Un'analisi di alcuni scenari urbani e possibile soluzione per contenere il consumo di suolo. millenniourbano online, 18 luglio 2016 (c.m.c.)
Nel 2010 la superficie totale di tutto il mondo coperta da cemento, asfalto, suolo compattato, aree a parco e spazi aperti per uso antropico, ovvero tutto ciò che costituisce gli insediamenti urbani, è stata stimata in circa 1 milione di kmq: quasi due volte la Francia che si estende su 643,000 kmq.
La popolazione urbana che attualmente vive sulla terra è di circa 3,9 miliardi ma è destinata a crescere fino a circa 6,34 miliardi entro il 2050, su un totale globale di almeno 9,5 miliardi di persone, se si continuerà a consumare suolo per realizzare insediamenti. Si tratta di uno scenario che non è certo sostenibile.
Il continuo consumo di alcuni dei terreni agricoli di maggior valore al mondo nel processo di urbanizzazione del pianeta ha come conseguenza una costante riduzione della densità degli insediamenti urbani di circa il 2% annuo. Di questo passo la superficie coperta da insediamenti urbani potrebbe aumentare a più di 3 milioni di kmq entro il2050, una crescita che potrebbe minacciare le forniture alimentari mondiali.
E dal momento che i terreni agricoli più intensamente coltivati in genere si trovano vicino a dove la maggior parte dei il cibo viene consumato, ovvero le città, gran parte di questi ulteriori 2 milioni di kmq riguarda il suolo agricolo più produttivo. L’attuale urbanizzazione senza freni potrebbe quindi minacciare l’approvvigionamento alimentare a livello mondiale in un momento in cui la produzione alimentare è già non è al passo con la crescita della popolazione.
Un fattore determinante per il dilagare dell’espansione urbana – soprattutto in Nord America, dove il problema è particolarmente grave – è stato il basso prezzo del carburante delle automobili. Quando i prezzi del petrolio hanno raggiunto livelli record nel 2008, aggravando la crisi economica globale, i pendolari che usavano l’auto per recarsi al lavoro sono stati i primi ad avere problemi con il pagamento del mutuo.
Ma la maggior parte delle aggiuntivi 2,5 miliardi di persone che vivranno in aree urbane entro il 2050 si concentrerà nelle città del sud del mondo, in particolare in Asia e in Africa: il 37% di tutta la futura crescita urbana dovrebbe aver luogo solo in tre paesi: Cina, India e Nigeria.
In Africa la popolazione urbana, che è attualmente circa 400 milioni di persone, dovrebbero triplicare entro il 2050: una crescita che in tutto il continente genererà insediamenti urbani con una densità di popolazione relativamente bassa. Nelle città africane – in cui il 62% di tutti gli abitanti vivono in baraccopoli – la maggior parte dei baraccati è insediata in aree periferiche delle città che sono in continua espansione.
Anche in Cina la rapida urbanizzazione ha portato ad un’esplosione di insediamenti urbani informali, mentre in India, dove milioni di abitanti vivono negli slum all’interno delle aree urbane centrali (creando il fenomeno indiano abbastanza singolare di quartieri in cui poveri e la classe media urbana vivono insieme) si assiste ad una crescente sub- urbanizzazione della classe media che viene attratta nei nuovi insediamenti in costruzione attorno alle maggiori città del paese.
Tuttavia la crescita a bassa densità può anche essere evitata. Ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia dove l’80% della popolazione è ancora rurale, gli investimenti governativi stanno trasformando la città in senso diverso. Con i fondi e le competenze fornite da capitali cinesi un sistema di metropolitana leggera è stato costruito attraverso la città: impresa davvero notevole impresa visto che l’80% della sua popolazione vive in baraccopoli. Questo ha incentivato anche la classe media, oltre ai destinatari di alloggi di edilizia popolare, a vivere in insediamenti ad alta densità, in appartamenti realizzati in edifici multipiano che stanno iniziando a sorgere intorno alle stazioni del trasporto pubblico, riducendo così la necessità dei viaggi su strada con auto privata per coprire distanze maggiori. Il risultato è che Addis Abeba si sta densificando, dando l’esempio di ciò che è possibile fare in altre città che affrontano sfide simili.
La chiave di questa strategia di densificazione è il numero di persone che possono accedere al trasporto pubblico. E’ un aspetto che riguarda ad esempio anche una città come Johannesburg, da due decenni alle prese con la transizione dalle township della apartheid ad un modello di sviluppo urbano che sappia integrare ciò che prima era separato. Il numero degli utilizzatori del trasporto pubblico può crescere solo se si intensificano i posti di lavoro e le residenze attorno ai nodi del sistema. E’ una strategia che, unita alle iniziative per migliorare gli insediamenti informali piuttosto che costruire nuove case in periferie, ha contribuito in modo significativo a rendere più densa la città e a scoraggiare l’espansione promossa , a partire dal processo di democratizzazione del Sud Africa iniziato nel 1994, dagli immobiliaristi e dalle banche.
Ma una maggiore densità non è il solo strumento per combattere l’inarrestabile crescita urbana: Los Angeles ad esempio ha una densità media superiore a quella di New York , ma la prima, al contrario della seconda che comprende una rete di quartieri ad alta densità interconnessi da un sistema efficiente di trasporto pubblico, è considerata un modello urbano disfunzionale proprio perché fortemente dipendente dall’auto privata.
Al contrario l’amministrazione della capitale sud coreana, con il motto “Seoul è per le persone, non le automobili”, smantellando l’autostrada a otto corsie che attraversava il centro della città ha evitato di protrarne all’infinito l’espansione.
La Cina – che nel corso degli ultimi tre decenni ha urbanizzato centinaia di milioni di persone relativamente a bassa densità grazie alla realizzazione di “superblocchi” residenziali posti lungo ampie strade congestionate dal traffico e con pochi incroci per kmq – sta cambiando rotta in favore di una densità più alta, strade più strette e interconnesse, una maggiore e migliore presenza del trasporto pubblico.
Lo scenario del raddoppio della popolazione urbana mondiale entro il 2050,considerati l’aumento dei prezzi del petrolio e le limitazioni delle emissioni di carbonio rende l’espansione urbana un fenomeno sempre più insostenibile. Sradicare il consumo di suolo agricolo fertile e la crescita urbana indiscriminata a favore di città vivibili, accessibili grazie al trasporto pubblico efficiente, policentriche e ad alta densità dovrebbe diventare un impegno globale condiviso.
Una corrispondenza per eddyburg sulla giornata del suolo, organizzata da ISPRA, a Roma il 13 luglio. Come accade troppo spesso, a parole tutti si dichiarano consapevoli della posta in gioco. Ma non seguono fatti concreti. (m.b.)
Il SoilDay organizzato da Ispra in collaborazione con l’Ordine degli Architetti di Roma ci invita a riflettere e a fare rete sul problema di un suolo che non c’è più, alla scala locale come a quella globale.
Le principali parole chiave proposte nei dibattiti a più voci tra politici, tecnici, istituzioni di ricerca (Ispra, Cresme, Dipse) e associazioni (Legambiente, Wwf, Fai, Slow Food Italia, Salviamo il Paesaggio, Touring Club, Cia, Coldiretti, Copagri, Conaf) diversamente impegnati su questo tema, sono state: il suolo come tema centrale per il futuro del Paese, il rapporto tra aree urbane ed extraurbane, ma soprattutto il contenimento del consumo di suolo come responsabilità improrogabile per una rigenerazione etico-culturale senza la quale nessuna legge potrebbe garantire quel “consumo zero” entro il 2050 che l’Italia, come gli altri Paesi dell’UE, si sono impegnati a raggiungere nella Conferenza di Parigi del 2015.
I dati del Rapporto annuale 2016 (Ispra) fotografano un Paese tristemente conosciuto che, nonostante la crisi e la decrescita, continua a consumare il proprio suolo a una velocità di 4mq/sec in termini di superficie agricola vitale e di qualità inesorabilmente persa. Il nostro Paese si posizione al 5° posto in Europa (dopo Irlanda, Belgio, Lussemburgo e Germania) per percentuale di consumo di suolo (7%), pur avendo una larga parte del territorio costituita da colline e montagne.
Ma quali sono le conseguenze in termini di perdita di servizi ecosistemici e quali i costi di questo veloce progredire? E soprattutto quali sono le politiche che l’Italia è in grado di mettere in campo per il contenimento del consumo di suolo?
Ispra, nel rapporto 2016, ha contabilizzato in 800 milioni di euro l'anno i costi della mancata regolamentazione del consumo di suolo, dovuti alla perdita di produzione agricola, all’erosione, alla mancata infiltrazione dell’acqua, agli effetti sul microclima urbano.
Quanto alle politiche, la principale risposta a scala nazionale è affidata al Ddl “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”, (in gestazione da più di quattro anni, non certo per colpa del bicameralismo per difetto) e ora in discussione al Senato. Nella versione approvata dalla Camera, il Ddl presenta criticità sostanziali a partire dalla stessa definizione di suolo (con quella attuale verrebbe non considerato circa il 50% di suolo artificializzato), evidenziate con forza dal mondo dell’associazionismo che richiede modifiche sostanziali. Seppur più volte sia stato ricordato dagli stessi relatori del Ddl che non si tratta di una nuova legge urbanistica, che è comunque meglio approvare una legge – anche se imperfetta - che c’è la volontà di apportare modifiche nel passaggio in Senato (fra gli argomenti citati: oneri di urbanizzazione, demolizioni…), rimane il dubbio che il testo così com’è non produca il cambiamento auspicato nelle forme di intervento nel territorio. Il rapporto Ispra sollecita a porre al centro dell’agenda politica il problema del suolo perduto, il “meno peggio” non può sempre essere considerato il risultato migliore.
Riferimenti
Il rapporto sul consumo di suolo 2016 è disponibile nel sito dell’ISPRA, dove - meritoriamente - l'Istituto hè scaricabile la cartografia del consumo di suolo relativa agli anni 2012-15.
Sulla giornata di studi organizzata da Ispra si vedano in eddyburg gli articoli di Paolo Berdini e Luca Fazio, ripresi da il manifesto. Sul disegno di legge, verso il quale eddyburg è radicalmente critico, si veda il recente intervento di Vezio de Lucia, con in calce i riferimenti alle numerose prese di posizione e disamine disponibili nel sito. Tutto quel che c'è da sapere sul consumo di suolo è riassunto in una visita guidata attraverso gli articoli e i documenti pubblicati in eddyburg.it.
C'è chi denuncia, giustamente, il proseguire inarrestato del consumo di suolo e sottolinea i danni provcati, ma c'è chi, al tempo stesso, auspica l'approvazione di un provvedimento che aggraverebbe ancora il devastante fenomeno. Ipocriti, sciocchi o disinformati?.Il manifesto, 14 luglio 2016
Uno. In questo momento, trascorso un secondo, in Italia sono già spariti quattro metri quadrati di suolo sotto una colata di cemento. Fanno circa 35 ettari al giorno, una calamità non naturale ma inesorabile che in soli due anni ha ricoperto 250 chilometri quadrati di territorio. E non è stato nemmeno il biennio peggiore, visto che la crisi ha rallentato l’aggressione all’ecosistema Italia.
Solo per restare sui terreni agricoli, in meno di venti anni le superfici edificate hanno “bruciato” oltre 2 milioni di ettari coltivati: il 16% delle campagne è sparito. E continua a sparire al ritmo di 55 ettari al giorno (per ogni cittadino si “erodono” 350 metri quadrati di aree agricole all’anno). Questa follia suicida figlia di uno sviluppo insostenibile che non si arresta – è come continuare a segare allegramente il ramo su cui si sta seduti – ha un costo annuale che è possibile quantificare in oltre 800 milioni di euro.
Questo è quanto gli italiani potrebbero pagare a partire dal 2016 solo per fronteggiare le conseguenze del consumo di suolo del triennio 2012-2015. Le stime dei costi, non solo economici, sono state pubblicate ieri durante la presentazione del rapporto Ispra 2016 sul consumo di suolo in Italia (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale). «Nonostante questo rallentamento – ha spiegato Michele Munafò, responsabile del rapporto – il consumo di suolo continua e questo ha delle conseguenze gravi anche i termini economici. E’ importante ricordare che oltre alle aree colpite direttamente l’impatto riguarda anche quelle vicine coinvolgendo ormai oltre la metà del territorio nazionale, provocando la perdita dei servizi ecosistemici che il suolo ci fornisce gratuitamente».
Secondo una stima dei “costi occulti” – quelli non percepiti nell’immediato perché si rivelano tali solo nel calcolo delle conseguenze – ogni ettaro di terreno consumato presenterebbe un conto per la collettività che può arrivare a 55 mila euro. Dipende dal tipo di suolo e dalla sua utilità per l’ecosistema: produzione agricola (400 milioni), stoccaggio di carbonio (circa 150 milioni), mancata protezione dell’erosione (oltre 120 milioni), danni provocati per la mancata infiltrazione dell’acqua (quasi 100 milioni), assenza di insetti impollinatori (3 milioni).
Ma far di conto non basta per dare l’idea della catastrofe in corso su scala globale: «Azzerare le perdite di suolo e migliorare lo stato di salute di quello fertile – ha detto Michele Pisante, commissario del Centro per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea) – rappresentano due direttrici ineludibili per il pianeta nei prossimi anni. Vincere o perdere questa sfida rappresenterà la differenza tra la vita e la morte per milioni di persone e porrà i presupposti per nuovi equilibri sociali, politici ed economici».
Nelle aree urbane il consumo di suolo altera anche la regolazione del microclima (un aumento di 20 ettari per Km2 di suolo sacrificato provoca un aumento di 0,6 gradi della temperatura), e questo ha un costo. Le tre città campione messe peggio sono Milano (45 milioni), Roma (39 milioni) e Venezia (27 milioni). Inoltre, spiega il rapporto, gli impatti negativi della sottrazione di suolo si producono non solo nelle aree direttamente coinvolte ma fino a 100 metri di distanza.
Le regioni meno virtuose, con più del 10% di territorio consumato nel 2015, sono Lombardia, Veneto e Campania (ma Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Puglia, Piemonte, Toscana e Marche non si sono certo distinte visto che si attestano su valori compresi tra il 7 e il 10%). Si distingue solo la Valle d’Aosta, che comunque ha consumato il 3% del suo territorio. Il fenomeno, curiosamente, riguarda sia i grandi centri abitati, che hanno visto aumentare la popolazione, che i piccoli paesi dove la popolazione non cresce.
A commento del rapporto Ispra, le associazioni dei coltivatori hanno voluto sottolineare altri due aspetti fondamentali per la tenuta del “sistema Italia”. La sicurezza alimentare e il dissesto idrogeologico. «Il consumo di suolo coltivato – ha spiegato il presidente nazionale della Cia Dino Scanavino – rischia di riflettersi sulle cifre dell’approvvigionamento alimentare in Italia, dove a oggi si arriva a coprire il fabbisogno di cibo di tre cittadini su quattro. Dovendo ricorrere alle importazioni per coprire questo deficit produttivo».
Su un territorio reso più fragile, scrive Coldiretti, si abbattono i cambiamenti climatici con precipitazioni intense impossibili da assorbire: «Il risultato è che sono saliti a 7.145 i comuni italiani, l’88,3% del totale, che sono a rischio frane e alluvioni” (le regioni con il 100% dei comuni a rischio idrogeologico sono Valle d’Aosta, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Molise e Basilicata»).
La politica, interrogata, oggi non può far altro che rispondere come Barbara Degani, sottosegretaria all’Ambiente del governo Renzi: «Il tema è al centro dell’agenda politica». E’ vero invece che le strategie e le normative in discussione per considerare il suolo un bene comune per anni sono rimaste lettera morta. «Per questo – ha detto Damiano Di Simine della segreteria nazionale di Legambiente – chiediamo al Parlamento di approvare in questa legislatura e in tempi brevi il ddl contro il consumo di suolo, in ballo da quattro anni e ora in discussione al Senato. All’Unione europea invece chiediamo di approvare una direttiva europea sul suolo».
Legambiente, con altre associazioni, a settembre lancerà una petizione popolare europea che coinvolgerà oltre 300 organizzazioni. Obiettivo: raccogliere un milione di firme per spingere le istituzioni comunitarie a legiferare per la tutela del suolo in Europa.
Per fermare il consumo di suolo «occorre bloccare la cosiddetta legge sulla limitazione del consumo di suolo licenziata di recente alla Camera e ora incardinata al Senato. Lì si consente di realizzare senza difficoltà ogni attività urbana in zona agricola e si deregolamenta ancora la possibilità di demolizione e ricostruzione con elevati incrementi volumetrici». Il manifesto, 14 luglio 2016 (c.m.c.)
L’Ispra, Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, continua lodevolmente a misurare gli effetti dell’espansione urbana. Nel rapporto presentato ieri, il coordinatore della ricerca Michele Munafò ha richiamato l’attenzione sul dato quantitativo impressionante (35 ettari di terreno viene cementificato ogni giorno) ed ha anche posto l’accento su due questioni che, se prese in carico dalle politiche nazionali, rappresenterebbero la chiave di volta per il rilancio economico dell’intero paese.
La prima questione riguarda il fatto che non è più vero che costruire significa aumentare la ricchezza pubblica. Afferma infatti il rapporto che per sostenere la cementificazione realizzata nel triennio 2012–2015 lo Stato nel suo complesso dovrà pagare 800 milioni ogni anno.
Cifre imponenti in tempi di crisi che potrebbero ad esempio servire per sostenere la riconversione energetica del patrimonio edilizio esistente e che invece vengono “bruciate” per sostenere l’abnorme crescita edilizia. Milano e Roma pagheranno la deregulation urbanistica con 43 e 39 milioni all’anno. Se si tiene conto che negli ultimi anni sono stati tagliati i trasferimenti ai comuni per 17 miliardi, si comprende come siano avviati verso il fallimento economico o -nel migliore dei casi- a dover ridurre la qualità urbana. Teniamo dunque ancora acceso il motore di una macchina che sta minando la nostra civiltà urbana e credo sia necessario assumerne tutte le implicazioni.
In primo luogo si dovrebbe avviare una sistematica politica di riqualificazione delle periferie urbane che rappresentano i luoghi in cui si manifestano maggiormente le patologie sociali. Occorre dunque chiudere per sempre l’espansione urbana e indirizzare ogni risorsa al miglioramento di quanto è stato costruito.
Per farlo occorre bloccare la cosiddetta legge sulla limitazione del consumo di suolo licenziata di recente alla Camera e ora incardinata al Senato. Lì si consente di realizzare senza difficoltà ogni attività urbana in zona agricola e si deregolamenta ancora la possibilità di demolizione e ricostruzione con elevati incrementi volumetrici anche in zone di elevata qualità.
La legge approvata sembra dunque risentire di una cultura derogatoria che ha provocato soltanto degrado urbano. E’ invece evidente che potremo rendere migliori le nostre città solo se ricostruiremo un sistema di regoli semplici e immediatamente applicabili: con la deregulation degli ultimi 25 anni abbiamo addirittura ampiamente utilizzato nello scacchiere urbano la legge «Obiettivo» del 2001, definita «criminogena» dal presidente dell’Autorità sugli appalti, Raffaele Cantone. La crisi in cui ci dibattiamo dimostra che l’unico modo per far ripartire la filiera urbana è recuperare il profilo etico invano atteso dall’intero paese. E infine il secondo dato preoccupante.
Afferma l’Ispra che a causa della cementificazione la temperatura aumenta di 0,6 gradi ogni venti ettari di terreno cementificato. Sono più dieci giorni che le temperature delle città si attestano intorno ai 40 gradi e ogni attività umana, dal lavoro alla normale vita degli anziani, risente oltre modo di questo fenomeno.
Per combattere il cambiamento climatico in atto occorre coraggio e siamo certi che il ministro competente sarà in grado di trovarlo: invece di espandere ancora le città occorre avviare una gigantesca opera di riforestazione urbana e potremo pensarla soltanto se prenderemo atto culturalmente che l’espansione urbana è un meccanismo inservibile. Continuare sarebbe un errore strategico imperdonabile.
Ancora in ballo un disegno di legge più dannoso che utile per la riduzione del consumo di suolo e devastante per le aree gia edificate in attesa di "rigenerazione". Eppure soluzioni efficaci sono a portata di mano, se ci fossero lucidità culturale e volontà politica.
Nel maggio scorso la Camera dei deputati ha approvato e trasmesso al Senato il famigerato disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato ben noto ai lettori di eddyburg [vedi i riferimenti in calce]. La prima considerazione riguarda i dubbi circa la sua definitiva approvazione. L’avvicinarsi delle elezioni politiche (che devono svolgersi entro il 2018) e l’inevitabile impasse che sarà comunque determinata dall’esito del referendum sulla sopravvivenza del Senato (in ogni caso fino alle prossime elezioni le leggi saranno approvate in regime bicamerale), inducono a sperare che il disegno di legge finisca su un binario morto. E perciò, secondo me, dovremmo da subito mettere in campo altre ipotesi.
In sostanza, lo Stato propone ma a decidere sono Regioni e Comuni, e quindi la legge non sarà mai attuata proprio dove più necessaria e urgente. È vero che la norma transitoria blocca il consumo del suolo per tre anni dall’approvazione della legge, ma sono fatti salvi opere, interventi, procedimenti e varianti che coprono abbondantemente la moratoria. Né si dica dei poteri sostitutivi, pratiche che nelle materie di cui stiamo trattando non hanno mai funzionato.
Due articolo per devastare di più
Un’assoluta novità sono infine i compendi agricoli neorurali che consentono la trasformazione dell’edilizia rurale in attività amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, di cura, eccetera. Non male per una legge nata per “promuovere e tutelare l’attività agricola, il paesaggio e l’ambiente”.
Mi permetto un’ultima osservazione sulla scrittura della proposta, pleonastica, fitta di definizioni accattivanti ma inutili, di precetti al tempo stesso ridondanti e inefficaci (le Regioni che “orientano” l’iniziativa dei comuni), di compiaciute complicazioni procedurali (art. 3).
Le alternative possibili
a un testo inemendabile
La strategia dello stop al consumo di suolo perseguita con legge può essere affiancata da un’intelligente azione di governo tramite il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio. A partire dall’art. 145 del Codice che affida al ministero per i Beni culturali il compito di individuare “le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio”. Linee che devono essere rispettate dallo Stato e dalle Regioni nella formazioni dei piani paesaggistici. Ma di queste linee non c’è traccia e l’approvazione dei piani paesaggistici è sempre ferma a Toscana e Puglia e alla parte costiera della Sardegna. Per il resto un vuoto desolante, mentre ministero e Regioni fanno a gara di disimpegno.
Ci fosse la volontà, non sarebbe difficile formulare indirizzi di tutela che obbligano i piani paesaggistici (e quindi i Comuni) a concentrare – anche in questo caso – le trasformazioni all’interno di un’insormontabile linea rossa che racchiude lo spazio edificato, distinto e separato da quello rurale e aperto. Se si affrontasse questo compito, con determinazione – insieme a un coraggioso impegno verso le Regioni –, per il ministero per i Beni culturali, squassato dalle cosiddette riforme, sarebbe, tra l’altro, una straordinaria occasione per recuperare credibilità e prestigio. Ma serve un’altra stagione politica.
Riferimenti
Per una valutazione complessiva della vicenda si vedano l'eddytoriale 148. e l'articolo Eddyburg e le norme sul cosumo di suolo. Analisi critiche puntuali del ddl sono contenute nell'articolo di De Lucia Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione e quelli di Cristina Gibelli,5 (Neologismi in libertà: «compendi neorurali periurbani) e di Ilaria Agostini del maggio 2015 (Due leggi per il suolo).
«Il rapporto di Legambiente parla di una colata costante che negli ultimi decenni è avanzata al ritmo di 8 chilometri all'anno ». Il Fatto Quotidiano online, 2 luglio 2016 (c.m.c.)
Ottomila chilometri di costa, sì, ma la metà è cemento. Una colata costante e neanche tanto lenta, andata avanti negli ultimi decenni al ritmo di 8 chilometri all’anno. Case, palazzi, alberghi, porti turistici. Ai quali si aggiunge l’erosione, che colpisce un terzo del litorale ed è causata dalla trasformazione per porti e infrastrutture, ma anche dal mancato apporto di sedimenti attraverso i fiumi per via di dighe, sbarramenti, cave.
Meno del 20 per cento della costa è sottoposta a vincoli di tutela, mentre un quarto degli scarichi cittadini in mare continuano a non essere depurati e più di mille insediamenti sono sottoposti a procedura di infrazione dell’Ue. Il quadro – sconfortante – è tracciato da Legambiente nel rapporto “Ambiente Italia“, dedicato quest’anno ai paesaggi costieri sempre più martoriati.
«Crescono del 27 per cento i reati ai danni del mare nostrum che le forze dell’ordine e le Capitanerie di porto hanno intercettato nel corso del 2015. Le infrazioni sono infatti 18.471, rispetto alle 14.542 dell’anno precedente: ben 2,5 per ogni chilometro di costa del Belpaese. Sale anche il numero delle persone denunciate, che passano da 18.109 a 19.614, mentre flette, seppur di poco il dato dei sequestri, sono 4.680 a fronte dei 4.777 del 2014». Una specie di bollettino di guerra.
Il cemento si mangia le coste
Il male più diffuso è proprio il consumo di suolo, che ha colpito già il 51 per cento dei litorali: secondo l’Istat, tra il 2001 e il 2011 sulle coste sono sorti quasi 18mila nuovi edifici. «Per molti italiani, la casa al mare, sia essa sontuosa o piccola e arrangiata con i vecchi mobili della nonna, è un diritto inviolabile. Se non ha le carte in regola, se è stata costruita senza licenza o si trova in un posto dove è vietato posare anche un solo mattone, poco importa. Così i nostri litorali sono puntellati da distese di villini sorti ‘spontaneamente’, in barba alle regole edilizie, al paesaggio e alla qualità dei manufatti», denuncia Legambiente nel dossier Mare Monstrum pubblicato all’inizio della stagione estiva, dedicato proprio alla ferite inferte al litorale italiano.
Ma non si tratta solo di seconde case. Su 6.477 chilometri di costa, escluse le numerose isole minori, quelli cementificati sono 3.291: 720 chilometri sono occupati da industrie, porti e infrastrutture, 920 da centri urbani, mentre in altri 1.650 circa ci sono insediamenti a bassa densità, con ville e villette. A volte alla cementificazione si accompagna l’abusivismo, ma anche dove non si può parlare di infrazioni dei vincoli edilizi e di costruzioni senza permessi, non mancano i casi di progetti controversi. Che non risparmiano nemmeno i parchi e le zone vicine a aree protette.
Comacchio: 190 ettari per nuove strutture ricettive
È il caso di Comacchio, cittadina della costa adriatica dove si continua a costruire, nonostante ci siano già 30mila seconde case a fronte di soli 23mila abitanti. Non solo, denuncia Legambiente, «il piano regolatore del Comune prevede circa un milione di metri quadri di superficie utile ancora da edificare», ma «l’ente gestore del Parco naturale del Delta del Po, modificando uno dei suoi piani territoriali, con il placet dell’Amministrazione, della Provincia di Ferrara e della Regione Emilia Romagna, nel 2014 ha prefigurato la destinazione di circa 190 ettari di terreno, sui lidi di Comacchio, a nuove strutture ricettive», invece di riqualificare le strutture esistenti e le aree degradate.
Nello stesso anno Legambiente ha presentato anche due ricorsi al Tar di Bologna di cui si attende l’esito, ma intanto le lobby dell’edilizia non si fermano: «Il Comune ha continuato a sfornare provvedimenti urbanistici, come quello che intende equiparare le previsioni edificatorie di un campeggio a quelle di un villaggio turistico», con il risultato che, anche grazie a una norma contenuta nel collegato ambientale del governo, «le case ‘mobili’ di Comacchio potranno essere realizzate senza titoli edificatori e poi restare ‘fisse’ tutto l’anno, potranno superare i limiti degli indici edilizi, potranno non essere accatastate e quindi non pagheranno nemmeno l’Imu».
Abusivismo nel Parco del Cilento
Dall’Emilia Romagna alla Campania, dove tra aprile e agosto 2015 il Corpo forestale ha smascherato diverse opere abusive realizzate nell’area protetta del Parco naturale del Cilento. «Decine di persone sono state denunciate a vario titolo per violazione delle norme urbanistiche, occupazione abusiva di suolo demaniale marittimo, deturpamento e alterazione di bellezze naturali in zone sottoposte a vincolo paesaggistico, inosservanza dei provvedimenti disposti dall’autorità giudiziaria. Ville dai 100 ai mille metri quadri, muretti, piscine, pedane, pontili, parcheggi, manufatti in ferro, legno e calcestruzzo; locali ricavati dalla roccia e adibiti a deposito di materiale vario:questi, nell’insieme, i corpi dei reati».
Il nuovo porto turistico che minaccia l’Elba
Il cemento non risparmia neanche le isole minori. All’Elba, nell’Arcipelago Toscano, Legambiente è in allarme per il progetto di ampliamento del porto turistico a Marciana Marina, per 80 nuovi posti barca. Alla base di tutto, denuncia il dossier, c’è un «piano regolatore portuale approvato dal consiglio comunale con i soli voti di maggioranza e respingendo tutte le osservazioni prodotte, incluse quelle della Regione Toscana».
Il Comune – guidato da Anna Bulgaresi, lista civica di centrodestra – ha definito il progetto “ottimale”, mentre per Legambiente «avrebbe un devastante effetto paesaggistico su uno dei lungomare più belli del Mediterraneo, cambiandone completamente la prospettiva, andando a occuparne una parte attraverso la regolarizzazione di imbonimenti e ampliamenti precedenti e snaturando ancora di più un ambiente che ha già subito fin troppe pesanti e caotiche modifiche».
L’associazione, che ha scritto anche alla Regione per manifestare i propri dubbi, chiede una revisione del progetto anche per scongiurare che al cemento si accompagni l’aumento dell’erosione delle spiagge. Spesso succede, perché l’erosione, che si sta mangiando un terzo degli arenili, è legata anche alle trasformazioni provocate da porti e interventi sul litorale: alla fine, dopo la grande abbuffata, delle coste non rimangono neppure le briciole.
L’Emilia-Romagna, ex regione modello, aumenta la patologiadi un’economia basata sulla rendita con inammissibili “dimenticanze” sull’aggiornamentodegli oneri di urbanizzazione. A scapito dei servizi per la collettività, IlMulino, la rivista on-line, luglio 2016 (m.p.g.).
«Costerà oltre mezzo miliardo di euro costruire una "bretella" di 15 chilometri tra l'A22, l'A1 e la città delle piastrelle». Altraeconomia, 1° giugno 2016 (p.d.)
Il progetto di un’autostrada tra Campogalliano e Sassuolo, nel modenese, è vecchio di almeno quindici anni: era il 2001, infatti, quando il collegamento tra l’A1, l’A22 e la “capitale delle piastrelle” venne inserito per la prima volta in una delibera governativa del CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica), con una costo stimato di 175,6 milioni di euro.
Chi realizzerà l’opera, cioè la Società di progetto AutoCS, una associazione di imprese cui partecipanoAutostrada del Brennero S.p.A., Impresa Pizzarotti & C. S.p.A., Coopsette Soc. Coop e alcune aziende e consorzi del modenese, potrà quindi usufruire di uno sconto sull’IVA, sull’IRAP e sulle imposte sul reddito, secondo quanto disposto dalla Legge di Stabilità del 2012 (la l. 183/2011), quella varata dal governo Monti, quando Corrado Passera e Mario Ciaccia, entrambi ex Intesa Sanpaolo, occupavano come ministro e viceministro il dicastero delle Infrastrutture.
Dall’ufficio stampa del ministero ci hanno spiegato -con una e-mail del 2 maggio scorso- che “il contributo della defiscalizzazione attualizzato ammonta a 38,98 milioni di euro”. Se abbiamo atteso quasi un mese prima di pubblicare questo articolo, è perché abbiamo atteso fino ad oggi (1° giugno) che il ministero delle Infrastrutture chiarisse quanto riportato nella risposta a una delle nostre domande. Questa: “Il comma 2 dell’articolo 18 della l. 183/2011 spiega come ‘l’importo del contributo pubblico a fondo perduto nonché le modalità e i termini delle misure previste al comma 1 (la defiscalizzazione), utilizzabili anche cumulativamente, sono posti a base di gara per l'individuazione del concessionario, e successivamente riportate nel contratto di concessione’. Questo significa che la decisione della defiscalizzazione debba essere precedente alla gara per l'individuazione del concessionario?”.
“La misura della defiscalizzazione è stata prevista nella procedura di gara” hanno replicato dal ministero. Ciò, però, non era possibile: il bando di gara, infatti, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 3 dicembre 2010, quando la misura in questione non era nemmeno presente nell’ordinamento nazionale. “È stata introdotto in un secondo momento? Se sì, quando?”, abbiamo chiesto. E, finalmente, dopo quasi un mese d’attesa, dal ministero delle Infrastrutture hanno risposto che “essa è stata prevista nella lettera di invito trasmessa a tutti i partecipanti alla procedura di gara”.
Alla mail non era però allegata la relativa documentazione, da noi richiesta.
A livello locale, la realizzazione dell’opera (che gode di un ulteriore contributo pubblico a fondo perduto, di oltre 200 milioni di euro) è osteggiata, in particolare da associazioni ambientaliste come Legambiente: “L’autostrada correrà per circa 16 chilometri sopra la conoide del Secchia, a una distanza media di 200 metri dal fiume, in un contesto che, nonostante sia stato provato da anni di attività estrattive, mantiene comunque un importantissimo valore paesaggistico ed ambientale. La bretella infatti andrà ad intercettare i corsi d’acqua del reticolo idrografico secondario e vanificherà diversi interventi di riqualificazione ambientale (Oasi del Colombarone, percorso Natura, reti Ecologiche, il potenziale Parco Regionale del Secchia, percorsi ciclabili e pedonali) -spiega Alessandra Filippi, presidente di Legambiente Modena-. Il Secchia, come tutti i fiumi, è un patrimonio ambientale delicatissimo e di primaria importanza, da tutelare, da valorizzare e da riqualificare. Sarebbe un grave errore alterarlo irreversibilmente con una inutile autostrada”. Aggiunge Filippi che “l’infrastruttura attraverserà le zone di rispetto dei campi pozzi di Marzaglia, di Magreta, del campo Tomaselli e Campo San Gaetano interessando circa una ventina di pozzi a servizio di 420mila abitanti”.
Vale la pena leggere la risposta alle critiche di Emilio Sabattini (PD), per dieci anni presidente della Provincia di Modena (dal 2004 al 2014), e oggi membro del Cda di Autostrada del Brennero Spa: “Giro sempre in mountain bikee il territorio dove andrà la nuova Campogalliano-Sassuolo è già rovinato dalle escavazioni”.
C’è un altro elemento che vale la pena sottolineare: la progettazione è stata eseguita all'esterno e ceduta ad ANAS dall'Associazione industriali del comparto modenese. In circa quindici chilometri di tracciato trovano posto 2 gallerie artificiali, 8 viadotti e 5 svincoli. Prima dell’avvio dei cantieri, manca solo il visto buono della Corte dei Conti in merito alla “defiscalizzazione”: una delibera che dovrà chiarire, insomma, se il ministero delle Infrastrutture ha agito in maniera legittima applicando a una gara bandita nel dicembre 2010 (e chiusa, per quanto riguarda la possibilità di partecipare, a gennaio 2011) una misura introdotta nell’ordinamento solo dodici mesi più tardi.
«Consumo del suolo. Presentato nella sede dell'Anci il rapporto "Ecosistema rischio 2016"». Il manifesto, 18 maggio 2016 (p.d.)
In realtà i numeri assoluti sono inevitabilmente sottostimati, perché l’indagine condotta da Legambiente per il rapporto «Ecosistema rischio 2016» presentato ieri nella sede dell’Anci è stata realizzata sulla base delle risposte fornite da solo 1.444 Comuni a un questionario inviato invece a tutti le amministrazioni comunali di città o paesi con aree a rischio idrogeologico (che solo la maggior parte degli 8 mila Comuni italiani).
Tuttavia da tale monitoraggio sulle attività nelle amministrazioni comunali per la mitigazione del pericolo idrogeologico si rileva che «l’urbanizzazione delle aree a rischio non è solo un fenomeno del passato: nel 10% dei Comuni sono stati realizzati edifici in aree a rischio anche nell’ultimo decennio». Nel 31% dei casi, ci sono interi quartieri in pericolo, nel 51% dei Comuni invece nelle aree golenali o franose sorgono impianti industriali o (nel 25%) commerciali, e perfino (nel 18% dei Comuni) scuole o ospedali. Inoltre «solo il 4% delle amministrazioni ha intrapreso interventi di delocalizzazione di edifici abitativi e l’1% di insediamenti industriali».
E non si tratta solo di piccoli paesi o cittadine: a sottovalutare il rischio idrogeologico ci sono anche le amministrazioni delle città capoluogo o metropolitane. Non a caso infatti «solo 12 capoluoghi hanno risposto al questionario di “Ecosistema rischio”: Roma, Ancona, Cagliari, Napoli, Aosta, Bologna, Perugia, Potenza, Palermo, Genova, Catanzaro e Trento». Secondo il report di Legambiente, «a Roma e Napoli sono oltre 100.000 i cittadini che vivono o lavorano in zone a rischio, poco meno di 100.000 anche le persone in aree a rischio nella città di Genova. E, nonostante i pericoli ormai evidenti, nelle città di Roma, Trento, Genova e Perugia anche nell’ultimo decennio sono state realizzate nuove edificazioni in aree a rischio».
Prendiamo il Lazio, per esempio: l’85% dei Comuni della regione è a rischio. Il 33% perché contiene interi quartieri costruiti in aree che dovrebbero essere off limits, e il 15% ha continuato a edificare in tali aree negli ultimi 10 anni.
«È evidente l’urgenza di dire concretamente Stop al consumo di suolo, di bloccare per sempre il diluvio di cemento e fermare l’espansione infinita delle città – afferma il responsabile scientifico di Legambiente, Giorgio Zampetti – a partire da Roma, dove in ogni settore continua ad avanzare il cemento e contemporaneamente si rischia la paralisi della città e si trema ad ogni bomba d’acqua». Una situazione, questa, ha aggiunto il delegato Anci, Bruno Valentini, «già ben a conoscenza dei Sindaci, che da anni chiedono rafforzamento delle risorse, semplificazione normativa e competenze adeguate per intervenire in modo sempre più efficace».
In questa pagina del sito di Legambiente è scaricabile il rapporto.
«Il governo stravolge il ddl che doveva tutelare i terreni agricoli: adesso apre al cemento. Da Fai a Legambiente, le associazioni sono preoccupate. Cinquestelle protestano e spiegano il loro no in cinque punti». Il manifesto, 13 maggio 2016 (p.d.)
Il testo approvato contiene «norme innovative, ma ancora molti punti contradditori e pericolosi», affermano le associazioni Fai, Legambiente, Slow Food, Touring Club italiano e Wwf, chiedendo al Senato di «aprirsi al confronto per migliorarlo».
La legge era attesa da anni: è la prima in Italia che si pone organicamente l’obiettivo di fermare il consumo di suolo (l’Ispra calcoa che ogni secondo vengono cementificati 7 metri quadrati), inducendo a riqualificare e rivalutare le aree già costruite. Tra gli aspetti positivi, a parte l’obiettivo in sé (fissato a 35 anni), secondo le associazioni c’è «l’introduzione di un censimento degli edifici e delle aree dismesse, non utilizzate o abbandonate, come precondizione per approvare qualsiasi nuovo consumo di suolo»: il censimento sarà obbligatorio e toccherà ai Comuni. Ancora, agli stessi Comuni viene vietato «di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente e di modificare la destinazione d’uso per le superfici agricole che hanno beneficiato di aiuti Ue».
Vincoli e paletti che dovrebbero aiutare a conservare il verde dei nostri paesaggi. Se nel frattempo non fossero intervenute, proprio negli ultimi passaggi in Commissione Ambiente, delle modifiche che hanno mutato il ddl originario, quello impostato già quattro anni fa dall’ex ministro Mario Catania e che era sostanzialmente condiviso anche da parte dei Cinquestelle. In particolare, sono cinque i punti critici: ce li illustra Massimo De Rosa, deputato M5S.
1) Alcuni rischi possono venire dalla nuova definizione di termini come «impermeabilizzazione», «consumo di suolo», «suolo consumato», che già contengono in sé deroghe all’edificazione. «Il suolo anche solo parzialmente impermeabilizzato non viene considerato perso – spiega De Rosa – Se ad esempio consideriamo un parcheggio fatto con i cosiddetti “autobloccanti a verde”, il fatto che lascia passare l’acqua tra un mattone e l’altro secondo la nuova legge permette di non farlo rientrare nel suolo consumato. Quindi non entrerà neanche nelle relative rilevazioni».
2) Il meccanismo di calcolo e pianificazione dei nuovi suoli consumabili apre a forti consumi in attesa della deadline del 2050. «Stato, Regioni e Comuni devono definire e calcolare a cascata, ma non ci metteranno meno di due anni – spiega De Rosa – Inoltre non ci sono obblighi né sanzioni, quindi è probabile che molti dati non perverranno mai. Una volta ogni 5 anni si decide quanto suolo si è autorizzati a consumare: ma non è che rischiamo di cementificarne troppo entro i prossimi 35 anni?».
3) L’articolo 5, quello dedicato alla «rigenerazione urbana», prevede una delega al governo senza troppi paletti, perché semplifichi le procedure per la riqualificazione di intere porzioni di città. «Semplificazione – secondo l’M5S – rischia di coincidere con “abusi”, visto che non si cita nessun obbligo di riferimento al Testo unico sull’edilizia: e così addio al rispetto degli spazi, delle sagome, dei servizi minimi da offrire ai cittadini».
4) Nell’articolo 6 si permette la modifica di destinazione uso dei fabbricati agricoli, che potranno essere demoliti e ricostruiti diventando studi medici, uffici, spazi ludico-ricreativi o sociali. «La componente maggiore dovrà restare a disposizione di usi agricoli – dice De Rosa – ma nonostante questo si stravolge la storia di interi siti, rischiando peraltro che vengano abbattuti edifici storici non vincolati dalla Soprintendenza».
5) Articolo 11, deroghe pro-Anci: il testo era rimasto immutato per mesi, poi in prossimità dell’arrivo in Aula la maggioranza ha fatto sue le richieste dell’Anci: «Si fa salvo – denuncia l’M5S – quasi tutto quanto già previsto dai piani di trasformazione: e non solo quello che è in fase di lavori avanzati, basta essere al grado della programmazione. Chiaro che ora, prima che entri in vigore la legge, tutti correranno a programmare interventi edilizi: una sorta di maxi-sanatoria». «Per noi la pianificazione del territorio deve essere statale, e il privato deve venire dopo, ma qui è passato il principio contrario – conclude l’M5S De Rosa – Prima di costruire su nuovi suoli, rigeneriamo e bonifichiamo l’esistente. E mettiamo le risorse sulla riqualificazione energetica: ogni miliardo investito crea 17-18 mila posti di lavoro e fa bene all’ambiente».
«"Contenimento del consumo di suolo". Le legge appena approvata dalla Camera favorisce l’aggressione di quanto resta dei territori agricoli e lascia mano libera alla grande proprietà immobiliare di approvare interventi di demolizione e ricostruzione con mostruosi incrementi volumetrici». Il manifesto, 13 maggio 2016
Prima di descrivere le aberrazioni nascoste nella legge, è però opportuno chiarire che il giudizio negativo non riguarda – come vogliono far credere i commenti trionfali del Pd – la normale dialettica democratica in cui le opposizioni (in questo caso 5 Stelle e Sinistra italiana) criticano i provvedimenti della maggioranza. Molti comunicati emessi dalle associazioni ambientaliste e della tutela – dalla Lipu a Salviamo il Paesaggio – non appena approvata la legge dimostrano che è pessima e solo una sfrontata propaganda può gabellarla come un successo. Le bugie stavolta hanno le gambe corte e inciampano sulla realtà: quelle associazioni hanno collaborato in numerose riunioni e audizioni in Parlamento presentando emendamenti per rendere la legge più efficace. Non è stato concesso loro alcuno spazio e in sede di approvazione in aula sono stati votati articoli che hanno ulteriormente peggiorato la legge rendendola un grande regalo al partito del cemento.
La grancassa renziana dirà che si tutelano le aree agricole. L’articolo 6 si intitola al contrario «compendi agricoli neorurali periurbani», una locuzione marinettiana che serve «a favorire lo sviluppo economico sostenibile del territorio» e consente ai proprietari di realizzare in aree agricole «alberghi, case di cura e uffici». È noto a tutti – e dunque anche al legislatore – che l’Italia ha gli indici di consumo di suolo più alti dell’Europa intera: abbiamo cementificato circa l’8% del territorio a fronte della media del 4,7% di Paesi europei (fonte Ispra): la ricetta della maggioranza è invece quella di incrementare ancora la frammentazione territoriale.
Ma veniamo al cuore del provvedimento, e cioè l’articolo 5 che porta come titolo «Interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate». Lì è contenuta – come nel caso delle riforma Madia per le amministrazioni pubbliche – la pericolosa delega in bianco all’esecutivo per emanare decreti legislativi per agevolare gli interventi di rigenerazione urbana. In realtà è noto che queste leggi già esistono e non vengono utilizzate proprio perché non permettono di poter aumentare a piacimento le volumetrie da realizzare e obbligano al rispetto degli interessi pubblici. Cose vecchie nella devastante cultura nuovista. Per far capire dove si vuole arrivare, l’aula ha approvato un emendamento del Pd che consente deroghe volumetriche anche per gli interventi in corso. È l’estensione del Piano casa berlusconiano a tutto il territorio.
Del resto, a capo dell’associazione dei comuni italiani siede Piero Fassino, esponente Pd, ed è stata proprio l’Anci a chiedere di escludere dalla tutela le aree di completamento urbanistico «anche future»! Altro che riduzione del consumo di suolo: è il trionfo della speculazione edilizia, come conferma la relatrice di maggioranza Chiara Braga (Pd) che per difendersi dalle critiche ha detto che non bisogna «mortificare l’iniziativa privata». Brava. Se ne sentiva davvero il bisogno perché la deregulation dura da oltre due decenni e a furia di non mortificare l’iniziativa privata sono stati cancellati diritti dei cittadini ad avere città vivibili e territori tutelati.
Da pochi giorni è uscito un volume prezioso – «Viaggio in Italia, le città nel trentennio liberista» (ed. manifestolibri) – che narra gli scempi compiuti in molte città italiane sulla base della cultura della deroga. Il predominio di pochi contro gli interessi di tutti che ha portato ad un eccesso di alloggi costruiti, alla conseguente riduzione dei valori immobiliari – salvo quelli di pregio – e alla demolizione del welfare urbano. La legge renziana approvata ieri dimostra che nonostante i fallimenti non si cambia cura: ancora ulteriore consumo di suolo e ancora nuove costruzioni.
Approvata da un Parlamento illegittimo, e per di più incompetente, una legge che, col pretesto della riduzione del consumo di suolo, non lo riduce affatto e in aggiunta favorisce la cementificazione plus delle aree già edificate. Un nuovo capitolo del "Rottama Italia". La Repubblica, 11 maggio 2016
Roma. Sette metri quadrati di terra fertile persi al secondo, 80mila ettari consumati dal 2012 a oggi, un’estensione pari a otto volte Parigi. I dati allarmanti dell’ultimo rapporto Ispra (Istituto superiore di ricerca ambientale) dimostrano che il nostro Paese ha un livello di consumo di suolo tra i più alti in Europa, nonostante le caratteristiche orografiche del territorio e l’elevato rischio idrogeologico. Ma se negli ultimi trent’anni sono stati divorati 5 milioni di ettari di terreni agricoli, una media di 80 campi da calcio al giorno, evidentemente il cemento ha avuto la meglio.
«Presentato nel 2014 con l'accordo tra associazioni e politica il testo definitivo va in aula il 3 maggio. Ma ha subito una profonda revisione che premia chi erode ancora territorio». Il Fatto Quotidiano online, 2 maggio 2016 (p.d.)
Il terreno “consumabile”, di fatto, è stato ampliato a colpi di definizioni: non si considerano più, ad esempio, “superficie agricola” gli spazi destinati a servizi pubblici come scuole, fermate dell’autobus, strutture sanitarie. Le miniere non vengono più considerate consumo di suolo e nemmeno le grandi opere della legge Obiettivo. Quelle potranno continuare a divorare terreno vergine senza intaccare minimamente le statistiche di consumo di suolo in Italia. Un testo, quello che arriverà in Aula martedì, che il costituzionalista Paolo Maddalena, ex vicepresidente della Consulta, aveva definito al fattoquotidiano.it, “incostituzionale”, oltreché illogico.
Come se non bastasse, il 19 aprile è arrivato l’ultimo colpo di spugna: con un emendamento è stato cancellato un comma intero (il 3 dell’articolo 5) che conteneva il vincolo che avrebbe spinto i Comuni a rendere più oneroso costruire su terreni inedificati e più vantaggioso intervenire per riqualificare il patrimonio edilizio già esistente. Ogni Comune, in altre parole, avrebbe potuto decidere come giocare con le aliquote secondo le proprie esigenze. Secondo la commissione bilancio questo meccanismo era incostituzionale, perché avrebbe intaccato la casse comunali. Secondo il M5S era vero giusto il contrario. “Quel comma – fa sapere al fattoquotidiano.it Massimo De Rosa, membro della commissione ambiente nonché primo firmatario della proposta di legge poi confluita all’interno del testo unico – proponeva di limitare il consumo di suolo, facendo in modo che i Comuni rendessero più conveniente riqualificare l’esistente, piuttosto che investire in nuove costruzioni”. Ma nulla: il comma è sparito. E tutti i “poteri” finiscono in mano al Governo. “Si tratta – continua De Rosa – dell’ennesimo tentativo della maggioranza di svuotare di significato un testo nato per salvaguardare i territori dal cemento, e che invece adesso strizza in più passaggi l’occhio a speculatori del mattone e palazzinari. Il Pd chiede nei fatti una deroga sconfinata per poter decidere dove come e chi far costruire in futuro e un amnistia per quanto riguarda gli scempi passati e quelli attualmente in programma”.
Le stesse associazioni ambientaliste adesso, come detto, prendono le distanze dalla loro “creatura”, con tanto di appello inviato a tutti i deputati. “Nel ribadire l’urgenza di una legge efficace, fondata su principi giusti, rigorosi e condivisi – si legge – le chiediamo, di nuovo, di impegnarsi personalmente perché nel testo che state per discutere vengano inseriti dispositivi essenziali per compiere un decisivo passo verso una inversione di rotta non più procrastinabile. Se non lo ritiene possibile, piuttosto che approvare una legge del tutto inadeguata allo scopo che si propone, le chiediamo di fermarsi, per tornare a lavorare ad un nuovo ed efficace impianto legislativo sulla scorta di quanto proposto dal Forum Salviamo il Paesaggio, così da dimostrare al Paese la volontà di voler davvero arrestare, anche se in modo progressivo, il consumo di suolo”.
Non è detto, tuttavia, che questo testo abbia strada spianata. Ncdinfatti non vuole portarlo in aula e chiede di rinviarlo ancora. A questo si aggiunge la “contrarietà” dell’Anci che solo ora, a pochi giorni dall’arrivo in Aula, ha prodotto una nota di sei pagine elencando tutte le sue perplessità. L’associazione guidata da Piero Fassino chiede di modificare (ancora) la definizione di “superficie agricola”, di semplificare il calcolo delle quote di suolo consumabili e di prevedere una norma di raccordo tra il ddl e la normativa. Secondo Agricolae i timori dell’Anci sono riconducibili agli investimenti edilizi sul territorio che “sembrerebbe constino di circa un miliardo di euro in pancia alle banche”. Soldi e risorse che potrebbero essere messi a rischio proprio dall’approvazione della legge sul Consumo del suolo.
Riferimenti
La posizione pesantemente critica di eddyburg sulla proposta legislativa oggi in discussione, sul suo impianto e sulla sua assoluta inefficacia ai fini del blocco del consumo di suolo inutile è stata argomentata più volte. Vedi per tutti l'eddytoriale 169 e i numerosi testi ivi collegati
Cambiano le priorità a Rivalta di Torino: si tagliano le previsioni di espansione e si punta sulla tutela del paesaggio e delle attività agroalimentari, sulla mobilità dolce e sul recupero del centro storico e degli edifici inutilizzati. Reticula, n.8 2016 (m.b.)
Si è proceduto ad un confronto con i principali operatori del territorio proponendo una riduzione della capacità edificatoria prevista, in cambio di una maggiore flessibilità delle destinazioni di uso. Nel novembre 2013 l’Amministrazione ha lanciato un bando pubblico per raccogliere richieste di rinuncia alle destinazioni residenziali previste dal Piano di proprietari di aree agricole. La proposta, inusuale nel panorama economico e culturale italiano, caratterizzato dalla convinzione che la migliore valorizzazione dei suoli sia quella che comporta l’edificazione, ha raccolto l’adesione di una decina di proprietà per un totale di più di 30.000 mq. di superficie fondiaria. Tale risposta è dovuta all’inasprirsi della tassazione sulle aree fabbricabili e alla crisi del settore edilizio, ma ha risentito anche, almeno in parte, di una svolta culturale che vede nell’eredità di un terreno verde qualcosa di più importante di una costruzione.
Riferimenti
In eddyburg sono disponibili più di 170 articoli sul consumo di suolo, in parte raccolti nel nuovo sito, e in parte nel vecchio sito.
Per orientarsi, è utile partire da questa visita guidata.
Quel che c'è da sapere sul consumo di suolo, attraverso gli articoli e i documenti pubblicati in eddyburg.it. Intervento alla rassegna Leggere la città, Pistoia, 9 aprile 2016.
A oggi, l’esame procede senza correzioni migliorative. Salviamo il Paesaggio ha formulato una meritoria proposta di modifica e integrazione del disegno di legge, ma, come afferma giustamente Eddyburg, prima si mette una pietra su quel documento meglio è.
Demistificare le frottole, criticare l’uso perverso dei fatti ridotti a luoghi comuni, fare insomma controinformazione è parte del lavoro di eddyburg. Il problema della Campania non è l’agricoltura inquinata ma la mancanza di una politica decente per l’area metropolitana di Napoli
Un po' di tempo fa Salzano mi ha chiamato da Johannesburg, per chiedermi come stavo, e come andavano le cose in Campania. Nel tempo ho imparato che le imbeccate di Eddy, da qualunque parte del mondo provengano, giungono di solito al momento giusto. Con gli amici di eddyburg vorrei allora condividere una riflessione, probabilmente non scontata, sulla lezione appresa con la crisi della Terra dei fuochi, una faccenda che ho dovuto seguire da vicino.
Sebbene il tema fosse all'attenzione pubblica da un decennio (l'espressione "Terra dei fuochi" appare per la prima volta in un rapporto Legambiente sulle ecomafie del 2003, nel 2006 la usa Saviano come titolo dell'ultimo capitolo di "Gomorra") la tempesta mediatica scoppia nell'estate 2013, con l'intervista rilasciata a SkyTG24 da Carmine Schiavone, il faccendiere del clan dei Bidognetti, che racconta in prima persona i seppellimenti dei rifiuti speciali, tossici, radioattivi. L'impatto sull'opinione pubblica è enorme, con il flusso ininterrotto di reportage giornalistici che veicola, per lo più in forma implicita, un racconto che potremmo riassumere così: nella piana campana, per un quarto di secolo, sono arrivati rifiuti da ogni dove, che sono stati interrati un po' in giro. I suoli e le acque si sono contaminati. Le colture agricole praticate su quei suoli e irrigate con quelle acque si sono contaminate anch'esse. Il consumo di quei prodotti ha causato un aumento delle malattie tumorali nelle popolazioni locali. Questo schema viene dato per scontato, non è il caso di metterlo in discussione, pena l'accusa infamante di "negazionismo". Così, il capro espiatorio diventano gli agricoltori della piana campana, o più precisamente dell'intera regione. Nei negozi iniziano a comparire cartelli del tipo "Qui non si vendono prodotti campani". Il governo emana l'ennesima legge speciale per l'area napoletana, il decreto "Terra dei fuochi", un dispositivo barocco il cui obiettivo è l'individuazione delle aree agricole contaminate, da sottoporre a interdizione.
In questi tre anni, con un gruppo di lavoro di un centinaio di persone, ho lavorato anch'io al sistema dei controlli, che hanno impegnato Università, Servizio sanitario nazionale, Istituto superiore di Sanità, Istituto Zooprofilattivo per il Mezzogiorno. La piana campana è stata passata al setaccio - acqua, suoli, prodotti agricoli - migliaia di campioni, un enorme data base territoriale, che non ha in questo momento riscontro in nessuna pianura d'Europa. Lo stato di salute dei suoli agricoli della piana campana, è risultato simile a quello delle altre pianure italiane ed europee a comparabile grado di antropizzazione (sulla piana campana vivono quattro milioni di persone, è la terza area metropolitana del paese). I livelli più elevati di berillio, arsenico, manganese, sono legati al valore naturale di fondo, alla natura vulcanica dei suoli. Dei circa seimila campioni di prodotti agricoli esaminati, non uno è risultato contaminato, difforme dai severi limiti di legge. Il gruppo di lavoro governativo, istituito con il decreto Terra dei fuochi, ha identificato alla fine una quarantina di ettari che non andavano, sui centomila monitorati.
Certo l'acqua della prima falda, come in pianura padana, non è proprio pulita, ma le ricerche rigorose dell'Istituto superiore di sanità hanno confermato che l'uso agricolo di quelle acque non crea nessun problema alle produzioni. Come accade da dodicimila anni, l'agricoltura e il sistema suolo-pianta continuano a funzionare come "filtro" della società, grazie meccanismi efficienti di bloccaggio, detossificazione, assorbimento selettivo. D'altro canto, a scala mondiale, la FAO da vent'anni promuove la campagna per l'uso irriguo delle acque reflue, considerato che l'acqua pulita serve per far bere gli uomini.
Sul fronte sanitario, si scopre poi che, grazie al lavoro valoroso di Mario Fusco, epidemiologo dell'ASL Napoli 3, la piana campana ha uno dei registri tumori più longevi d'Italia, con le serie storiche di dati che dicono una cosa diversa dallo schema ufficiale. L'incidenza (il numero di nuovi casi che si verificano ogni anno su 100.000 abitanti) delle principali malattie tumorali nella piana campana, come avviene nelle altre parti d'Italia è in discesa, ed è in linea con le medie nazionali. All'opposto, la mortalità è di alcuni punti superiore. Insomma, nella cosiddetta Terra dei fuochi ci si ammala allo stesso modo, ma si muore di più, ed allora il discorso è completamente diverso, e chiama drammaticamente in causa le prestazioni del servizio sanitario nazionale e le politiche di assistenza alla persona.
Insomma, il teorema che giornali e telegiornali di mezzo mondo hanno propagandato come fatto certo, non ha retto sino ad ora la prova delle verifiche, si è rivelato del tutto infondato. Sia chiaro, nessuno intende negare la verità dei fatti giudiziari accertati. Stiamo solo dicendo che le conseguenze ecologiche di quei fatti non sono corollari, deduzioni letterarie che è possibile fare a tavolino. Lo stato di salute degli ecosistemi si misura sul campo, con le tecniche e i metodi appropriati, altrimenti è medioevo. Dopo tre anni di clamore, scopriamo quello che sapevamo già: i venti milioni di tonnellate di rifiuti giunti nella piana campana, sono finiti nelle 6 grandi discariche che in questo quarantennio hanno funzionato tra Napoli e Caserta. La loro superficie è di 400 ettari scarsi, comprese le pertinenze e le zone tampone, sui 140.000 ettari della piana. La loro perimetrazione è stata fatta a scala catastale da un decennio, nel piano regionale delle bonifiche, che ne prevedeva la messa in sicurezza, e che è rimasto lettera morta.
La cosa che ho cercato di far comprendere in questi anni, alla fine, è che il problema non sono le bonifiche (che in Italia vanno a finire male, sarebbe meglio puntare alla messa in sicurezza), ma il governo dell'area metropolitana: questo mosaico rur-urbano sconnesso nel quale vivono come possono quattro milioni di persone, e all'interno del quale lo spazio agricolo, seppur frammentato e intercluso, costituisce ancora, nonostante tutto, la porzione dominante, il sessanta per cento della superficie territoriale complessiva. In questo spazio precario attorno alla città, operano quasi quarantamila aziende agricole, che producono, su una assai limitata porzione del territorio, metà quasi del valore aggiunto agricolo regionale. La mortificazione immotivata di questa agricoltura di presidio, che ha dovuto svendere nell'anonimato in questi ultimi anni le sue pregiate produzioni, la chiusura di queste aziende, creerebbe un immane deserto economico e sociale, ed è proprio quello che i poteri criminali si augurano.
Insomma, il motore dell'agricoltura campana, una delle più importanti del paese, è ancora qui. Certo, si tratta di un'agricoltura invisibile, non considerata dalle politiche e dai programmi istituzionali, perché in fondo la sua funzione deve rimanere quello di spazio disponibile per l'espansione urbana, area di risulta per tutte le attività che la città respinge. Su queste terre nere, le più fertili dell'universo conosciuto, il consumo di suolo in epoca repubblicana non ha conosciuto requie, con le città della piana che dalla metà del '900 hanno sestuplicato la loro superficie, in un processo che non conosce fine, se le aree urbanizzate sono ancora raddoppiate nell'ultimo trentennio, come effetto dell'onda lunga della ricostruzione seguita al sisma del 1980.
Insomma, se veramente vogliamo agire, dobbiamo partire da una lettura completamente differente della crisi. Aprire gli occhi su un'area importante, il terzo sistema metropolitano del paese, nel quale nonostante l’immane spreco di suoli e paesaggi si concentra larga parte del disagio abitativo nazionale, mentre mancano all'appello attrezzature collettive e aree verdi per un'estensione pari a seimila campi di calcio . Un colossale deficit di cittadinanza, che si concreta nella drammatica carenza di tutti i servizi essenziali dai quali dipende la qualità del vivere quotidiano, dall'acqua, ai rifiuti, all'istruzione, alla mobilità, all'assistenza e alla cura della persona. Anche di tutte queste cose, alla fine, si muore.
Nella sua dimensione di spazio di vita, questo territorio scombinato, fatto di spazi agricoli e poveri pezzi di città, è l'ambiente nel quale vivono i due terzi della popolazione metropolitana, che ha oramai identificato proprio in questo disordine, nella fatica del vivere quotidiano che esso comporta, la principale minaccia alla propria esistenza e al futuro. La crisi della Terra dei fuochi sta tutta qui, nell'atteggiamento di complessivo rifiuto di un habitat percepito come ostile, a partire proprio dalle sue componenti rurali, considerate in un simile contesto alla stregua di insidiose fonti di rischio.
Così come in maniera ostile viene vissuto il rapporto con il capoluogo, ritenuto storicamente incapace di esercitare una leadership e una rappresentanza di scala territoriale, e piuttosto accusato di aver sacrificato ai propri interessi la green belt della piana, alla stregua di uno spazio di risulta, privo di valore autonomo, nel quale disordinatamente collocare funzioni ingrate, pesi molesti, scarti indesiderati
Risulta evidente come, a fronte di questa difficile eredità, la città metropolitana che stentatamente si costituisce al posto della vecchia provincia, debba a questo punto funzionare come spazio istituzionale e obbligato di confronto, l’ultima chance per mettere mano ad un’agenda seria e urgente di riequilibrio territoriale ed ambientale, a un’alleanza nuova tra il capoluogo e i territori dell’hinterland. Il progetto è chiaro: se in altri contesti nazionali ed europei la costruzione di istituzioni metropolitane è funzionale all’armonizzazione di scala superiore di una dotazione comunque congrua di servizi e funzioni, qui nell'area napoletana la cosa è diversa, e alla città metropolitana è assegnato il compito, verrebbe da dire la missione impossibile, di restituire dignità ai contesti, di dotare finalmente un sistema territoriale congestionato e sofferente degli standard minimi di cittadinanza e civiltà, che un cinquantennio di non-governo, centrale e locale, non è riuscito a garantire. E, naturalmente, mettere in sicurezza le ferite localizzate che un irrisolto ciclo dei rifiuti ha inferto al territorio e ai paesaggi.
La dimensione del problema è evidente, e vale ancora purtroppo l'esortazione del vecchio Nitti, a considerare «.. il problema di Napoli non altrimenti che come un grande problema nazionale, come un problema che tutta la nazione ha il dovere di affrontare e dichiarando lealmente che se sacrifizi occorrono, occorrono pure da ogni parte».
Approfittando della stagnazione degli affari (salvo quelli che riguardano gli armamenti) le previsioni sballate dei piani regolatori si possono correggere, e cancellare aree d'espansione inutili. Un paio di esempi. La Stampa, 10 marzo 2016
Sembra la brillante trovata per un fumetto di Topolino, ma via Cemento Armato esiste davvero. A Desenzano, sul lago di Garda. Istituita negli anni del boom edilizio, questa stradina contornata di villette, giardini e complessi residenziali con piscina è un simbolo dell’espansione immobiliare che fu, con valori di 10 mila euro al metro quadro alimentati dagli acquirenti tedeschi.
Nel 1971 Desenzano aveva 10 mila abitanti; nel 2012 sono 28 mila, quando a ridosso delle elezioni viene approvato un piano regolatore che prevede centinaia di migliaia di nuove costruzioni. La nuova giunta chiama come assessore all’urbanistica Maurizio Tira, docente universitario a Brescia. Il professore fa due conti: in città ci sono 2500 alloggi invenduti, ma il nuovo piano ne prevede per ulteriori 3 mila abitanti. Così in sei mesi blocca il piano e poi ne scrive uno nuovo «a consumo di suolo zero». Una rivoluzione che vuole concludere con «un atto simbolico»: la proposta di cancellare via Cemento Armato, «diventata un anacronismo culturale e toponomastico».
A pochi mesi dalla fine del mandato, Tira ha raccontato la sua esperienza in un convegno sulla riduzione del consumo di suolo a Rivalta, cittadina dell’hinterland torinese, in cui amministratori pubblici ed esperti hanno fatto il punto su buone pratiche, modelli internazionali, ostacoli giuridici e politici. Negli ultimi anni la crisi e una nuova sensibilità hanno alimentato il dibattito. «Anche l’enciclica papale Laudato si’ incrocia il tema», spiega Paolo Pileri, docente al Politecnico di Milano e autore del libro «Che cosa c’è sotto. Il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo», di cui Altreconomia sta pubblicando un’edizione aggiornata. Pileri tiene un corso unico in Italia: con gli studenti «smonta e rimonta» i veri piani regolatori, «riscontrando previsioni demografiche superiori alla dinamica reale con punte del 60%».
Come Desenzano, anche Rivalta è un caso paradigmatico. Anche qui nel 2011 viene approvato un piano regolatore basato su una prevista crescita demografica, del tutto irrealistica, di 7 mila abitanti sui meno di 20 mila attuali. Poi vince le elezioni una lista civica ambientalista, chiamando come assessore Guido Montanari, docente di architettura al Politecnico di Torino.
Il cambio di filosofia è radicale - dal consumo di suolo agricolo alla sua tutela - ma l’approccio è pragmatico, distinguendo sulla base di criteri ambientali, paesaggistici, economici e giuridici. Ne nasce una variante al piano regolatore che elimina le edificazioni dove possibile e ne riduce l’impatto dove ci sono progetti in itinere. Risultato: edificabilità dimezzata, cancellate colate di cemento per 2 mila abitanti, salvati 30 ettari di suolo vergine, finanze comunali sane nonostante il crollo di entrate da oneri di urbanizzazione da 2,5 milioni a 600 mila euro l’anno, contenziosi giudiziari pressoché nulli. E soprattutto dieci proprietari che unilateralmente rinunciano ai diritti edificatori su 3 ettari di terreni, preferendo il verde al grigio.
«Il suolo consumato è oltre il 7% della superficie, mentre la media europea è poco più del 2%. Sono dati che mostrano una prepotenza dell’urbano sul rurale, un dilagare di funzioni non agricole». AT Altra Toscana, blog delle città, febbraio 2016
La vera crisi – ebbe a dire anni fa Salvatore Settis – è quella del paesaggio, che invece dovrebbe essere considerato la vera risorsa italiana, una risorsa apicale che comprende tutte le altre, come ha scritto Carlo Tosco. Settis e Tosco sono tra i massimi studiosi del paesaggio, ma basta guardarsi intorno e riflettere su quanto sta avvenendo nelle singole regioni o province per rendersi conto della ferite che continuiamo a infliggere al territorio e ai danni che stiamo facendo alla nostra stessa economia, basata essenzialmente sul patrimonio territoriale.
I dati a livello nazionale sono drammatici: il nostro paese ha un livello di consumo di suolo tra i più alti d’Europa. Secondo il Rapporto ISPRA 2015 il suolo consumato è oltre il 7% della superficie, mentre la media europea è poco più del 2%. Sono dati che mostrano una prepotenza dell’urbano sul rurale, un dilagare di funzioni non agricole nei campi, la perdita di un confine identitario che permetteva un dialogo reciproco tra città e campagna. Ora, chi è restato nei propri ambienti non li riconosce più, né è capace di trasmettere alle nuove generazioni la memoria dei luoghi, ma al massimo la malinconia, quando non l’angoscia o lo smarrimento, nell’omologazione di paesaggi tutti uguali e quasi sempre senza i connotati della bellezza e dell’armonia. E anche l’economia e il lavoro ne risentono negativamente: non di rado le zone con più capannoni e cemento sono anche quelle con più disoccupati o con più lavoro precario. Si tratta di un fenomeno che ci spinge anche a chiederci quanto cibo in meno è stato prodotto a causa della diminuzione della superficie coltivata.
Sepolti dall’asfalto e dal cemento per costruire strade, case, centri commerciali e capannoni industriali spesso rimasti vuoti, se ne sono andati negli ultimi trent’anni campi, pascoli e altri spazi rurali a vantaggio di uno sprawl che ha definitivamente rotto i confini tra l’urbano e il rurale, debordando nella campagna. L’abbandono e la cementificazione, che apparentemente sembrano due fenomeni opposti, hanno determinato in modo convergente una progressiva riduzione della superficie agricola, stravolgendo spesso gli assetti territoriali e paesaggistici. Dal 1956 al 2000 il consumo del suolo è passato da 8.700 a più di 21.000 chilometri quadrati, con un impegno pro-capite balzato da 170 a 340 metri quadrati; dopo il 2000 la situazione è ancora peggiorata, come dimostrano i rapporti annuali dell’ISPRA, l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione dell’ambiente. Tra le regioni più cementificate, in testa c’è la Lombardia che in 30 anni ha perso un decimo di tutto il territorio agricolo, ma le altre non ridono.
Che l’Italia stia perdendo terreni agricoli in un trend negativo e continuo è ormai un dato di fatto inconfutabile. Lo ribadisce il Ministero delle Politiche agricole in un dossier realizzato in collaborazione con Inea, Ispra e Istat (MIPAAF, 2012). Dagli anni ‘70, la superficie agricola utilizzata (SAU), che comprende seminativi, orti, arborati e colture permanenti, prati e pascoli, è diminuita di un terzo, da quasi 18 milioni di ettari a circa 11. Questo nonostante le caratteristiche ambientali e il valore paesaggistico del territorio italiano, che dovrebbero (o avrebbero dovuto) evitare l’espansione urbana in zone ad elevata fragilità ambientale e territoriale. La limitazione del consumo del suolo è, quindi, unitamente alla messa in sicurezza del territorio, una direzione strategica per l’Italia. Tutti lo dicono, ma nonostante le enunciazioni si continua a consumare suolo.
Questi dati suggeriscono inequivocabilmente che ci sarebbe bisogno di una inversione di rotta. Un sensibilità sempre più diffusa nella società spinge nella direzione di uno stop al consumo di suolo e anzi di una sua riduzione, come dimostrano i comitati nazionali e locali, sempre più diffusi, per salvare il paesaggio in nome della Costituzione italiana, che fissa tra i principi fondamentali la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione (articolo 9). Invece si va in direzione opposta, ostinata e contraria, miope e pericolosa. Dappertutto, anche in Toscana. Prendiamo l’esempio della Val di Cornia.
L’esempio della Val di Cornia
Questo lembo di Maremma, compreso tra il mare e le colline Metallifere, nella terra degli etruschi e dei borghi medievali, delle tradizioni minerarie e metallurgiche su un persistente sfondo rurale, ha conosciuto nel corso del ‘900 l’impatto dell’industria, massiccio ma centralizzato. Ad esso si è aggiunto in tempi più recenti un impatto più diffuso, legato essenzialmente a uno sviluppo edilizio progressivo, spesso immotivato e a volte puramente speculativo. Si tratta di un processo che non nasce oggi, che si è avviato concretamente negli anni ’60, in concomitanza con il boom economico. All’inizio ha preso la forma della costruzione di nuovi edifici all’interno e intorno ai centri urbani, snaturando la loro immagine. La pianificazione urbanistica è arrivata tardi a regolare e contrastare questo fenomeno, che tuttavia era spinto dalla crescita demografica ed economica. Quindi si poteva capire, in un certo senso e in quel dato contesto. Poi la popolazione ha smesso di crescere, ma il consumo di suolo è continuato senza sosta. Si è passati dall’espansione/ammodernamento dei vecchi paesi alle lottizzazioni fuori dai centri abitati, poi alle zone artigianali/industriali e commerciali, anch’esse collocate in zone rurali. Il piano strutturale della Val di Cornia, elaborato una decina d’anni fa, registra come tra anni '70 e '80 vi sia stato un significativo calo demografico a Piombino e nel resto dell’area, segno evidente di una prima crisi del sistema, ma a ciò non ha corrisposto un arresto del consumo di suolo, che anzi è aumentato; i venti anni successivi vedono in tutti i Comuni un ulteriore incremento dell’occupazione di suolo a fini residenziali, produttivi e turistici (Circondario della Val di Cornia, Piano strutturale d’area. Relazione generale, febbraio 2007, p. 224).
A differenza di quanto era avvenuto negli anni '60 e '70, questo processo di edificazione della campagna (dalle lottizzazioni, alle zone artigianali e commerciali, alle residenze turistiche), intensificatosi a cavallo del 2000, si è svolto essenzialmente entro un quadro di stasi o addirittura di declino demografico e di rallentamento della crescita economica. Ciò significa che si è consumato più suolo quando ce n’era meno bisogno, come dimostrano i grafici relativi ai due comuni principali, Piombino e Campiglia Marittima, così come rilevato dalle analisi dell’ultima pianificazione urbanistica intercomunale:
(vedi figure 1 e 2 in fondo)
Si vede bene il paradosso della forbice: meno popolazione, più consumo di suolo. Una forbice che ha tagliato risorse e opportunità di sviluppo, il contrario di quanto vanno dicendo i propugnatori di una modernità stanca e di un illusorio e spesso ideologico sviluppismo. Il consumo pro-capite di suolo ha significato in primo luogo alterazione del paesaggio, frattura del consolidato equilibrio tra città e campagna, nuovi costi ambientali in termini di uso delle risorse naturali, ridefinizione delle identità sociali. Ne derivano danni all’agricoltura e al turismo, che invece dovrebbero rappresentare il primario orizzonte di rinascita per un’area a declino industriale.
La situazione non è omogenea e tale diversificazione ci offre l’opportunità di capire quale dovrà essere il modello di riferimento per il futuro: se quello delle zone più intensivamente urbanizzate come Piombino, Venturina e San Vincenzo, oppure quelle che hanno mantenuto una maggiore disponibilità di patrimonio territoriale autentico come Suvereto, Campiglia, Castagneto Carducci o Sassetta. Sono ancora i dati ISPRA che ci indicano il quadro oggettivo della situazione: Piombino e San Vincenzo presentano un tasso di consumo di suolo superiore alla già elevata media nazionale; anche Campiglia è sopra la media, ma qui il dato andrebbe scomposto perché il consumo abnorme di suolo riguarda soprattutto Venturina. Suvereto, Sassetta e Castagneto, subito a nord della Val di Cornia, nettamente più virtuosi con un consumo di suolo ben al di sotto della media italiana.
(vedi figura 3 in fondo)
Eppure anche qui, proprio nei comuni a più elevato consumo di suolo, si va in direzione contraria. L’ultimo esempio? A Venturina, nella bella e fertile campagna a est della Monaca, minacciosi cartelli e recinzioni annunciano la costruzione di nuovi capannoni. Praticamente si apre un altro fronte di espansione edilizia, con nuovi capannoni mentre ce ne sono altri che giacciono vuoti e semiabbandonati nello stesso territorio comunale, esattamente come in tante altre parti d’Italia.
Uno scempio inutile e vano, campi fertili che se ne vanno e il paesaggio deturpato, perfino le pregiate colline retrostanti di Lecceto, del Palazzo Magona, di Villa Mussio e di Montesolaio (detta del Tavolino rovesciato), contenitori di residenze storiche e di agricoltura di qualità, risultano ferite da questi avulsi insediamenti ai loro piedi, frutto dell’impeto speculativo e da una idea anacronistica dello sviluppo economico. Non contenti, sono intanto in preparazione, per la stessa area, varianti urbanistiche che prevedono nuova occupazione di suolo con capannoni e centri commerciali, così oltre all’agricoltura morirà anche il piccolo commercio attivo nel vicino centro abitato di Venturina, cresciuto sui negozi e le attività di servizio alla popolazione del comprensorio e oggi annichilito dalla corona di centri commerciali che gli sono nati attorno. La strategia è sempre la solita, subdola e insipiente: acquisire le aree, abbandonare i campi, lasciarli incolti in attesa delle varianti per poi dire “che volete? Ormai sono tutti ceppite e terreni abbandonati”. No, erano i migliori campi della Val di Cornia, suoli fertili e sciolti di natura alluvionale, nei quali – dicevano i contadini del posto - ci verrebbe il pepe. Ora crescono qui piantagioni di cemento, freddi alberi senza frutti, trasformazione irreversibile del territorio e del paesaggio, pezzi di Maremma che se ne vanno per sempre.
Una tale analisi deve costituire la base per ragionare su un nuovo modello di sviluppo, che parta dalle vocazioni autentiche di un’area, dal patrimonio territoriale, dai valori storico-ambientali e dalla partecipazione sociale, che non riproponga i vizi di quell’economia speculativa che si è progressivamente sostituita all’economia produttiva alimentando il paradosso della forbice, generando degrado e disoccupazione, spaesamento e perdita di fiducia. L’area presa in esame è solo un esempio, da cui si possono trarre indicazioni utili per una importante e decisiva questione nazionale: quella del consumo di suolo e delle ferite inferte al paesaggio, vere e irrinunciabili risorse del Bel Paese.
Rossano Pazzagli insegna storia moderna e storia del territorio all’Università del Molise, fa parte della Società dei Territorialisti, è direttore della Summer School sul paesaggio agrario presso l’Istituto Alcide Cervi.
Seconda parte del lavoro su Pisa che si propone di seguire passi indispensabili per cambiare cose che non funzionano come vorremmo: analizzare, denunciare, proporre. Significa anche sbugiardare bugiardi e tagliare le unghie ai rapaci. La citta invisibile, rivista online, 25 gennaio 2016
E’ interessante vedere a chi appartengono gli immobili totalmente abbandonati nel comune di Pisa. Il 61% (146mila mq) è di proprietà pubblica, mentre il restante 39% (93mila mq) è di proprietà privata.
Tra i nomi dei proprietari privati spiccano, tutti già fin troppo ricorrenti nelle cronache locali, il costruttore Bulgarella, la famiglia Pampana, la multinazionale J Colors proprietaria dell’ex colorificio. Tra i soggetti pubblici, ecco quelli meno virtuosi: a farla da padrone è il Comune di Pisa che possiede circa 97mila mq delle aree completamente abbandonate all’interno del comune stesso (il 66% di tutto il comparto pubblico), seguono l’Università e l’Azienda Ospedaliera.
Dal confronto con i dati censiti nel 2012 emerge un altro dato inconfutabile. Negli ultimi sei anni le aree abbandonate sono aumentante dell’11%, di cui 7,5% solo negli ultimi 3 anni. E di questo aumento sono responsabili esclusivamente le amministrazioni pubbliche, in particolare il Comune di Pisa che ha contribuito a creare la metà delle più recenti superfici abbandonate. Siamo di fronte alla necessità di un serio controllo del territorio finalizzato alla prevenzione di questi fenomeni responsabili del degrado urbano.
Tra il 2012 e il 2015 numerose sono state le azioni nate dal basso per la riqualificazione e il recupero di grandi aree della città: dall’ex Colorificio, alla Mattonaia, al Distretto 42: tutte azioni represse e sgomberate per lasciare nuovamente queste aree al degrado e soprattutto alla speculazione. A contrasto si nota la stesura di veri e propri tappeti rossi da parte dell’amministrazione comunale ai costruttori, con l’effetto di avere oggi decine di scheletri in cemento che non verranno completati: dalle Torri di Bulgarella all’ex-Draga della ditta Rota fallita negli scorsi mesi. Un danno urbano che ricadrà interamente sulla comunità, visto lo scandalo emerso recentemente che ha mostrato come, a garanzia di lavori di urbanizzazione mai fatti, siano state accettate fideiussioni fasulle e inutilizzabili. Tutto questo in una città che nell’occasione dell’alluvione avvenuta il 24 agosto scorso ha evidenziato una estrema fragilità sul piano del rischio idraulico.
L’unica cosa sensata sarebbe smettere di costruire, recuperando il patrimonio inutilizzato. E invece, mentre per i privati la strategia è attendere che arrivi la giusta variante urbanistica, con tempi di attesa incomparabili rispetto alla vita dei cittadini e delle cittadine comuni, per gli enti pubblici l’imperativo è vendere per “valorizzare”, secondo un meccanismo che di fatto fa sì che si moltiplichino le aste pubbliche deserte fino a che, pur di vendere in qualche modo una parte del proprio patrimonio, le cifre vengono abbassate e gli immobili svenduti tramite poco trasparenti trattative private.
Negli ultimi anni la direzione presa dagli enti locali è stata quella di adottare piani faraonici di vendita che stanno cambiando il volto di Pisa: si cerca di vendere l’area dell’ex ospedale S. Chiara, si vendono - o meglio si permutano - le caserme e lo stadio, il Palazzo dei Trovatelli e quelli delle Gondole, e ancora Palazzo Mastiani in Corso Italia, la Mattonaia dietro Borgo Stretto, per non parlare del recente caso del Palazzo ex-Telecom, dietro alla sede del Comune.
A novembre l’amministrazione comunale ha preso formalmente atto che il progetto che riguardava le caserme è definitivamente fallito: però solo dopo aver bocciato pochi mesi prima un progetto partecipato di recupero e riutilizzo dell’ex distretto militare, costruito dai cittadini del quartiere e da numerose associazioni del territorio. Ci chiediamo se ora sarà possibile riaprire la discussione sul futuro dell’area o l’amministrazione perseguirà miope le proprie fantasie speculative sulle villette di lusso.
Investire nel mantenimento dell’esistente, invece di creare nuovi volumi, è sempre più necessario: dai crolli nelle scuole ai danni provocati dall’alluvione nell’ex-convento di grandissimo pregio Fossabanda, dai soldi spesi per bonificare l’area intorno alla Mattonaia in pieno centro allo scempio delle Torri di Bulgarella, emerge in maniera evidente il quadro di un sistema che non funziona più.
Molteplici sono le proposte di immediato riutilizzo degli immobili, sia a scopo abitativo residenziale di cittadinanza e corpo studentesco, che a fini sociali e culturali, che abbiamo sottoposto alla discussione pubblica ma che finora l’amministrazione ha sempre ignorato evitando in ogni modo i confronti di merito.
E per tutti i terreni per i quali resta la destinazione edilizia: è legittimo che i diritti edificatori siano intangibili anche quando le necessità di un Comune cambiano? Il soggetto pubblico, che pure è titolare e sorgente della potestà sul territorio e sull’uso dei suoli non mette in discussione, per prassi, il diritto a costruire che ha già rilasciato. Infatti, le imprese e le banche che si sono esposte per i loro investimenti operano sostanzialmente un ricatto, in nome della salvaguardia dell’occupazione. Un ricatto sterile visti questi dati incontrovertibili: dal 2002 al 2014 la città ha perso il 10% della popolazione attiva, si è allargata in maniera impressionante la forbice reddituale con una tendenza costante indipendentemente dalla crisi conclamata del 2008, ed è evidente infine un aumento del tasso di disoccupazione che è passato dal 3,5 % del 2006 al 8,3 % del 2014.
Allora ci chiediamo che vantaggio abbiano portato alla comunità le centinaia di milioni investiti sul territorio per nuove costruzioni. Eppure il pubblico, in qualche modo soggiogato dagli interessi privati, continua a favorire la speculazione, rinunciando di fatto ad esercitare la propria funzione costituzionale di decisore sull’uso del suolo.
A Pisa però abbiamo visto che dal basso è necessario e possibile agire: la battaglia condotta e vinta dai cittadini e dalle associazione ambientaliste per imporre la previsione del Parco Urbano di Cisanello è stato forse uno dei primi casi di messa in discussione di principio di intangibilità dei diritti edificatori. Ancora una volta la concreta realizzazione è ferma a causa della colpevole inerzia dell’amministrazione.
Noi non ci scoraggiamo, la battaglia contro il consumo di suolo e per il recupero del patrimonio esistente non si ferma: è possibile, oltre che necessario proseguire su questa strada.
QUI la prima parte dello studio
Roma. Rischia di impantanarsi di nuovo il Ddl sul consumo di suolo. La discussa riforma che punta a ridurre la realizzazione di nuove costruzioni e a incentivare la rigenerazione urbana, dopo l’approvazione in commissione a fine ottobre, pareva a un passo dal traguardo. Sulla sua strada, però, si è appena messo un durissimo parere della commissione Cultura di Montecitorio che, di fatto, chiede di riscrivere il provvedimento in una ventina di passaggi. I deputati, recependo indicazioni del ministero dei Beni culturali, sottolineano i «profili assai problematici» della legge: non è coordinata con le regole sui piani paesaggistici regionali ma, soprattutto, mette sulle spalle degli enti locali un carico organizzativo giudicato eccessivo. Per il testo, atteso in aula per il mese di marzo, pare profilarsi l’ennesima riscrittura.
La prima parte di un lavoro su Pisa che si propone di seguire i tre passi indispensabili per cambiare le cose che non funzionano come vorremmo: analizzare, denunciare, proporre. Che significa anche sbugiardare i bugiardi e tagliare le unghie ai rapaci. La citta invisibile, rivista online, 11 gennaio 2016
Le aree utilizzabili nel mondo per la produzione di cibo (senza necessità di sistemazioni idrauliche e altre sistemazioni agrarie, e senza irrigazione) coprono circa l’11% delle terre emerse, e sono le stesse che vengono scelte per costruzioni e infrastrutture: così oggi produzione di cibo e consumo di suolo sono in diretta concorrenza, a scapito della produzione di cibo. In particolare nel nostro Paese, che non è in grado di garantire la sicurezza alimentare: siamo in grado di produrre cibo solo per circa l’80% della popolazione italiana e, secondo il Sustainable Europe Research Institute, l’Italia è il 3° paese in Europa e il 5° nel mondo per deficit di suolo agricolo.
A fronte di questi inequivocabili dati, oggi a qualunque livello di governo, si proclama la necessità di fermare il consumo di suolo e bloccare le previsioni di nuove costruzioni. Certo, fatte salve le “dovute, necessarie eccezioni”. Di fatto, i processi economici che spingono ad investire sul mattone e che sono strettamente connessi ad un’economia finanziaria basata sulla rendita, non solo non si sono arrestati, ma in qualche modo si sono esacerbati. Perché, per “rimettere in moto l’economia” si ricorre di fatto ad ulteriore consumo di suolo, in contrasto con i proclami fatti. Quindi, data la gravità del fenomeno, è necessario porsi una domanda: quando si parla di “dovute, necessarie eccezioni” allo stop al consumo di suolo, cosa si sta davvero dicendo?
Pisa: un caso esemplare?
A Pisa abbiamo cercato di capirlo, aggiornando al 2015 i dati della campagna “Riutilizziamo Pisa”che fu condotta per la prima volta nel 2012. La mappa che identifica le aree abbandonate e gli immobili censiti è disponibile a questo link: https://goo.gl/Ws2qIv
Abbiamo trovato dati inquietanti e abbiamo sviluppato degli indici di valutazione i cui risultati non solo non restituiscono l’immagine di una pretestuosa rinascita della città, sbandierata ad ogni possibile occasione dall’amministrazione comunale, ma sono al contrario la prova che Pisa è schiacciata dal peso della speculazione e degli interessi privati. Le politiche del cemento e del consumo di territorio da un lato, e dell’abbandono di decine e decine di edifici pubblici e privati dall’altro, sono andati avanti, diventando via via più aggressive.
Pur trattandosi di una analisi non esaustiva, ma fatta principalmente sulle grandi aree, il primo dato calcolato è impressionante: circa 360mila metri quadrati sono aree abbandonate o parzialmente utilizzate, di cui 239mila completamente abbandonati. Per quanto elevatissimo il dato è sottostimato: andrebbe considerevolmente aumentato se contassimo tutte le aree abbandonate delle zone industriali (capannoni e ex uffici). Inoltre, non sono conteggiati gli alloggi sfitti di proprietà privata; in una città che ha solo circa 89.000 residenti, dal censimento del 2011 emergono 14.633 alloggi statisticamente vuoti, di cui circa 8.500 sono realmente vuoti (o affittati per brevi periodi per turismo – specie sul litorale -, o locati “in nero”) o inagibili da ristrutturare.
Come mai si continuano a prevedere nuove abitazioni quando già così tante in città non sono utilizzate? La variante di monitoraggio del piano regolatore che il Comune di Pisa ha approvato alla fine del 2015 non prevede che minimi tagli alle nuove edificazioni previste, a fronte delle numerose approvazioni di varianti per nuove aree a destinazione edilizia. Mantiene tutte le previsioni di sviluppo e nuovo consumo di suolo nella zona di Ospedaletto. Nonostante si propagandi una politica del recupero degli immobili, di fatto si prevedono una serie di abbattimenti e ricostruzioni, senza immaginare mai un vero e proprio riutilizzo del patrimonio esistente (segue).
Tiziana Nadalutti e Fausto Pascali, Municipio dei Beni Comuni
Spunti positivi ed esempi negativi a proposito sul consumo di suolo in Lombardia e sui tentativi di contrastarlo. Millennio urbano, 22 dicembre 2015
Alcuni recenti interventi normativi regionali e il disegno di legge nazionale non fanno ben sperare sulla concreta intenzione di porre in Italia un deciso limite al consumo di suolo. Del tema se ne era cominciato a parlare circa 15 anni fa: all’inizio tra addetti ai lavori, negli ultimi anni è diventato argomento di dominio pubblico. Ma paradossalmente, con la crescita di sensibilità sul tema, l’efficacia di azione si è andata affievolendo, fino a produrre norme che sembrano scritte per raggiungere risultati opposti rispetto agli obbiettivi dichiarati. In altre parole, procedure attuative farraginose, regole complesse, eccezioni ampie e poco definite creano incertezza interpretativa e spazio di manovra sufficiente per mantenere tutto come prima.
Ad integrazione di questo autorevole intervento provo qui ad aggiungere qualche dato e considerazione per capire cosa si potrebbe fare. Dopo avere visto per tre lustri tentativi vani di regolazione del consumo di suolo sono convinto che le radici del problema siano molto più profonde di quanto possa essere raggiunto con gli strumenti dell’urbanistica. La rendita di posizione produce profitti ingenti e facili, sui quali negli anni si sono consolidate prassi clientelari diffuse trasversalmente in tutti i settori della società, molto difficili da estirpare. Il consumo di suolo ha effetti non solo su ambiente e qualità della vita; produce degrado, congestione, inefficienze, finendo per indebolire i territori e i sistemi economici ad essi associati. Un problema grave quindi sul quale, anche se non si vede ora via d’uscita, si deve continuare a mantenere alta l’attenzione e a cercare una via di soluzione.
Esempi negativi
Salzano spiega le carenze del disegno di legge nazionale, e cita anche l’esempio negativo del progetto di legge n.390 della Regione Veneto sul consumo di suolo. Credo che a questi si debba aggiungere la LR 31-2014 della Regione Lombardia che nonostante il titolo – “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato” – sembra più che altro occuparsi di tutelare le aree già programmate, e gli interessi dei relativi proprietari, congelando la destinazione d’uso e impedendo di fatto di riclassificare come agricole le aree da tempo non attuate. Uno studio presentato ad inizio 2015 da Eupolis, centro di ricerca della Regione, mostra che negli attuali piani dei comuni ci sono aree programmate e non attuate per una dimensione superiore a 500 km2, ossia quasi 3 volte la dimensione del Comune di Milano.
La norma assegna al Piano territoriale regionale (PTR) il compito di definire le regole per la progressiva riduzione del consumo di suolo, ma le prime elaborazioni circolate in queste settimane mostrano una procedura molto complessa e farraginosa all’interno della quale non sarà difficile fare passare eccezioni utilizzando ogni forma di giustificazione. La legge Lombarda costituisce un’esemplare anticipazione di quello che in scala più ampia potrebbe accadere a livello nazionale se il disegno di legge sarà approvato.
Spunti positivi
Nel suo editoriale Salzano cita come esempio positivo le regole sul consumo di suolo inserite nella recente legge sul governo del territorio della Regione Toscana. La legge è molto interessante e innovativa, così come lo erano per i loro tempi le precedenti leggi Toscane del 1995 e 2005, le quali si sono però perse a livello locale per carenza di strumenti attuativi. Regole molto simili a quelle regionali erano già in modo lungimirante state inserite nel 2011 nella variante di un piano territoriale provinciale, che però non è mai arrivata ad approvazione. Vedremo se questa nuova norma produrrà risultati più concreti.
Un sistema di regole per molti aspetti simile a quello della normativa Toscana è incluso nel nuovo PTCP di Pavia, adottato nel 2013 e approvato nel 2015. Purtroppo la recente legge della Lombardia sul consumo di suolo (la sopra citata LR 31-2014) ne congela l’applicazione per un periodo di almeno tre anni, passato il quale le decisioni sull’attuazione saranno nelle mani dei comuni che dalla prossima estate entreranno negli organi di secondo livello della Provincia.
Oltre ad alcuni comuni, pochissimi, che hanno adottato una linea seria sul consumo di suolo, vanno segnalati i tentativi di molte province, che essendo un po’ più distanti dagli interessi locali, negli anni scorsi con i propri PTCP hanno cercato di regolare e contenere il dimensionamento eccessivo dei piani comunali. Nonostante i limiti all’azione dell’ente intermedio imposti dalle norme nazionali e regionali, alcuni di questi piani provinciali sono stati approvati e hanno prodotto interessanti risultati, che se non hanno fermato il consumo di suolo almeno hanno in parte frenato il debordare del fenomeno. Certo in molti casi le regole approvate con i piani sono poi state disattese nell’applicazione delle Amministrazioni, anche dello stesso colore, che sono succedute. In ogni caso si tratta di un complesso di esperienze utili alle quali riferirsi per sviluppare nuove strategie, anche analizzando gli errori del passato per superarli.
Tra i dati positivi va segnalata, importante, la sentenza del TAR Milano n.576/2015, che supera in efficacia sia le norme regionali che gli strumenti di pianificazione. Ad inizio 2015 ha completamente annullato il piano generale di un importante comune per incompatibilità con alcuni obiettivi del vigente PTCP (Piano territoriale di coordinamento provinciale), e tra queste l’eccesso di consumo di suolo in quanto “Le trasformazioni previste dal PGT comporterebbero un consumo di suolo largamente eccedente rispetto a quanto consentito dal PTCP” recita la sentenza.[1] La giurisprudenza traccia in modo chiaro una direzione nuova da seguire, per definire alcune semplici e buone regole per governare i temi di area vasta, tra i quali va annoverato anche quello del consumo di suolo.
E ora si aggiunge il parere di Maddalena: secondo l’ex giudice, il testo - così scritto - è incostituzionale per diversi motivi. Perché in contrasto con il suo obiettivo, ma anche perché dà indicazioni «generiche e inconsistenti», viola le competenze regionali, consente lo stravolgimento del paesaggio e contrasta con il principio del “razionale sfruttamento del suolo” (articolo 44 della Carta).
Il “miracolo” del suolo edificato che torna naturale
La definizione di “area urbanizzata” è, secondo Maddalena, “illogica” e viola quindi l’articolo 3, «perché considera area edificata – spiega a IlFattoquotidiano.it il costituzionalista – anche i parchi urbani e i lotti e gli spazi inedificati interclusi, in contrasto con il fine del contenimento del consumo del suolo che la legge stessa dice di voler perseguire». Lo stesso vale per il concetto di “compensazione ambientale”, secondo il quale è consentito il consumo di suolo agricolo, se, nello stesso tempo, si deimpermeabilizza il suolo già impermeabilizzato. In pratica un miracolo. «Fa ritenere possibile un fatto assolutamente impossibile - spiega il magistrato - poiché, come affermano gli scienziati di tutto il mondo, occorrono centinaia di anni affinché un suolo impermeabilizzato ridiventi naturale”. Detto in parole povere: le legge ideata per limitare il consumo di suolo non limita il consumo di suolo.
Ma c’è dell’altro. Le incostituzionalità più gravi sembrano essere contenute infatti negli articoli 5 e 6 del testo di legge. Il primo, che in sostanza autorizza il governo a emanare deroghe a norme urbanistiche per le aree urbanizzate degradate, riesce a violare contemporaneamente tre articoli della Costituzione. Anzitutto l’articolo 76 “per il carattere generico e inconsistente dei principi e criteri direttivi”, dice il costituzionalista. Ma, soprattutto, viola le competenze regionali in materia di pianificazione e governo del territorio (articolo 117) e non pone nessun limite alla ricostruzione degli edifici esistenti, “consentendo quindi lo stravolgimento del paesaggio urbano – spiega Maddalena – violando quindi l’articolo 9 della Carta costituzionale”.
Anche il capitolo della tutela delle aree agricole colleziona paradossi e non sensi, secondo Paolo Maddalena. “L’articolo 6 – commenta – prevede, anziché la tutela delle aree agricole, la loro trasformazione in aree edificate, attraverso l’escogitazione dello strano strumento dei compendi agricoli neorurali. Gli insediamenti rurali locali, perdono ogni carattere agricolo e, purché, complessivamente, non si superi la superficie occupata da costruzioni rurali alla data di approvazione della legge, essi sono destinati a funzioni diverse, come le attività amministrative, attività di agricoltura sociale, servizi medici e di cura, ecc. A parte la considerazione che non si capisce cosa voglia dire ‘attività di agricoltura sociale’ - continua il costituzionalista - oppure la ‘vendita di prodotti ambientali’, sta di fatto che questa disposizione ha una finalità edificatoria che è direttamente in contrasto con quella che la legge stessa dice di voler perseguire”. Altro punto “illogico” quindi, in contrasto peraltro con il principio del “razionale sfruttamento del suolo”, sancito dall’articolo 44 della Costituzione: principio che implica la bonifica delle terre «e non – spiega Maddalena – la loro trasformazione in edifici, e la ricostituzione delle unità (agricole) produttive».
L’approvazione di una legge così scritta, secondo Maddalena, «imporrebbe alle Regioni e ai cittadini, singoli o associati, di agire in via sussidiaria per ottenere l’annullamento di queste norme da parte della Corte costituzionale». Che tradotto significa ricorsi, controricorsi, tempo perso. E infatti Massimo De Rosa, deputato Cinque Stelle, membro della commissione Ambiente e promotore di una delle proposte di legge sullo stop al consumo di suolo poi confluite nel testo in discussione, ha già disconosciuto “il figlio”. «Dal testo iniziale al testo licenziato dalle commissioni ambiente e agricoltura - commenta a IlFatto.it - si è avuto un peggioramento tale da modificare in modo sostanziale la ‘ragione sociale’ della proposta, che potrebbe realisticamente essere denominata ‘Incentivi al consumo del suolo per uso edificabile’. Presenteremo osservazioni, anche con le associazioni ambientaliste, e se non verranno accettate, non voteremo il ddl. Con dispiacere chiaramente, ma non è questa la legge che volevamo».
Felicemente insabbiata una legge che non servirebbe a ridurre il consumo di suolo. Lo ammette anche ol suo primo promotore, Mario Catania. La Stampa, 5 dicembre 2015
Negli ultimi 40 anni è stata cementificata un'area pari all'estensione di Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna: un fenomeno di proporzioni sempre più preoccupanti». Il 14 settembre 2012 non parlava un pericoloso ambientalista, ma un austero economista bocconiano, il presidente del Consiglio Mario Monti. Il suo governo aveva appena varato il primo, rivoluzionario disegno di legge per ridurre il consumo di suolo. Dopo quasi 39 mesi quel testo è ancora lontano dal diventare legge. La commissione Ambiente della Camera ha impiegato due anni e mezzo per discuterlo, modificarlo e approvarlo. Ancora non si sa quando sarà calendarizzato e se passerà l'esame dell'Aula. Poi ci sarà il passaggio (pieno di ostacoli) in Senato. Secondo accreditate fonti parlamentari, ha meno del 20% delle possibilità che diventi legge.
I numeri e i bisogni
Perché è davvero importante tutelare il suolo? Paolo Pileri, docente al Politecnico di Milano, lo spiega nel libro «Che cosa c'è sotto» (Altraeconomia): «Primo: il suolo è una risorsa scarsa e non rinnovabile (per ricostituire 2,5 centimetri di suolo occorrono 500 anni), con giganteschi benefici ambientali, sanitari, alimentari. Secondo: sul suolo si scatenano interessi politici ed economici distorsivi: il valore di un terreno edificabile cresce anche di migliaia di volte».
L'Europa ha fissato una «tabella di marcia» con l'obiettivo di un consumo netto di suolo pari a zero per il 2050. In Germania una legge esiste dagli Anni 90, quando Angela Merkel era ministro dell'Ambiente. In Francia i Comuni sotto i 15 mila abitanti hanno vincoli stringenti. In Italia liberi tutti: per ogni secondo che passa, otto metri quadrati di terra vergine vengono asfaltati o cementificati. Secondo il Wwf, nei prossimi 20 anni sarà perduto un territorio pari a due volte la Valle d'Aosta. «Se continuiamo così, oltre al dissesto idrogeologico avremo un deserto di cemento», ha scritto Carlo Petrini. Eppure il valore del suolo dovrebbe essere più considerato proprio in un Paese fragile come il nostro. Pileri ha calcolato che un ettaro di suolo non edificato può trattenere 3,8 milioni di litri di acqua. Se cementificato, costringe lo Stato a spendere 6500 euro l'anno solo per tenere in ordine i tubi che convogliano quelle acque.
Modifiche e interessi
Programmare, ridurre e disciplinare il consumo di suolo: questa era l'idea alla base del disegno di legge del governo Monti, scritto da Mario Catania, all'epoca ministro dell'Agricoltura, mutuando l'esperienza tedesca. «Il testo - spiega Catania - strada facendo è cambiato. Il mio mirava a blindare le aree verdi e non si poneva problemi di pianificazione urbanistica. Era limitato ma coerente. Poi è entrata la parte della rigenerazione urbana: il testo si è allargato ma anche indebolito perché la blindatura delle aree verdi è annacquata».
Solo il Movimento 5 Stelle sostiene convintamente una legge efficace. Al di là dei proclami, in senso contrario si muove un articolato fronte trasversale che raccoglie forze in tutti i partiti, Pd in primis. Anche l'impegno del governo è intermittente: la commissione della Camera ha dovuto attendere sette mesi il parere del ministero dell'Ambiente sugli emendamenti.
Gli industriali si oppongono a qualsivoglia legge sul consumo di suolo: temono limiti all'edilizia, già penalizzata dalla crisi (dal 2008 perso il 35% degli investimenti). Le associazioni ambientaliste, inizialmente entusiaste, contestano le recenti modifiche del testo. L'urbanista Vezio De Lucia ha scritto sul sito eddyburg.it che il meccanismo di tutela del suolo previsto dall'ultimo testo, infarcito di complicazioni burocratiche, sembra fatto apposta per risultare inapplicabile. Inoltre sono stati aggiunti «due argomenti assolutamente estranei, anzi in contrasto con l'obiettivo del contenimento dell'uso del suolo: i compendi agricoli neorurali e la rigenerazione delle aree urbane degradate, al riparo dei quali prendono corpo operazioni che addirittura favoriscono la speculazione immobiliare».
Come sintetizza l'ex ministro Catania: improbabile che la legge arrivi al traguardo. E se arrivasse, il testo sarebbe scritto in modo da essere inefficace.