla scuola di eddyburg. Ci ha guidato Nicolas Bruno Jacquet, architetto di Lione.

Per saperne di più si possono scaricare il volantino con i dati essenziali e due documenti che illustrano la storia del quartiere e la parte residenziale. Altre informazioni sono disponibili sul sito della società di trasformazione Lyon Confluence.

Dal 17 al 19 settembre, a Lione, due giorni di incontri con amministratori etecnici del GrandLyon e dell’Agence d’Urbanisme e visite guidate. Qui il programma.

Nei due giorni di visita organizzata (giovedì 17 e venerdì 18 settembre) ci proponiamo di ragionare sui principali aspetti della rigenerazione urbana assieme ad amministratori e tecnici del GrandLyon e dell’ Agence d’Urbanisme e di visitare le realizzazioni più significative, con la guida di alcuni amici, italiani e lionesi.

Sabato 19 (e domenica, per chi intenderà restare in città) saranno invece dedicati alla visita dei luoghi più simbolici e allo splendido centro storico.

Il viaggio il soggiorno sono autonomi. Ognuno è libero di decidere come raggiungere Lione, dove soggiornare e quanto tempo fermarsi. Daremo agli iscritti l’indicazione dei luoghi di ritrovo per le attività organizzate dal giovedì al sabato.

E' obbligatoria l'iscrizione, dato che possiamo accettare solo 25 partecipanti. Per iscrivervi dovete:

- scrivere a eddyburg2014@gmail.com. Indicate il recapito mail e il telefono cellulare per le comunicazioni;
- attendere una conferma da parte nostra (vi diremo se ci sono ancora posti disponibili o se vi mettiamo in lista di attesa);
- trasmettere per mail la prenotazione dell’albergo che avete scelto e/o del biglietto del treno/aereo (così siamo sicuri che siete seriamente motivati). Se non trasmettete i documenti entro 10 giorni, assegniamo il posto a chi è in lista di attesa.
L’iscrizione è gratuita. Le spese di viaggio e soggiorno sono a carico vostro.

delega in bianco. Nuovo seminario di eddyburg: qui di seguito le finalità, i contenuti e gli appuntamenti.

Questione della casa e pianificazione urbanistica. L'attuale quadro legislativo e amministrativo è inadeguato e, per certi aspetti, contraddittorio con l'obiettivo di soddisfare i bisogni abitativi attraverso un organico insieme di interventi di trasformazione urbana, per i seguenti motivi:
- appiattimento sulla sola dimensione della produzione edilizia (non “politiche per l’abitare”, ma facilitazioni per interventi edilizi);
- ricorso sistematico a deroghe e varianti (i piani urbanistici costituiscono un ostacolo da superare e non il necessario riferimento per indirizzare e selezionare gli interventi);
- delega all’iniziativa privata sulla localizzazione e connotazione degli interventi (qualsiasi trasformazione dell’esistente, in qualunque parte del territorio urbanizzato, è considerata positiva a prescindere dal contenuto e dalle ricadute);
- progressivo allargamento del perimetro dell’edilizia sociale, rispetto alle categorie di beneficiari, alle forme di convenzionamento, alla possibilità di reinserimento degli alloggi realizzati nel libero mercato, con conseguente scomparsa di misure rivolte alle forme più marcate di povertà e di disagio sociale;
- nessuna attenzione a forme innovative di intervento che pongano la convivenza al centro delle iniziative o che diano risposta a bisogni insorgenti (aumento delle famiglie monopersonali, invecchiamento della popolazione, residenza temporanea per persone che si spostano per ragioni di studio/lavoro, …).
Anche in rapporto ad altre esperienze europee, appaiono evidenti l’arretratezza culturale e la complessiva inefficacia delle misure previste a scala nazionale e del tutto insufficienti gli strumenti e le risorse disponibili a scala locale. Gli interventi per la casa sono palesemente contrapposti alla pianificazione urbanistica, mentre dovrebbero costituirne un elemento fondante: un paradosso che si sta trasformando in una condanna per la pianificazione.

SE/ED 2014. Riteniamo indispensabile e urgente – così come avvenne dieci anni fa per il consumo di suolo – rompere il dominio di una visione così misera del problema della casa. Per questo, riteniamo indispensabile ridefinire il perimetro e il senso di alcune parole-chiave (residenza sociale/housing sociale, politiche abitative, rigenerazione urbana), producendo un documento avente un carattere “argomentativo” che spieghi, in modo semplice ma informato, le ragioni per cui è preferibile agire attraverso un organico insieme di interventi di trasformazione urbana, mantenendo una stringente regia pubblica, e non mediante una miriade scoordinata di progetti edilizi affidati al privato attraverso una sostanziale delega in bianco. Il documento deve essere corredato da una serie di esempi concreti che dimostrano la possibilità di agire in concreto nelle nostre città per soddisfare la domanda sociale di abitazioni migliorando la vivibilità complessiva.
Abbiamo individuato tre punti chiave, sui quali riteniamo indispensabile esprimere un punto di vista controcorrente:
1. per prima cosa, riteniamo necessario mettere ordine sui contenuti delle politiche della casa in senso stretto, sui bisogni pregressi e sulle domande insorgenti a cui si intende dare risposta, sul ruolo riservato all’iniziativa pubblica;
2. in secondo luogo, vogliamo rimarcare che le politiche della casa non si esauriscono nella produzione di alloggi. Le grandi lotte per la casa della fine degli anni sessanta hanno insegnato che il diritto alla casa e alla città sono indissolubilmente legati tra loro. Per questo occorre contrastare con forza la deriva derogatoria dei cosiddetti “piani casa” e promuovere, al contrario, una stretta integrazione tra politiche della casa, politiche urbane e pianificazione urbanistica.
3. infine, vogliamo indicare con precisione gli obiettivi e gli strumenti necessari per evitare che gli interventi di rigenerazione urbana consistano in mere valorizzazioni immobiliari e, al contrario, contribuiscano a soddisfare le domande sociali e migliorare le condizioni di vita nella città.

Organizzazione delle attività. L’attività è finalizzata alla preparazione e pubblicazione del documento. In particolare si prevede:
- la raccolta di contributi, suggerimenti e proposte dal gruppo di persone che aderisce al sito;
- la stesura di una bozza del documento, attraverso un incontro seminariale, organizzato a Roma, il 10 ottobre 2014;
- la raccolta e pubblicazione dei materiali pervenuti sul sito;
- la presentazione della stesura definitiva del documento, a Venezia, il 19 dicembre 2014.

Come partecipare attivamente. Potete contribuire al terzo Seminario di eddyburg:
- partecipando all'incontro di Roma, il 10 ottobre 2014 o inviando un contributo scritto riguardante uno dei tre temi indicati sopra;
- segnalando un esempio positivo di iniziativa di recupero o rigenerazione di una porzione di città, in Italia o all’estero, che ritenete significativo rispetto ai tre punti chiave del documento.

Per inviare la segnalazione e per iscriversi al seminario, scrivete a eddyburg2014@gmail.com.

o il secondo Seminario di Eddyburg (Sezano (VR) dal 17 al 19 ottobre 2013, sul tema "Le Città metropolitane, tassello essenziale del governo pubblico del territorio". Resoconti dei gruppi redatti da Paula De Jesus, Anna Richiedei, Enrica De Luchi

Il seminario si è concluso sabato mattina, 19 ottobre, con una sessione di lavoro collettivo organizzato per gruppi, ciascuno dei quali aveva l’obiettivo di individuare, e argomentare, le questioni centrali che costituiscono il ‘problema’ della pianificazione di “area vasta” La proposta era di costituire gruppi di lavoro di 10-15 persone ciascuno, o focalizzando l’attenzione di ciascun gruppo su uno gruppi dei temi: la questione generale del governo d’area vasta, l’agenda delle cose da fare in relazione sia alle scadenze immediate ( le città metropolitane individuate ope legis) che in una prospettiva più ampia; le risorse da mobilitare. L'ipotesi iniziale era quella di articolare i tre gruppi sui temi suddetti, su ciascuno dei quali focalizzare l'attenzione di un gruppo.

Dopo due giorni di lezioni dedicate ad istruire il tema del seminario ripercorrendo l’evoluzione storica del dibattito e della legislazione sull’area vasta, discutendo su alcune pratiche ed esperienze, a partire da quelle dell’area milanese, e portando numerosi contributi nelle discussioni (sia quelle in aula sia in quelle in mensa o a passeggio nel prato del Monastero degli Stimmatini) si è proceduto a definire i gruppi. La maggior parte dei partecipanti ha ritenuto che i tre temi proposti fossero così strettamente interconnessi da richiedere una trattazione unitaria. si sono costituiti i gruppi che riunitisi in sedi separate hanno discusso tra loro cercando di individuare un certo numero di parole-chiave, preparando dei tabelloni sui quali hanno esposto le parole e le idee che avevano maturato, sulla base di uno schema comune ai tre gruppi. Successivamente, in riunione plenaria, ogni gruppo ha esposto il punto cui erano arrivati. Ilaria, Eddy e Mauro si sono assunti l’incarico di preparare, prima del previsto incontro esterno a Napoli, una bozza di documento di sintesi. In attesa di questo (ma l'incontro è stato rinviato a luogo e data da decidere), ecco il resoconto del lavoro dei tre gruppi (i.b.)

Resoconto del Gruppo 1 (a cura di Paula de Jesus)

Partecipanti: Alessandro Zilio, Andrea Schiavone, Barbara Nerozzi, Edoardo Salzano,Gaetano Urzì, Giulia Melis, Johnni Nicolis, Luigi Toscano, Iacopo Scudellari, Oscar Mancini

Nella discussione sono emerse tre domande a cui si è tentato di dare risposta cercando le parole chiave.

1) Di che cosa stiamo parlando (il contenitore)

Utilizziamo le stesse parole (Città Metropolitana, Area Metropolitana, Area Vasta) dando però significati anche molto diversi. E’ perciò importante riconoscere quali sono i luoghi privilegiati del nostro territorio che si caratterizzano per grandi dimensioni, forte densità di popolazione, forte sistema di relazioni, concentrazione di attività produttive e alto numero di interventi ‘privilegiati’.
Questi “luoghi” vengono definiti sulla base di tre parametri:
B) Sistema di relazioni (luoghi e funzioni in cui si esplicano le relazioni)
C) Dimensione dei problemi e modalità di risoluzione

2) Di che cosa ci dobbiamo occupare (i contenuti)


Due parole d’ordine e tre temi principali
A) Parole d’ordine:
Multiscalarità, come approccio ineludibile ai diversi livelli di pianificazione
Integrazione, come elemento ineludibile della pianificazione ai diversi livelli (in cui l’area vasta è un livello e l’integrazione è una delle caratteristiche principali che deve leggersi a tutti i livelli. In questo ambito l’integrazione delle politiche di settore è una parola d’ordine importante).
B) I temi principali:
Accessibilità (“luogo dei diritti”)
Organizzazione del sistema insediativo (privilegiare la riorganizzazione di ciò che già esiste, con una forte declinazione dei sistemi dei servizi e della vita pubblica)
Il rapporto tra città e campagna, tra pieno e vuoto, tra sistema rurale e sistema urbano
3)A chi attribuire la responsabilità di governare
Al soggetto o soggetti che abbiano le seguenti tre caratteristiche:
Democraticità
Autorevolezza
Efficacia

In questo quadro illustrato da un efficace grafico redatto dai veloci pennarelli di Andrea Schiavone), la cornice è composta da due parole fondamentali: POLITICA (il vero nocciolo :che politica, quale politica) e PIANIFICAZIONE.

Resoconto del Gruppo 2 (a cura di Anna Richiedei)

Partecipanti: Ilaria Boniburini, Anna Richiedei, Paolo Dignatici, Monica Luperi, Simona Coli, Roberta Signorile, Pasquale Pulito, Donato Belloni, Pietro Di Lascio, Danilo Andriollo,

La discussione sulla pianificazione d’area vasta si è sviluppata su cinque punti fondamentali.

La definizione di un’area geografica.

Se è la città metropolitana di cui si discute, identificare i suoi limiti o l’area metropolitana sulla quale essa insiste risulta più facile, in quanto si tratta di poli noti. Si potrà essere in disaccordo sul numero di città metropolitane indicate dal famigerato disegno di legge “Del Rio” e sulla difficoltà nella creazione di nuove città metropolitana oltre a quelle previste, ma comunque in questa direzione una soluzione è raggiungibile. È stato molto più difficile individuare un confine per l’area vasta. Il criterio per definire un confine potrebbe essere la dimensione del problema che si sta andando ad affrontare, ovvero un area strategica a geografia variabile. Questa posizione però presenta dei problemi dal punto di vista pratico: da un lato si dovrebbero prevedere vari piani a seconda del tema affrontato che insisterebbero su aree differenti, contermini o sovrapposte, per periodi di tempo diversi; dall'altro questa soluzione non consentirebbe organi elettivi di primo livello, però potrebbe avere organi elettivi di secondo livello, come accade in altri paesi europei.

Un altro criterio potrebbe essere quello delle “invarianti” strutturali del territorio, che abbiano un valore strategico sul lungo periodo, individuate a partire dalla continuità paesaggistica dell'area vasta (Convenzione europea sul paesaggio).

1. Il soggetto in grado di governare l’area vasta

I sistemi di governo sovra locale finora testati non hanno portato a grandi risultati ed è necessario trovare un sistema alternativo. Il sistema della pianificazione d'area vasta non può coincidere con il precedente sistema delle province, così come non si possono identificare come un unico problema: l'abolizione delle provincie deve riguardare tutti i cittadini del paese, a causa della modifica della costituzione, di alcuni diritti legati alla democraticità delle scelte ed alla rappresentatività di tutti e non di alcuni che porta al problema del sistema elettivo; mentre la pianificazione dell'area vasta riguarda soprattutto i tecnici ed in particolare gli urbanisti, ai quali viene offerta la possibilità di trovare uno strumento nuovo, facendo tesoro delle passate esperienze di strumenti non utilizzati nel pieno delle loro possibilità o non utilizzati affatto.

Alcuni enti, che in passato si sono occupati di piani di settore, nonostante dal punto di vista politico non abbiano rappresentato un esempio del tutto positivo, nel complesso hanno comunque cercato di tutelare il territorio per gli aspetti di loro competenza (comunità montane, BIM, ATO, ecc...)

2. Lo strumento di pianificazione
Il nuovo strumento dovrebbe essere accompagnato da una ristrutturazione della pianificazione a tutti i livelli. Avrebbe bisogno di una discussione interdisciplinare che si concentri sulle modalità di governo delle trasformazioni. Potrebbe essere lo spunto per ridiscutere la Legge urbanistica nazionale.

3. I contenuti dello strumento di pianificazione
I contenuti della pianificazione d'area vasta dovrebbero essere definiti a partire dai bisogni dei cittadini che in essa vivono (forse più attenzione dovrebbe essere data in quest'ottica al tema della salute). Inoltre lo strumento potrebbe essere motivo di rivalutazione delle strategie per il futuro, che a livello comunale sono di difficile applicazione.

All'interno dello strumento potrebbero quindi essere individuati degli obbiettivi prevalenti e prioritari, che permettano di valutare la sostenibilità (ed il buon senso) degli interventi previsti sul territorio. Esso dovrebbe essere uno strumento di tutela di tutte le risorse del territorio (naturali, paesaggistiche, storiche, culturali, idriche, energetiche, ecc..), che potranno essere declinate in modi diversi a seconda dell'area vasta oggetto di pianificazione.
Al livello di area vasta potrebbe essere affidato il compito, raramente portato a termine dai comuni, del monitoraggio previsto dalla VAS che permetterebbe di modificare o reindirizzare le politiche territoriali qualora non ottenessero gli effetti desiderati.
Un altro tema che potrebbe essere meglio governato a livello di area vasta è la gestione dei flussi di mezzi, merci, persone ed informazioni che attraversano un territorio e rappresentano normalmente una cesura o un ostacolo. Inoltre potrebbe essere interessante un nuovo ruolo di verifica della coerenza delle previsioni economiche tra gli altri livelli di pianificazione, ovvero una sorta di raccordo, di analisi integrata tra le spese - e quindi indirettamente tra le priorità d'intervento - previste a livello comunale e regionale.

Chi dovrebbe decidere sui punti 1,2,3 e 4?

Per rivedere il sistema di pianificazione e le riorganizzazioni amministrative dei territori sarebbe auspicabile un dibattito nazionale. Attraverso il dibattito si raggiungerebbero, oltre ad una conoscenza più diffusa e consapevole, anche una proposta condivisa sulle scelte da fare ed una sensibilizzazione dei cittadini al tema della pianificazione e forse, più in generale, della politica [queste oscure materie].

Perché ciò avvenga dovrebbero essere messi a disposizione dei fondi dedicati, previste delle modalità di partecipazione e dei tempi per effettuare il dibattito e presentarne i risultati. Inoltre bisognerebbe coinvolgere, oltre ai cittadini, anche i vari rappresentati della società attiva: associazioni, centri di ricerca, università, centri culturali, tecnici, corporazioni, ordini professionali, ecc...

Un sogno di una tale portata che potrebbe davvero avere grandi risultati.

Resoconto del Gruppo 3 (a cura di Enrica De Luchi )

Presenti: Bruna Paderna, Norberto Vaccari, Claudia Dall’Olio, Giusy , Carla Maria Carlini, Elisabetta Forni, Chiara Ciampa, Anna Frascarolo, Mauro Baioni, Francesco Ranieri, Raffaele Pisani, Enrica De Luchi

La richiesta di approfondimento dei tre gruppi di lavoro: individuare i 5 punti ineludibili o questioni fondamentali che non possono non essere affrontate nel “discorso”.

Procedo nello stilare il documento riferendomi, per una trattazione ordinata, a quanto emerso con gli interventi delle singole persone riordinandoli sulla base della suddivisione in macroaree espressa a metà del laboratorio (primo tentativo di sintesi). Tale suddivisione ci aiuta a incanalare la questione in tre ambiti (o macroaree di interesse).

Si è giunti perciò, con l’aiuto della nostra guida-moderatore-coordinatore a definire tre aree di approfondimento legate fra loro. Tutte e tre DEVONO essere prese in considerazione nel dibattito sul tema città metropolitane / aree metropolitane affinchè la trattazione sia completa e il problema visto in modo globale. Le macroaree individuate sono:
A) Geografia Dei Luoghi
B) Contenitori
c) Contenuto

Di seguito riporto le tematiche emerse come da verbale in modo che nessun contributo vada perso (a meno che non si tratti di cosa già dette).

A) Elementi che qualificano la GEOGRAFIA DEI LUOGHI:

La questione deve essere affrontata a livello nazionale a causa della grande confusione tra città metropolitana e area metropolitana (nella loro qualificazione geografica). In effetti le città metropolitane in Italia sono 3: Milano Roma e Napoli. Le aree metropolitane sono di più.

confusione tra città e area che necessita di una pianificazione di area vasta.

B) Elementi che qualificano il CONTENITORE:

definizione di area metropolitana e città metropolitana;

la legge nazionale deve assegnare dei compiti alla città metropolitana. Per esempio funzioni privilegiate in cui gli altri comuni di corona, e non solo, facciano parte del sistema e facciano sistema;

e città m./ aree metropolitane non possono non essere trattate con un approccio uniforme slegato dalle specificità territoriali. Non è ammissibile che vi sia comptezione tra città per i fondi europei anziché coesione territoriale [il concetto di competizione tra città non fa parte del nostro ordinamento n.d.r.];

qualificare un Ente e i suoi poteri è importante e questo dovrebbe essere fatto approfondendo il tema più generale di come è fatta la nazione;

non è detto che dare centralità ai comuni e farli diventare i detentori dell’ente di area vasta (città m.) faccia superare la visione a scala comunale degli stessi. Il rischio è che un ente fatto di comuni continui ad agire senza guardarsi attorno e soprattutto per nuclei di comuni forti. Questo approccio sta esattamente sulla scia del piano città che salta a pie’ pari le regioni e, quindi, ignora l’ordinamento dello stato. A maggior ragione è necessario aprire una fase di confronto/dibattito;

[ con i decreti e i ddl Del Rio di fatto diventa evidente n.d.r.] lo distinzione/scollamento tra la città legale e città reale perchè è mancato e manca il processo dal basso che legittima democraticamente quello che sostanzialmente corrisponde ad un editto voluto dall’alto per il risparmio della spesa;

l’accentramento della città m. non dovrà svantaggiare i territori contermini;

C) Elementi che qualificano il CONTENUTO:

L’area vasta che sia provincia o area metropolitana o città metropolitana (non importa quale sia il contenitore):
deve contenere questioni relative alla mobilità delle persone e delle merci e occuparsi dello scambio/relazione per usufruire dei servizi (concentrati in alcuni luoghi) (Bruna);
sicurezza nel senso di difesa del suolo e difesa dai dissesti idrogeologici e dalle calamità (anche sismiche e vulcaniche);
tutela ambientale e paesistica;
conservazione della natura;
attenzione al rapporto costruito/ non costruito ovvero città/campagna (urbano/rurale);
partecipazione e condivisione delle conoscenze;

rafforzare le funzioni storiche dei centri (in un contesto policentrico) con dislocazione delle altre funzioni;
progettazione/pianificazione di tutto il territorio senza ghettizzazioni (alla luce di quanto detto su comuni forti e comuni deboli come da norme più o meno in itinere);
la città metropoli vs i villaggi autosufficienti di Jona Friedman. Una considerazione fondamentale va fatta sul fatto che le metropoli devono essere organizzate come una sorta di insieme di villaggi che in sé offrono tutto (in termini di autosufficienza nei servizi) ai propri cittadini / abitanti. E’ necessario che vi siano studi preliminari che coinvolgano la popolazione in un processo di analisi sistemica del territorio con un metodo basato su quello dei territorialisti ovvero della scuola di Magnaghi [mappe culturali, parish maps, eccetera, contratti di quartiere, rigenerazioni urbane n.d.r.]
problema Democrazia: da chi sono votati i rapppresentanti delle aree metropolitane?;

problema delle competenze che si traducono in atti che si sovrappongono; Proposta Area Metropolitana, intesa come Ambiente di Vita? Citando la convenzione Europea.

pianificazione energetica.

Un primo tentativo di sintesi.

I binomi che sono emersi dalle prime considerazioni:
1. Area metropolitana /vasta e citta’
2. Scala di prossimita’ e scala centrale
3. Gestione e progetto
4. Citta’ reale e citta’ legale
5. Democrazia /potere
L’istituzione deve avere una capacità/potere di governo? Sarà elettiva? A suffragio universale?

Prime riflessioni a partire dal primo tentativo di sintesi.

Pare emergere con grande forza che i livelli di accentramento del potere e dei poteri siano due ovvero lo Stato e i comuni con una sostanziale perdita di potere degli altri livelli. In particolare, le città metropolitane appaiono come una emanazione dei comuni (aggregazione degli stessi).

Di che cosa sono fatte queste città tornando sul tema della città reale vs legale? Si sottolinea l’importanza del lavoro e della produzione (in riferimento all’attuale momento di crisi). Senza questi elementi vitali, la città (e il nuovo paradigma ad essa collegato) non avrebbe più senso come luogo di vita e di rinascita culturale. In questo senso è forse più importante pensare di riformare la classe politica e tecnica [più che l’ordinamento dello stato].

Anche il ruolo dei cittadini (e non abitanti) è fondamentale facendo sì che la partecipazione diventi un fatto obbligatorio nonostante che la consapevolezza media nei confronti delle istituzioni sia molto bassa.

Alessandro segnala il fatto che dare potere ai comuni più forti è un evidente squilibrio. C’è una sostanziale perdita di senso dei comuni più piccoli che diventano i luoghi dove inserire opere e servizi + o - sgradevoli. Nonostante tutto bisogna vedere il tutto come una opportunità di cambiamento in cui incentivare la città compatta, ma rafforzando l’istituzione di area vasta che è più vicina al cittadino.

Raffaele pone l’accento sull’orizzonte temporale dell’azione tipica dell’area vasta ovvero la programmazione di lungo periodo contro la ventilata programmazione per Piani Strategici da aggiornare anno per anno (ddl Del Rio); sull’importanza del quadro conoscitivo (di area vasta); necessità di orientare il dibattito verso discorsi più precisi con la dovuta chiarezza e completezza che l’ordinamento delle istituzioni non può non richiedere. l’ambito di area vasta può essere inteso come il luogo del confronto fra i vari livelli istituzionali.

SINTESI FINALE come da tabellone

A. GEOGRAFIA DEGLI INSEDIAMENTI
necessità di chiarire in che cosa consiste la distinzione tra area metropolitana e città metropolitana;
dentro questi sistemi c’è un livello di prossimità e centralità da non perdere - il territorio non è uniforme

B. IL CONTENITORE (istituzione)
distanza tra città reale e città legale;
partecipazione (deficit di democrazia);
città si rafforzano le province spariscono o vengono indebolite. Riorganizzazione degli enti.

C. IL CONTENUTO
gestione/progetto/visione nel lungo periodo

i materiali della secondo Se/ed sono raccolti in questa cartella

Un percorso fisico e critico nel territorio della Città Metropolitana concreta, alla ricerca dei nodi di urbanità esistenti e potenziali nel settore milanese orientale a maggiore infrastrutturazione. Relazione alla seconda edizione della Scuola di Eddyburg, Sezano (VR), 17 ottobre 2013

“Popolo della Terra, attenzione, prego. Qui parla la Commissione per la Pianificazione dell’Iperspazio Galattico. I piani di sviluppo delle zone periferiche della Galassia richiedono la costruzione di una superstrada iperspaziale attraverso il vostro Sistema Stellare. Il che rende sfortunatamente necessaria la demolizione di alcuni pianeti tra cui il vostro. I lavori avranno inizio immediato e dureranno circa due minuti terrestri”.

Con questo perentorio avviso inizia il leggendario romanzo di fantascienza umoristica Guida galattica per autostoppisti di Douglas Adams (ed. it Urania n. 843). Il protagonista Arthur Dent scopre alcune ruspe gialle già posizionate appena oltre il suo cancello per demolirgli la casa, tenta in tutti i modi di opporsi, sdraiandosi nel fango per impedire all’asfalto di continuare nella sua colata. Sarà Ford Prefect, extraterrestre approdato per caso sulla Terra (dalla quale poi non è più riuscito ad andarsene), a distogliere dalle sue intenzioni l’amico Dent e a portarlo in salvo. Nel giro di qualche ora, la Terra scompare per fare spazio alla nuova super-autostrada iperspaziale. Proseguono imperturbabili gli altoparlanti delle astronavi-ruspe nella loro spiegazione tecnica:

“non ha senso che vi dimostriate sorpresi. Tutti i piani del progetto e gli ordini di demolizione erano disponibili al pubblico da cinquanta dei vostri anni terrestri, nel locale Dipartimento Viabilità di Alfa Centauri. Per cui avevate tutto il tempo per presentare gli eventuali reclami. E’ troppo tardi, ora, per mettersi a protestare”.

Le vicende recenti del corridoio orientale della regione urbana milanese per certi versi assomigliano parecchio alle ricostruzioni fanta-umoristiche della Guida Galattica per Autostoppisti, anche se il ruolo degli extraterrestri è interpretato da assai meno variopinti burocrati in giacca e cravatta. L’Est Milano è ancora un territorio di pregio della regione metropolitana milanese: non presenta gli elevati livelli di densificazione del Nord ma neppure è priva di chiari elementi di organizzazione insediativa come il Sud Milano. In questo contesto, che sta per essere segnato da importanti e imponenti progetti infrastrutturali, è possibile individuare diversi sistemi insediativi - che con qualche azzardo potremmo chiamare “città” – le quali, se per una volta ci dimentichiamo degli arzigogolati confini amministrativi, possono aiutare a interpretare i processi in atto e a delineare qualche proposta di sviluppo per il futuro.

L’Est Milano ha attraversato le diverse epoche storiche riuscendo a mantenere un proprio profilo identitario anche grazie ad alcune caratteristiche morfologiche che lo contraddistinguono: dotazione ambientale, presenza di corsi d’acqua e ad alcune scelte infrastrutturali particolarmente lungimiranti che l’anno resa una delle aree più accessibili di tutta la regione urbana milanese. In particolare, nei decenni del Secondo Dopoguerra, la pianificazione di un sistema di trasporto pubblico su ferro (articolato tra ferrovia e metropolitana) e di uno su gomma (strade statali, tangenziali, autostrade) ha consentito lo sviluppo di un sistema insediativo in cui l’accessibilità ha rappresentato il principale principio ordinatore. In un territorio nel quale, oltre la cintura di prima corona, i centri raramente superano i 15.000 abitanti, si è sviluppato un tessuto imprenditoriale fatto di alcune grandi multinazionali e di piccole e medie imprese, legate soprattutto al settore caseario e manifatturiero, che qui hanno trovato condizioni favorevoli per i propri processi produttivi.

I processi di dismissione industriale, iniziati a partire dagli anni Settanta, hanno poi progressivamente indebolito questa vitalità produttiva, fino ad intaccare l’identità sociale e storica di tutta l’area, che oggi appare come un territorio in-between, tra quel che è stato e un futuro ancora incerto, dalle cui nebbie emergono nitidamente e con fermezza solo i grandi progetti infrastrutturali. Del passato rimangono alcuni frammenti che, solo se ricomposti in nuove forme, possono essere di aiuto per elaborare una prospettiva di sviluppo locale che, con un orizzonte inevitabilmente metropolitano, sappia re-interpretare la propria storia e indirizzare la costruzione di un futuro sostenibile, impedendo improbabili proposte sviluppistiche, peraltro particolarmente poco credibili in un contesto storico di recessione e crisi economica.

Che questa prospettiva di osservazione non sia semplicemente accademico-disciplinare, o peggio tecnicista, ma riguardi da vicino la percezione quotidiana e l'identità degli abitanti e utenti del sistema integrato lineare, del resto lo dimostra una semplice osservazione diretta, magari senza dimenticare qualche pur superficiale attenzione storica. La fascia insediativa centrale che si sviluppa oggi continua (ma al tempo stesso assai ricca di “soluzioni di continuità”) dalle Tangenziali di Milano alla valle del fiume Adda, ha una ragion d'essere che affonda le proprie radici nella geografia e nella storia. Si colloca infatti quasi esattamente sulla linea di separazione fra alta pianura asciutta e bassa irrigua, luoghi a modo loro, leggendari, dove per esempio tradizionalmente secoli fa si fermavano le “vacche stracche” dopo il ricco pascolo più a sud, per farsi mungere e produrre il tipo di formaggio detto appunto “stracchino”. Dove racconta sempre la leggenda un casaro di Gorgonzola verso la metà del XV secolo, magari stanco quanto le vacche da mungere, fece il celebre errore producendo quello stracchino a macchie bluastre diventato poi famoso in tutto il mondo. E non è affatto leggenda che più o meno contemporaneamente al saporito formaggio di Gorgonzola nascevano anche le idee, poi i primi cantieri, del Naviglio Martesana, a convogliare le acque dell'Adda verso Milano, completando il grande sistema acqueo di collegamento fra i laghi Maggiore e di Como che avrebbe dato impulso sia allo sviluppo del capoluogo che di tutti i territori che da decenni chiamiamo area metropolitana milanese.

In tutto l'arco di tempo da allora ad oggi, via via l'evoluzione spontanea socioeconomico-territoriale, e naturalmente anche e soprattutto piani e progetti che intuivano le potenzialità di questo continuum lineare, hanno contribuito a costruire un caposaldo insediativo e identitario ben noto a chiunque lo frequenti, e avvertibile a colpo d'occhio anche a chi ci capiti più o meno per caso. Allo sviluppo storico della strada Padana Superiore nel tratto fra i margini di Milano e il ponte sull'Adda verso la bergamasca, e al citato Naviglio con relativa alzaia, si sono progressivamente aggiunti i centri storici attorno alle originarie cascine, poi le periferie minori residenziali e industriali, e ancora in epoca recente le infrastrutture di trasporto pubblico su rotaia. Se osservato su una carta, il sistema urbano racconta abbastanza evidentemente questa storia, ad esempio concentrando tutti i nuclei tradizionali di una certa entità nei pressi dei capisaldi lineari, scostandosi solo parzialmente, e in epoca recente automobilistica, da essi.

Con qualche attenzione in più, si scorge anche l'effetto, del resto piuttosto ovvio, della linea di trasporto metropolitano MM2 sulle densità insediative, a definire una prima fascia di vera e propria espansione urbana milanese di primissima corona, una seconda fascia suburbana interna fino all'attuale capolinea della metropolitana, infine una terza fascia in cui si mescolano ancora chiarissimi elementi di preesistenza rurale, che potremmo definire di insediamento esurbano, fino alla valle del fiume che segna la discontinuità relativa tra lo sprawl propriamente milanese e quello della pianura bergamasca. La carta del Corridoio Metropolitano Orientale, volendo, si può anzi accostare e sovrapporre anche al noto schema del cosiddetto Transect, mutuato dalla corrente americana new urbanism, che definisce appunto un sistema abbastanza prevedibile e relativamente equilibrato di insediamenti e nuclei, da quello centrale classico a una ipotetica greenbelt pianificata a usi agricoli. Una osservazione di massima, quella sulla mappa, che come anticipato trova riscontro anche in una esperienza diretta del settore metropolitano, più simile alla percezione quotidiana dei cittadini.

L'asse privilegiato è certamente quello lungo il Naviglio, sul quale si concentrano, sovrappongono, alternano, contesti diversi di epoche storiche, funzioni, spazi saturi dal punto di vista edilizio così come zone agricole, verde pubblico, servizi, vedute delle due altre città lineari complementari, della Padana Superiore e della linea e stazioni MM2. Immediatamente dopo la barriera delle Tangenziali l'abitato nel comune di Vimodrone alterna parchi e orti urbani a quartieri assai densi, sfumando poi verso Cernusco nella fascia di spazi radi e parti interessata dalle ex cave su un lato, da quella degli attuali campi da golf sull'altro. Canale e pista ciclabile tagliano direttamente attraverso il centro di Cernusco, e poi i parchi pubblici periferici fino all'area produttiva di Villa Fiorita attorno alla fermata della metropolitana, praticamente caso unico di integrazione importante fra trasporto pubblico e attività economiche. Molto meno risolto il rapporto fra il naviglio e il sistema insediativo nel territorio di Cassina de' Pecchi, dove convivono in modo piuttosto disordinato quartieri residenziali affacciati direttamente sul corso d'acqua, edifici e isolati produttivi verso la Padana, la presenza piuttosto incongrua dello office park all'altezza dei confini con Bussero e relativa fermata MM2, ma senza alcun collegamento.

Gorgonzola rappresenta un caso a sé, con la strada principale in circonvallazione sud a definire i limiti meridionali dell'abitato e la greenbelt agricola, e la linea della metropolitana a nord con un vero e proprio “viale della stazione” e quartiere circostante. Naviglio e pista ciclabile tagliano il cuore del centro storico, con scorci e vedute di indubbio valore, a connettere un sistema di spazi e servizi. Con l'abitato di Gorgonzola di fatto si concludono la fascia di urbanizzazione fitta e quella suburbana interna, fatto rimarcato sia dal brusco cambio di caratteri insediativi verso Gessate-Bellinzago, sia dalla – ingombrante e dagli effetti ancora imprevedibili - presenza della nuova infrastruttura Tangenziale Esterna Milano a ridosso del capolinea MM2. A complemento e conferma del contesto ormai extraurbano, il centro commerciale Corte Lombarda, a orientamento automobilistico e collocazione classicamente baricentrica a cavallo fra i confini di tre comuni. Nel territorio di Inzago e in quello di Cassano, fino alla valle dell'Adda, il percorso ciclabile alterna quartieri storici, tratti ad attività produttive, campi coltivati di dimensione anche notevole e cascine. Le zone più monumentali di Cassano e il corso del fiume al confine della metropoli, chiudono idealmente e logicamente il percorso.

Lasciando aperte però molte questioni che, pur in forma ipotetica, venivano evidenziate nel corso dei paragrafi precedenti. In breve: cosa è possibile fare, nella prospettiva di una Città Metropolitana, per dare maggiore logica, efficienza, abitabilità, identità a questo insediamento lineare? Alcune indicazioni possono essere ricavate da una disamina critica delle vicende recenti di pianificazione territoriale.

Piano d’area Adda-Martesana. La prima presa d’atto del cambiamento

Da recuperare certamente è la capacità di cooperazione intercomunale che ha consentito a questo territorio, già un decennio fa, di pensare (e di pensarsi) alla scala metropolitana. Nel 2002, in concomitanza con l’elaborazione del PTCP della Provincia di Milano, ventisette Amministrazioni Comunali dell’est Milano1 hanno colto l’opportunità di intraprendere un processo di pianificazione intercomunale con l’obiettivo di elaborare uno strumento che, declinando localmente i contenuti della pianificazione provinciale, avrebbe anche elaborato una strategia di sviluppo territoriale locale.

I Comuni hanno stipulato una convenzione con la Provincia di Milano nella quale veniva concordato il contributo finanziario per la redazione di quello che sarebbe diventato il Piano d’area dell’Adda-Martesana2, individuati gli attori economici e sociali da coinvolgere e fissati gli accordi tra le amministrazioni coinvolte.

Per l’elaborazione del Piano d’Area Adda-Martesana si è adottato un duplice approccio: di coordinamento intercomunale a carattere strategico e di declinazione del PTCP a scala locale.

Il Piano ha lavorato su due fasi:

la prima, più strettamente programmatica, aveva l’obiettivo di ricostruire il quadro di riferimento strategico del territorio e di indirizzare l’elaborazione di una visione condivisa in base alle possibilità di sviluppo emerse nelle fasi di analisi;

la seconda, più operativa, aveva lo scopo di elaborare una serie di progetti e di politiche di scala locale.

Il piano d’area Adda-Martesana si è articolato in quattro fasi principali:

1) elaborazione dello scenario di trasformazione. Prendendo atto delle trasformazioni sociali ed economiche in corso l’Adda-Martesana è stata definita come la città parco nella economia che cambia. Lavorando sui temi dell’ambiente e del tessuto economico in crisi si è cercato di affrontare il rischio di compromissione sia del sistema ambientale che del sistema economico e occupazionale, nonché delle loro potenziali ricadute nella prospettiva di un governo territoriale alla scala intercomunale. Le caratteristiche ambientali e paesaggistiche del territorio consentivano già l’identificazione di una pluralità di usi differenti legati al tempo libero ma la costruzione di una visione di riferimento ha consentito di elaborare nuove strategie di sviluppo e di gestione che, attraverso l’azione coordinata dei Comuni coinvolti, avrebbero reso possibile la trasformazione del sistema ambientale in fattore strutturante tanto dello spazio quanto dei modi dell’abitare e dell’economia locale. In questo modo gli elementi ambientali, come parchi, territorio agricolo e sistema delle acque, avrebbero costituito gli elementi portanti di una strategia territoriale integrata, nella quale affrontare anche altri temi come l’impatto delle nuove grandi infrastrutture (che nel 2002 erano già in fase di progettazione), l’organizzazione delle attività economiche e l’abitare.

2) definizione di un modello territoriale. Il modello proposto, basandosi consentiva di individuare gli ambiti sui quali concentrare gli approfondimenti progettuali.

La matrice di organizzazione territoriale, che può essere definita come una mappa di principi condivisi e da rispettare, sarebbe stata la guida fondamentale per le scelte di governo del territorio dei Comuni coinvolti oltre che un impegno politico a perseguire un processo di pianificazione sovracomunale. Il modello in particolare si occupa di definire:

• il sistema urbanizzato, costruendo una gerarchia funzionale e relazionale del sistema territoriale attraverso l’analisi delle funzioni e delle vocazioni di ogni comune e le relazioni esistenti.

• i comuni di porta, che nel tempo avevano conquistato un ruolo di primo piano grazie alla presenza di strutture e servizi di rilievo sovracomunale, diventando punti di riferimento e aumentando il valore aggiunto di tutta l’area;

• i comuni cerniera, che avevano intrapreso processi di trasformazione piuttosto recente con previsione di insediamento di nuove funzioni in grado di aumentare le proprie potenzialità attrattive su tutta l’area;

• i comuni caposaldo, che pur presentando le minori dimensioni demografiche e dipendendo dai precedenti per i servizi fondamentali, rappresentavano i luoghi fondamentali per la tutela e la salvaguardia del sistema dello spazio aperto e in particolare per la valorizzazione e il rilancio del sistema agricolo;

• il sistema delle relazioni, attraverso l’analisi dei collegamenti infrastrutturali e del sistema della mobilità;

• il sistema degli spazi aperti, non solo inteso come un’importante risorsa ecologica ma anche come elemento di connessione tra il tessuto costruito e gli spazi di relazione. Il Piano si proponeva di rileggere l’intero sistema provando a fornirgli continuità e connessione. In questo modo lo spazio aperto avrebbe assunto una dimensione strutturante per tutta l’area, integrandosi con le gerarchie funzionali e infrastrutturali, per garantire uno sviluppo complessivo equilibrato e armonioso.

In base a questo modello i Comuni si impegnavano a :
- dedicare le aree caratterizzate da alta accessibilità su trasporto pubblico alla realizzazione di servizi e funzioni di livello metropolitano, evitando la riproduzione di modelli monofunzionali e ad alto carico urbanistico;
- utilizzare la rete della mobilità primaria e la rete ferroviaria come principio insediativo di riferimento per la localizzazione e rilocalizzazione di tessuti produttivi integrati, di funzioni di servizio alla produzione e di strutture per la logistica;
- identificare ambiti di concentrazione di natura intercomunale localizzati in posizione strategica e caratterizzati da regole di qualità ambientale e di integrazione funzionale.

In questo modo il modello territoriale avrebbe consentito di adottare una chiara strategia unitaria di livello territoriale.

3) elaborazione della dimensione progettuale e operativa. In questa fase sono stati elaborati due diversi strumenti:
la Development perspective, una simulazione territoriale della configurazione futura;
un Atlante dei progetti, un elenco di politiche, azioni e progetti avviati o con un elevato livello di fattibilità;

Con l’elaborazione della prospettiva di sviluppo il Piano definiva il nuovo assetto complessivo dell’area, coerente con la strategia generale, in grado di guidare le azioni di pianificazione alla scala locale e di inquadrare i temi progettuali da realizzare. Partendo dai tre sistemi identificati nel modello territoriale (il sistema degli spazi costruiti, il sistema delle relazioni, il sistema degli spazi aperti) sono individuati i luoghi dell’urbanizzato, le direzioni delle relazioni, la struttura degli spazi aperti e delle risorse ambientali. In particolare sono tre gli ambiti territoriali identificati come prioritari:

- l’asse della Martesana (il territorio che è interessato dai tracciati della linea della metropolitana, del canale Naviglio Martesana e della Strada Padana Superiore), lungo il quale si potranno concentrare le più importanti funzioni strategiche da localizzare in prossimità dei principali nodi che, caratterizzati da un’elevata accessibilità su ferro, saranno destinati a diventare i capisaldi dell’area e le porte d’accesso di tutta l’area;

- l’asse della ferrovia e della Rivoltana (il territorio che occupa la fascia centrale e meridionale del sistema, interessata dai tracciato della linea ferroviaria Milano-Venezia e delle Strade Cassanese e Rivoltana) che individua altri nodi del trasporto collettivo dove i Comuni interessati dovranno concentrare i propri processi di trasformazione;

- l’asse dell’Adda (il territorio che da nord a sud si sviluppa in prossimità della Valle dell’Adda) che pone in relazione quei territori che si affacciano direttamente sul fiume, caratterizzati da un alto valore naturalistico e paesaggistico, con ambiti territoriali retrostanti di minor pregio, interessati da processi di crescita che spesso hanno intaccato le risorse ambientali.

Il resto del territorio sarebbe stato lo spazio della riconnessione, dove adottare ritmi di espansione minimi per concentrare le potenzialità lungo gli assi di sviluppo. In questi ambiti l’articolazione degli spazi aperti e le connessioni tra i tessuti urbanizzati e gli assi infrastrutturali rappresenteranno i principali temi progettuali, da affrontare con strategie quali: la ricostruzione della rete dei parchi, il completamento del sistema dei PLIS e il potenziamento dei sistemi lineari delle acque.

In questo modo la prospettiva di sviluppo traccia tre sistemi prioritari, dove concentrare le funzioni di pregio e con maggiori capacità attrattive, e un sistema di continuità e di connessione che metteva in relazione lo spazio aperto.
L’Atlante dei progetti proponeva quattro temi progettuali poi da territorializzare:

- un territorio che si candida a dare nuove risposte alla domanda di mobilità. L’obiettivo era quello di adottare un efficiente sistema di mobilità integrato, in grado di puntare sulle infrastrutture per il trasporto collettivo, potenziando, al contempo, il sistema di trasporto locale, anche in funzione del nuovo assetto insediativo da attuare. Si proponeva di operare su più fronti, dal potenziamento e riqualificazione delle reti di trasporto collettivo e dalla valutazione degli impatti prodotti da opere in progetto, fino al potenziamento della rete ciclabile esistente per poter poi implementare una rete di accesso ai servizi, al lavoro e al verde, che sia al servizio del territorio;

- un territorio che si vuole pensare come una città. L’obiettivo era di istituire un sistema di servizi e funzioni di scala sovralocale connessi in modo efficiente, così da poter coordinare in modo unitario il governo di un territorio pensato “a rete”, per offrire occasioni e potenzialità di carattere urbano. Le nuove forme dell’abitare, sviluppate nei decenni precedenti, ponevano nuove domande di servizi, cui si sarebbe potuto rispondere in modo più efficiente con una pianificazione coordinata d’area. In tal senso andavano le proposte per sviluppare Piani dei Servizi e forme perequative intercomunali, in grado di sostenere localizzazioni di funzioni strategiche, intendono consolidando la cooperazione tra Comuni e superando i limiti delle azioni individuali;

- un territorio che vuole lavorare sulla propria qualità ambientale come risorsa a carattere multiplo. L’obiettivo era di puntare sulle risorse esistenti (ambientali e agricole paesistiche, architettoniche, culturali, insediative) per migliorare la qualità della vita, rilanciare le economie locali e aprire spazi e occasioni progettuali rilevanti. Lavorare sulle criticità e sulle contraddizioni dei sistemi insediativi, produttivi, ambientali, culturali e infrastrutturali avrebbe consentito di aumentare la funzionalità, la qualità e la connettività dell’intera area. In questo ambito assumeva particolare enfasi l’immagine della “rete” quale dispositivo progettuale in grado, attraverso accorte politiche di ricomposizione, di esaltare le diverse risorse del territorio. La promozione di un sistema museale e culturale connesso al tema dell’acqua, la creazione di una rete di parchi che garantiscano la continuità del verde, l’elaborazione di linee guida per indirizzare il riuso del patrimonio storico a servizio dei cittadini, l’adozione di regole di qualità per governare la crescita insediativa e politiche per il sostegno alle attività agricole rappresentavano le voci progettuali più di rilievo;

- un territorio che vuole ragionare strategicamente sulle proprie vocazioni e assicurare al proprio sistema economico locale margini di crescita e standard di funzionamento sostenibile. L’obiettivo era di rilanciare una collaborazione tra attori pubblici e attori economici locali per investire sul futuro dell’area a partire dalle sue molteplici vocazioni. Governare le pressioni insediative di attività meno qualificate e provare a integrare le proprie vocazioni produttive con imprese capaci di produrre innovazione comportava la volontà di migliorare la qualità dei luoghi della produzione. In primo luogo sarebbe stato possibile elaborare politiche di sostegno allo sviluppo economico locale utilizzando la rete della mobilità primaria e la rete ferroviaria come principio insediativo di riferimento per la localizzazione e rilocalizzazione di tessuti produttivi integrati e per le attività logistiche. Inoltre sarebbe stato possibile ridurre la frammentazione produttiva e migliorare le relazioni aziendali attraverso la fondazione di strutture a sostegno dell’impresa, la sperimentazione di aree produttive sovralocali e la riorganizzazione del sistema della logistica. Infine, l’adozione di meccanismi di tipo perequativo nelle scelte localizzative produttive e logistiche, avrebbe consentito di rilanciare uno sviluppo economico locale basato su principi di tutela e di rispetto dell’ambiente.

4) Individuazione di Progetti pilota. L’elaborazione di esplorazioni progettuali intendeva fissare le linee guida per lavorare su contesti già operativi, in particolare i due progetti elaborati riguardano il Parco della Martesana e i Corridoi infrastrutturali.

Per quanto riguarda il progetto Parco della Martesana si era partiti dall’analisi del consistente patrimonio ambientale in dotazione di quest’area: il Parco Sud, il Parco dell’Adda, i PLIS intercomunali, ma anche i corsi d’acqua e le risorse potenziali come le cave da riqualificare e alcune tenute private. L’ipotesi progettuale di un Parco della Martesana intendeva costruire una rete anche del verde per connettere gli spazi aperti al fine di aumentare l’accessibilità e la fruizione per l’intera area. Il Parco in progetto intendeva diventare una chiara e identificabile figura territoriale, caratterizzata da una concentrazione di valore ambientale e paesaggistico che potesse da un lato promuovere la riqualificazione dei luoghi, dall’altro incentivare il radicamento di un sistema di mobilità ciclabile, volto a soddisfare le esigenze di spostamento di tipo lento e sostenibile, che in alcuni ambiti potrebbero rappresentare una valida alternativa alle modalità di trasporto tradizionali.

Per quanto riguarda il progetto dei Corridoi infrastrutturali si era analizzato il contesto infrastrutturale esistente e quello in progetto. Le criticità del sistema della mobilità erano già rilevanti: congestione di tutta la rete, il trasporto collettivo oramai inadeguato alla domanda di spostamenti anche tra comuni limitrofi. Le proposte progettuali avanzate per far fronte a questi problemi erano la costruzione del nuovo collegamento autostradale tra Milano e Brescia (BreBeMi) e la costruzione della nuova tangenziale est esterna, per garantire gli attraversamenti nord-sud tra Agrate e Melegnano. Queste nuove infrastrutture autostradali già rappresentavano le due grandi offerte per il potenziamento del sistema di mobilità. In merito il Piano d’area aveva elaborato due quadri differenti:

1. il primo quadro esplorativo si focalizzava sulla riqualificazione e sul potenziamento della rete infrastrutturale esistente,
2. il secondo quadro esplorativo introduceva, sulla rete definita in precedenza dal primo quadro esplorativo, le opere infrastrutturali in progetto: collegamento BreBeMi e tangenziale est esterna, nonché realizzazione della Pedemontana. Questo quadro esplorativo era caratterizzato da una forte incertezza, tanto politica quanto tecnica, circa la fattibilità e le modalità degli interventi.

In particolare le proposte progettuali avanzate dalle società autostradali avevano incontrato una forte opposizione da parte dei Comuni, i quali erano convinti di poter rivedere e ripensare i progetti proposti puntando proprio sull’esigenza condivisa di potenziare la rete esistente.

Ed è stata proprio la mancata sinergia sui temi infrastrutturali che ha contribuito al fallimento dell’intero Piano.

Comunque con questa struttura il Piano d’area Adda-Martesana ha avuto il merito di affrontare la natura strettamente volontaristica dello strumento attribuendogli una valenza strategica, che aveva anche l’obiettivo di “costruire l’abitudine al dialogo progettuale tra istituzioni locali”. Quando poi il Piano d’area è stato ultimato e approvato, nel 2006, alcune condizioni politiche erano mutate. Tutto il lavoro, in assenza di coloro che vi avevano preso parte, ha rapidamente perso spirito propulsivo, diventando, di fatto, ciò che proprio non voleva essere, “un ulteriore piano”, al quale non è stato dato seguito così come il confronto intercomunale si è brutalmente interrotto.


Il corridoio metropolitano: l’asse della Martesana oggi

All’interno di questo territorio è possibile identificare una città lineare, che il Piano d’area identificava come l’asse della Martesana, che si sviluppa su tre linee infrastrutturali che al contempo le attribuiscono accessibilità e continuità territoriale.

Gli assi infrastrutturali sono: il Naviglio Martesana, lungo il quale si attesta il parco lineare con pista ciclopedonale, la linea metropolitana M2 e la Strada Padana Superiore.

E’ la città che interagisce maggiormente con Milano grazie al sistema di trasporto pubblico che la inserisce a pieno titolo nel contesto metropolitano collegandola al capoluogo in poco più di 30 minuti di viaggio in metropolitana.

I comuni che compongono la città lineare sono: Vimodrone, Pioltello, Cernusco sul Naviglio, Cassina de’ Pecchi, Bussero, Gorgonzola, Gessate, Bellinzago Lombardo, (Inzago e Cassano d’Adda), per una popolazione complessiva di circa 165.000 abitanti (140.000).

Lo stato della pianificazione comunale di questi dieci comuni varia molto, anche per i forti limiti della legge regionale lombarda che, non incentivando alcuna forma di cooperazione sovra locale, molto spesso contribuisce a generare frammentarietà territoriale. In assenza di strumenti di coordinamento intercomunale i singoli Piani di Governo del Territorio di questo corridoio affrontano in modo anche molto diverso temi quali la perequazione, lo sviluppo degli ambiti produttivi, la valorizzazione della rete ecologica, ecc.

Gli elementi che accomunano quasi tutti i PGT della città lineare sono: il mancato riconoscimento di far parte di un sistema insediativo di scala territoriale, la città lineare appunto, e uno scarsa integrazione dei temi legati alla mobilità e all’infrastrutturazione nelle scelte di piano.

Uno dei PGT in controtendenza, almeno in parte, rispetto a questi approcci localistici e autoreferenziali è quello elaborato a Cernusco sul Naviglio.

Cernusco è caratterizzata da un’ottima accessibilità, soprattutto pubblica, grazie alle due fermate della metropolitana milanese MM2, da un centro storico valorizzato, da un sistema di piste ciclabili e spazi verdi organizzati attorno al canale Naviglio, da servizi sanitari e sociali di buon livello, da un vivace tessuto economico e da una buona qualità complessiva dell’abitare.

Il Piano di Governo del Territorio è stato approvato nel 2011 e, prendendo atto delle difficoltà della finanza pubblica locale, tenta di elaborare un progetto urbanistico complessivo senza ridursi a mero strumento di gestione dell’esistente. E’ un Piano che ha fatto scelte coraggiose: ridurre le capacità edificatorie residue ereditate dal precedente PRG, definire un limite netto all’edificato per tutelare lo spazio agricolo e le risorse ambientali esistenti anche attraverso il completamento di una green belt che di fatto esiste anche se incompleta, introdurre la compensazione ecologica preventiva (per ogni mq di superficie di pavimento edificata dovranno essere previsti in cessione 4,00 mq a verde), prevedere strumenti per la salvaguardia dell’attività agricola, riconosciuta come strategica e a servizio della città, elaborare indirizzi progettuali volti a migliorare l’efficienza energetica del patrimonio edilizio pubblico e privato, potenziare i nodi di interscambio ferro-gomma esistenti e degli ambiti ad elevata accessibilità.

Il Documento di Piano, quindi con un livello di indirizzo strategico non prescrittivo, individua poi sette progetti che sono utili per restituire l’immagine d’insieme della città attraverso l’individuazione degli elementi e dei materiali esistenti sui quali intervenire:

il parco storico monumentale della Martesana
il parco sovracomunale delle cave (un parco attivo)
il centro cittadino (un centro vitale in evoluzione)
la città delle imprese (mobilità, servizi alle imprese e qualità del paesaggio urbano)
la ricomposizione della città consolidata (il margine est e i primi insediamenti produttivi)
la città dello sport e delle associazioni
gli orti di Cernusco (agricoltura urbana)

Alcuni di questi progetti (in particolare la Città delle imprese e quello per il Parco sovracomunale) cercano di andare idealmente oltre i confini amministrativi, per proporre una visione territoriale di scala vasta nella quale l’ottima accessibilità e la buona qualità ambientale, elementi che come già detto caratterizzano questo ambito della regione urbana milanese, possano diventare principi ordinatori per costruire una visione complessiva di sviluppo alla scala territoriale.

In particolare il progetto Città delle imprese prevede un importante riqualificazione del nodo attorno alla fermata della metropolitana Villa Fiorita dove ora a sud sono presenti un parcheggio/deposito degli autobus, alcune imprese anche multinazionali e un parcheggio sotterraneo e a nord il canale Naviglio e l’adiacente parco lineare. La proposta del piano prevede un intervento di rilevanza metropolitana, di iniziativa pubblica per la realizzazione di un centro servizi per le imprese orientato all’innovazione tecnologica e alla formazione, di scala sovracomunale. Una sorta di parco tecnologico per le aree produttive caratterizzato dalla compresenza di attività e strutture multifunzionali per le imprese già insediate e spazi per nuovi spin-off (laboratori di ricerca, incubazione di impresa, servizi alla persona, accoglienza temporanea, spazi per il tempo libero, per la formazione, per convegni ed esposizioni).

Il Piano dei Servizi individua, per aree che sono già in prevalenza di proprietà pubblica, alcuni progetti di trasformazione che si pongono come scenari di riferimento attraverso linee progettuali di massima. Tali progetti sono otto, alcuni dei quali si intersecano con i progetti strategici del Documento di Piano, (ad esempio per l’area di Villa Fiorita è prevista la densificazione del nodo della fermata e la riorganizzazione di funzioni pubbliche e private al servizio del nuovo polo tecnologico), altri sono micro-trasformazioni di carattere locale (ampliamento parchi di quartiere, connessione rete della mobilità lente, ecc) mentre il più rilevante è quello che si propone di realizzare una nuova fermata della metropolitana presso la località di Cascina Melghera. Il progetto prevede la realizzazione di una fermata urbana della linea MM2, che dia accesso a quartieri oggi sottoserviti ma dotati di funzioni di servizio molto utilizzate e di un alto numero di residenti. La fermata costituirebbe anche un accesso privilegiato al Parco della Martesana. La proposta prevede inoltre il completamento del sistema degli accessi ciclabili e pedonali di connessione tra il Naviglio della Martesana, il polo sportivo di Cernusco e i quartieri sud della città, che si affacciano sulla Strada Padana.

Purtroppo il caso di Cernusco sul Naviglio è rimasto isolato e non è riuscito a dare avvio a una nuova stagione di pianificazione territoriale nei Comuni lungo l’asse della Martesana.

Elementi lineari di riconnessione territoriale
Dimenticando la frammentazione amministrativa del corridoio, di fatto, alcuni elementi lineari hanno contribuito alla creazione del sistema insediativo attuale. Canale Naviglio e parco lineare, linea metropolitana MM2 rappresentano importanti elementi di continuità del corridoio: percorrendoli è possibile percepire una qualità complessivamente buona sia del sistema ambientale che di quello insediativo, in un alternarsi tra nuclei storici, cascine, quartieri residenziali e produttivi.

L’asse della Martesana nel corso del tempo è diventato una vera e propria centralità suburbana di tutto il corridoio, un importante punto di riferimento e principio insediativo per la costruzione e la riqualificazione degli spazi pubblici (soprattutto con aree attrezzate per il tempo libero e lo sport), per la localizzazione di attrezzature di interesse pubblico, per la riconnessione ambientale e per il completamento di percorsi per la mobilità lenta.

La linea metropolitana MM2, che scorre in parallelo, in alcuni punti solo a pochi metri dall’asse della Martesana, pur contribuendo alla complessiva accessibilità di quest’area, sconta ancora alcune scelte localizzative meramente localistiche e rappresenta, in alcuni casi, più una cesura tra territori a nord e a sud del suo tracciato che non un elemento di continuità est/ovest. Le modalità di sviluppo dei decenni scorsi, scarsa lungimiranza delle singole amministrazioni comunali, mancanza di forme di coordinamento interistituzionali hanno spesso generato un patchwork di funzioni insediative, soprattutto di tipo produttivo, malamente connesse con la rete di mobilità alle quali sono precluse prospettive di ampliamento e di sviluppo ma anche di possibili e auspicabili sinergie aziendali.

Spostandosi di qualche centinaio di metri a sud di questo corridoio si incontra un ulteriore elemento lineare, la Strada Padana, lungo la quale si è sviluppata una conurbazione discontinua e incrementale nella quale funzioni commerciali, produttive e residenziali si susseguono per cluster autoreferenziali che evidenziano tutti i limiti di scelte localizzative non condivise, e spesso contraddittorie, tra comuni contermini.

La Strada Padana Superiore, storicamente, ha rappresentato un importante elemento di organizzazione spaziale per molti dei Comuni interessati dal suo tracciato, soprattutto per quelli il cui territorio ne risulta attraversato e tagliato a metà. Lungo la sua direttrice hanno progressivamente preso forma i nuclei storici e le addizioni successive che hanno poi, di fatto, determinato la fine, per la Padana, di strada a scorrimento veloce. Infatti è possibile riscontrare come le pratiche legate alla fruizione automobilistica e quelle pedonali della strada siano spesso in contrasto fino a diventare, in alcuni punti, quasi incompatibili.

Il susseguirsi di nuclei urbani lungo il tracciato ha imposto la realizzazione di impianti semaforici che, se da un lato scontentano gli automobilisti per i continui stop and go, dall’altra esasperano gli abitanti che, nelle ore di punta, si trovano a dover respirare dosi massicce di biossido di carbonio prodotto dalle code interminabili di auto ferme.

Il suo declassamento da statale a provinciale ha già sancito la sua inadeguatezza a soddisfare le esigenze del traffico veloce, anche in prospettiva delle nuove opere infrastrutturali che porteranno alla riqualificazione e all’ampliamento di due strade, Rivoltana e Cassanese, che scorrono a sud in parallelo al tracciato della Padana e che si propongono come arterie stradali di connessione tra sistema autostradale e tangenziale in progetto e Milano città certamente più efficienti e veloci.

In questo contesto è possibile considerare la Padana Superiore non più tanto come infrastruttura viabilistica, quanto come potenziale elemento su cui lavorare per ricomporre funzionalmente il territorio, anche riordinandolo.

L’attuale “disordine” spaziale infatti è attribuibile soprattutto alla sommatoria degli interventi che si sono succeduti nel tempo, sia per quanto riguarda il sistema di edificazione degli edifici, sia il sistema di articolazione dello spazio aperto, in modo del tutto frammentato e spesso anche piuttosto casuale.

Un suo ulteriore declassamento a strada di scorrimento di rango urbano potrebbe consentire interventi di recupero dello spazio pubblico, sia della sede stradale che di quello adiacente attraverso interventi che garantiscano la continuità dei percorsi ciclabili e pedonali esistenti (che, dove possibile, dovranno essere ampliati) e del sistema ambientale (che potrà contribuire a mettere in relazione il sistema degli spazi aperti). Ripensare la Strada Padana come un’arteria della mobilità dolce, anche con azioni di moderazione variamente configurate (zone 30, boulevard urbani, ecc.) a seconda dei diversi contesti insediativi attraversati, consentirebbe di riorganizzare l’accessibilità del corridoio e rimodulare l’offerta dei servizi e delle centralità pubbliche ad una scala non più strettamente locale ma sovracomunale.

In questo modo sarebbe possibile ricostruire un asse aggregativo di tutto il territorio, dove la disomogeneità e casualità del rapporto tra tessuto connettivo, spazio aperto e sistema degli edifici, rischiano di compromettere lo sviluppo di un sistema di scala metropolitana nel quale si potrebbe prevedere l’innesto di nuove funzioni di livello sovracomunale, di servizi alle imprese e alla persona, di servizi pubblici o di interesse pubblico.

In questo modo il suo collegamento con l’asse della Martesana consentirebbe di dare forma compiuta a una città lineare chiaramente riconoscibile che consentirebbe di adottare, all’interno della città metropolitana, specifiche politiche per favorire lo sviluppo locale orientate a forme di innovazione territoriale sostenibili.

La necessità di una visione (e di una pianificazione) metropolitana integrata

Per portare avanti questa proposta è necessaria l’elaborazione di strategie di scala territoriale, multilivello, innovative e in grado di rispondere alle esigenze dei contesti locali.
Di fronte al fallimento di pratiche di cooperazione intercomunale di natura strettamente volontaristica, come è stata l’esperienza del Piano d’Area dell’est Milano, si rende necessaria una nuova stagione che sappia superare gli interessi particolaristici e gli approcci localistici che, riducendo comportamenti conflittuali tra amministrazioni comunali, sia in grado di elaborare una proposta di sviluppo locale adottando una visione di lungo periodo.
In questo modo sarebbe possibile superare le numerose criticità generate da una stagione in cui l’assetto del territorio è stato determinato da una somma di decisioni adottate a scala locale, le quali hanno, inevitabilmente, prodotto territori inefficienti e compromesso sistemi ambientali ed agricoli di pregio.

In apparenza le condizioni del contesto appaiono favorevoli: la prossima istituzione della città metropolitana e uno scenario infrastrutturale in evoluzione, ma allo stesso tempo queste potenzialità nascondono alcune criticità.
Il nodo più importante è costituito dalle competenze e funzioni che saranno attribuite alla costituenda città metropolitana. Il testo di legge ad oggi disponibile, sul quale il Parlamento sta lavorando, prevede che al futuro ente spettino, tra le altre, le seguenti funzioni fondamentali:
- adozione annuale del piano strategico del territorio metropolitano, che costituisce atto di indirizzo per l’ente e vincolo per l’esercizio delle funzioni dei comuni e delle Unioni dei comuni ricompresi nell’area;
- mobilità e viabilità, anche assicurando la compatibilità e la coerenza della pianificazione urbanistica comunale nell’ambito metropolitano.

Da qui alcuni dubbi circa il tema della pianificazione territoriale.
L’elaborazione di uno strumento di natura programmatoria che abbia una cadenza annuale appare in forte contraddizione con la natura stessa della pianificazione strategica il cui presupposto è proprio un orizzonte temporale di lungo periodo al fine di poter elaborare proposte di trasformazione che sappiano cogliere dinamiche insediative, sociali, economiche e infrastrutturali complesse, che raramente si esauriscono in dodici mesi.

Inoltre la mancata integrazione tra tematiche infrastrutturali e scelte territoriali rischia, ancora una volta, di rendere gli strumenti di governo del territorio dei meri faldoni per burocrati, incapaci di incidere realmente sui processi territoriali in corso e in previsione. La sola verifica di coerenza tra scelte infrastrutturali e pianificazione urbanistica appare troppo debole, soprattutto in un contesto normativo come quello lombardo in cui tutti gli strumenti urbanistici comunali sono sempre e comunque modificabili. Inoltre, in un’area come quella dell’est Milano, in cui le nuove opere infrastrutturali stanno di fatto stravolgendo non solo gli assetti insediativi ma anche la morfologia del territorio, la mancanza di una sinergia sovracomunale tra scelte infrastrutturali e tessuto urbanizzato non potrà che generare ulteriore frammentazione, localismo, consumo di suolo e disordine funzionale.

In assenza di uno strumento di pianificazione che contenga indirizzi per la pianificazione a livello metropolitano, che ricorra anche all’individuazione di sistemi territoriali, la gestione dell’impatto delle grandi opere viabilistiche, così come le potenzialità che queste aprono, rimarranno di competenza dei singoli Comuni i quali non rappresentano il livello territoriale ottimale per gestire fenomeni così complessi soprattutto finché gli oneri di urbanizzazione costituiranno la voce di entrata maggiore per la fiscalità locale.

La città metropolitana rappresenta un’importante opportunità di riforma istituzionale che potrebbe aprire anche a una nuova stagione di pianificazione territoriale, in grado di rispondere in modo integrato a temi quali: la mobilità, il consumo di suolo, l’assetto economico, la tutela e la valorizzazione ambientale, l’abitare, ecc. attraverso l’elaborazione di una visione finalmente di scala vasta, rispettosa delle peculiarità locali ma capace di guidare e indirizzare il cambiamento.

Solo in questo modo si potrà evitare di dover subire nuove e imponenti opere infrastrutturali elaborate da “qualcun altro” in modo del tutto avulso dal contesto, solo così si potrà integrare accessibilità e sviluppo locale evitando forme di speculazione immobiliare generata dall’egoismo di qualche Sindaco, solo così si potranno elaborare proposte per un’innovazione sostenibile puntando sulla riqualificazione di alcuni elementi presenti e sottoutilizzati sul territorio, solo così si potranno attivare forme di partecipazione per i cittadini le cui pratiche quotidiane sono già di scala metropolitana, solo così potremo evitare di invocare l’aiuto di un extraterrestre per sfuggire ai grandi progetti viabilistici galattici previsti in qualche piano di sviluppo dell’iperspazio.

1 I comuni sono: Basiano, Bellinzago Lombardo, Bussero, Carugate, Cassano d’Adda, Cassina dé Pecchi, Cernusco sul Naviglio, Gessate, Gorgonzola, Grezzago, Inzago, Liscate, Masate, Melzo, Pessano con Bornago, Pioltello, Pozzo d’Adda, Pozzuolo Martesana, Rodano, Segrate, Settala, Trezzano Rosa, Trezzo d’Adda, Trucazzano, Vaprio d’Adda, Vignate, Vimodrone.
2 Il Piano d’area è uno strumento prettamente volontaristico, la cui elaborazione può partire da un insieme più o meno vasto di Comuni che si confrontano per elaborare una visione condivisa di sviluppo e di gestione del proprio territorio. I Piani d’area nascono dalla necessità di gestire problemi e opportunità di specifici ambiti territoriali a una scala intermedia tra livello provinciale e comunale; la loro natura, versatile e flessibile, li rende particolarmente utili per affrontare tematiche complesse le cui ricadute hanno una portata di natura sovralocale quali, ad esempio, la progettazione di opere infrastrutturali, la realizzazione di insediamenti di rilevanza sovracomunale e la tutela di sistemi ambientali. Il processo per l’elaborazione del Piano prevede l’individuazione delle criticità e delle potenzialità del contesto e delle occasioni di sviluppo, dalle quali elaborare politiche e progetti per la gestione del territorio.

In questa cartella trovate molti documenti del secondo Seminario di Eddyburg: per ora scritti di Donato Belloni,Fabrizio Bottini, Roberto Camagni, Paolo Dignatici, Maria Cristina Gibelli, SerenaRighini, Edoardo Salzano, Eddyburg, ...

Intercomunalità in ambito metropolitano:
dalla contaminazione tra cooperazione volontaria intercomunale e coordinamento istituzionale le migliori opportunità.

Critiche al DDL n. 1542 “Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni”.

1. Province sì/ Province no/ Città Metropolitana/ Unioni/fusioni:
“grande è la confusione sotto il cielo”, ma la situazione non è eccellente.

Molte contraddizioni e aporie nel DDL “Disposizioni sulle Città metropolitane…” (presentato il 20 agosto 2013). Ad oggi, appare come una legge affrettata che nasce:
- non da una consapevolezza, sia pure tardivamente acquisita, dell’improrogabile necessità di governare e pianificare alla scala pertinente,
- ma da obiettivi congiunturali e ideologici di contenimento della spesa pubblica (trovare un capro espiatorio – la Provincia - per occultare inefficienze, sprechi, corruzione della pubblica amministrazione a tutti i livelli),
- nel testo introduttivo, si ribadisce ripetutamente che tutto il disegno di legge è ispirato da un unico obiettivo: “ridurre la classe politica e i costi della politica”; e si affida ai sindaci e alle Unioni “l’intera organizzazione territoriale di area vasta” (in dispregio del principio di sussidiarietà).
La prima perplessità che avanzo: ha senso oggi decidere per ‘editto centrale’ su questioni complesse, eterogenee, non tutte di competenza statale, a lungo neglette o rinviate?

2. Le Città Metropolitane: si perderà di nuovo l’occasione di farle davvero?

Il DDL non autorizza all’ottimismo, perché è afasico sulle attribuzione di competenze e, invece, è ‘command and control’ e omologante sui meccanismi statutari per la riorganizzazione, pianificazione e gestione di realtà metropolitane assolutamente eterogenee.
La seconda perplessità: il modello ‘command and control’ ha registrato in Europa:
- un fallimento ‘storico’ (tutte le authorities metropolitane sono state abolite negli anni ’80)
- oggi sono poche le esperienze di istituzione ‘dall’alto’, e comunque a seguito di referendum popolare (Grande Londra,…?)

3. Le Città Metropolitane altrove

I migliori risultati (per durata e valore aggiunto) nella pianificazione di area vasta in ambito metropolitano si sono ottenuti nelle esperienze:
A. costruite‘dal basso’: attraverso un lungo processo di apprendimento collettivo e strategie progressive di ‘messa in rete’:i buoni risultati ottenuti le hanno fatte evolvere, in pochi casi, in veri e propri enti di governo di scala metropolitana legittimati dal voto popolare (Francoforte, Amburgo, Portland/OR,…)
B. ‘miste’: istituzione ‘dall’alto’, ma attraverso un modello di identificazione dei perimetri e delle funzioni delegate attento a valorizzare scelte statutarie e progettualità locale innovative ( è il caso delle francesi Communautés Urbaines in generale, e soprattutto, della CU Grand Lyon)

4. Communautés Urbaines/Città Metropolitane:
 un confronto poco rassicurante


Entrambe si fondano su leggi emanate a livello centrale (command and control), ma le motivazioni e, soprattutto, le modalità di istituzione e i tempi di implementazione, appaiono molto differenti.

5. Le Communautés Urbaines


- Istituite per legge nel 1967
- Perimetri imposti dallo Stato
- Le competenze attribuite alla CU sono molto ampie e non contrattabili
- Il Sindaco della città centrale è automaticamente Presidente della Communauté
- Sono enti elettivi di secondo grado

6. Alcuni motivi del successo delle Communautés Urbaines

Il modello command and control si giustificava in Francia in un’epoca di grande sviluppo economico e demografico(“les trente glorieuses”).
Le CU furono istituite per garantire efficienza territoriale alla politica statale, promossa dalla DATAR, di riequilibrio della gerarchia urbana (métropoles d’équilibre). Le CU furono a questo scopo destinatarie di un trasferimento di ingenti risorse statali
Il Sindaco della ville centre è automaticamente Presidente della CU: questo si spiega con la rilevanza in sede politica nazionale dei sindaci delle grandi città (è possibile il ‘cumul des mandats’)
- Vantaggi: alcuni grandi sindaci strateghi (Pierre Mauroy a Lille, Raymond Barre a Lione…); ottima pianificazione di ‘scala pertinente’
- Limiti: deficit di democrazia nei meccanismi elettorali

7. Francia e Italia proprio oggi (ottobre 2013): al via due leggi sulle città metropolitane.


Una singolare coincidenza temporale e due percorsi affatto diversi. 
Le istituende Métropole e le istituende (forse) Città Metropolitane

In contemporanea con la ‘legge Del Rio’, in Francia il governo sta promuovendo una grande riforma del sistema amministrativo che modifica profondamente la legge n. 1563 del 2010 “Reforme de collectivités Territoriale” approvata sotto la presidenza Sarkozy (che aveva già, a sua volta, completamente trasformato/stravolto il sistema amministrativo in una direzione per molti aspetti criticabile e oggi in completa revisione).

In programma 3 progetti di legge dedicati, di nuovo, a ‘réformer la décentralisation’:
-“Modernisation de l’action publique territoriale et d’affirmation des métropoles” (in dirittura di arrivo)
- “Mobilisation des régions pour la croissance et l'emploi et de promotion de l'égalité des territoires
- “Développement des solidarités territoriales et de la démocratie locale”.


8. Francia 2013: 
verso l’istituzione dei governi metropolitani

- Il primo progetto di legge, “Loi de modernisation de l’action publique territoriale et d’affirmation des métropoles”, è in fase avanzata di approvazione: è stato approvato in seconda lettura al Senato e trasmesso per la seconda lettura all’Assemblée nationale l’ 8 ottobre 2013.
Un iter costellato da grandi conflitti e molteplici emendamenti, ma una legge che si occupa soltanto di governi metropolitani.

Terza perplessità : si tratta di una legge complessa, ma non disordinata e affastellata come il DDL n. 1542

Del lunghissimo, articolato testo nella sua stesura attuale segnalo soltanto 3 aspetti:
- si restituiscono a Dipartimenti e Regioni le competenze loro sottratte dalla legge 2010-1563
- si istituiscono per la prima volta 3 Métropole ‘a Statuto particolare’ : Métropole de Paris, Métropole de Lyon, Métropole d’Aix-Marseille-Provence
- si individuano criteri di perimetrazione e misure incitative per sollecitare le altre CU a costituirsi in Métropoles. 


9. Francia 2013: 
verso l’istituzione di governi metropolitani a statuto e geometria variabile

La legge dunque:
- non impone a tutte le CU di costituirsi immediatamente in Métropoles;
- riconosce ad ogni Métropole uno statuto specifico e particolare
- sancisce l’istituzione di 3 Métropoles in cui il consenso inter-istituzionale e locale appare maturo

- tratteggia le condizioni per l’ulteriore accesso allo statuto di Métropole di altre CU

Quarta perplessità: la ‘Legge Del Rio’ propone un modello unico per Città Metropolitane tutt’affatto differenti.

10. La Métropole du Grand Paris

A partire dall’1 gennaio 2016 si costituirà l’ «établissement public de coopération intercommunale à fiscalité propre à statut particulier “La métropole du Grand Paris”».

Ne faranno parte:
- il Comune di Parigi, i Comuni dei Dipartimenti Hauts-de-Seine, Seine-Saint-Denis et Val-de-Marne tutti riuniti in una unica associazione intercomunale ‘a fiscalità propria’;
- su parere favorevole dei rispettivi consigli municipali, potranno farne parte Comuni di altri Dipartimenti (se già appartenevano, al 31 dicembre 2014, a un « établissement public de coopération intercommunale à fiscalité propre » con almeno un Comune appartenente all’ Hauts-de-Seine, o Seine-Saint-Denis o Val-de-Marne.)

Faranno dunque parte della Métropole de Paris: i Comuni della Proche Couronne con qualche ampliamento possibile alle condizioni date dalla legge.

11. I Conseil de territoire (articolo 12)

- La Métropole di Grand Paris si articola in territoires di almeno 300.000 abitanti
- I presidenti dei Conseil du territoire saranno di diritto vicepresidenti del Conseil de la Métropole du Grand Paris
- Spetterà ai Conseil formulare pareri (rapports de présentation e projets de délibération) in merito a sviluppo economico, sociale e culturale, aménagement dello spazio metropolitano e politica abitativa locale
…e molto altro per valorizzare un modello di concertazione in cui, comunque, non saranno i singoli comuni ma associazioni intercomunali di dimensione demografica cospicua e cooperanti il riferimento ‘locale’ delle più complessive strategie e politiche metropolitane

12. Chi amministrerà la Métropole du Gran Paris
(a partire dall’1 gennaio 2016):

- il Presidente della Métropole (il Sindaco di Parigi);
- il Consiglio metropolitano (un consigliere per Comune, un consigliere metropolitano supplementare ogni 30.000 abitanti per i Comuni sopra i 30.000 abitanti, ¼ dei consiglieri sono designati dal Conseil de Paris);
- la Conferenza metropolitana: Presidenti dei Conseil de territoire, Presidente della Métropole, Presidente del Conseil régional d'Île-de-France, Presidenti dei Conseils généraux de la région d'Île‑de‑France, « afin de garantir la cohérence et la complémentarité de leurs interventions, dans l'intérêt de l'ensemble des territoires de la région »;
- il Conseil de développement che riunisceo i partner economici, sociali e culturali: viene consultato sui principali orientamenti strategici.

13. La Métropole du Grand Paris godrà di competenze estese

Tutte quelle di rilevanza metropolitana al fine di « promouvoir un modèle d'aménagement durable, de réduire les inégalités, d'accroître l'offre de logement sur son territoire et d'améliorer le cadre de vie de ses habitants ».

La Métropole du Grand Paris sostituisce a pieno diritto i Comuni nell’esercizio delle seguenti funzioni:
- pianificazione spaziale (schémas de cohérence territoriale et schémas de secteur ; définition, création et réalisation d'opérations d'aménagement d'intérêt métropolitain; constitution de réserves foncières d'intérêt métropolitain; prise en considération d'un programme d'aménagement d'ensemble et détermination des secteurs d'aménagement d'intérêt métropolitain);
- politica della casa (programme local de l'habitat; schémas d'actions en faveur du logement social et de réhabilitation et de résorption de l'habitat insalubre; aménagement, entretien et gestion des aires d’accueil des gens du voyage);
- tutela e valorizzazione dell’ambiente (protection et mise en valeur de l'environnement et politique du cadre de vie; élaboration et adoption du plan climat‑énergie territorial en application de l'article L. 229-26 du code de l'environnement, en cohérence avec les objectifs nationaux en matière de réduction des émissions de gaz à effet de serre, d'efficacité énergétique et de production d'énergie renouvelable);
- politica urbana (dispositifs contractuels de développement urbain, de développement local et d'insertion économique et sociale d’intérêt métropolitain ; dispositifs locaux de prévention de la délinquance);
- grandi progetti di trasformazione urbana (chaque nouveau projet métropolitain dont la compétence a été transférée à la métropole du Grand Paris fait l’objet d’une délibération concordante des conseils municipaux se prononçant à la majorité et des conseils de territoires intéressés);
- edilizia sociale: tutte le competenze e le risorse allocate dallo Stato in materia di « aide à la pierre »;
. pianificazione dei trasporti (Coordination du Syndicat des transports d’Ile-de-France et de la societé du Grand Paris)

14. Da Grand Lyon a Métropole de Lyon: 
i ‘primi della classe’

La Communauté Urbaine de Lyon: 52 Comuni; 1,2 milioni di abitanti
Anche a Lione si istituirà un ente di governo metropolitano ‘a statuto particolare’
A Lione, per la prima volta in una CU, si sperimenterà la ‘grande innovazione’ (auspicata per decenni da Delouvrier e anche dall’ ex-sindaco stratega di Lione Raymond Barre):
- il Consiglio metropolitano sarà eletto a suffragio universale;
- il Presidente sarà eletto a scrutinio segreto e a maggioranza assoluta dal Consiglio metropolitano;
- la Conferenza metropolitana: tutti i sindaci;
- il Conseil de développement.

n particolare, nei 6 mesi successivi a ogni elezione municipale, la conferenza elabora un projet de pacte de cohérence métropolitain Metropoli/Comuni.

15. Métropole de Lyon

La Métropole de Lyon assumerà le seguenti competenze esclusive:
- sviluppo economico, sociale e culturale (création, aménagement, entretien et gestion de zones d'activité industrielle, commerciale, tertiaire, artisanale, touristique, portuaire ou aéroportuaire. Actions de développement économique, en prenant en compte les orientations définies par le schéma régional de développement économique, d'innovation et d'internationalisation, et actions contribuant à la promotion et au rayonnement du territoire et de ses activités, ainsi que participation au copilotage des pôles de compétitivité; enseignement supérieur, recherche et innovation);
- pianificazione e gestione in materia di cultura, istruzione, promozione del turismo , sport (construction, aménagement, entretien et fonctionnement d'équipements culturels, socio-culturels, socio-éducatifs et sportifs métropolitains);
- pianificazione territoriale e urbanistica (incluso il piano di destinazione d’uso dei suoli/PLU!!!) e grandi progetti di trasformazione urbana (Schéma de cohérence territoriale et schémas de secteur; Plans local d'urbanisme et documents d'urbanisme en tenant lieu; définition, création et réalisation d'opérations d'aménagement; constitution de réserves foncières);
- pianificazione dei trasporti e delle comunicazioni (élaboration du schéma de transport qui définit les services de transports urbains, non urbains, réguliers ou à la demande sur le périmètre des transports métropolitains; organisation des transports non urbains et urbains sur ce périmètre; création, aménagement et entretien de la voirie du domaine public routier de la métropole de Lyon; signalisation ; parcs et aires de stationnement, plan de déplacements urbains; abris de voyageurs; participation à la gouvernance et à l'aménagement des gares; établissement, exploitation, acquisition et mise à disposition d'infrastructures et de réseaux de télécommunications);
- politiche della casa (Programme local de l'habitat; politique du logement; aides financières au logement social; actions en faveur du logement social; actions en faveur du logement des personnes défavorisées; amélioration du parc immobilier bâti, réhabilitation et résorption de l'habitat insalubre; aménagement, entretien et gestion des aires d'accueil des gens du voyage);
- politica della città (Dispositifs contractuels de développement urbain, de développement local et d'insertion économique et sociale);
- gestione dei grandi servizi urbani (assainissement et eau; création, gestion, extension et translation des cimetières et sites cinéraires métropolitains, ainsi que création, gestion et extension des crématoriums métropolitains; cbattoirs, abattoirs marchés et marchés d'intérêt national; services d'incendie et de secours);
- tutela e valorizzazione ambientale (Gestion des déchets ménagers et assimilés; lutte contre la pollution de l'air; lutte contre les nuisances sonores; soutien aux actions de maîtrise de la demande d'énergie; élaboration et adoption du plan climat-énergie territorial en cohérence avec les objectifs nationaux en matière de réduction des émissions de gaz à effet de serre, d'efficacité énergétique et de production d'énergie renouvelable; concession de la distribution publique d'électricité et de gaz; création, aménagement, entretien et gestion de réseaux de chaleur ou de froid urbains; création et entretien des infrastructures de charge nécessaires à l'usage des véhicules électriques ou hybrides rechargeables; gestion des milieux aquatiques et prévention des inondations);

- aides à la pierre: esercitati a nome e per conto dello Stato (per 6 anni e rinnovabili) (gestion de tout ou partie des réservations de logements dont le représentant de l'État dans la métropole dispose pour le logement des personnes prioritaires, notamment mal logées ou défavorisées; garantie du droit à un logement décent et indépendant; mise en œuvre des procédures de réquisition; gestion de la veille sociale, de l'accueil, de l'hébergement et de l'accompagnement au logement de toute personne ou famille sans domicile ou éprouvant des difficultés particulières d'accès au logement en raison de l'inadaptation de ses ressources ou de ses conditions d'existence; élaboration, contractualisation, suivi et évaluation des conventions d'utilité sociale; délivrance aux organismes d'habitation à loyer modéré des agréments d'aliénation de logements).

16. Che ne sarà delle altre Communautés’?

Si delineano nella legge le condizioni per il passaggio allo statuto di Métropoles
- Le associazioni volontarie intercomunali a fiscalità propria con ville centre di più di 400.000 e un territorio metropolitano di più di 650.000 abitanti
- Le associazioni volontarie intercomunali con più di 400.000 abitanti e un capolugo di regione
- Le associazioni volontarie intercomunali che ospitano posti di lavoro per più di 400.000 addetti e già svolgono alcune funzioni di inquadramento strategico e di solidarietà territoriale in luogo dei Comuni

Potrebbero già, alle condizioni date, costituirsi in Métropoles: Bordeaux, Rouen, Lille, Strasburgo, Montpellier, Grenoble e Rennes.

17. Chi governerà le ‘Métropoles’?

Problema aperto. Forti contrasti in seno al Parlamento

Elezione a suffragio universale? Probabilmente solo Lione sperimenterà l’elezione diretta. Probabilmente, per le altre metropoli continuerà l’elezione indiretta


8. Siamo comunque in un’altra storia rispetto alla affrettata ‘ingegneria istituzionale’ sottesa all’ennesimo tentativo di costituire le Città Metropolitane

Nel caso francese, l’esperienza delle CU si è consolidata in più di 40 anni: si è, sia pure lentamente e faticosamente, consolidata una idea di cittadinanza metropolitana.

Nel caso francese, le competenze delegate dalla nuova legge (per lo più esclusive) sono molto articolate per quantità e qualità: soprattutto in materia di solidarietà territoriale e sociale.

Nel caso francese, il quadro delle funzioni devolute dallo Stato e delegate dai Comuni è dettagliato, così come il quadro dei trasferimenti di risorse finanziarie pubbliche.


19. Schema di disegno di legge “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”. 
I punti di debolezza


Si ripropone la CM, a venti anni dalla legge 142 (mai applicata), in epoca di grave crisi, e su obiettivi strettamente congiunturali e ideologici: ridurre la spesa pubblica/trovare un capro espiatorio (la Provincia)

La CM assume le funzioni della Provincia, più quelle della Legge 142/1990: ma sono passati 20 anni…andrebbero arricchite , soprattutto sui temi dell’ambiente, dell’equità sociale, dell’attribuzione di competenze cogenti in materia di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali. Ad esempio: sui ‘grandi progetti di trasformazione urbana’ (per lo più in deroga) non si dovrebbe pensare a un prescrittivo quadro di coerenza metropolitano? (v. Métropoles)

In compenso, la prima ‘nuova funzione’, nell’elenco scarno e banale delle nuove funzioni aggiunte, è un piano strategico annuale (????): un vero ossimoro

La legge è flessibile per quanto riguarda i meccanismi elettivi: del sindaco e del consiglio metropolitano; elezioni dirette oppure elezioni di secondo grado e nel caso di elezione diretta, si prevede, giustamente, il referendum popolare (ma come a Londra… e solo a Londra!!! Nel Parlamento francese è una delle principali cause di conflitto: lo chiedono soltanto PC e Verdi)

Quinta peplessità: dopo decenni di municipalismo dalla vista spesso cortissima, dopo decenni di deregolamentazione nello stile ‘ciascuno è padrone in casa propria’, una idea di cittadinanza metropolitana non si è certamente fatta strada… rischio assoluto di flop del referendum.

La legge è inoltre muta sulla trasparenza nella pubblica amministrazione (il vero problema…non solo delle Province), sul coinvolgimento civico (nella CU di Lione, la Charte de la Participation è del 2003), sulla concertazione formalizzata pubblico/privato (sul tipo dei Conseil de développement), sulle risorse finanziarie (la legge francese è estremamente dettagliata nel merito ed è una legge di spesa; la legge Del Rio istituirebbe le CM ‘per risparmiare’!

Si corre inoltre il rischio che non si superino i 2/3 delle adesioni da parte dei Comuni (v. disastro della legge 142/1990): un comma demenziale perché:
- se i comuni refrattari saranno più di 1/3, si prefigura una sorta di “Vandea provinciale”
- si rischia uno scenario di ‘balcanizzazione amministrativa”, con vantaggi tutti da dimostrare di risparmio della spesa pubblica!

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