Sul Corriere della Sera di ieri, Walter Veltroni, difendendo, ovviamente, il parcheggio del Pincio, sostiene che Roma ha bisogno «di un coraggioso programma per i parcheggi». Benissimo. Saremmo tutti molto grati all'ex sindaco se ci dicesse qual è il coraggioso programma che prevede il parcheggio del Pincio. Se esiste, la discussione finora asfitticamente limitata a una sola opera, potrebbe estendersi vantaggiosamente a tutte le soluzioni previste per l'accessibilità al centro storico, e sarebbe questa la scala giusta per valutare compiutamente la necessità dello scempio del Pincio, e per verificare eventuali altre soluzioni.
Qui ricordo solo che Walter Tocci, quando era vicesindaco e assessore alla mobilità, escluse proprio le aree del centro storico dal piano urbano dei parcheggi. Se è stato fatto un nuovo programma, cambiando la meritoria decisione di Tocci, allora discutiamone. Non dimenticando le disponibilità residue del vecchio parcheggio sotto al galoppatoio di villa Borghese e quelle del nuovo parcheggio in costruzione all'angolo fra ponte Margherita e via Arnaldo da Brescia, a poche decine di metri da piazza del Popolo. Veltroni afferma poi che il 90 per cento dei posti macchina previsti sono destinati ai residenti.
Ma egli certamente sa quant'è difficile garantire il rispetto di questi obiettivi. E com'è facile che nella categoria dei residenti, oltre alle famiglie, siano compresi anche quanti nell'area del Tridente esercitano professione o attività economica, siano proprietari degli immobili o vantino altri titoli che legittimano la titolarità a un posto macchina al Pincio. Servirebbero una severità e una determinazione nella tutela del centro e nel contrastare le destinazioni a parcheggio che a Roma non hanno mai avuto cittadinanza. Cito, per esempio, la repellente sistemazione intorno al Palazzo di giustizia di piazza Cavour, dove i marciapiedi e una porzione di strada sono stati sottratti ai pedoni e difesi da catenelle e squallide recinzioni per essere trasformati in parcheggi riservati ai funzionari degli uffici giudiziari.
Allo stesso uso è stato destinato lo spazio verso il lungotevere davanti all'ex Casa del mutilato. Non si capisce perché alcuni lavoratori - i magistrati, i dipendenti di Camera e Senato e altre categorie del pubblico impiego - debbano beneficiare di così vistosi favoritismi a spese degli altri cittadini e del decoro urbano. Eliminando ingiustificati privilegi si potrebbero recuperare centinaia di posti macchina da destinare agli abitanti e al miglior uso dello spazio pubblico. Ancora un'osservazione all'articolo di Veltroni, là dove sostiene che è stata ed è «sacra» l'area del Pincio, così come tutta villa Borghese. E ricorda che negli ultimi anni tutti gli edifici sono stati ristrutturati e riportati alla loro antica meraviglia. Non è esattamente così. Nell'ultimo libro di Paolo Berdini, La città in vendita , c'è la fotografia della Casina Valadier al Pincio, dove si vede che sono state sopraelevate arbitrariamente le terrazze di copertura. Si legge inoltre che un ettaro della villa è stato privatizzato e destinato all'uso esclusivo dei clienti della Casina.
Poi, ci informa sempre Berdini, in villa Borghese è stato addirittura costruito un teatro, con relativo parcheggio: un'iniziativa degli eredi per onorare la memoria del probabilmente benemerito costruttore Silvano Toti. Non sono precedenti confortanti.
È vero quel che dice il Sindaco di Alghero, l’avvocato Marco Tedde.
Ho partecipato per un lungo tratto alla redazione del Piano strategico della città, coordinando il gruppo di lavoro della nostra Facoltà, figurando per un po’ come responsabile scientifico del Piano (da laureato in Fisica cum laude, purtroppo mai fisico “militante”, attualmente Professore di Tecniche urbanistiche, e a volte attivo in urbanistica e pianificazione).
In quelle occasioni ho conosciuto meglio l’avvocato Tedde, apprezzandone la cordialità e la correttezza personale.
Apprezzamento che mantengo, anche se ho dovuto amaramente constatare successivamente che il mio Sindaco, l’Avvocato Tedde non ha ritenuto di rispondere né a mie lettere pubbliche né a una lettera privata istituzionale su temi rilevanti dell’antifascismo e della Costituzione, ma di questo parlerò in altra occasione.
A un certo punto del processo di Pianificazione strategica, ho scelto di mettermi da parte, e l’ho fatto senza clamori, ma con fermezza per un dissenso non marginale su una questione di rilievo.
Cerco di spiegare: i contenuti generali del Piano sono largamente condivisibili e lo conferma il voto unanime del Consiglio comunale.
Tra l’altro, se lo leggiamo attentamente, non pare proprio che il cosiddetto “Piano del porto”, tanto per fare un esempio, sia minimamente coerente con le indicazioni del Piano strategico: tutto il contrario, quell’insieme di interventi, sbagliati e senza motivo (almeno apparente) è in pieno contrasto con le linee generali del Piano strategico.
Quel che è noto a chi si occupa di governo della città è che tra le buone intenzioni scritte in un Piano e la realtà della gestione quotidiana spesso vi è un abisso.
Infatti il dissenso che mi ha portato a ritirarmi dalle ultime fasi della redazione del Piano strategico era proprio questo: era ed è mia convinzione che il Piano strategico dovesse essere reso concreto attraverso un processo di coinvolgimento diretto dei cittadini (dei cittadini tutti: un lavoro difficile e paziente), nei quartieri, nelle borgate, nelle scuole e attraverso la definizione di obiettivi concreti, verificabili e quantificabili; più volte abbiamo sollecitato che questo avvenisse, più volte ho richiamato l’attenzione dell’Amministrazione su questa necessità assoluta: rendere concreto il Piano strategico con la partecipazione diretta dei cittadini nella definizione delle azioni.
Non siamo stati ascoltati e ci siamo messi da parte, senza polemiche (forse abbiamo sbagliato per eccesso di rispetto istituzionale).
Sono tuttavia molto lieto che esistano le linee generali del Piano strategico, approvate all’unanimità dal Consiglio Comunale; rivolgo un appello all’avvocato Tedde perché dia il via ora al processo di partecipazione che possa renderlo concreto, lieto di dare una mano se richiesto; un altro appello è quello di rendere concreto, motivato ed esplicito il riferimento alle linee del Piano strategico in ogni documento di pianificazione (dal porto al commercio al Piano urbanistico comunale): se no a che serve un Piano strategico anche ben fatto e ben scritto?
Il sindaco Tedde non è l’unico amministratore, nell’Italia di questi anni, che si accontenta delle belle parole e ritiene che queste automaticamente generino azioni coerenti. Il degrado delle cittàe la distruzione del territorio sono avvolti in una nebbia compatta, costruita con piani di chiacchiere che impediscono di vedere le scelte vere; quelle, per dirlo con i francesi, che sono opposables aux tiers, opponibili ai terzi: regole certe, non derogabili, precisamente riferite al territorio, che vincolino le azioni di tutti.
«L’ invasione del cemento sul lago di Garda è un orrore per ogni persona di buon senso... » Vittorio Messori, scrittore cattolico di fama mondiale, usa un tono deciso e parole forti: «Qui si vive una quotidiana sofferenza nel vedere prati bellissimi, ruscelli, boschetti e uliveti devastati da distese di capannoni commerciali e di lottizzazioni che sembrano conigliere. A lasciare sbalorditi è l'insipienza, la folle idiozia che spinge tanti amministratori, non necessariamente corrotti, a distruggere spiagge e colline per dare sempre nuovi spazi alle cosiddette seconde case: squallidi sottoprodotti edilizi, abitati per due settimane all'anno da anonimi soggiornanti che sul lago non lasciano soldi, ma soltanto rifiuti». Messori vive da 15 anni a Desenzano del Garda e, insieme al cantautore Roberto Vecchioni e a decine di «cittadini senza tessere di partito»', si è speso in pubbliche iniziative contro «la masochistica distruzione di un territorio che con la sua bellezza è un capitale unico e irripetibile». Un impegno civile ripagato con lettere anonime, danneggiamenti e minacce di morte. «Intimidazioni di stampo mafioso», secondo la Questura di Brescia. Forse basta questa vergogna - minacce criminali per zittire uno scrittore che ha firmato libri con due papi, Wojtyla e Ratzinger - a misurare quanto sia diventato sporco il business dell'edilizia sul più grande lago italiano. Italia Nostra ha contato le "nuove abitazioni" costruite in 14 paesi della Riviera bresciana dal 1981 al 2001 (data dell'ultimo censimento Istat), scoprendo che sono aumentate del 47 per cento. E come se nel giro di quattro amministrazioni fossero spuntati dal nulla sette nuovi comuni, fatti tutti di seconde case: solo cemento e asfalto, senza abitanti. Dal 2001 al 2007 poi, il boom dei prezzi ha scatenato un altro sacco urbanistico. E ora incombe una nuova ondata di cemento.
Sommando solo i progetti già in cantiere nei tanti piccoli comuni sparsi tra Brescia, Verona, Mantova e Trento, si supera abbondantemente il tetto di oltre un milione di metri cubi di nuove costruzioni. Un business da 2 miliardi di euro, che sta già muovendo plotoni di speculatori, faccendieri e politici locali. Ma la mole degli interessi edilizi comincia a calamitare, per la prima volta in queste province del Nord, anche soldi di comprovata origine mafiosa. Mentre la costa bresciana è invasa da capitali sospetti di ricchissimi affaristi russi. II Garda è un tesoro naturale che ogni estate arricchisce i suoi 320 mila residenti: circa 3 miliardi di ricavi garantititi da oltre 20 milioni di presenze turistiche.
Ad attrarre soprattutto tedeschi e olandesi sono l’ambiente e il paesaggio. Con la sua grande estensione e profondità, il lago è un bacino di 49 chilometri cubi d'acqua dolce, protetta dalle colline moreniche, che creano un'isola di clima mediterraneo incastonata tra la Pianura padana e le Prealpi. Olivi, cipressi, lecci e oleandri crescono spontanei e gran parte delle spiagge sono affollate di bagnanti. Almeno per ora. L'inquinamento da scarichi fognari è stato limitato, dopo i disastri di Tangentopoli, dal maxi-depuratore di Peschiera. Ma il boom di nuove costruzioni supera le capacità di smaltimento. E mette a rischio il fiume Mincio e i laghi di Mantova. Testimonia Barbara Meggetto di Legambiente: «Tutti i punti del Mantovano controllati dalla nostra Goletta dei laghi risultano inquinati da colibatteri. Abbiamo prelievi che superano di 55 volte i limiti di legge».
Eppure la cementificazione continua. Anzi, peggiora. Un esperto magistrato della zona riassume schiettamente: «La Dc di una volta era clientelare anche con l'edilizia, ma aveva il senso del peccato. Oggi troppi assessori e progettisti hanno perso ogni pudore nel mescolare affari e politica». Il problema è politico-economico: qui un terreno agricolo vale 20-30 euro al metro quadrato; se ha una vista lago, anche parziale, arriva a 40-60; ma appena diventa edificabile, il prezzo schizza a 400-500. E ogni mini-appartamento finito si vende a 4-5 mila euro al metro. Come dire: paghi 1, vinci 200. E a regolare la lotteria dell'edilizia, cioè a decidere chi può facilmente fare montagne, è la politica. Divisa in tante piccole giunte e partitini imbottiti di geometri, ingegneri, speculatori e costruttori.
L'ultima operazione-scandalo è la grande truffa dei finti alberghi. A Peschiera del Garda i giudici veronesi hanno sequestrato per lottizzazione abusiva un maxi villaggio in località San Benedetto: 375 appartamenti, con negozi e piscine, controllati dal più ricco costruttore locale attraverso l'immobiliare Sermana. E già venduti per 110 milioni a tanti investitori ora inferociti. Perché il Comune aveva autorizzato una «residenza alberghiera», divisa sì in casette, ma da gestire come un hotel. Invece i presunti furbetti del Garda li hanno venduti come singole villette. Ora sotto sigilli. Proprio la destinazione ad albergo, da riempire tutto l'anno di turisti, consentiva ai politici interessati di zittire il malcontento popolare contro l'inflazione di seconde case. Ora anche l'attuale sindaco leghista giura di non essersi mai accorto, in 15 anni di progetti e lavori, che quelle "residenze alberghiere" in realtà erano in vendita. Con tanto di rogiti. O con strane "cessioni di quote societarie" che per puro caso coincidono con la singola micro-casetta.
L'esposto di Legambiente da cui è nata l'indagine riguarda anche le "lottizzazioni-albergo" Pioppi, Bassana e Conta. Ma altri "villaggi-hotel" sono in cantiere sulle colline da Lonato a Cavaion. Il sequestro dei 932 posti letto di Peschiera per ora ha avuto solo il miracoloso effetto di fermare le ruspe a Pacengo. Dove la Cooperativa Azzurra, rasi al suolo decine di platani secolari, aveva già cominciato a vendere le sue "residenze alberghiere". Lo scorso marzo la Cassazione ha ribadito che il trucco dei finti alberghi resta reato. Ma la lobby del mattone sta brigando, in Regione Veneto, per regalare ai Comuni il potere di sanare gli abusi. Le nuove speculazioni minacciano boschi e vigneti. Il panorama è impressionante soprattutto se lo si va a vedere dal lago, in barca. A Castelnuovo del Gardaland (soprannome del Comune con il parco-divertimenti più grande d'Italia) i fabbricati tra gli ottovolanti e i megaparcheggi occupano l'intera fascia a lago. A Lazise il regno del cemento (e degli abusi condonati) è Caneva, il parco acquatico ora raddoppiato con Movieland: mostruosi capannoni in calcestruzzo in riva a un maxi-porto.
A Bardolino, dove negli anni '70 un sindaco dc firmò centinaia di licenze la notte prima del piano regolatore, la giunta di Forza Italia sta varando un'altra mega-darsena al posto del campeggio pubblico. Il sindaco dovrebbe astenersi, visto che gestisce due camping privati concorrenti, ma l'opposizione teme l'alterazione delle correnti (l'effetto "lago morto") e nuovo cemento. Lo sponsor politico è Aldo Brancher, l'ex tangentista della Fininvest (reati prescritti grazie all'abolizione del falso in bilancio) che ora è il più potente parlamentare locale: all'assemblea di presentazione del porto ha dato degli «imbecilli» ai cittadini che si oppongono allo sviluppo turistico. Risalendo a nord, la piana del comune di Garda, le pendici montane da Albisano a San Zeno, le colline tra Costermano e Cavaion sono una distesa di villini e condomini. Approvati da giunte di destra e di sinistra. E a Torri è in cantiere l'ennesimo porto turistico. Sulla Riviera bresciana le colline sembrano più grigie che verdi. Tra Desenzano e Sirmione c'è tanto cemento che il parroco della frazione di Rivoltella è arrivato a tuonare dal pulpito contro «un'edilizia immorale». A Toscolano-Maderno il piano regolatore che autorizza mille nuove abitazioni è già stato superato da deroghe e varianti. A Padenghe la lunga spiaggia bianca è stata cancellata da una «passeggiata artificiale con cemento anti-lago e ciottoli grigi da cava», finanziata dalla Regione Lombardia. A Manerba la cascata di Dusano è inglobata in un condominio-residence. Tra le scogliere di Campione, la Coopsette ha comprato per 20 milioni un capolavoro di archeologia industriale e l'ha quasi tutto abbattuto per farne un polo turistico da 160 mila metri cubi con 1.450 parcheggi. È un piano da 200 milioni.
Nell'alto lago trentino, che è un paradiso delle vele, la navigazione a motore è vietata, i depuratori funzionano e la legge Gilmozzi frena le seconde case. Ma il passato pesa: a Riva del Garda è urbanizzato il 44,83 per cento del comune, a Nago-Torbole il 48,90. Dopo tanto cemento, ora sul Garda comincia a nascere una società civile. Che crea comitati «contro la superstrada del Monte Baldo» o associazioni «per il parco delle colline moreniche». L'architetto Rossana Bettinelli, vicepresidente nazionale di Italia Nostra, spiega il perché con un esempio: «L'antica piazza di Bogliaco oggi è un deserto di seconde case. Troppe lottizzazioni restano vuote ma consumano per sempre il territorio. E i cittadini ora si mobilitano». Con qualche rischio.
Lo scrittore Messori è l'anima del comitato che sta aiutando la Soprintendenza a salvare il verde che circonda l'abbazia-capolavoro di Maguzzano. Non ama parlarne ( «Non voglio fare l'eroe»), ma da allora è minacciato: «È vero, ho ricevuto lettere anonime, di quelle coi caratteri ritagliati dai giornali. C'è stato un crescendo, dagli insulti alle minacce di morte. Mi hanno anche spaccato i vetri della macchina, più volte. Sono perfino entrati con i bastoni dentro l'abbazia per fracassarmi l'auto e minacciarmi. Il questore di Brescia era preoccupato, ha voluto farmi denunciare tutto alla Direzione antimafia e manda la polizia qui a sorvegliarmi». L'overdose di cemento e turismo ha da tempo trasformato il Garda in un ipermercato di droga e prostituzione. Ma al peggio non c'è limite. Il mese scorso la polizia ha scoperto che, dietro i due incendi che hanno distrutto le più famose discoteche del Garda (Sesto Senso e Lele Mora House), c'era una presunta faida criminale tra i due imprenditori del divertimento, Leo Peschiera e Piervittorio Belfanti. Un rogo era la vendetta per l'altro, secondo l'accusa, in un incrocio di estorsioni, rapimenti di personale, pestaggi e agguati armati. Altre due discoteche, Backstage (ex Biblò) e Lamù, sono state sequestrate dai magistrati nel luglio 2007, con il primo blitz contro i patrimoni mafiosi mai eseguito nel Bresciano: 49 immobili turistici controllati dalla camorra di Afragola e dalla 'ndragheta di Gioia Tauro. Messori ride amaro: «Sul Garda sembrava impossibile, ma stiamo diventando una zona di lupara».
Intervento di ampliamento e completamento del progetto di coltivazione della cava di inerti della Green cave S.r.l. denominata “Cascina la mandria” in località cascina La Mandria, Santhià- Vc.
Osservazioni in merito
Secondo quanto previsto in materia di partecipazione -Legge 40-1998- art 14
1.Chiunque, tenendo conto delle caratteristiche del progetto e della sua localizzazione, intenda fornire elementi conoscitivi e valutativi concernenti i possibili effetti dell'intervento, ha facoltà di presentare in forma scritta all'autorità competente osservazioni, ivi comprese informazioni o contributi tecnico-scientifici, nei termini seguenti [:…]
b- la fase di valutazione, entro quarantacinque giorni dalla data di avvenuto deposito di cui all'articolo 12, comma 2 lettera a.
2. Le osservazioni di cui al comma 1 sono messe a disposizione per la consultazione da parte del pubblico fino al termine della procedura di VIA. I provvedimenti conclusivi delle fasi di verifica e di valutazione danno conto delle osservazioni pervenute.
Premesso
- che i sottoscrittori del presente documento da tempo continuano a tenere sotto osservazione le numerose attività estrattive e non solo, relative alla zona in quanto portatori di interessi diretti quali abitanti di paesi appartenenti all’area Alice Castello, Santhià, Tronzano e Cavaglià o limitrofi quali Borgo d’Ale, Saluggia, Livorno Ferraris, Cigliano, Viverone,
- che in ogni modo si sono sempre sollevate le numerose problematiche ambientali inerenti i comuni interessati
- che si sono tenute negli anni 2007-2008 alcune petizioni popolari, regolarmente presentate ai Sindaci di Alice Castello e di Tronzano Vercellese, in cui i firmatari esponevano le loro preoccupazioni per le attività di cava fiorenti nei nostri comuni
- che ci sono stati vari tentativi di avvicinare la Provincia e i comuni stessi, esponendo correttamente in colloqui informali o pubblici, secondo i canali consentiti, le preoccupazioni e le richieste della popolazione
-visti i documenti relativi alla richiesta di ampliamento della cava in cascina La Mandria
espongono quanto segue e chiedono venga tenuto conto in sede di Conferenza dei servizi.
a- Considerazioni sui fatti accaduti finora
Dal Piano di coltivazione di cava di cui si fa riferimento in apertura, si evince che l’attività della ditta in questione non è avviata ora. La società è costituita dal 2001, la concessione risale al 2003 (delibera comunale n° 38 del 28-7-2003 e precedente delibera comunale 01-02- 1999 rilasciata alla ditta Gesri srl) e malgrado le notizie rassicuranti presentate nel Piano, dal punto di vista della popolazione locale i benefici finora apportati sul piano economico e sociale ai nostri paesi non sono rapportabili alle ferite inferte al paesaggio, all’ambiente e di conseguenza ala salute dei cittadini.
Lo stesso Piano consideracongrua la domanda di ampliamento proprio perché “già esistenti altre attività estrattive”, né la continuità che il gruppo Candeo avanza ci paiono positive alla luce dello stato dei fatti.
Lo stesso Piano pur parlando di ripristino dell’ambiente, segnala che le voragini saranno piantumate, ma resteranno tali anche alla fine della coltivazione, verificandosi quindi nella zona, un continuo abbassamento del piano campagna “che non viene più ripristinato”. La modificazione del paesaggio é definita “rilevante”, del resto basta considerare cosa è accaduto finora in Valledora per non avere dubbi sul risultato finale. Non si può dunque parlare di “ricostruzione naturalistica del paesaggio” poiché rimarrà uno sbancamento effettivo permanente al quale nessuno riuscirà più a porre rimedio. Citiamo testualmente dal progetto: “ La fase di escavazione è tra le maggiori dal punto di vista del progetto in quanto, nonostante il successivo recupero ambientale, costituisce modificazione permanente del paesaggio. Soltanto un corretto recupero finale potrà ridurre l’impatto determinato, anche se non riuscirà certamente a ripristinare le condizioni iniziali”
Si consideri che il tutto viene effettuato a 20 metri da un complesso storico del ‘700, appunto la cascina La Mandria, e quindi ai piedi di un bene tutelato, raro esempio di corte padana, dove alcune famiglie hanno investito sia nel loro futuro e sia le loro risorse.
Si aggiunga che in questo modo si aggredisce e non si tutela lo sviluppo agricolo di una delle porzioni più produttive della Pianura padana, costringendo chi faticosamente tenta di continuare la vocazione agricola naturale di questa zona a una difesa strenua e non ad armi pari.
“ Le radici degli abitanti dell’area con la terra non sono solo proclamate ma ribadite e testimoniate da atti concreti …quali…investimenti in irrigazione, attivitàprimarie integrate” ( vedi Consulenza sull’impatto ambientale di attività estrattiva– Università degli Studi di Torino-Dipartimento di scienze della Terra- 1994).
Inoltre anche secondo le indicazioni del Comune di Santhià “ trattasi di aree dove sono state apportate profonde modificazioni dovute ad attività antropiche”- Piano regolatore comunale-, aggiungiamo noi, sovente di gruppi provenienti da altre regioni che hanno concessione di agire nell’assoluta mancanza di programmazione generale senza due documenti importantissimi al fine di poter procedere ad altre autorizzazioni di ampliamenti o di nuove concessioni:
un Piano cave provinciale,
un Piano provinciale relativo alla protezione degli acquiferi esistenti sul territorio, entrambi previsti dalla normativa ( Piano territoriale regionale e Piano territoriale regionale -acque ).
Anche il DPAE, che indica invece la qualità dell’area estrattiva del materiale della Valle Dora e le conseguenti norme dei PAEP, raccomanda, attraverso la prescrizione del tipo di studi e previsioni, una progettazione ambientalmente compatibile”- documento regionale.
Il DPAE mira a fornire il quadro territoriale e a delineare i possibili scenari verso i quali far evolvere i diversi bacini estrattivi, e riveste il ruolo di indirizzo per la formazione dei Piani Provinciali di cui siamo carenti.
I principali documenti esistenti
1. PTA regionale- Piano regionale tutela delle acque- approvato in data 13 marzo 2007 dal Consiglio regionale del Piemonte che ha come scopo la conservazione e il miglioramento dello stato delle acque superficiali e profonde del territorio considera la zona della Valle Dora “BACINO DI RICARICA DELLE ACQUE in quanto situato in esatta CORRISPONDENZA dell'ASSE DRENANTE della falda acquifera, paragonabile ad una zona di confluenza di falda”.
L’importanza idrogeologica della zona Valledora è riconosciuta dunque nel contesto del Piano regionale delle acque in cui ” individua …zone di elevata qualità… si tratta di riserve idriche da proteggere”
Nel PTA la regione chiede che al più presto vengano stabiliti dei limiti e dei vincoli nelle aree di ricarica di falda da inserirsi negli strumenti urbanistici comunali, provinciali e regionali.
2-Stato della zona e Vulnerabilità del territorio.
Il territorio Valle Dora, in cui si vuole apportare l’ampliamento in questione, è comprensivo di aree ricadenti in due province e tre comuni: Alice Castello, Cavaglià e Santhià ed è stato classificato da diversi studi come «altamente vulnerabile dal punto di vista idrogeologico». Tale vulnerabilità alta è stata riconosciuta anche da documenti presenti nel sito della Provincia di Vercelli appunto nella Carta della vulnerabilità degli acquiferi sensibili all’inquinamento- del giugno 2006.
3- 1990- Schema idrogeologico, qualità e vulnerabilità degli acquiferi della pianura vercellese”CNR – politecnico di Torino
Cita: IL COMPLESSO ACQUIFERO AD USO POTABILE E’ IDRAULICAMENTE COMUNICANTE CON la FALDA SUPERFICIALE
ed è ribadito chiaramente anche nella cartografia disponibile nel punto 3b.
3b - Convenzione tra il Dipartimento di Scienze della terra dell’Università degli Studi di Torino e la Regione Piemonte – 2002-Identificazione del modello idrogeologico degli acquiferi di pianura e loro caratterizzazione
( riferimenti p. 14-21-22 )
4 - 1987-”Idrogeologia ed idrogeochimica del settore pedecollinare della pianura vercellese –alessandrina” Rossanigo-Zuppi Milano.
Si definisce che “le acque veicolate nelle porzioni… SONO IN STRETTO CONTATTO IDRAULICO caratterizzandosi come acquifero unico FINO ALLA PROFONDITA’ DI 100 METRI”
5- geologo Floriano Villa nel 1991 –studio per Valledora discariche ad Alice Castello
La zona non è allo stato originario poiché “vi sono state apportate modifiche essenziali con l’asportazione di tutto lo strato superficiale … che è in grado di filtrare e depurare tutte le acque che dalla superficie scendono nel sottosuolo….Gli acquiferi in zone idrogeologicamente attivate come questa possono dar luogo a forti fluttuazioni ( sollevazioni e abbassamenti) della superficie dellafalda … dato il richiamo di coni di depressione che risentono a distanza, per l’alta permeabilità dei materiali”.
5 -Impatto ambientale di attività estrattive 1994- Dipartimento di Scienze della Terra, Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, Università di Torino - La ricerca, pur se mirata all'attività di estrazione, prende in esame
l'impatto ambientale delle varie attività presenti nella zona e giunge alle conclusioni che ulteriori
attività di cava in questo territorio porterebbero a:
-diminuzione del valore strategico della risorsa idrica sotterranea e perdita del potenziale utilizzo di
un campo pozzi;
rischio per le captazioni di acquedotti di Santhià e Tronzano[…]
esigenza di un monitoraggio ambientale i cui costi graverebbero sulla collettività;
esigenza di predisporre un piano di recupero complessivo dell'area.
“…è evidente che un corpo di utilizzo di così rilevante interesse non è compatibile con nuove attività a rischio quali cave o discariche” p. 48
Dalla consultazione delle carte risulta imprescindibile nella nostra zona interessata la comunicazione tra i due acquiferi superficiale e profondo.
8- marzo 2008 –Ampliamento del progetto di coltivazione e recupero ambientale- Coltivazione di cava di inerti in località La Mandria-
Detta che“…l’opera collocata in ogni caso in un’area leggermente depressa e paesaggisticamente non rilevante”
“La predisposizione dell’area con destinazione pubblica per una fruizione ludica aumenterà il grado di accettazione da parte della popolazione interessata all’intervento”
A fronte di queste discutibili affermazione si dichiara che ogni zona è definibile ” particolarmente non rilevante” solo da chi non abita e non vive nella stessa e che per la popolazione residente non è accettabile la rassegnazione al degrado della zona in cui si vive.
Le compensazioni poi non esistono e tanto meno per una “destinazione ludica dell’area”.
9 - Ci appelliamo ancora ai nuovi orientamenti sulla Convenzione europea del paesaggio, recepiti dal contratto Stato-Regioni nel 2001, al Codice dei beni culturali e del paesaggio emanato nel recente gennaio 2004, in cui si promulga che “i valori espressi nel paesaggio sono da intendersi come manifestazioni percepibili dell’identità collettiva”.
Riteniamo che ogni paesaggio abbia una sua dignità e faccia parte di un patrimonio collettivoinsostituibile, sia fautore della cultura e della tradizione locale e che nessuno abbia ragione di stravolgerlo, neppure per ragioni di libero mercato.
Riteniamo che occorra muoversi in una direzione diversa per salvaguardare questa identità collettiva ormai fortemente minata da scelte operate in antitesi ad ogni programmazione e a ogni buon senso, avallate da autorizzazioni che non tengono conto di altre ragioni se non quelle di una idea di sviluppo discutibile o non compatibile.
c - Osservazioni di carattere specifico
Il progetto prevede una profondità di scavo da 21 a25 metri dal piano campagna attuale arrivando rispetto alla prima falda acquifera ad un livello di minima soggiacenza di metri 1,5 con una velocità di penetrazione di eventuali inquinanti 6,5 minuti. Questo rappresenta un gravissimo stato di pericolo durante l’ultima fase di coltivazione della cava quando ci sarà presumibilmente raggiunta la massima profondità di scavoe non si sarà ancora provveduto a stendere su tutte le scarpate e il fondo cava lo strato di limo di 70 centimetri che dovrebbe rendere decisamente superiore il tempo di penetrazione di inquinanti (p. 74).
Sarà poi da verificare se dopo un notevole lasso di tempo lo strato di limo posato sulle scarpate e sul fondo manterrà la sua capacità di impermealizzazione o se gli apparati radicali degli alberi messi a dimora scalfiranno l’integrità del limo e di conseguenza verrà ridotta la capacità di rallentamento della penetrazione degli inquinanti.
Rimangono molti dubbi sulla capacità di attecchimento delle varie specie messe a dimora per il recupero ambientale su uno strato di terreno fertile di 30 centimetri sulle sponde di cava e di 50 centimetri sul fondo cava.
Per quanto riguarda la completezza del progetto sono decisamente insufficienti, a nostro parere, le verifiche generali. Attualmente sono previsti monitoraggi semestrali sulla qualità dell’acqua di prima falda, effettuati dall’ ARPA, ma chiediamo siano pianificate , a spese della ditta e in accordo con gli organi tecnici del Comune, verifiche periodiche semestrali su tutte le fasi di sviluppo della coltivazione della cava: profondità di scavo, pendenza delle scarpate, fasi di recupero da effettuarsi prima della fine di coltivazione di cava, possibili variazioni di soggiacenza minima tenendo conto delle periodiche dosi elevate di piovosità degli ultimi tempi per le variazioni climatiche in atto.
Si segnala inoltre che la viabilità sulle strade provinciali e comunali risulta già compromessa dall’alto numero di camion che percorrono la zona e che trasportano il materiale rendono pericoloso il transito normale dei veicoli, rallentano la circolazione e la ostacolano, pertanto anche l’aumento previsto nel dettaglio del progetto fino a un passaggio ogni 5 minuti circa, risulta dannoso ulteriormente e gravante sulla qualità dell’aria.
Conclusioni
Si chiede, infine, ad ogni singolo Ente presente alla Conferenza dei Servizi convocata per l’esame del progetto in oggetto, di esprimersi in merito a quanto sopra esposto con inchiesta pubblica come previsto dalla Legge 40-1998 .
In conclusione chiediamo alla Conferenza dei servizi istituita dalla Provincia di Vercelli di pronunciarsi negativamente sullo studio di Impatto ambientale a tutela della salute pubblica di tutti i cittadini che risiedono in questi Comuni di cui le Istituzioni presenti sono i garanti.
Si dichiara la disponibilità per ogni chiarimento e ci si riserva l’opportunità di integrare con ulteriori considerazioni
MOVIMENTO VALLEDORA
Anna Andorno
Gruppo ambiente Santhià – Cei Simonetta
Mario Ferragatta
Comitato Cave di Tronzano V.se - Andrea Chemello
Gruppo Ambientalista Alicese- Aldo Casciano
Comitato per la Tutela dell’Ambiente e della Salute di Cavaglià- Alba Riva
Comitato “No inceneritore, no inquinamento” Livorno Ferraris p.Flavio Bruzzesi
Anna Andorno
Pronatura Piemonte- Mario Cavargna
Italia Nostra onlus – sezione di Vercelli
EttoreCagliano
Lipu Biella - Vercelli - Giuseppe Ranghino
Santhià, 22 agosto 2008
Alla fine il botta e risposta fra il sindaco aennino Alemanno e il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro (forza Italia), condito da una fulminante battuta di Francesco Storace ha fatto capire gli schieramenti delle forze in campo sulla vessata questio della costruzione del parcheggio nel ventre della collina del Pincio.
La giornata, infatti, era cominciata molto diplomaticamente con un’agenzia che annunciava che il ministro dei Beni culturali aveva dato mandato al Capo di Gabinetto, Salvatore Nastasi, di acquisire tutta la documentazione per fornirgli ogni elemento utile per una valutazione complessiva della questione. Si veniva anche a sapere che fra ministro e sindaco c’era stata una telefonata e che Alemanno, fresco di un sopralluogo (venerdì) al cantiere, ringraziava il ministro di una collaborazione certamente capace di «dare una spinta per una soluzione positiva». A rompere il minuetto arrivava la dichiarazione da cater pillar del leader de La Destra: « Se entra in campo Bondi è evidente che il rischio che il parcheggio al Pincio si faccia cresce e di molto». E dal fioretto si è passati alle armi pesanti, infatti a quel punto è sceso in campo Francesco Giro, il sottosegretario ai beni culturali che ha appena lasciato il ruolo di coordinatore di FI nel Lazio, per il quale «se non verrà trovata una soluzione equilibrata per il parcheggio (occasione positiva per un punto di equilibrio ormai inderogabile e non più rinviabile fra sviluppo urbanistico e architettonico della capitale), allora temo che il confronto per la realizzazione della metro C sarà impervio e pieno di ostacoli penso insormontabili».
Frase piuttosto minacciosa che mette su un piatto della bilancia il parere positivo sulla continuazione dei lavori sotto la collina del Valadier e sull’altro quelli per la realizzazione di una infrastruttura fondamentale per la città. A questo punto anche Alemanno ha dovuto abbandonare il riserbo: «Ammiro le granitiche certezze di Giro ma solo nel caso della metropolitana è assolutamente evidente l’interesse pubblico dell’opera».
Intanto slittano ( e per chi non vuole il parcheggio il rinvio è una boccata di ossigeno) le decisioni, martedì la questione doveva andare in Giunta ma il confronto è stato rinviato perché nella stessa data si riunisce il comitato dei saggi che deve valutare i pro e i contro fra il definitivo via libera al parcheggio interrato di 700 posti o il blocco dei lavori, come chiesto da Italia Nostra che, proprio su questo aveva cercato, prima delle elezioni, un rapporto con l’attuale sindaco. Il progetto è infatti una eredità della giunta Veltroni, per il quale l’opera doveva servire a pedonalizzare completamente il Tridente.
Ancora, la precisazione: alla fine deciderà il Campidoglio, il ministero offre le sue competenze tecniche e tutto sarà risolto entro la fine della settimana.
Oggetto: progetto denominato “Autostrada regionale integrazione del sistema transpadano - direttrice Cremona-Mantova, tratto Cremona-Mantova”.
L’ Associazione Italia Nostra Onlus, nel rispetto dei propri fini statutari, visto il progetto definitivo dell’autostrada in oggetto indicato, elaborato dalla società “Stradivaria” concessionaria della Regione Lombardia, per collegare Cremona con Mantova, ma in una prima fase limitato di fatto ai due collegamenti Cremona – Calvatone e Virgilio – A22, formula le seguenti osservazioni.
A titolo generale valgono le seguenti considerazioni:
- un’ autostrada non può essere definita “regionale” perché per sua natura deve avere una influenza territoriale non limitata al perimetro amministrativo locale di una Regione;
- un’arteria intesa soprattutto per alleggerire la viabilità ordinaria dal trasporto merci rappresenta una concezione superata, mentre oggi è più attuale e realistico prevedere linee ferroviarie ad alta capacità che colleghino interporti prossimi alle città con treni navetta per trasporto di autocarri o container (si veda l’ esempio già in atto in Austria e Svizzera) con minori costi e maggiore eco-sostenibilità;
- né a Cremona né a Mantova la popolazione, mai consultata dagli enti promotori, in spregio alla vigente normativa comunitaria e nazionale in materia di Valutazione Ambientale Strategica (V.A.S.) (D. Lgs. 3.4.2006 n. 152) ritiene utile tale iniziativa, anzi ne vede soltanto gli aspetti dannosi per il territorio;
- il completamento del percorso tra i due collegamenti previsti nella prima fase, da realizzare nei prossimi anni, si prospetterebbe con la seconda fase tra il 2026 ed il 2032, tempi di programmazione assurdi per un simile tracciato.
Si osserva in particolare per il tratto Cremona – Calvatone:
● il progetto conferma e, in qualche caso, peggiora il grave impatto ambientale che la arteria è destinata a produrre nel cuore della pianura cremonese, attraversandola longitudinalmente da Cremona sino al confine con la provincia di Mantova. È appena il caso di ricordare che il terreno interessato è certamente tra i più fertili dell’intero pianeta e tra i meglio conservati dell’intera Pianura Padana;
● il progetto, sempre per quanto riguarda il tratto cremonese, non appare lineare, come sarebbe stato logico attendersi da un’ autostrada che per sua natura dovrebbe tendere a minimizzare la sua lunghezza, ma, nonostante l’assenza di ostacoli fisici significativi, è abbastanza contorto al punto da presentare alla periferia di Piadena (località Pontirolo) quella che nel linguaggio dei gran premi automobilistici potrebbe definirsi una curiosa “ chicane”;
● mentre la legislazione nazionale impone alle nuove edificazioni di mantenere opportune distanze rispetto alle strade, il progetto di autostrada si accosta spesso a costruzioni esistenti, quasi lambendole, senza preoccuparsi di rispettare il distanziamento di legge e limitandosi ad affidare la riduzione del disagio che così fatalmente verrà apportato, alla creazione di apposite barriere di protezione acustica, circostanza che mortificherà significativamente, persino nei futuri utenti dell’autostrada, la possibilità di godere del panorama circostante;
● il nastro autostradale, realizzando una pesante e nettamente peggiorativa variante al progetto preliminare, intersecherà la ex-strada statale “ Padana Inferiore”, e cioè la maggiore tra le tradizionali arterie che dal territorio convergono radialmente su Cremona, sovrapassandola, anziché sottopassandola come in origine ipotizzato. Il nuovo colossale rilevato autostradale, alto una diecina di metri sopra il piano della campagna, sbarrerà così il territorio cremonese inibendo per chilometri quella libera visione del “ Torrazzo” (la maggiore torre muraria d’Europa) che tradizionalmente guida il viaggiatore diretto alla città. La circostanza confligge con una delle più significative caratteristiche del paesaggio della Lombardia meridionale che lo stesso Piano Territoriale Paesistico Regionale impone di tutelare;
● in località Sant’Agata il nastro autostradale giunge a lambire la discarica provinciale di rifiuti solidi urbani, costituita da un macroscopico volume fuori terra (collina artificiale) di cui è imminente l’ampliamento. È importante ricordare che tale localizzazione, appartata e invisibile dalla viabilità tradizionale convergente su Cremona, era stata a suo tempo individuata soprattutto al fine di minimizzare l’inevitabile effetto anomalo e disturbante nel tipico panorama piatto e alberato della campagna cremonese. Tale cautela viene ora radicalmente distrutta dalla nuova progettazione autostradale che darà alla discarica una visibilità davvero inopportuna;
● il nastro autostradale dividerà inesorabilmente in due parti distinte il territorio provinciale posto ad oriente di Cremona. Il passaggio dai terreni a sud a quelli a nord, e viceversa, verrà reso problematico ad uomini ed animali, limitando la tradizionale mobilità attraverso la continuità del territorio finora esistente;
● non è chiaro se i sottopassi per gli spostamenti e le migrazioni degli animali siano stati previsti in misura e in posizioni adeguate. Ci si domanda perché analoga rete di collegamenti privilegiati non sia stata prevista anche per pedoni e ciclisti. La lacuna progettuale, decisamente grave considerate le caratteristiche piatte e agevolmente “ ciclabili” della pianura cremonese, sembra inspiegabilmente contraddire lo stesso inequivocabile dettato legislativo. Occorre infatti qui ricordare che la Legge 19.10.1998 n° 366 (art. 10, commi 1 e 2) ha integrato con il comma 4 bis l’art. 13 del D.L.gs. 30.04.1992 n° 285 (Codice della Strada) prescrivendo che “ le strade di nuova costruzione classificate ai sensi delle lettere C, D, E ed F……. devono avere, per l’intero sviluppo, una pista ciclabile”. Sembra pertanto inopportuno ed illegittimo che tutte le nuove strade di interesse locale, che il progetto autostradale prevede di realizzare per raccordare la viabilità locale preesistente altrimenti interrotta dalla nuova opera, risultino prive di parallela pista ciclo-pedonale realizzata in sede propria;
● poco ad ovest di Piadena il progetto autostradale prevede un’ area di sosta a ridosso dell’area di protezione naturalistica denominata “ Lagazzi”. Appare ovvia la preoccupazione che il traffico di persone e veicoli possa risultare di grave disturbo per il microambiente dell’area protetta;
● la considerazione più singolare riguarda il fatto che il tratto autostradale di cui si è nei fatti progettata la effettiva e rapida costruzione (Cremona-Calvatone) potrà avere un minimo di utenza solo se effettivamente allacciato al ponte sull’Oglio della autostrada Tirreno-Brennero (TI-BRE), della quale è tutt’altro che sicura la tempestiva realizzazione. Se quest’ultima opera viaria dovesse ritardare o addirittura essere rinviata “ sine die” , l’autostrada Cremona-Calvatone rimarrebbe un’irrazionale e inspiegabile moncone praticamente privo di utenza.
Si osserva in particolare per il tratto Virgilio – A22:
● il tracciato in progetto di km 4,8 dal comune di Virgilio all’ Autobrennero A22 risulta inutile e dannoso perché aggiunge un ulteriore consumo di territorio senza che si sappia come completare il sistema tangenziale di Mantova, per ora rappresentato da alcuni tronconi separati;
● inoltre esso tenderà a indurre fenomeni speculativi su un territorio agricolo di grande pregio che deve rimanere verde in quanto costituisce, insieme con i laghi, l’ anello paesistico che caratterizza da secoli la città;
● come rilevato anche da comitati spontanei di cittadini, esso non sarà in grado di risolvere o attenuare i problemi del traffico pesante nella zona a sud di Mantova, anzi aggraverebbe le condizioni della cintura verde intorno al centro storico.
In considerazione di quanto sopra esposto, la scrivente Associazione formula le seguenti istanze:
Il progetto di autostrada Cremona-Mantova non venga approvato in quanto inutile per la funzionalità del territorio e dannoso per la tutela della sua integrità ambientale, sia per la parte cremonese sia per quella mantovana.
In assenza della corretta applicazione della V.A.S ai sensi della normativa vigente sia europea sia nazionale, si ritiene che l’ iter procedurale finora percorso sia da considerare nullo in quanto gli enti promotori non hanno consultato associazioni e cittadini in merito al progetto.
Nota
Il progetto di Autostrada Cremona Mantova Express ( ACME, appunto) è stato fra i primi a inaugurare la nefasta sezione SOS Padania di questo sito, come lampante esempio di opera tesa a promuovere "sviluppo del territorio", anziché svolgere la propria teorica funzione di asse di trasporto veloce; una logica poi confermata dalla complementare Autostrada della Lomellina (che sposta verso l'asse centropadano parte del traffico pedemontano) e per ultimo dal disegno di legge sulla capannonizzazione delle fasce laterali. Il tutto appare poi decisamente surreale, soprattutto nel momento in cui anche amministrazioni orientate a centrodestra, come quella di Arnold Schwarzenegger in California, sembrano andare proprio nella direzione opposta (f.b.)
Alla cortese attenzione di: Ministro per i Beni e le Attività Culturali sen. Sandro Bondi, Direttore Generale Beni Archeologici dott. Stefano De Caro, Direttore Generale PARC arch. Francesco Prosperetti, Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici della Sardegna arch. Eli Garzillo, Soprintendente ai Beni Archeologici della Sardegna, dott.ssa Fulvia Lo Schiavo, Soprintendente ai BAP della Sardegna arch. Fausto Martino, Presidente della Regione Sardegna dott. Renato Soru, Assessore regionale Beni Culturali dott.ssa Maria Antonietta Mongiu, Assessore regionale Urbanistica dott. Gianvalerio Sanna, Presidente della Provincia di Cagliari dott. Graziano Milia, Sindaco di Cagliari dott. Emilio Floris,
Oggetto: Richiesta di tutela del sistema dei colli Tuvixeddu-Tuvumannu
Italia Nostra ricorda che il Consiglio di Stato, con le sentenze che hanno confermato l’annullamento del provvedimento di vincolo paesaggistico imposto dalla Regione Sardegna - decisioni che consentono, di fatto, l’edificazione di parte dei colli -, ha solo affermato una verità processuale. Una verità obbligata dal rispetto di tempi e procedure e necessariamente limitata dalla rigida osservanza del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Che non si tratti di una verità definitiva e assoluta emerge dalle stesse sentenze, laddove si afferma che, qualora la Regione intenda riavviare una procedura volta all’estensione del vincolo, lo potrà fare tenendo conto “delle notazioni e indicazioni, di carattere essenzialmente formale” prescritte dallo stesso organo giudicante, rinnovando “integralmente e ab origine la necessaria attività istruttoria”.
Per i colli di Tuvixeddu e Tuvumannu, purtroppo, il fatto che la verità processuale possa non coincidere con quella sostanziale, non è una novità.
Il 19 gennaio 1996 un’altra decisione del Tar Sardegna, sempre confermata dal Consiglio di Stato, accogliendo le richieste di un costruttore, dichiarò “illegittimo per difetto di istruttoria e inadeguatezza della motivazione il decreto col quale il Ministro per i Beni Culturali e Ambientali, accertata l’esistenza di antiche testimonianze in alcune unità immobiliari ..., imponga il vincolo di notevole interesse archeologico sull’intera area, senza fornire alcuna specifica e dettagliata indicazione circa l’acquisita certezza della presenza e della dislocazione di reperti archeologici nelle restanti particelle catastali ..., ovvero senza dimostrare congruamente che i beni ritrovati costituiscano un complesso inscindibile, tale da rendere indispensabile l’imposizione del vincolo su tutta la superficie considerata ed il conseguente sacrificio degli interessi della totalità dei proprietari dei lotti di terreno inclusi nella stessa.”
Solo un anno dopo - e fino al 2003 - in quelle stesse aree, a causa dell’attività edilizia autorizzata a seguito dell’annullamento del decreto di vincolo, sono emerse 431 (quattrocentotrentuno) sepolture.
Nonostante l’evidenza dei ritrovamenti, allora, prevalse la verità processuale. Non si diede l’avvio ad un nuovo procedimento di imposizione del vincolo e le tombe - in parte scavate nella roccia e dotate di strutture monumentali - dopo essere state indagate e private dei ricchi reperti, furono ricoperte da una cortina di palazzi. Venne cancellato il panorama sugli stagni dal versante occidentale della necropoli e si oscurò definitivamente la vista del colle dal viale Sant’Avendrace. Al costruttore, grazie ai prevedibili - benché negati in giudizio - ritrovamenti è stato offerto in ricompensa, dallo stesso Ministero, un premio di rinvenimento.
Il ricordo di parte di quelle sepolture rimane affidato a due pubblicazioni in cui, paradossalmente, si attestano “le buone condizioni di conservazione” delle strutture “che hanno consentito ... la comprensione dei modi delle ripetute occupazioni e in qualche caso degli atteggiamenti di profondo rispetto nei confronti dei più antichi defunti”.
All’indomani delle decisioni del Consiglio di Stato, per evitare il ripetersi di simili devastazioni, Italia Nostra chiede al Ministero per i Beni e le Attività Culturali la predisposizione di una seria indagine conoscitiva estesa a tutta l’area dei colli di Tuvixeddu e Tuvumannu - indagine mai effettuata malgrado le espresse previsioni contenute nello stesso Accordo di Programma del 2000 - affinché si realizzi al più presto l’efficace tutela dell’intera superficie. La necessità di un adeguamento del regime vincolistico attuale, del resto, è già reso palese dalla maggiore estensione e dall’accresciuto valore dell’impianto funerario emerso a seguito della scoperta di 1166 (millecentosessantasei) nuove sepolture, rinvenute tutte successivamente alla predisposizione del sistema di salvaguardia risalente agli anni ’96 e ’97.
Ulteriori esigenze di tutela diretta derivano anche dal fatto che nella pineta del villino Mulas e nelle zone circostanti - compresa la stessa via Is Maglias - nel corso degli anni, sono emerse diverse sepolture, a dimostrazione che l’area sepolcrale si è estesa fino a quella ora destinata all’edificazione e che i beni ritrovati - anche se non sempre materialmente conservati -, in quanto parte della medesima necropoli, “costituiscono un complesso inscindibile tale da rendere indispensabile l’imposizione del vincolo su tutta la superficie considerata”.
Italia Nostra sottolinea, inoltre, il “valore primario e assoluto” del paesaggio, sancito dall’art. 9 della Costituzione, rilevando che “la conservazione della morfologia del territorio e dei suoi essenziali contenuti ambientali”, è un principio fondamentale della sua tutela la quale, “rientrando nella competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali (Corte Costituzionale sentenza n. 367/07).
Italia Nostra, infine, ricorda che per il nostro ordinamento il sistema di salvaguardia deve essere effettivo ed efficace, in grado di proteggere realmente il patrimonio culturale e di assicurarne la conservazione.
Per questi motivi Italia Nostra, certa che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali terrà fede all’impegno assunto con la risposta all’interrogazione parlamentare del 24 luglio scorso, chiede la difesa dell’intero sistema dei colli, perchè soltanto preservando l’unità paesaggistica dell’insieme le eccezionali emergenze archeologiche e naturalistiche ivi presenti potranno conservarsi nel proprio contesto.
Nella speranza che, questa volta, per i colli di Tuvixeddu e Tuvumannu la verità sostanziale prevalga su quella processuale prima che sia troppo tardi.
Per Italia Nostra la Delegata regionale alla tutela del patrimonio culturale Maria Paola Morittu
I lettori di eddyburg forse ricordano la vicenda del complesso Macrico di Caserta. È un'area centralissima, oltre 32 ettari, nel cuore della città, fino al 2001 utilizzata dall’esercito per la manutenzione di mezzi corazzati (il nome è l'acrostico di MAgazzino Centrale Ricambi mezzi Corazzati) . Subito dopo la dismissione, si è costituito un comitato per contrastare le speculazioni edilizie in agguato e per fare del Macrico il primo parco pubblico del capoluogo di Terra di Lavoro, senza neppure un metro cubo di cemento, recuperando solo il costruito esistente. Il comune di Caserta è di fatto privo di verde pubblico, anche per colpa del diffuso e perverso convincimento che il bisogno di spazi verdi sia ampiamente soddisfatto del parco della reggia voluta da Carlo III di Borbone, come se fosse questo l’uso cui adibire un bene monumentale di così grande importanza, sotto tutela dell’Unesco.
Il comitato per il Macrico ha agito in modo esemplare. All’inizio, furono raccolte in poche settimane oltre diecimila firme. Nel 2002, non riuscendo ad avere valide risposte dall’amministrazione comunale e dai partiti, il comitato costituiva una lista civica, “Macrico verde”, che eleggeva al consiglio comunale Maria Carmela Caiola, presidente di Italia nostra. Fu anche lanciata l’idea, sostenuta a livello nazionale dalla medesima associazione, di un azionariato popolare per l’acquisto del Macrico con lo slogan “50 euro per rimanere al verde” (50 euro per un metro quadro di parco). All’inizio del 2007, si è svolta una grande manifestazione – con la proiezione del film I have a green realizzato da un centro sociale – che ha visto il teatro comunale pieno in ogni ordine di posti, gente in piedi, pubblico entusiasta e variegato: scolaresche, insegnanti, madri, anziani, esponenti delle associazioni cittadine, tutti a testimoniare la grande voglia di verde.
Nell’ottobre 2007, l’obiettivo sembrò a portata di mano. L’occasione era fornita dalla celebrazione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità nazionale (1861-2011), evento per il quale sono previsti progetti speciali in tutto il Paese di concerto tra governo, regioni ed enti locali. Tra le idee approvate, la costruzione del Parco dell’Unità d’Italia all’interno dell’area Macrico. Il governo, la regione Campania, la Provincia e il comune parevano intenzionati a realizzare davvero, entro il 2011, il gran parco pubblico del Macrico.
È stato un abbaglio. Lunedì scorso 25 agosto è venuta fuori l’amara verità: il Macrico non sarà un parco verde ma un ammasso di cemento e di asfalto. Così ha deciso la conferenza dei servizi indetta presso la presidenza del Consiglio dei ministri dal comitato per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Alla conferenza hanno partecipato la regione Campania, la provincia e il comune di Caserta, la prefettura, i vigili del fuoco. Solo la soprintendenza ai beni architettonici ha mosso obiezioni. Il progetto approvato prevede, su un’area di poco più di 32 ettari, nuova edificazione per oltre 360 mila metri cubi. Considerando i 110 mila mc da recuperare, risulta una densità insediativa pari a quasi 1,5 mc/mq, un’autentica speculazione fondiaria. È previsto di tutto: un auditorium da 1.200 posti, un museo, alloggi e mensa per studenti, un polo fieristico, un incubatore d’imprese, uffici, bar ristoranti. E ancora, un’area mercatale, una sezione di riabilitazione medica, un centro benessere, una biblioteca. Infine, parcheggi interrati e nuove strade.
Allora, addio Macrico verde? La speranza è che i sostenitori del progetto non abbiano fatto i conti con la capacità di mobilitazione di Italia nostra, delle decine di associazioni e comitati che hanno inventato e sostenuto l’idea del parco pubblico. Senza cemento e senza asfalto.
Sull'argomento in eddyburg anche la nota di Italia nostra e l'articolo di Dacia Maraini
Terreni, immobili, servizi: il grande affare è a terra
di Roberto Rossi
Ci sono i terreni di Pianabella a Fiumicino, una porzione di immobili a Sesto San Giovanni, tutti da vendere. Ci sono i terreni dell’Expo di Milano da sfruttare. C’è tanta terra al sole nei pressi di Linate da riconvertire. Ci sono gli investimenti negli aeroporti italiani, corposi, pesanti, da tutelare. Ci sono le società di handling da sviluppare. Chi crede che la partita Alitalia si giochi solo negli uffici di Air France o Lufthansa corre il rischio di guardare il dito e non la luna. Il grande affare sta altrove. E si chiama speculazione, riconversione, sfruttamento.
Soldi, tanti, difficilmente quantificabili se non parzialmente. D’altronde non è un caso se tra i sedici capitani coraggiosi pronti a sacrificare l’oro alla patria e salvare Alitalia dallo straniero sei sono immobiliaristi o costruttori: Salvatore Ligresti, Francesco Caltagirone Bellavista, la famiglia Benetton, Marco Tronchetti Provera, il gruppo Gavio, il gruppo Fratini. Tutti pronti ad assecondare i desiderata di Berlusconi a condizione che il loro sforzo renda, e non solo con la vendita della propria quota nella nuova Alitalia, fra qualche tempo.
Si prenda il caso Benetton. La famiglia di Ponzano Veneto entrerà in Alitalia con un investimento tra i 100 e i 150 milioni di euro. Lo farà attraverso la controllata Atlantia, società che controlla le autostrade, già beneficiata da una revisione delle tariffe. Ma i Benetton gestiscono anche Adr Aeroporti di Roma (Fiumicino e Ciampino), che controllano attraverso Gemina (di cui fa parte anche Ligresti e il fondo Clessidra, altro azionista Alitalia). Adr, da tempo, è in trattativa proprio con Alitalia per la cessione di circa 50 ettari di terreno in località Pianabella attorno all’aeroporto di Fiumicino. Lo scorso marzo Adr aveva valutato quei terreni 120 milioni di euro. Che fine faranno ora? A quanto venderà quei terreni Benetton azionista forte di Alitalia a Benetton azionista forte di Adr?
C’è da scommettere che in Alitalia i soci non faranno troppe resistenze. Quei terreni, non edificabili, serviranno poi allo sviluppo dell’aereoporto romano. Sul quale Adr ha fatto una scommessa di lungo periodo. Nel piano industriale 2007-2016 la società ha preventivato uno sviluppo del traffico che in un decennio dovrebbe raggiungere i 50 milioni di passeggeri (oggi fermi a 33 milioni). Per farlo ha messo in piedi un programma di investimenti decennali per due miliardi. Tanti soldi che, come si legge anche nella semestrale, corrono il rischio di non avere il ritorno sperato se Alitalia dovesse fallire.
La tutela dell’investimento preme anche agli altri azionisti di Gemina e quindi di Adr, come Ligresti per esempio. Che, per la verità, ha anche altre aspettative. Lui, attraverso la controllata Fonsai (assicurazioni), impegnerà non più di 30-50 milioni. Briciole per il costruttore amico di Berlusconi. Che, però, gli consentiranno di avere un posto in prima fila nel grande affare Expo Milano 2015. Sarà quella la grande scommessa per immobiliaristi e costruttori. La torta è enorme: 3,2 miliardi, infatti, saranno destinati per le infrastrutture altri 892 milioni saranno il budget dell’evento.
A tavola c’è posto per tutti, come per Marco Tronchetti Provera e la sua Pirelli Real Estate o Francesco Caltagirone Bellavista con la società Acqua Pia Antica Marcia. I due in Alitalia metteranno non più di 50 milioni a testa. E aspetteranno. E anche se non dovessero avere troppe soddisfazioni dall’Expo, c’è l’immobile Alitalia di Sesto San Giovanni da alienare (2mila metri quadri per una decina di milioni di euro), ma soprattutto c’è la partita Linate da giocare. Comunque andrà l’aeroporto milanese sarà ridimensionato e molti terreni saranno liberati. Si prospetta la possibilità di una grande speculazione. Quantificarla è ora impossibile, ma negli affari, alle volte, si va a fiuto.
Lo stesso che ha portato ancora Benetton e Caltagirone Bellavista a fare il loro ingresso nell’aeroporto di Bologna. Piccola quota azionaria, in vista della privatizzazione, e gestione della società di handling. E se va in porto l’idea del multihub, che prevede la presenza di Alitalia in diversi aeroporti oltre Roma e Milano, si brinda. Una volta di più.
Linate, Sea vola alto: salotto buono con vista lago
di Luigina Venturelli
RESTYLING Sea l’aveva già scritto nel piano industriale presentato poche settimane fa e riconfermato anche ieri: Linate diventerà «il salotto buono» del sistema aeroportuale lombardo, tagliato su misura per i voli d’affari e per la relativa clientela.
Negozi di lusso «alla Montenapoleone», bar e ristoranti forniti d’ogni golosità made in Italy, il più grande parcheggio di Milano (2600 posti auto) direttamente collegato all’aerostazione da una passerella pedonale coperta, servizi e infrastrutture di livello con tanto di vista sull’acqua.
Vale a dire sull’Idroscalo, il lago artificiale fatto costruire da Mussolini per l’atterraggio degli idrovolanti ed oggi luogo di svago per chi non dispone di seconda casa al lago per i fine settimana. Il progetto di Sea, infatti, prevede «la valorizzazione dell’area waterfront di Linate», come vengono chiamati i terreni ormai dismessi che venivano utilizzati per il traffico merci. Forse per richiamare l’immagine di più noti waterfront (il lungo Tamigi di Londra o il lungo mare di Valencia, tanto per citare i più famosi) riqualificati con ristoranti, alberghi, residenze e uffici con affacci prestigiosi.
Per questo, mentre il governo si dibatte tra cordate nazionali e compagnie straniere per sciogliere il rebus Alitalia, allo scopo sacrificando gran parte dei voli sullo scalo cittadino a favore di Malpensa, la società che gestisce i due aeroporti milanesi non sembra preoccuparsi più di tanto. «Fa fede il piano industriale» è il mantra che si sente ripetere al quartier generale del Forlanini.
Il che significa: tutto fermo fino al 2010, in attesa di vedere quel che succede, aspettando che passi il periodo di «contingency», così sono definiti i prossimi anni di magra, riduzione del volume di affari conseguita agli scossoni degli ultimi mesi e attenzione al riordino dei conti della sezione handling. Poi tutto potrà succedere: Malpensa forse tornerà alla sua vocazione di hub (tipo Zurigo e Monaco), forse si limiterà ad essere grande aeroporto internazionale (i modelli sono Barcellona e Berlino).
Tra due anni, infatti, sarà stato individuato il vettore di riferimento (Lufthansa è sempre in pole position, ma non è detto possano tornare in auge Airfrance o la nuova Alitalia a fare dello scalo varesino la propria base operativa). Sviluppata la rete degli aeroporti a livello infrastrutturale e rivista la gestione delle risorse - secondo le previsioni del presidente Sea Giuseppe Bonomi - si tornerà ai livelli di traffico del 2007 con 34 milioni di passeggeri contro i 28 previsti a chiusura del 2008. Quindi il trampolino dell’Esposizione universale dovrebbe fare il resto.
L’obiettivo numerico di passeggeri è 50 milioni, da raggiungere nel 2016 con lo scenario hub e nel 2025 con quello da grande aeroporto internazionale: per arrivarci sono necessari il preannunciato ampliamento del terminal 1 (nuove porte e check-in), restyling del terminal 2 che diventerà la casa delle low cost, sviluppo della cargo city (in crescita del 3,5 per cento fino al 2007 e che sta subendo un netto calo dopo il ridimesionamento di Alitalia), nuovi sistemi di volo e nuovi edifici, la tanto discussa terza pista e il primo lotto del terminal 3.
Gli scenari futuribili non possono peccare d’ottimismo. Di certo, per ora, c’è che Linate vedrà ridursi il traffico turistico a favore delle tratte business. Solo dopo il 2015 si compirà il destino dell’aeroporto che sorge tra due parchi verdi a soli 7 chilometri dal centro città e che, per quella data, sarà dotato di comoda linea metropolitana.
Benetton: Con Adr è da tempo in trattativa per l’acquisto di un’area Alitalia
Nella nuova Alitalia la famiglia di Ponzano Veneto investirà una somma che oscilla tra i 100 e i 150 milioni. Lo farà attraverso la controllata Atlantia, società che controlla le autostrade. I Benetton gestiscono anche Adr Aeroporti di Roma (Fiumicino e Ciampino), Adr, da tempo, è in trattativa con Alitalia per la cessione di circa 50 ettari di terreno in località Pianabella attorno all’aeroporto di Fiumicino. Terreni valutati circa 120 milioni di euro.
Ligresti: Pochi milioni per un posto in prima fila nell’affare Expo
Ligresti, attraverso la controllata Fonsai (assicurazioni), impegnerà non più di 30-50 milioni. Briciole per il costruttore amico di Berlusconi. Che, però, gli consentiranno di avere un posto in prima fila nel grande affare Expo Milano 2015. Sarà quella la grande scommessa per immobiliaristi e costruttori. La torta è enorme: 3,2 miliardi, infatti, saranno destinati per le infrastrutture altri 892 milioni saranno il budget dell’evento.
Caltagirone Bellavista: A Sesto San Giovanni in vendita un palazzo della compagnia
Francesco Caltagirone Bellavista con la società Acqua Pia Antica Marcia non investirà più di 30-50 milioni. Oltre alla partita Expo, c’è l’immobile Alitalia di Sesto San Giovanni da alienare (2mila metri quadri per una decina di milioni di euro) ma soprattutto c’è quella che riguarda Linate. Comunque andrà l’aeroporto milanese sarà ridimensionato e molti terreni saranno liberati. Si prospetta la possibilità di una grande speculazione.
postilla
Vale forse la pena ricordare come l’articolo (ovviamente) non faccia alcuna menzione degli enormi pasticci che si aprono per i territori del Parco Ticino, che con questa “soluzione” appaiono in balia di qualunque capriccio clientelare locale, e dove già si è sperimentato abbondantemente il modello della trasformazione e urbanizzazione irreversibile, con enormi e ancora incalcolabili danni ambientali, sulla sola base di progetti di sviluppo vaghi e poi non confermati dai fatti. Il tutto a ribadire come al centro delle preoccupazioni di chi governa, nonché delle forze economiche di riferimento, ci sia un modello a dir poco assai arretrato e arraffone di crescita, che unisce fiato corto (è assolutamente insostenibile anche su tempi non dilatati) ed effetti devastanti. E l’opposizione? (f.b.)
[si veda anche l'articolo di Luigina Venturelli da l'Unità del 27 agosto ]
SCENARI «Nella cordata Alitalia ci sono troppi immobiliaristi per non insospettirsi, l’area di Linate rappresenterebbe un affare colossale se riconvertita ad uso residenziale e terziario». A pensare male si fa peccato ma spesso s’indovina, disse una volta
Andreotti, consegnando ai posteri un’utile chiave di lettura della politica italiana.
Torna buona anche oggi per leggere tra le righe del nuovo piano di salvataggio della compagnia di bandiera, quello che prevede il sostanziale addio allo scalo milanese con il trasferimento a Malpensa di tutti i voli Alitalia e AirOne. A pensar male è Nino Cortorillo, segretario generale della Filt Cgil Lombardia: «La chiusura di Linate è coerente con l’accordo siglato pochi mesi fa tra la Sea, che gestisce i due scali milanesi, e Lufthansa, che nel 2009 porterà a Malpensa sei aerei della sua controllata Air Dolomiti per farne entro il 2014 un hub centrale del suo sistema di alleanze. Ma anche con la composizione della cordata».
Spiega il sindacalista: «Gli investitori, tra i quali spicca il nome di Ligresti, partecipano all’operazione per avere un ritorno economico. Probabilmente non arriverà da Alitalia, ma dall’area dell’aeroporto cittadino e dalle opere dell’Expo». Così si scioglie anche il rebus della metropolitana che per il 2015 arriverà a Linate: perché costruirla se il destino dello scalo è segnato?
I piani di sviluppo urbano guardano ben oltre l’appuntamento fieristico. Nel frattempo si prepara il terreno per Lufthansa, che non vuole concorrenza per Malpensa: «Ma lo scalo varesino - conclude Cortorillo - non potrà farsi carico dei 10 milioni di passeggeri di Linate senza compromettersi ogni possibilità d’espansione».
L’ipotesi non piace nemmeno al presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati, che ieri ha inviato un telegramma al presidente del Consiglio Berlusconi per chiedere la convocazione urgente di un tavolo con le istituzioni locali sul sistema aeroportuale milanese: «È una presa in giro per gli elettori del Nord. Non si parla più di liberalizzazione dei diritti di volo e si preannuncia una nuova compagnia aerea di dimensioni modeste ma forte di due monopoli: quello della tratta più ricca d’Europa, la Roma-Milano, e quello dei voli internazionali dall’Italia non liberalizzati». Le somme tirate da Penati sono sconfortanti: «E Pantalone pagherà due volte, da contribuente nel risanare i debiti della bad company e da consumatore nell’acquistare biglietti aerei più cari della media europea».
Sugli stessi toni anche il segretario del Pd milanese, Ezio Casati: «Saranno i cittadini a pagare il monopolio preannunciato dalla fusione di Alitalia con AirOne. L’aeroporto di Linate è una risorsa importante che non può essere sacrificata».
Nel centrodestra, invece, è scattata la consegna del silenzio. Dopo il fuoco e fiamme minacciato per il ridimensionamento di Malpensa, il presidente della Lombardia Roberto Formigoni preferisce tacere sulle «illazioni» su Linate per salutare la nascita di Compagnia Aerea Italiana come «l’inizio di un nuovo cammino per Alitalia».
Si sbilancia solo la Lega Nord, compagna di barricate del governatore lombardo a difesa dello scalo varesino: «Linate non chiuderà mai, è troppo comodo per la città. Il vuoto di Alitalia, nel rispetto dei principi di libero mercato, sarà riempito da qualcun altro» sentenzia Marco Reguzzoni, capogruppo del Carroccio alla Camera. «Evidentemente avevamo ragione noi della Lega, quando dicevamo che chiudere Malpensa era insensato». Logica ineccepibile, con buona pace dell’aeroporto uscito perdente dalla sfida per la sopravvivenza.
Così rinascono gli Scavi
Stella Cervasio - la Repubblica, ed. Napoli, 27 agosto 2008
"I rovi occupavano il sessanta per cento dell´area archeologica, oggi è tornata la natura" Alla faccia dell’inquinamento, ci sono luoghi in Campania che possono diventare vere oasi ecologiche. È il caso di Pompei, che proprio in questi giorni ha avuto un segnale incontrovertibile, più ancora del risultato di un´analisi dell´aria: il ritorno dell’upupa. L’uccello dei poeti, dal piumaggio spettacolare a righe bianche e nere e con una grande cresta a ventaglio sulla testa, rossa puntinata di nero, mancava da anni dalla zona degli Scavi, ma prima dell’eruzione il suo becco ricurvo a Pompei era di casa, come testimoniano le pitture murarie delle domus: nel bestiario pompeiano il suo volo simile a quello di una farfalla è tra quelli che più hanno colpito gli artisti che trasferirono la natura sulle pareti delle lussuose case patrizie. L’Upupa epops è stata avvistata nell’area archeologica e la sua presenza è stata documentata fotograficamente. Il ritorno sta a significare un’ottima qualità dell´habitat naturale, dal punto di vista delle condizioni del verde e della purezza dell’aria. In quanto migratore, l’upupa soggiorna solo dove le conviene, dove cioè tra ambiente naturale e catena alimentare c’è un rapporto equo. Altrimenti, vola via e sceglie altre mète. Gli esperti del laboratorio scientifico dell’area archeologica hanno preso la sua apparizione come un palmares che ricompensa oltre 15 anni di attività. Il lavoro di Anna Maria Ciarallo, paleobotanica, e della sua équipe che opera a Pompei nella soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo, è volto a creare un equilibrio fra natura e resti di un´antica civiltà che proprio dalla natura fu distrutta. Il risultato è anche una risposta alle denunce di degrado in cui verserebbero gli Scavi di Pompei, secondo gli esperti. «Gli sforzi compiuti per liberare Pompei dai rovi - dice Anna Maria Ciarallo - che quindici anni fa occupavano per il sessanta per cento l’area archeologica, hanno dato i loro frutti. Con pazienza certosina, mettendo a punto tecniche di intervento diventate esemplari per l’archeologia di tutto il mondo, si è cercato di coniugare le esigenze di conservazioni del bene archeologico con quello naturalistico, poco noto al grande pubblico, ma altrettanto importante. Si è creato così uno straordinario equilibrio tra archeologia e natura, unico al mondo».
Che vuol dire? Una ventina di anni fa Pompei incarnava il gusto "romantico"delle rovine dove la natura ha preso il sopravvento, con erbe infestanti e rovi cresciuti disordinatamente dappertutto, come si vede nelle vecchie foto degli Scavi. Dove le pietre mancavano, il verde incolto riempiva i vuoti. Sotto la guida di Guzzo, si è formulato un progetto per la ricostruzione dei giardini come li volevano e li vedevano i pompeiani, proprietari delle case. Gli spettacolari spazi verdi delle case di Loreio Tiburtino, della Venere in Conchiglia, della Casa del Menandro e di quella del Profumiere, dell´Orto dei Fuggiaschi o della Grande Palestra oggi sono un valore aggiunto offerto ai visitatori, parte integrante dell’itinerario storico e di utilità per il restauro archeologico. All’estero se ne sono accorti prima di noi. I giardini recuperati sono infatti stati inseriti in una guida europea sugli spazi verdi più belli del mondo.
«Abbiamo sperimentato tecniche molto innovative di conservazione - spiega la botanica - come alcune malte per il restauro capaci di contrastare l’infestazione di erbe pericolose per la stabilità dei ruderi. Sono state protette rarissime specie vegetali adottando tecniche avanzatissime per la difesa ambientale, utilizzando i prati autoctoni per contrastare gli stress idrici legati alle condizioni climatiche che ormai caratterizzano le nostre zone».
Vigneti, siepi curate, piante in fiore, come nei giardini degli Amorini dorati (come si vede nella foto del ‘98, in precedenza erano preda delle sterpaglie, dove anche camminare per un visitatore era proibitivo), della bella Casa del Citarista, la preferita di Robert Harris, che qui scrisse nel 2003 il bestseller "Pompei", anche nell’area della necropoli di via Nocera, le cui immagini storiche parlano - quelle sì - di un degrado che oggi appare datato.
La verità di Bondi: «Pompei? Era uno strazio»
Enrico Paoli – Libero, 27 agosto 2008
Ministro, il nostro patrimonio storico e artistico è, forse, unico al mondo. Eppure non riusciamo a tutelarlo e valorizzarlo a sufficienza. Come intende intervenire?
«Sto lavorando ad un piano nazionale dei Musei italiani. Voglio dimostrare che è possibile realizzare un importante progetto di tutela e di valorizzazione dei musei italiani, destinando ad esso risorse adeguate, sia pubbliche che private», dice il ministro ai Beni Culturali Sandro Bondi, intervendo sulla polemica sollevata da Libero. «Ho deciso di bandire un concorso aperto anche agli stranieri per ricoprire il posto di direttore generale per i musei italiani. Accanto a questo progetto, sto lavorando, in stretta collaborazione con il sottosegretario Michela Brambilla, ad un piano per la valorizzazione degli itinerari turistico culturali, con particolare attenzione all`Italia cosiddetta minore, alle piccole città d`arte che rappresentano una ricchezza diffusa e nascosta senza paragoni nel mondo. Desidero, infine, sostenere particolarmente l`arte contemporanea».
Nel Mezzogiorno d`Italia i siti storici e archeologici sono ammalati di degrado e incuria? Perché? C`è una differenza fra nord e sud?
«Non credo che il Nord abbia una natura diversa dal Sud, dettata quasi dal Fato. Detto questo, le differenze ci sono, tra Nord e Sud, e si vedono. Ma la risposta la devono sempre dare i sistemi socioeconomici e culturali complessivi dominanti nelle singole aree del territorio nazionale. Dobbiamo avere la giusta attenzione in questi casi e valutare le singole realtà. Faccio poi presente che, ad esempio, la Sicilia è, di fatto, la punta di diamante dell`autonomia istituzionale ed operativa in queste materie ed è Regione autonoma, ma i problemi ci sono, in questa, come in altre Regioni d`Italia. Nel caso della Sicilia, direi che dovrebbe essere la Regione a investire soldi per il recupero dei luoghi e, quindi, per la successiva valorizzazione. Occorre sempre distinguere per non incorrere in facili schematizzazioni ed errori di analisi».
Per alcuni aspetti la Sicilia, anche se il patrimonio di quella regione non dipende direttamente dal suo ministero, rappresenta un caso limite. Ma è davvero impossibile porre un argine allo strapotere delle soprintendenze, in Sicilia come nel resto d`Italia?
«Guardi, io non parlerei di strapotere. Il Ministero dei beni culturali del quale le soprintendenze rappresentano le articolazioni territoriali rispondono ad una missione: quella di tutelare e custodire il patrimonio storico artistico e paesaggistico della nostra Nazione. È una missione che si fonda sulla Costituzione, che pone lo Stato a fondamento della tutela e della valorizzazione dei beni culturali. Questa missione ha formato una vera e propria élite burocratica, costituita da funzionari, storici e archeologi di grande preparazione culturale t di grande esperienza. Io, comunque, sono impegnato in una riforma che rifugga dagli estremi: sia un interventismo delle soprintendenze che può apparire a volte irragionevole e statalista, sia una libertà assoluta che metta in pericolo il nostro patrimonio culturale. I giornali stessi stigmatizzano alternativamente sia il degrado, del nostro territorio dovuto ad una malintesa libertà di costruire, sia il freno allo sviluppo conseguente a divieti e ad una burocrazia impermeabile al buon senso. Basta partire dal Codice dei beni culturali voluto dal mio predecessore Giuliano Urbani, e successivamente integrato dai ministri Buttiglione e Rutelli, rappresenta già un punto di equilibrio molto avanzato. Io ho cominciato ad agire sulla base del Codice del beni culturali e delle innovazioni costituzionali più recenti allestendo dei tavoli di lavoro con le Regioni e con gli enti locali che stanno dando già degli ottimi risultati in tema di collaborazione istituzionale».
Su Pompei invece è intervenuto, ma il grosso resta ancora da fare. Anche lei ha la percezione che questo sito archeologico non venga considerato una priorità per il nostro paese? L’industria dei turismo vive grazie a queste bellezze storiche...
«Pompei, che è una delle aree archeologiche più importanti del mondo, è stata lasciata in condizioni indescrivibili. L`immagine dell`Italia che ne ricavavano i turisti era straziante. Perciò ho adottato un provvedimento unico nella storia del nostro Paese. II Commissario sta operando con efficacia, e credo che in poco tempo l`area archeologica sarà riportata in condizioni di piena efficienza. Questa è la condizione essenziale per affrontare la fase successiva che prevede una gestione più manageriale del sito e della sua migliore valorizzazione turistica Per il futuro, sto riflettendo sulla migliore gestione dei beni culturali del nostro Paese. La forma delle gestioni autonome, come quella delle Fondazioni, sta offrendo indicazioni utili e positive. La Reggia di Venaria, l`area archeologica di Aquileia e la Villa Reale di Monza rappresentano modelli nuovi di gestione dei beni culturali. Non c`è dubbio, inoltre, che queste innovazioni indicano la necessità di separare e distinguere la sfera della tutela dei beni culturali affidata alla soprintendenze, da quella della loro vaio rizzazione turistica che può essere meglio affidata a strumenti autonomi di gestione».
L’altro aspetto eclatante riguarda le grandi opere, come la metropolitana a Roma il parcheggio del Pincio. Sono stati eseguiti gli scavi, sono emersi dei reperti archeologici che, con tutta probabilità, finiranno nello scantinato di qualche museo. L’unico risultato concreto, alla fine, è quello di bloccare i lavori. Ma è davvero impossibile superare questa logica dei veti?
«Sono assolutamente convinto del ruolo positivo della cultura per lo sviluppo del Paese, per questo il ministero per i beni e le attività culturali non deve essere più identificato come quello che frena la modernizzazione e lo sviluppo del Paese. Per queste ragioni, sono stato proprio io, senza che nessuno me lo chiedesse, a proporre al Presidente Berlusconi di nominare un commissario straordinario per superare tutti gli ostacoli, anche di natura burocratica, alla realizzazione delle linee metropolitane di Roma e di Napoli; due opere straordinarie per il rilancio e la modernizzazione di queste due città e a cui il governo tiene molto».
E sul caso del parcheggio del Pincio?
«Per quanto riguardala questione del Pincio a Roma, non c’è stato alcun intervento ostativo alla realizzazione del parcheggio da parte delle competenti soprintendenze. Semmai ci sono stati interventi e prese di posizione da parte della società civile per richiamare l’attenzione sulla necessità di salvaguardare un possibile grande patrimonio archeologico. Ci sono stati gli interventi a questo proposito molto intelligenti dei Professor Carandini e del sottosegretario Francesco Giro. Lo stesso mio amico Fabrizio Cicchitto mi ha invitato a recarmi sul posto e di valutare bene la situazione. Lo farò certamente. Questo per dire che la situazione è più complessa di come la si voglia far credere. E che le soluzioni non sono mai semplici, ma richiedono obiettività, conoscenza, buonsenso. Sempre che non vi siano interessi economici prevalenti che sono legittimi ma che devono avere dei contrappesi se si tratta di tutelare il patrimonio della Nazione. Molti esperti di cui ho fiducia mi hanno detto che per il Pincio è possibile sia realizzare il parcheggio che musealizzare i reperti archeologici. Esaminerò con attenzione questo problema, dopo aver sentito il sindaco Alemanno, i funzionari del ministero e i rappresentanti della società civile».
A proposito di modernizzazione a Firenze per non scavare sottoterra, ha rinunciato ad una vera metropolitana per una tramvia che dovrebbe correre a pochi metri dal Battistero. Le sembra una soluzione accettabile?
«La tutela del patrimonio storico del nostro Paese é una funzione che lo Stato deve continuare a svolgere sia pure con la partecipazione determinante degli enti territoriali. Ho espresso preoccupazione per l`impatto che la tramvia potrebbe avere sul Duomo e sul Battistero. Resto di questo avviso. E questa posizione del ministero verrà comunicata al comune di Firenze quando si riunirà per la prima volta il tavolo tecnico che abbiamo deciso di costituire su questo ed altri argomenti».
Postilla
L’intervista del ministro Bondi che riportiamo merita senza dubbio un commento non affrettato, che rimandiamo ad altra occasione, non solo per le risposte, ma anche per le domande, esemplari, nella rozzezza culturale e antropologica che esprimono, di un’intera concezione del nostro patrimonio cui purtroppo il ministro non sembra contrapporre una radicale diversità.
Ma in questa sede interessa sottolineare soprattutto il contrasto, non solo di contenuti, ma anche di toni, dei due articoli odierni sulla situazione di Pompei: la realtà che raffigurano è talmente in contrasto da domandarsi se si tratti dello stesso sito. Certo, come ci hanno insegnato schiere di filosofi, la verità “oggettiva” non esiste e come insegnano fior di epistemologi di alto livello, la complessità degli elementi che costituiscono un sistema come può essere quello di Pompei è tale che le interpretazioni possono divergere anche profondamente, eppure…a noi di eddyburg, sospettosi per natura, è venuto in mente di controllare l’agenda del capo del ministro Bondi: ad ottobre è prevista una sua visita agli scavi pompeiani, in pendant mediatico-politico di quella ormai “cult” di qualche settimana fa in una Napoli finalmente “risanata” dalla monnezza. E una Pompei rifiorita con un colpo di bacchetta magico commissariale è assai più vendibile e spettacolare di un sito che dopo lunghi anni di ricerche, analisi, restauri, cure (per di più originate in “regime” di centro sinistra…), rinasce non solo dal punto di vista culturale, ma addirittura anche da quello naturalistico.
A pensar male, come si sa, si fa peccato, ma…(m.p.g.)
Oggi ci s'interroga se Alemanno, a proposito del Pincio, considererà più impegnative le strizzate d'occhio ad Italia Nostra prima del ballottaggio, o gli interessi economici intrecciati alla «grande impresa» che stanno uscendo allo scoperto. Ha l'alibi di chi ha gridato ai conti in rosso, e dello sbandierato ammontare della penale. E soprattutto del fatto che il famigerato parcheggio non è una sua iniziativa, ma un'eredità della giunta Veltroni.
Nella mia lunga vita di assessore e consigliere comunale, ho avuto più di una volta la sensazione che l'approccio della «macchina comunale» al traffico romano non sia il più felice, pesante nelle soluzioni (il modo in cui è stata progettata la linea «8», più un monumento all'idea di tram che un funzionale tram veloce, che forse avrebbe potuto fare a meno, come ad Amsterdam, della banchina centrale e dei cordoli, appoggiandosi direttamente ai marciapiedi di viale Trastevere) quanto approssimativo nei dettagli (per restare sull'«8», basta guardare la foresta dei semafori davanti al ministero della Pubblica Istruzione).
A Roma sopravvivono tecniche consigliate dai peggiori manuali degli anni Cinquanta: le più datate sono la rotatoria come panacea universale, e l'idea di ricercare la «grande soluzione» anziché le più complesse soluzioni. L'idea che, per diminuire le auto parcheggiate per strada, occorrono più parcheggi ne è un corollario. Mentre sinora tutte le esperienze hanno dimostrato che è vero il contrario, che i nuovi parcheggi generano traffico. Oppure - a Roma - restano inutilizzati (basta visitare il famoso parcheggio del Gianicolo, ragione di una furibonda controversia giubilare di Rutelli contro il «signor no» La Regina) o sottoutilizzati (come lo stesso parcheggio - d'autore, firmato Luigi Moretti; e teatro di un evento culturale come Contemporanea di Porta Pinciana). In fondo, osserva qualcuno, non è tanto grande la distanza tra il progettato parcheggio del Pincio e quello esistente di Moretti... Aggiungo che considero un po' velleitaria l'idea, alla base del progetto, che i residenti del Tridente compreranno tutti un box nel nuovo parcheggio, in modo di poterlo liberare integralmente dalle macchine. E se non tutti facessero così? È il mercato, bellezza!
Dire di no al parcheggio potrebbe avere il valore liberatorio di rompere con l'illusione di risolvere una polmonite con l'aspirina. Ma Alemanno non sembra aver molta voglia di approfondire la questione, al punto di non trasmettere ai «cinque saggi della «sua» commissione i risultati degli scavi compiuti dalla Sopraintendenza. Preferisce pensare in grande: alla sua commissione Attali «de noantri», dove Venditti dovrebbe dialogare con Cipolletta e Portoghesi. Pensare che Tremonti si scaglia contro «il nullismo del '68»! Ma questo non è nullismo, è (berlusconiana) cura dell'immagine.
Nonostante l'indecisione dell'opposizione in Campidoglio, la questione del parcheggio del Pincio ha prodotto una divisione reale nella maggioranza di Alemanno. Non si scherza col simbolico, e in questo caso il simbolico si propone ben due volte. Il parcheggio va bloccato perché è uno dei simboli della Roma di Veltroni, le scoperte archeologiche vanno tutelate perché sono memoria del glorioso passato. E non l'ha appena detto Tremonti, che per andare avanti occorre guardare al passato?
Proprio queste fibrillazioni politiche mettono in evidenza una sostanziale indifferenza delle reazioni alle scoperte archeologiche appena pubblicate. La bellezza delle immagini è stata contraddetta dalla valutazione possibilista dello stesso sopraintendente. Purtroppo è qualcosa che appartiene più al ceto politico che al riflesso d'ordine della grande stampa. Anche del ceto politico del centro sinistra: a Napoli la Jervolino non ha saputo nascondere il suo disappunto per analoghi tesori portati in luce dai lavori della metropolitana. Haussmann, il demolitore» della vecchia Parigi per costruire la nuova, non rifiutò per caso un analogo incarico, che il Governo italiano gli offrì dopo la caduta di Napoleone III in quello stesso anno 1870 in cui Roma fu riunita all'Italia.
A Roma bisogna sapere intervenire con più delicatezza, quella per cui il «prefetto di ferro» non si sentiva giustamente portato. E soprattutto con idee più generali di singole grandi opere presunte, qui un parcheggio, lì una Nuvola, lì la «città della fitness acquatica» al posto del Velodromo di Ligini fatto esplodere dallo stesso prefetto che avrebbe dovuto tutelarlo. La capacità che abbiamo di comprendere il senso della città, della sua storia e dei suoi monumenti, non è altro che lo specchio della nostra capacità di essere moderni nell'intimo, che è altra cosa dalla sua esibizione spettacolare.
A Roma pensiamo a termine il maxi, il macro, la Nuvola di Fuksas la cui costruzione sta diventando una favola. Pensiamo a vere «nuove centralità» che sappiano competere col fascino del centro. Non è qualcosa d'impossibile, in fondo la stessa trasformazione del modo di vivere a Testaccio, all'Ostiense, a San Lorenzo lo dimostra. L'unico difetto è che finora si tratta di centralità cresciute «a macchia d'olio» intorno al centro esistente. E riprendiamo la «grande idea» di Petroselli per Roma - il centro archeologico e storico luogo della cultura - in forme meno banalmente tecniciste che far dipendere dal parcheggio del Pincio la pedonalizzazione del Tridente.
Nuovo capitolo su Tuvixeddu. Ieri la Coimpresa ha ripreso i lavori e il governatore Renato Soru ha risposto su due fronti. Da un lato ha convocato per giovedì un incontro in presidenza tra Regione, Comune, soprintendenza e Coimpresa. Dall’altro ha annunciato che in settimana la Giunta predisporrà l’ipotesi di delibera (da approvare in Consiglio), per la nomina della commissione al Paesaggio e, in contemporanea, un provvedimento urgente per bloccare i lavori su tutto il colle. La contesa sul colle va avanti dall’11 gennaio del 2007, con l’intervento della Regione per fermare tutti i cantieri aperti sul colle di Tuvixeddu. Ma la storia contemporanea di Tuvixeddu (al cui interno si trova la necropoli punico romana più grande del Mediterraneo) inzia molto prima. Accordo di programma. Tra il 1989 e il 1990 la Coimpresa (che fa capo al gruppo fondato da Gualtiero Cualbu) presentò un progetto per un’ampia lottizzazione del colle. Subito vi fu una mobilitazione di ambientalisti e archeologici (guidati dall’accademico dei Lincei Giovanni Lilliu). Poi il piano iniziale venne fortemente ridimensionato e, dopo varie trattative, si arrivò a un intervento integrato sancito dall’accordo di programma firmato, nel 2000, da Coimpresa, Regione e Comune. Quest’intesa prevedeva, e prevede, tra le varie cose anche un parco archeologico naturalistico di venti ettari (con all’interno la necropoli); da un’altra parte del colle (a lato di via is Maglias), una serie di edificazioni per circa quattrocento appartamenti; e relativa viabilità funzionale al decongestionamento del traffico nell’area di Is Mirrionis, con una strada anche dentro il canyon. Tutela. La lottizzazione di via Is Maglias si trova distante dall’area archeologica, come sottolineato più volte dalla Coimpresa, che ha anche precisato che «da quella parte del colle la necropoli nemmeno si vede». Nel 2004 però, ha affermato la Regione, il Codice Urbani (la legge nazionale sui beni culturali) ha esteso il concetto di tutela anche al paesaggio. Il che significa, ha ripreso ieri il presidente Soru, «che per noi è importante tutelare tutto il colle perchè in questo c’è la storia e la memoria che si rileva anche nel paesaggio e nei ricordi che questo evoca». Due concezioni. Lo scontro è tra «due visioni diverse», ha affermato il governatore. «Noi partiamo da una considerazioine del bene pubblico, il privato no: i ruoli sono diversi». Il concetto di paesaggio viene visto, nel Codice Urbani (a cui si rifà la Regione), come un valore non commercializzabile. Nel caso di Tuvixeddu questo si allarga ben oltre l’area della necropoli: a tutto il contesto che assume quindi un valore culturale pur nella sua contorta morfologia. Da conservare «nella sua integrità all’interno del grande parco che vogliamo fare». Il contenzioso. Dopo il blocco dei lavori del gennaio 2007, la Regione fece una serie di atti sino al vincolo di inedificabilità su tutto il colle. I privati e il Comune (a cui la Coimpresa ha ceduto 40 ettari di terreno del colle e ridotto un vecchio debito legato a terreni irregolarmente espropriati) hanno fatto ricorso al Tar, che ha invalidato tutte le determinazioni e le delibere della giunta regionale. E annullato (per gravi irregolarità procedurali) la commissione al Paesaggio che aveva motivato l’allargamento del vincolo. Sentenza poi convalidata anche dal Consiglio di Stato a cui si era appellato il governo dell’isola. La necropoli. La Regione, ha precisato ieri il presidente Soru, «pensa che alcuni errori procedurali» siano ben poca cosa «rispetto all’importanza di una necropoli, bene dell’umanità, come quella di Tuvixeddu». Un centro archeolgoico dove, «dal 1997 (anno in cui venne posto il vincolo) sono state scavate altre 1.166 tombe», ha pricisato l’assessore Maria Antonietta Mongiu (Cultura). Di cui «ben 430 fuori dal perimetro archeologico e da quello del parco comunale», ha aggiunto l’assessore Gianvalerio Sanna (Urbanistica). E «una parte di queste ultime sono monumentali», ha informato Mongiu. Da qui la richiesta di intervento, ha ribadito Soru, «fatta al ministro alla Cultura. Ma visto che il Codice Urbani assegna anche a noi dei compiti, ricostituiremo la commissione al Paesaggio per riproporre e varare il vincolo a tutto il colle. Nel frattempo, tramite l’articolo 14 della legge urbanistica, attiveremo il blocco dei lavori per novanta giorni». Trattativa. Nell’incontro di giovedì prossimo la Regione proporrà alla Coimpresa una “compensazione” in cambio dei terreni di via Is Mglias. «Vi sono molte aree militari dismesse che possono essere oggetto di scambio - ha affermato il presidente - non precludiamo niente, nemmeno forme di indennizzo, ma puntiamo a una compensazione. Vi sono molte aree in cui è possibile costruire. E discutendo si può arrivare a un accordo che salvaguardi tutti gli interessi: sia del pubblico, che i diritti del privato».
«Il rapporto sui ritrovamenti al Pincio ci è stato appena consegnato dalla Soprintendenza. Lo stiamo analizzando ed è mia intenzione sottoporlo al Comitato tecnico scientifico per i Beni archeologici. Mi farò accompagnare dal soprintendente Bottini e, avuto il loro parere, decideremo sul da farsi». Così il direttore generale per i beni archeologici del ministero Beni culturali, Stefano De Caro.
Mentre forze politiche, ambientalisti e archeologi si dividono sullo stop al cantiere per il parcheggio da 700 posti, e nel giorno in cui anche Ermete Realacci (Pd) si spende per il «sì» («Massimo rispetto per i ritrovamenti, ma la maniera migliore per rispettarli è farli essere un pezzo della vita della gente» ha detto il ministro ombra dell'Ambiente), al San Michele vengono chiamati i professori del comitato. L'opinione di Giuseppe Sassatelli, Andrea Augenti, Mario Torelli e Irene Berlingò servirà al ministero per dare l'ultima parola sul parking della discordia.
Professor De Caro, per legge è lei a decidere se e quale reperto deve essere smontato, spostato, o sacrificato. È il caso del Pincio?
«La relazione della Soprintendenza segnala che ci sarebbero da fare rimozioni di strutture antiche, cunicoli che rientrano nell´area del progetto per il parcheggio. Vedremo che decisione prendere».
Politici, amministratori e impresa dicono però che i resti saranno salvati modificando il progetto.
«Occorre una valutazione complessiva, non sempre basta spostare un pilastro di qualche metro per salvaguardare il bene».
Ma agli inizi di settembre la giunta Alemanno discuterà il caso in aula. E intanto i lavori vanno avanti.
«Ognuno fa il proprio mestiere. Io voglio ricordare che la Costituzione italiana attribuisce al patrimonio culturale valore fondativo dell'identità della Repubblica, a prescindere dagli interessi d'altra natura coinvolti».
E se sul piatto della bilancia ci sono un parcheggio e una domus?
«La Costituzione è chiara. La tutela non è subordinata alla valutazione di altri interessi».
Non teme così di passare per essere un talebano della tutela?
«No, io mi riferisco a ritrovamenti di interesse archeologico (e non basta un coccio a bloccare un cantiere ...) che devono uscire valorizzati, resi fruibili, dall'operazione architettonica. Ad esempio a Napoli, quando ero soprintendente, per la realizzazione della fermata della metro Duomo, decidemmo noi di smontare e rimontare il tempio di primo secolo a. C. venuto alla luce durante i sondaggi. E oggi tutti possono ammirare in mostra al museo di Napoli i risultati di questi ritrovamenti, anticipazione della stazione archeologica in corso di progettazione da Massimiliano Fuksas».
Il comitato di settore è composto da archeologi. Ma al Pincio il problema della tutela è anche di carattere monumentale e ambientale.
«Il direttore generale Roberto Cecchi valuterà se sottoporre la questione al comitato per i Beni architettonici e paesaggistici. In questo caso si avrà un parere congiunto dei comitati, come ad esempio è avvenuto per la stazione di piazza municipio a Napoli».
Nella partita per la tutela del paesaggio intorno al centro storico di Mantova, i costruttori segnano un punto a loro favore. Il Tar ha accolto parte del ricorso contro il vincolo che la Soprintendenza ha posto su tutte le sponde dei laghi che abbracciano le mura del Palazzo Ducale e del castello di San Giorgio. Il provvedimento avrebbe impedito la costruzione di un intero quartiere, 180 mila metri cubi, su un´area di oltre 30 ettari proprio di fronte ai due gioielli dell´architettura rinascimentale. Ma i giudici amministrativi hanno sostenuto che l´istruttoria della Soprintendenza non è stata adeguata. E dunque il vincolo decade, almeno nella parte che riguarda specificamente l´aera interessata alla lottizzazione.
Per la Soprintendenza e per il Comune di Mantova è un brutto colpo. Che però non scoraggia il sindaco Fiorenza Brioni, che da anni si batte per bloccare l´insediamento. «Andremo avanti», dice il primo cittadino, «ho già chiesto incontri con il soprintendente e con il direttore regionale e parlerò anche con il ministro Sandro Bondi. Faremo ricorso al Consiglio di Stato, non vogliamo rassegnarci all´idea che sorga un intero quartiere di fronte al Palazzo Ducale: sarebbe lo scenario che si spalanca allo sguardo di chi si affaccia dalla Stanza degli Sposi affrescata da Andrea Mantegna». Anche il soprintendente ai beni architettonici, Luca Rinaldi, che insieme all´allora direttore regionale, Carla Di Francesco, ha preparato il vincolo, difende il provvedimento e farà valere le sue ragioni.
La vicenda inizia nel 2004, quando venne presentato il progetto, per il quale fu approvata una variante urbanistica. Ma nel 2005 il nuovo sindaco, Fiorenza Brioni, avviò le procedure per annullare la lottizzazione. Con lei si schierò molta parte della città, preoccupata che la percezione del paesaggio urbano di Mantova venisse alterata dalle costruzioni, un paesaggio urbano raffigurato da tanti pittori rinascimentali - Mantegna fra questi - e diventato con il suo contesto di verde e di acqua uno dei patrimoni dell´arte e dell´architettura italiana (a luglio scorso la città, con le sue pietre e il suo sfondo naturale, è entrata a far parte dei siti tutelati dall´Unesco). Dopo un lungo braccio di ferro con la proprietà dell´area, è arrivato nell´aprile del 2007 il vincolo di inedificabilità assoluta su tutte le sponde dei laghi.
La questione sembrava chiusa. Ma i costruttori hanno fatto ricorso. E il Tar ha dato loro ragione. L´impianto complessivo del vincolo va mantenuto. Va invece annullato nella parte che riguarda i 30 ettari interessati alla lottizzazione. La Soprintendenza, si legge nella sentenza, non avrebbe sufficientemente motivato il danno arrecato al patrimonio architettonico dalle costruzioni. La battaglia continua.
l’Unità, 21 agosto 2008
Il Pincio del futuro? Un belvedere per auto
di Adele Cambria
Sarà pure un ossessione, la mia, l’ossessione Pincio, chiamiamola così, ma per decenni, nella mia vita, come in quella di tanti altri, purché abitanti di Roma per un giorno o per sempre, il Pincio è stato una realtà indiscutibile: la bellezza a disposizione di tutti, il belvedere collettivo sulla città, le cupole, l’oro dei tramonti, una cartolina, se volete, ma che male c’è, vogliamo distruggerlo per questo?... Insomma era là e - lo pensavamo, noi gente comune, fino all’anno scorso - ci sarebbe rimasto «in eterno». Anche per i giochi dei bambini, la piccola giostra di legno già un po’ sverniciata di quando mio figlio aveva due anni, il teatrino di Pulcinella, l’uomo senza naso - c’è ancora, cominciando la salitella verso la Casina Valadier - e serviva a «minacciare» i bambini, se non mangi ti cade il naso, come a questo qui…
In quegli anni, la mia relazione col Pincio era di familiarità, privilegiata dal fatto di abitare «di sotto», al Babuino. E quindi il Giardino del Lago con la barchetta - la domenica sempre con i bambini, a spiegare chi era Esculapio, il dio barbuto sull’isoletta - e poi a maggio Piazza di Siena con il Concorso Ippico ed il Carosello dei carabinieri, e, nei pomeriggi di sole d’inverno, le automobiline rosse a pedali e, l’anno dopo, le biciclette con le rotelline supplementari per imparare ad andarci: dove se non sulla terrazza del Pincio? Nemmeno sapevo che fosse intitolata a Napoleone. La confessione deve essere piena: non sapevo nulla del Pincio, della sua storia, del perché si chiamasse così, me lo godevo, nei brevi anni dell’infanzia dei miei figli, come un privilegiatissimo parco giochi per i bambini - i miei avevano dato un nome ai quattro leoni di marmo del Valadier, disposti attorno all’obelisco egizio di Piazza del Popolo - ma fu proprio nella dimensione/bambino, e a suo vantaggio, che cominciai a studiare la storia di Villa Borghese, per raccontarla alla Tv dei Ragazzi, diretta da Paola De Benedetti, per cui lavoravo. Mi ero resa conto che c’erano tanti bambini di Roma che non avevano mai visto il Pincio, visitato un Museo, fatto un giro ai Fori. Cominciai dalla Galleria Borghese, conoscevo la meravigliosa soprintendente di quegli anni, Paola Della Pergola, diede il permesso per le riprese, del gruppo facevano parte ragazzini della scuola elementare Trento e Trieste di via dei Giubbonari, allora un rione molto popolare, e dello Chateubriand di Villa Strohl-Fern; li portai a vedere la Madonna dei Palafrenieri del Caravaggio, quella col bellissimo bambino nudo - il quadro fu rifiutato dai committenti per la sua impudicizia - li lasciai parlare, immaginare il bambino «vero» che aveva fatto da modello al pittore…
Ecco, io mi domando da tempo, senza osare di formulare la domanda a Walter Veltroni, come sia stato possibile, al Ministro dei Beni Culturali del primo governo Prodi, che riuscì nel miracolo di far riaprire, tempo un anno, nel 1997, la Galleria Borghese chiusa da quattordici anni per restauri, da Sindaco di Roma concepire invece il mega-parcheggio dentro il Pincio.
In questi giorni ferragostani sono andata a rileggermi i libri. A cominciare da una avvincente guida di Villa Borghese, in cui Alberta Campitelli, soprintendente alle Ville Storiche di Roma, racconta la storia della Villa: che il principe Francesco Borghese apriva spesso «a una folla di persone di ogni ceto», come accadde nell’ultima domenica dell’ottobre 1834; una festa, secondo il cronista della rivista L’Album, dove, «oltre alle amenità del luogo, si godevano i più acconci e squisiti diletti che si potesse…»
«Questo antico legame con il popolo romano - osserva puntualmente Campitelli - salvò la villa dalla lottizzazione che, alla fine dell’Ottocento, aveva già distrutto alcune tra le più belle residenze nobiliari romane». E insiste: «Agli appelli degli uomini di cultura si aggiunse, in quella occasione, la forza dell’opinione pubblica e così la villa fu acquistata dallo Stato Italiano, e il 12 luglio 1903 aperta al pubblico». E la soprintendente alle Ville storiche si rifà alla legge che ne permise l’acquisto, indicando come il Casino nobile (ribattezzato Galleria Borghese) fosse destinato a Museo pubblico di pertinenza dello Stato: «Mentre il parco con tutti gli edifici minori, le fontane e gli arredi, fu destinato al Comune di Roma che doveva però impegnarsi a mantenerne il carattere pubblico, a restituirne “il pristino splendore”, a collegare la villa alla pubblica Passeggiata del Pincio…».
Già, il Pincio. «Si estende dove sorgeva in antico uno dei gruppi di splendide ville che coronavano Roma… In questa zona avevano i loro horti Lucullo, gli Acili, i Domizi…». Gli horti erano un complesso architettonico di ville e giardini, e vi si inserivano anche piccole necropoli familiari: in quella dei Domizi fu ospitata l’urna con le ceneri di Nerone, interrata e lacrimata con lacrime sincere dalla liberta Atte che l’aveva per sempre amato… I Pinci furono l’ultima famiglia aristocratica che si insediò sul colle, e finì col dargli il nome.
Perché, mi chiedo, queste memorie devono far posto alle automobili? E alle moto, che già scorazzano a notte per viale Gabriele D’Annunzio, fino all’obelisco di Antinoo, e scendono e salgono a precipizio e rombanti lungo le rampe del Valadier?
Il giorno di Ferragosto, nell’afa del mezzogiorno, ho risalito anch’io le rampe, da piazza del Popolo, ma a piedi: il degrado del complesso disegnato dal Valadier, su suggerimento di Napoleone - ma l’architetto già ci lavorava dal 1793 - si arricchisce ogni giorno di nuove invenzioni: ho visto un sandalo infradito, di plastica nera, appeso al braccio di una delle statue neoclassiche che ornano l’emiciclo; staccionate di legno cadenti, transenne provvisorie, cartoni perfino, sostituiscono pezzi delle balaustre infrante da qualche bravata notturna, la Fama ancora resiste ed incorona i Geni delle Arti e del Commercio nel bassorilievo della Seconda Prospettiva, mi chiedo se da qui entreranno le automobili, e che ne sarà degli elmi romani che anticipano il liberty, nella composizione firmata da Achille Stocchi e Felice Baini (1831).
Il fatto è che ogni elemento della complessa architettura immaginata dal Valadier ha bisogno di restauri, e non di automobili.
L’appuntamento dato dalla sezione romana di Italia Nostra, in una ferragostana conferenza stampa tenuta da Carlo e Marina Ripa di Meana e dall’avvocata Vanessa Ranieri al Caffè Canova, è fissato per il prossimo 25 agosto. Si spiegherà allora al sindaco Alemanno che la rescissione del contratto con la ditta appaltatrice potrebbe essere accompagnata dalla richiesta alla ditta del risarcimento del danno prodotto da un cantiere per molti versi illegittimo.
«Di notte a Roma par di sentir ruggire i leoni», scriveva Carlo Levi nel bellissimo incipit del suo libro forse più politico e visionario a un tempo, L’orologio. Per il socio onorario di Italia Nostra, Sandro Bari (c’era anche lui alla conferenza stampa al Canova), oggi a Roma par invece di sentire «il rantolo del cementatore». Inutile precisare nome e cognome. Semmai, dubiterei del «rantolo»: visto che su un quotidiano storicamente della destra capitolina si rovescia tutta la questione del megaparcheggio in un gioco delle tre carte: sostenendo che il progetto fu portato in Campidoglio dal centrodestra.
Ma, rivolgendo un appello a tutti quanti: ditemi almeno perché non vi basta l’immenso parcheggio sotto il Galoppatoio - «dal 1960 desertificato - annota Alberta Campitelli - dalle griglie d’areazione»? Ora che ci hanno ritrovato la Bmw con cui sarebbe stata rapita Emanuela Orlandi, il fatto che quella lugubre automobile sia rimasta là sotto 13 anni, senza essere notata da nessuno - in quel vuoto di abitatori motorizzati - non persuade a riempirlo delle ormai celebri 726 auto da sgomberare, com’è giusto, dal Tridente, cui potrebbe essere agevolmente collegato da navette elettriche e più scale mobili?
l’Unità, 21 agosto 2008
E la relazione dei tecnici è stata insabbiata
di Adele Cambria
Il problema, sacrosanto, era come svuotare dalle auto parcheggiate le storiche strade del Tridente - da Piazza del Popolo si diramano infatti tre strade parallele, via del Babuino, via del Corso e via Ripetta, intercalate o concluse da piazze non meno preziose, a cominciare da Piazza di Spagna - e qualcuno pensò che scavando dentro il Pincio, ed installando nel suo ventre una struttura in cemento armato di sette piani, si sarebbero potuto ricoverare le automobili, e le moto, dei residenti e dei commercianti (ai quali si sarebbe venduto il posto macchina); mentre un terzo del megaparcheggio sarebbe stato riservato alle auto e alle moto di passaggio (parcheggio a ore). Ci si dimenticò, forse, dell’altro megaparcheggio scavato nel 1960 sotto il Galoppatoio di Villa Borghese e quasi sempre vuoto, e nel novembre scorso si aprì il cantiere sulla terrazza del Pincio - piazzale Napoleone I°- per quello che avrebbe dovuto essere soltanto uno scavo preliminare diretto ad analizzare che cosa «nascondeva» l’area, in fatto di preesistenze archeologiche. Nessun riguardo invece per il complesso architettonico magistrale realizzato negli anni ’30 del diciannovesimo secolo, sul progetto d’ispirazione napoleonica di Giuseppe Valadier, e che stabiliva una unità stilistica inviolabile tra Piazza del Popolo e il Pincio. All’apertura del cantiere, corredata peraltro da un parere molto critico e comunque non definitivo del Soprintendente dell’epoca, Adriano La Regina - parere improvvidamente promosso a nulla osta dal suo successore - si oppose soltanto la storica associazione ambientalista Italia Nostra, seguita, il I° dicembre del 2007, da una iniziativa presa, per la Provincia di Roma, dal Presidente del Consiglio Provinciale, Adriano Labucci. Intanto i lavori andavano avanti, del tutto vietati ai non-addetti ai lavori, giornalisti compresi, e del progetto si avevano notizie frammentarie: sicuramente vi sarebbe stata,al centro della terrazza del Pincio, una griglia d’areazione di 20 metri x 10, ma nessun dispositivo tecnico era stato proposto per evitare gli effetti dell’inquinamento, l’ingresso delle auto era previsto dalla rampa di destra del Valadier, e così il passaggio pedonale. Infine non si sapeva nulla di quanto era stato ritrovato nel ventre del Pincio, pur se da decenni le guide del Touring vi localizzavano ville aristocratiche dell’antica Roma. Soltanto il 7 agosto scorso la Soprintendenza archeologica di Roma ha inviato al Sindaco Gianni Alemanno la relazione sulle scoperte, accompagnandole con foto eloquenti - un criptoportico anteriore al IV sec. a.C. che attraversa l’intera area, il resto di un pavimento in mosaico su fondo nero, con tessere colorate, sedici vani di cui 6 ipogei del I°sec.a.C - ed avvertendo che «l’area in oggetto va tutelata integralmente». «Ma a noi della Commissione dei Saggi - dice il Professor Giorgio Muratore - non è arrivato nulla!» Ed il Presidente della Sezione romana di Italia Nostra, Carlo Ripa di Meana, si chiede chi ha insabbiato la relazione della Soprintendenza che i 5 Saggi nominati dal sindaco attendevano per esprimere un parere definitivo sulla questione.
Roma ieri, oggi, domani, 18 dicembre 1989
Un piano per i parcheggi
di Antonio Cederna
La congestione del traffico, è noto, dipende dalle malformazioni delle città, dal modo come sono state costruite a dispetto di ogni elementare norma urbanistica: così Roma, che si è sviluppata a macchia d’olio a misura della speculazione, con periferie inumane e il centro storico degradato a baricentro di tutti gli interessi e di tutto il traffico, e quindi intasato, soffocato, terziarizzato, inquinato e attraversato da chi va da una periferia all’altra. Preso a sé il problema del traffico è un falso problema: può essere avviato a soluzione solo se inquadrato in una nuova politica di pianificazione e se si adotta un piano della mobilità che sia globale e non settoriale. E invece, a parte l’inefficienza capitolina per cui negli ultimi anni sono stati commissionati, approvati e pagati sedici “piani” del traffico (buttando circa otto miliardi) e finiti tutti nel cassetto, ecco che adesso si è dato il via al piano settoriale dei parcheggi.
A gennaio saranno esaminati i progetti presentati dalle ditte che sono state ammesse al concorso: in base alla delibera adottata dal Consiglio Comunale nel dicembre dell’anno scorso, è decisa la costruzione di quindici parcheggi sotterranei e di cinque a livello stradale. Dei primi, almeno cinque sono a ridosso del centro storico: in piazza Risorgimento, piazza Mazzini, piazza Mastai, piazza Cavour, e in via Ferdinando di Savoia (a pochi passi da piazza del Popolo!), mentre non si parla più di quello previsto dalla delibera in piazza Cola di Rienzo. Non si è dunque tenuto nessun conto di quanto sostenuto due anni fa dall’assessorato alla cultura della regione, che escludeva la possibilità di costruire parcheggi sotterranei nel rione Prati (piazza Cavour, piazza Risorgimento) per elementari ragioni statiche, e quindi per i pericoli di dissesti negli edifici circostanti: il terreno, una volta acquitrinoso, è composto da uno strato di riporto di 5-6 metri e il sottosuolo da strati alluvionali di limo e sabbia, e lo sprofondamento del Palazzaccio (per il quale si sono spese decine e decine di miliardi) è eloquente in proposito. Ma non è solo questo per cui ci si deve opporre a questi parcheggi: infatti non farebbero che fungere da calamita al traffico privato, aumentando senza fine l’afflusso delle automobili in tutte le zone centrali, proprio l’opposto di quanto si vorrebbe ottenere. E poi ci sono i rischi della legge Tognoli approvata dal Parlamento nel marzo scorso, che consente nelle maggiori città ai comuni di cedere il diritto di superficie di aree pubbliche, strade e piazze, per parcheggi al servizio dei residenti, con la possibilità per chiunque di farsene uno a pochi metri da casa: anche nel centro storico, poiché nulla è detto in contrario. Quanto poi all’auspicato potenziamento del trasporto pubblico, basta considerare le deprimenti condizioni in cui versa l’ATAC. Negli ultimi quattro anni sono calati gli utenti (due milioni e mezzo in meno, il che vuol dire duecentomila auto circolanti in più), sono aumentati gli autobus fermi nei depositi (650 su 3200), calati della metà quelli nuovi acquistati: e la velocità media è di 6-13 chilometri all’ora. Dopo gli scempi degli anni passati (il raccordo anulare che ha tagliato selvaggiamente la via Appia Antica, la via Olimpica che ha tagliato in due villa Pamphili), i lavori per i Mondiali di calcio rischiano di praticare una radicale tonsura alle pendici di Monte Mario. Siamo davvero in alto mare.
Postilla
Sul parcheggio del Pincio si susseguono da mesi, con turbinosa accelerazione negli ultimi giorni, notizie, prese di posizione, dichiarazioni apodittiche e financo suppliche per lo spiegamento dei poteri metafisici del Papa (v. Marina di Ripa di Meana, la Repubblica , ed. Roma, 17 agosto 2008). Schieramenti trasversali che ripropongono, spesso con i consueti toni “urlati” e approssimativi, la contrapposizione fra chi è per una tutela integrale delle architetture storiche e dei resti archeologici e chi per un “ragionevole” compromesso che soddisfi le esigenze della modernità e del libero accesso ai centri urbani.
Oltre a ribadire in assoluto, come ci insegnava Cederna, l’inconciliabilità ontologica dei nostri centri storici con il traffico veicolare odierno e in attesa di un parere finalmente decisivo delle prudentissime Soprintendenze Architettonica e Archeologica, la prima latitante e la seconda financo bizantina nelle dichiarazioni (“non c’è una situazione tale che ne implichi l’assoluta esclusione”, la Repubblica , ed. Roma, 20 agosto 2008), si può intanto sottolineare come la logica del contrasto fra ragioni della tutela e ragioni di una pretesa modernità sia da respingere come distorsiva e frutto di un concetto del tutto provinciale di progresso che misura il proprio livello sulla base della potenza del parco macchine nazionale.
Al contrario, il nodo della questione è, da quarant’anni a questa parte, la mancanza di un piano complessivo della mobilità nella capitale (come in quasi tutte le nostre città principali), strumento decisivo per impostare una nuova strategia urbana e in particolare quei livelli di vivibilità che permetterebbero a Roma di sentirsi un po’ più vicina all’Europa.
Ripensando al PRG di recente approvazione, però, ben si comprende come l’attuale vicenda sia in realtà paradigmatica e del tutto consona rispetto ad una visione urbanistica incapace di ribaltare la deriva che attanaglia la capitale. (m.p.g.)
Ho lagàt la mè cà zo n’del Kentucky
E ma so trasferìt sota Clüsù
E ‘nvece di nisüline a maie i cachi
E ‘nvece di serpencc a go i bisù
Forse basta l’ironia dei versi del Bepi [1] (una specie di Bruce Springsteen delle Valli Orobiche) a riassumere in qualche battuta tanti dei problemi di queste parti, e non solo. L’America è un sogno, quando poi arriva magari è un incubo, e non ci resta che riderci sopra, tanto per non piangere.
E giusto per partire dall’America, lo raccontava benissimo quasi un secolo fa l’ambientalista Benton MacKaye nel progetti di Appalachian Trail, come nel mondo contemporaneo ci sia un rapporto strettissimo, anche direttamente territoriale oltre che sociale ed economico, fra i sistemi montani e gli insediamenti metropolitani delle grandi pianure: acque, poi manodopera, poi puro spazio, in tutte le sue possibili forme [2].
Spazio che, quando smette per ovvi motivi di prossimità fisica di essere relativamente protetto dalla collocazione remota, rischia un destino “esurbano” e in definitiva sostanzialmente suburbano: non certo nell’accezione vagamente poetica a cui ci hanno abituato le promozioni immobiliari, ma in quella assai prosaica di sprawl a colpi di villette, palazzine, centri commerciali e capannoni. E poco importa se sull’orizzonte di questa bella raccolta di scatolame spiccano rocce, pascoli, pinete. La conclusione non cambia: si è di fronte a una schifezza impresentabile, dannosa per l’ambiente, socialmente inutile ed economicamente col fiato corto.
Qualche filologo orobico in vena polemica, potrebbe obiettare qui che i versi del Bepi si riferiscono alla Val Seriana, mentre il titolo parla in effetti di Piazzatorre, che sta nell’adiacente Val Brembana. Niente da obiettare, la geografia almeno a questo livello è una scienza esatta. È anche vero però che, ancora per tirare in ballo sogni americani assortiti, ad esempio già negli anni ’20 la scuola sociologica di Chicago spiegava come si potessero tracciare i confini della metropoli seguendo le tracce della diffusione di stampa locale e relative inserzioni pubblicitarie[3]. Basta fare una passeggiata per il centro di Milano, o per stare oltre l’Adda nei centri commerciali dell’area di Dalmine, Zingonia, Curno, Brembate, per vedere le medesime inserzioni, su manifesti e volantini: tale Tonino, Pierino, Carlino, in camicia a scacchi da travet in libera uscita, decanta il calore del legno e della pietra nelle villette sparse in tutte le valli orobiche, che aspettano la gentile clientela (sia le villette che le valli orobiche sottostanti) complete di mutuo.
Anche per restare ancor più terra terra, dalla linea delle tangenziali di Milano a velocità media, se si evitano le ecatombe serali dei giorni lavorativi, ci vuole un’oretta scarsa per arrivare all’imbocco delle valli, e un’altra mezzora per arrivare, che so, appunto a Piazzatorre. Come canta ancora il Bepi, A ghìe ü pick-up enorme piè de polver; Che ‘nvece i ma dacc ön Ape rot, ma come ben sa chiunque sia uscito su una strada italiana nell’ultimo lustro, ormai anche qui abbondano pick-up enormi (di solito del tutto scarichi), Suv e altre diavolerie. Lo sanno benissimo anche le autorità responsabili di strade e affini, che continuano a sforacchiare le valli con tunnel, bretelle, variantine e rotatorie, appunto per tentare di smistare questo flusso costante di traffico, in cui il tradizionale pendolarismo di lungo corso dei camioncini di muratori che alimenta il mercato metropolitano delle ristrutturazioni, si mescola con le massicce quote dei nuovi commuters di lusso, che mantengono la residenza in città ma usano ormai le valli come prima casa di scorta, più che casa vacanze. Il che si traduce in spazi del tutto identici nella scarsa qualità e assenza di ambienti pubblici, ma più fitti e trafficati su e giù da fuoristrada che non hanno mai calpestato altro che asfalto.
Ce lo raccontano eloquentemente anche i nuovissimi studi di Richard Florida, o quelli promossi dalla RPA newyorkese e dalla rete europea GAWK, sulle “megaregioni”: l’area metropolitana come sistema territoriale integrato ha da tempo ceduto il passo a formazioni più articolate e vaste, e tentare di ricondurre forzosamente studi e interpretazioni a categorie di epoca industriale, per non parlare di divisioni amministrative, risulta del tutto fuorviante [4].
Insomma non solo la mitica Padania proposta da alcuni tristi figuri come semplicistico bacino elettorale esiste davvero, ma in certi casi (se calcoliamo ad esempio l’isocrona delle due ore in macchina e il quadro delle relazioni di lavoro e altri spostamenti) le valli orobiche sono a tutti gli effetti dei quartieri di Milano.
E concentrandosi sul caso di Piazzatorre, lo raccontano anche i pieghevoli della promozione turistica, che qui l’alba del nuovo secolo inizia a sorgere quando i milanesi negli anni ’20 della prima ondata - elitaria ma non esclusiva - di automobilismo si accorgono di quanto sia bello e facile ritagliarsi un pezzo di natura alpina quasi sulla porta di casa. Più precisamente, sulla porta di seconda casa.
Qui da subito turismo significa in prima e seconda battuta occupazione costante dello spazio: alberghi, alloggi, ecc. quasi niente. Case private, rigorosamente vuote per la maggior parte del tempo, quasi il 100%. E quindi, in zone che erano pochissimo popolate, con un’agricoltura povera, si tratta di una crescita che più che mai si appoggia soprattutto sull’edilizia, da cui dipende qualunque altra cosa. Valga, ad esempio, il confronto con lo sfruttamento della montagna per l’attività apparentemente più vantaggiosa, ovvero lo sci alpino:
“ la gestione degli impianti di risalita è scarsamente remunerativa, se non addirittura in perdita. Ciò in quanto la gestione di tali attività è caratterizzata da altissimi costi di installazione, che incidono pesantemente nei bilanci come ammortamenti, da ingenti spese per personale ed energia elettrica, ed i ricavi sono concentrati quasi esclusivamente in brevi periodi di tempo, principalmente nei week end e nelle festività natalizie” [5].
In altre parole, ogni cosa sembra dipendere dall’unica risorsa del territorio, a cui si attinge nel modo più impattante e definitivo, ovvero con la trasformazione edilizia, le relative infrastrutture, e parallelamente (secondario dal punto di vista economico, non necessariamente di effetti ambientali) gli interventi diretti sul contesto della montagna per le piste, gli impianti di risalita, i cannoni sparaneve ecc.
E basta leggere le nude cifre sugli edifici realizzati a Piazzatorre nelle varie epoche, accostando in parallelo qualunque aspetto delle relative fasi di sviluppo socioeconomico dell’Italia settentrionale, per capire meglio questa realtà: dal 1919 al 1945, si costruiscono 38 edifici, che si aggiungono ai 62 preesistenti; fra il 1946 e il 1971, su un arco di tempo simile ma in epoca automobilistica, gli edifici nuovi sono 115; solo fra il 1972 e il 1981, ovvero quando nelle pianure iniziano a dilagare insediamento diffuso, mobilità automobilistica, decentramento produttivo, gli edifici nuovi di Piazzatorre sono ben 130. E naturalmente alla quantità si affianca la “qualità” dell’insediamento.
Il toponimo spiega abbastanza bene l’organizzazione fisica di questa terrazza inclinata, piccola diramazione dal tracciato della strada della Val Brembana che sale verso il Mezzoldo e Passo San Marco, e che dopo un percorso di alcune centinaia di metri in pendenza anche abbastanza notevole si interrompe in corrispondenza dei primi impianti di risalita. È su questo fazzoletto di prati e primi ciuffi di alberi ai piedi delle montagne, che si sono posati senza alcun piano complessivo diverso dalla semplice relativa prossimità all’asse naturale centrale, tutti gli edifici. Si distinguono una zona più bassa, corrispondente all’esiguo nucleo storico principale, poi spazi più radi e sfrangiati che si concludono circa a metà dello sviluppo lineare verso nord-est, in corrispondenza di una ex colonia elioterapica. Poi l’insediamento prosegue discontinuo nella zona più elevata fino ai piedi delle piste da sci, ma l’aggettivo “discontinuo” forse non rende benissimo l’idea. Come sempre accade quando la crescita è pezzo per pezzo, accorpamento di fettine di mondo alla sacralità del privato e del focolare familiare (cosa quasi istintiva in ambiente montano, specie per un foresto), l’effetto suburbio è comunque massiccio. Vale a dire che con rare eccezioni il grande ambiente aperto della “piazza” originaria, così come doveva presentarsi fino alla prima metà del ‘900, coi pascoli che salgono gradatamente a confondersi nei pendii boscosi e roccioso della montagna, è solo un ricordo da cartolina. Ah: i residenti totali del comune, non arrivano a 500 anime.
E pare del tutto consequenziale a queste – lunghe ma necessarie – premesse, il corrente manifestarsi di “crisi” nel sistema di sviluppo dal fiato corto: per esaurimento di spazio, per degrado ambientale, per grandi trasformazioni esterne. Trasformazioni ad esempio di carattere socioeconomico e della mobilità, che vedono evolvere le modalità d’uso di queste valli da centri vacanze veri e propri, relativamente autonomi, a esurbio di “prime case e mezza”. Trasformazioni nell’uso del tempo libero, coi consumi dello sci alpino forse più sensibili alle mode e/o ad attrazioni sempre meno collaterali di carattere spettacolare e di intrattenimento. Trasformazioni infine in qualche modo legate al cambiamento climatico, in questo caso molto più tangibile che nelle cronache dei convegni scientifici, verificabile quotidianamente fra scarsità delle precipitazioni nevose, calo delle presenze sulle piste, uso dell’innevamento artificiale e relativi, ulteriori impatti ambientali.
E l’ultima “strategia” - più o meno obbligata – dell’amministrazione locale per rilanciare Piazzatorre ancora una volta si rivolge alla trasformazione edilizia, combinata alla riorganizzazione ed estensione nell’uso delle piste da sci.
Nel marzo del 2007 il consiglio comunale approva un piano di indirizzo che vede da un lato il rilancio delle piste con l’unificazione dei “comprensori” (ovvero dei sistemi di percorsi e risalite utilizzati come spazio unitario dallo sciatore) e interventi tecnici e gestionali sugli impianti, dall’altro la cessione del complesso dell’ex Colonia Genovese nella zona medio-alta dell’insediamento, che privatizzata, con forti aumenti di cubature e riorganizzazione “attrezzata” degli spazi liberi circostanti, “potrà rappresentare un tassello importante nell'operazione di rilancio della stazione invernale” [6]. In questo voto consiliare primaverile, le uniche opposizioni riguardano la sostenibilità finanziaria dell’operazione.
Finalmente la seconda settimana di novembre, alle porte dell’inverno e dell’attesa/temuta stagione sciistica, “per Piazzatorre è arrivata la tanto agognata svolta storica, sottolineata l’altra sera, in una sala consigliare mai così affollata, dall’applauso dei cittadini” [7]. Basta la cifra, di oltre cinquanta milioni di Euro investiti, e la promessa di 100 (cento) posti di lavoro, a spiega ampiamente quell’applauso liberatorio, quel sospiro di sollievo collettivo per l’atteso ritorno alla normalità della vita. Si, ma quale normalità della vita? E per chi?
Anche lasciando perdere l’aspetto, pure rilevantissimo, di rilancio nel consumo di territorio e ambiente rappresentato dall’uso intensivo degli spazi per lo sci alpino, proviamo a concentrarci solo sul proseguimento dell’attività edilizia in paese. Gli interventi sono due: uno nel centro storico, col recupero dell’ex Colonia Opera Bergamasca, trasformata in appartamenti privati da offrire sul mercato; uno decisamente più rilevante, nella zona alta ancora a insediamento più rado verso gli impianti di risalita, con l’ex Colonia Genovese che “sarà trasformata per il 75% in albergo, centro wellness, bed & breakfast e alloggi residenziali da affittare; il restante 25% in appartamenti da vendere” [8].
Quantitativamente, si tratta anche di realizzare una superficie di pavimento di 16.000 (sedicimila) metri quadrati, distribuiti su due-tre piani, il tutto come recita la convenzione a patto di “utilizzare personale e aziende della Valle Brembana, a parità di prezzo e di qualità delle controprestazioni, di guisa da garantire la tutela della manodopera e dell’economia locale” [9].
Una tutela della manodopera locale che, cumulativamente, come si è visto, comporta l’erosione del territorio su cui la medesima manodopera locale poggia i piedi. Detto in termini più vicini alla percezione corrente di questi spazi montani, per accedere a un rapporto più o meno diretto con gli ambiti aperti e naturali, occorre quasi sempre infilarsi su per gli impianti di risalita, visto che la “piazza” volge ormai alla trasformazione in quartiere urbano a bassa densità e privatizzazione quasi completa. Perché la trasformazione d’uso delle due colonie (anche escludendo i 16.000 mq in più) significa anche questo: edificato e verde assumono i contorni usuali dell’abitazione privata, ovvero esclusione dei non residenti ed eventuali ospiti autorizzati.
Nell’immediato e in particolare, come commenta una villeggiante abituale, si trasforma tutto lo spazio alle “spalle della vecchia colonia genovese, radendo al suolo un bosco molto bello ed eliminando quella residua soluzione di continuità tra la località Rossanella e l'edificato a sud”. In generale, si accentua l’effetto corridoio caratteristico di questi insediamenti turistici, e che li distingue spesso anche planimetricamente da quelli storici: è con poche varianti la logica auto-oriented della città diffusa, che qui si nota ancora di più, visto che i piazzali dei parcheggi restano per gran parte del tempo desolatamente vuoti, e le recinzioni dei giardini privati risultano se possibile ancora più incongrue nei lunghi momenti di “morta”.
Insomma questa tendenza di medio-lungo periodo all’uso massiccio della trasformazione edilizia (ad alto consumo di spazio e impatto ambientale) come elemento trainante dello sviluppo locale, tendenzialmente svuota il territorio dei suoi caratteri, delle sue risorse specifiche, e nel caso in questione sommato alla relativa vicinanza all’area metropolitana ne appiattisce sempre di più le qualità, livellandole (altitudine s.l.m. e pendenze escluse) a quelle di qualunque borgo delle periferie diffuse, cresciuto a cerchi concentrici larghi attorno al campanile, e dove i campi e prati residui sono solo, appunto, residui, e non strutturanti.
Caratteri che valgono per Piazzatorre così come per tutte le valli prealpine e alpine prossime alla metropoli diffusa. E dunque problema non certo risolvibile affrontando “quella residua soluzione di continuità tra la località Rossanella e l'edificato a sud”, pure senza dubbio rilevante, ma a cui in effetti una buona progettazione e una riduzione concordata dei volumi previsti forse potrebbero porre almeno parziale rimedio.
La questione è che, come scrive una lettrice di eddyburg in un articolo riportato recentemente dal sito: “Reti rosse che delimitano un prato, pochi giorni e via una ruspa scava nel terreno che l’agricoltore ha per anni curato,concimato,irrigato,troncando in pochi attimi quel rapporto che si crea tra la terra,chi la abita e la coltiva” [10]. Una scena che si ripete ovunque, e si replica nei cantieri connessi delle trasformazioni stradali che a quelle edilizie sono complementari, nel ciclo ben riassunto dal numero di edifici realizzati a Piazzatorre nei vari periodi storici, e che come ripetuto rappresenta la base di ogni altra attività economica, su cui poggia la società locale.
È possibile uscire da questa spirale? Come è stato osservato, “Spesso è molto semplice urlare contro “ l’invasione del cemento” o magari rivendicare uno “ sviluppo sostenibile“, ma questi sono termini che innanzitutto devono essere spiegati chiaramente” [11]. Una “chiarezza” che appartiene quasi sempre all’ambito delle decisioni politiche, certamente non locali, soprattutto quando ciò significa come nel caso specifico reagire ad una sorta di ricatto, e farlo nella prospettiva inevitabile del proprio mandato, e in un territorio i cui “cittadini” evidentemente e per svariati motivi vanno assai oltre il numero degli aventi diritto al voto.
Lo riconosce anche il piano per lo sviluppo socioeconomico territoriale locale, che “L’organizzazione dell’offerta turistica non è riuscita a strutturarsi in modo confacente con le sue potenzialità … ad incidere positivamente in ordine alla valorizzazione del settore. In analoga situazione di marginalità si pone il sistema dell’accoglienza specie in ordine allo sviluppo di sistemi alternativi …” [12]. Del resto salta abbastanza agli occhi, ad esempio col “rilancio” contemporaneo della vicina e più famosa San Pellegrino da parte di un magnate dei centri commerciali e affini, come la tendenza per questo esurbio metropolitano sembri essere, in assenza di decisioni fortemente orientate in senso diverso, quella di trasformarsi in un parco tematico diffuso, a cui si intrecciano da un lato il mai risolto problema di un’occupazione mediamente qualificata, dall’altro appunto la caratteristica sempre più marcata di suburbio esterno residenziale, per quanto anomalo, strettamente legato all’area metropolitana.
Come si vede in qualunque serata di giorno feriale quando dalla A4, o dallo stradone di Dalmine, dai ponti sull’Adda o dalle basse dell’Oglio, risalgono in coda per dirla col Bepi pick-up enormi piè de polver dai cantieri della terziarizzazione strisciante, mescolati ai Suv delle “prime case e mezzo”. Come direbbe il Boss Springsteen, quello vero, “ the highway is alive tonight: where it’s headed, everybody knows”. Quello che nessuno sa, è dove se ne andranno a finire, di questo passo, con la neve che non cade più e i prati che stanno per sparire sotto i parcheggi, tutte le Piazzatorre, e i boschi dietro le ex colonie elioterapiche.
N.B: si noti che le aree attono alla diramazione di valle urbanizzata descritta sopra sono tutelate da un parco, e che l'assessore leghista lombardo sostiene la necessità di ridimensionare lo "strapotere" dei parchi consentendo ai comuni di espandersi attraverso un ridisego dei confini; è facile immaginare cosa succederebbe in casi simili a quello di Piazzatorre. Aderite all' Appello per scongiurare questa criminale idiozia! Alla fine delle note e links, scaricabile il pdf dell'articolo con qualche immagine in più (f.b.)
[1] La canzone è “Kentucky”: Ho lagàt la mè cà zo n’del Kentucky, E ma so trasferìt sota Clüsù, E ‘nvece di nisüline a maie i cachi, E ‘nvece di serpencc a go i bisù. Ho lasciato la mia casa là nel Kentucky, E mi sono trasferito sotto Clusone, E invece delle noccioline mangio i cachi, E invece dei serpenti ho i biscioni. A ghìe ü pick-up enorme piè de polver. Che ‘nvece i ma dacc ön Ape rot. Avevo un pick up enorme pieno di polvere, E qui m’hanno dato un Ape rotto […] Ma mè sto bè po a chè, Semper inàcc e ‘ndrè, E ‘nvece de des miglia, Rìe fo al bar a pè. Ma mè sto bè po a là, E mpo’ per ol parlà, A mè i ma ciàma amò l’Americà. Ma io sto bene anche qui, Sempre avanti e indietro, E invece di dieci miglia arrivo al bar a piedi, Ma io stavo bene anche là, E un po’ per l’accento, Mi chiamano ancora l’Americano. Forse per capire meglio il senso di questa stravagante canzone, conviene ascoltarla interamente nella versione disponibile su Youtube, filmata al raduno di Pontida della Lega Nord
[2] Cfr. Benton MacKaye, Appalachian Trail, un progetto di pianificazione regionale, 1921, disponibile anche in italiano su eddyburg, sezione Urbanistica / Glossario /Città.
[3] Cfr. Roderick McKenzie, The Metropolitan Community, McGraw Hill, New York 1933; ampi estratti in italiano in tre puntate, disponibili su eddyburg, sezione Urbanistica / Glossario / Città
[4] Faccio riferimento qui in particolare a: Richard Florida, Tim Golden, Charlotta Mellander, The Rise of the Mega-Region, rapporto novembre 2007; Regional Plan Association, New York, North East Mega-Region 2050: a Common Future, rapporto novembre 2007; Northern California Megaregion, numero monografico di Urbanist, periodico della San Francisco Urban Research Association, novembre-dicembre 2007; disponibili anche estratti in italiano su eddyburg_Mall.
[5] Luca Urbani, Lo sviluppo edilizio di Piazzatorre, Val Brembana News, 11 ottobre 2007, anche per i dati successivi sull’edilizia.
[6] Giovanni Ghisalberti, “Ex colonia in vendita per rilanciare le piste”, l’Eco di Bergamo, 20 marzo 2007.
[7] Giovanni Ghisalberti, “Piazzatorre in pista: rilancio dal 55 milioni”, l’Eco di Bergamo, 14 novembre 2007.
[8] Idem.
[9] Dal documento votato in Consiglio comunale di Piazzatorre, punto “H” degli adempimenti previsti per la società “Alta Quota” Srl.
[10]Renata Lovati, Fiordalisi e papaveri contro il consumo di suolo, novembre 2007.
[11]Luca Urbani, Lo sviluppo edilizio … cit.
[12] Comunità Montana Valle Brembana, Piano Integrato di Sviluppo Locale, dicembre 2006, 1.3.5. L’analisi SWOT, p. 99
A volte anche nella nostra provincia italiana (intendendo l’Italia come profonda provincia d’Europa) si parla di concetti come aree metropolitane, sviluppo suburbano o addirittura esurbano … ma poi si scopre che è tutto uno scherzo. E dai! Queste sono cose americane, magari inglesi, o francesi, ma “da noi” non succede. Ed è vero, sacrosanto, giuro: almeno dal punto di vista delle culture.
Nel senso che le cose succedono, identiche, anche da noi, e tra l’altro fanno molti più danni perché lo sviluppo della città diffusa (poco città ma parecchio diffusa) qui avviene sovrapponendosi a tessuti storici molto più delicati. Ma mentre succedono, le cose, non se ne accorge nessuno, e anche quando se ne accorge gli rispondono sempre “ma dai!”. Una pacca sulla spalla e via. Salvo poi, quando i danni sono fatti, aggiungere “ma noi non potevamo sapere”.
Questo non significa che delle cose non si parli. Anzi gli stessi documenti di pianificazione del territorio traboccano di travolgente slang disciplinare e ficcante terminologia, salvo poi – magari nel paragrafo immediatamente successivo – contraddirne il senso e/o la sostanza. Ad esempio il piano provinciale di Pavia che quando descrive l’asse della Padana Inferiore fra Voghera e Stradella parla di un insediamento che minaccioso “mostra un continuum urbanizzato”, salvo poi scordarsene, o comunque limitarsi a questa osservazione, di uno stato di fatto sui cui non si può in alcun modo incidere.
Per restare a Stradella, che ahimè rappresenta l’oggetto privilegiato di questa nota, proprio dalla zona del minaccioso continuum a nastro si diparte un percorso verso la collina, che funge da circonvallazione accessoria al nucleo centrale abitato. Come racconta il piano di governo del territorio ora in discussione, “lungo il tratto urbano della … Strada Panoramica l’insediamento si struttura con una omogeneità di funzioni a carattere prevalentemente residenziale in un tessuto periferico non consolidato” (Analisi del suolo urbano, p. 70). Il problema, come si vuole argomentare di seguito, sono i modi e le forme in cui questo non consolidamento vuole poi consolidarsi.
Se si dà un’occhiata al territorio di Stradella, anche solo con Google Earth, si nota facendo un po’ di attenzione come questa discontinuità dell’insediamento ad un certo punto sul versante a sud del centro assuma contorni piuttosto precisi: una “goccia” di spazio verde aperto definita sui due lati da percorsi stradali curvi che scendono verso il nucleo compatto storico, e che culmina a sud in un piccolo edificio ben individuabile. Quell’edificio è la basilica romanica di Montalino, dell’anno Mille più o meno, debitamente restaurata e tutelata. C’è un breve percorso a scalinata che sale alla chiesa, dall’angolo fra la Panoramica e la via Montalino, e man mano si percorrono i pochi gradini si inizia a capire meglio il senso di quel nome, “panoramica”, perché si apre sulla pianura padana, e anche oltre il grande fiume sino alle Prealpi. Cosa curiosa, però: arrivati in cima nel piccolo spazio che corre attorno al restauratissimo edificio, lo stesso panorama scompare, schermato da una fitta muraglia di verde, evidentemente lasciata crescere a bella posta. Perché?
Forse perché, tornando a prospettive più ravvicinate delle Prealpi o dei campi pezzati sino agli argini del fiume, attorno alla basilica non è un gran bel vedere. Nel dibattito sulla formazione del nuovo piano comunale una rappresentante del Lions Club parla di “criticità all’azzonamento dell’area posta ai margini dell’edificato in via Cairoli, dove è in corso di realizzazione un edificio pluriplano …” ( Verbale dell’incontro di presentazione degli obiettivi strategici del Piano di Governo del Territorio, 19 settembre 2007). Usando parole decisamente meno diplomatiche, come quelle di Giorgio Boatti, quello che si vede guardandosi attorno è “la gentile chiesa di Montalino stretta d’assedio da fitte costruzioni e da villette di una Hollywood dei poveri” ( La Provincia Pavese, 3 luglio 2008).
E suona comunque assai benevolo anche Boatti, scendendo per una passeggiata di qualche minuto tra le vie Montalino, Cairoli e Vena che definiscono la “goccia verde”. Dal rumore costante di fondo dei rigogliosi cantieri di costruzione mono o multipiano che tintinnano di macchinari in questa estate 2008, spunta tutto il campionario di una classica periferia strapaesana, dove l’urbanistica se mai è arrivata l’ha fatto solo col piglio dell’imposizione burocratica di malavoglia, o al massimo di qualche intervento tecnico.
Gli edifici si allineano compatti e continui sulle vie, con o senza marciapiede, con arretramenti minimi ma senza dare alcun senso urbano a quelle strade. Che erano, sono e resteranno per un pezzo viottoli che salgono verso la collina, ma dove nei decenni recenti si è consentito di scaraventare un po’ di mattoni impilati, a dire “questo è mio”.
Nessuna ostilità pregiudiziale verso chi abita quelle case, per carità! Se le sono fatte, pagate, sudate e tutto il resto. E decisamente quella “idea di città” (senza offesa per le città o per le idee, neh?) che esprimono non è peggiore di tante altre frange di piccolo centro, di mezza collina, di pianura, di montagna. Ma basta camminare verso valle qualche decina di metri, non di più, per cominciare a vede assai di meglio là dove il centro storico se non altro per inerzia ordinatrice – o ritmi più lenti di crescita – ha prodotto fasce esterne compatte, vie dove non ci si vergogna istintivamente passando a piedi, cortine più continue e compatte, interrotte da qualche slargo che non sembra un parcheggio, ecc. E invece il nuovo piano di lottizzazione per l'area attorno alla chiesa romanica, eredità del piano regolatore generale ancora vigente, appare come coerente con quel “tessuto periferico non consolidato”, e soprattutto sembra volerlo consolidare eventualmente nel modo peggiore: ovvero completando l’accerchiamento del green wedge di Montalino e riducendo la basilica, in una specie di parodia di uno sventramento d’altri tempi, a simulacro della sua storia, strappata al contesto dell’ambiente collinare. In questo senso davvero una Hollywood dei poveri, che replica in piccolo e virtualmente quei ruderi di castelli comprati a peso in Toscana dal classico americano arricchito, e rimontati magari nella Napa Valley per farci la tavernetta di lusso …
Il testo del piano di lottizzazione APR2 Località Montalino è candido nella sua volontà di “ridefinizione del bordo edificato … con la formazione di un tessuto edilizio con tipologie prevalentemente mono e bi-familiari”. Ovvero accerchiamento, trasformazione definitiva della goccia verde in uno di quei cosi residuali che si vedono ogni tanto, giusto perché la Sovrintendenza si è impuntata. E perché? Per costruire una manciata di villette, in un comune dove da anni la popolazione diminuisce, e che le onde lunghe della spinta suburbana dalla regione metropolitana milanese ancora trascurano. C’è da tremare, al pensiero di cosa si inventerebbero se ci fosse davvero una seria e motivata pressione insediativa!
Per questo, perché con un approccio ridicolo ai temi dell’urbanizzazione si rischia di buttare al vento la traccia ancora viva e presente di mille anni di storia, va firmata la petizione che chiede di ripensarci. Va coltivata una diversa cultura dello sviluppo locale, anche soprattutto in centri che (APR2 Montalino e simili a parte) sono un ottimo modello: compatti, inseriti nell’ambiente, buon equilibrio fra ambiti pubblici e privati e nel complesso per nulla arcaici. Basta confrontare la Stradella compatta cresciuta nei secoli, sino ad oggi, sul fianco della collina, con la strip definita dalla Padana Inferiore, dalla ferrovia, dall’autostrada e dal guazzabuglio degli scatoloni commerciali. Insomma l’esempio c’è, e basta copiarlo.
Fra gli obiettivi spaziali del nuovo piano di governo del territorio in corso di formazione si legge quello di uno “sviluppo edilizio posto in continuità fisica con la maglia urbana esistente, saturando in tal modo sia le aree di una certa consistenza già parzialmente escluse dalla filiera produttiva agricola e posizionate ai margini dell’abitato sia le aree posizionate in ambiti interclusi all’interno dei tessuti edificati” (Relazione, 4.1.2.3 A, Obiettivi del Piano nel settore insediativo residenziale, p. 284). Una bella frase, che fa decisamente a pugni con la sostanza, se non con la forma, di quella “ridefinizione del bordo edificato”. Ripensiamoci: non c’è niente da guadagnarci per nessuno.
Di seguito si può scaricare il pdf di questa nota con qualche immagine e il piano di lottizzazione. QUI invece si firma per evitare che la "Hollywood dei poveri" travolga noi e loro (f.b.)
Non sono felici, a Cagliari, le prospettive della necropoli punica di Tuvixeddu, una delle più vaste dell’antichità, notissima nel mondo scientifico internazionale. Vincoli cancellati, spazio alla ruspe. Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso della Regione contro l’annullamento, da parte del TAR Sardegna, dei vincoli a suo tempo imposti dalla giunta di Renato Soru.
La sentenza del Consiglio di Stato è ampia e stringente. Dice che i quattro membri esterni della Commissione Regionale per il Paesaggio dovevano essere nominati con un provvedimento legislativo, che è mancato. Che il Comune di Cagliari, partecipe oltretutto del precedente accordo di programma sull’area, non è stato coinvolto formalmente. Infine, che la Regione è passata dall’eccesso allo sviamento di potere per aver collegato il vincolo susseguente all’analisi della Commissione Regionale al progetto di sistemazione del colle, una sorta di oggetto misterioso, elaborato dal celebre architetto Gilles Clement. Una forzatura che nei fatti non ha certo reso un buon servizio alla tutela dell’area. Errori di forma e di sostanza democratica difficili da accettare.
Veleni politici esplodono come fuochi d’artificio: chi non ha mai sopportato difesa e valorizzazione di paesaggi e monumenti si lancia, gli occhi iniettati di sangue e cubature, su un caso che promette di trascinarsi sino alle prossime elezioni. Una proterva iniziativa di destra, senza punti di vista culturalmente motivati sulla necropoli, travalica i confini classici della politica impregnando di sé pezzi del centro-sinistra in una rissa fatta di richieste di dimissioni, commissioni d’inchiesta ad uso di polverone elettorale, inaccettabili intimidazioni verso gli esperti della Commissione Regionale (chiamati da esponenti di AN “plotone di esecuzione contro l’accordo di programma”).
Nei commenti la necropoli è nella sostanza assente, travolta, prima ancora che dalle ruspe e premessa necessaria ad esse, da una politica tradizionale che non accetta di passare la mano e da sempre assente o assai debole nella difesa di cultura e paesaggio. Questo incrocio oggettivamente complesso di crisi della tutela, delicate questioni giuridiche con forti elementi di tensioni e contraddizioni istituzionali, pessime concezioni della qualità urbana, bassa cultura della tutela e degrado della politica, offre non pochi insegnamenti. Vediamone alcuni.
Ad esempio, lo scontro fra vincolo regionale e precedente vincolo della Soprintendenza Archeologica: quest’ultimo, l’unico oggi giuridicamente esistente, è ampiamente inadeguato. Ma esso esprime una ben nota modalità operativa media di soprintendenze archeologiche squattrinate, non di rado tese ad accordarsi con enti e privati per una mediazione che permetta di scavare qualcosa e salvare il salvabile (qua il concetto di salvabile appare davvero miope e riduttivo). Un’ottica dello scavo di emergenza/urgenza che produce pasticci a volte assai censurabili e tutela inadeguata, arrivando a consentire persino orrendi buchi nelle strutture dell’anfiteatro romano di Karalis.
Tuvixeddu è stato per decenni abbandonato, in preda al degrado: ma il suo problema, più che da attribuirsi ad imprenditori che fanno il loro mestiere (fermo restando che non prevederebbe danneggiamenti), è la mancata comprensione che un tale patrimonio ammetta solo interventi di tutela e valorizzazione, ed escluda di per sé edilizia abitativa nella sua area. Oggi la Regione sarda mostra di voler salvare il patrimonio culturale anche con interventi di grandi nomi e grandi capitali. Lo fa per supplire alle scarse idee e soprattutto alle risorse inadeguate della tutela classica; questa azione sarebbe comprensibile se fosse accompagnata da processi di coinvolgimento democratico ai quali la sinistra non può rinunciare. Ancora, nel tormentato mare delle competenze statali/regionali la Regione Sarda (e anche la giunta di centrosinistra) non si è mostrata solo innovativa e coraggiosa ma pure, e non raramente, autoritaria e pasticciona; si coglie il rischio di spinte corporative, anche di apparato, che sognano una piena devolution nel campo dei beni culturali con malferme nozioni giuridiche. La saldatura con le tendenze leghiste è di fatto pericolosa. Vi è infine, e non certo da ultima, la forte volontà della destra cagliaritana, al governo nel capoluogo, di capitalizzare il momento politicamente favorevole e muoversi con le mani libere rispetto ad ambiente e monumenti, soprattutto verso i vincoli che essi portano, consolidando una città della speculazione dove si spara senza competenza sul Museo del Betile di Zara Hadid e si progetta un altro stadio di calcio, ritenuto inutile persino da Gigi Riva…
Chi difenderà oggi Tuvixeddu? Chi potrà dire, dopo le nuove centinaia di tombe e i danneggiamenti denunciati, che il vincolo esistente (quello ‘vecchio’ della Soprintendenza) è davvero sufficiente? Il Ministro, il suo Comitato scientifico, il Direttore regionale ai beni culturali e paesaggistici ed i Soprintendenti sardi vorranno prendersi questa responsabilità?
La Regione ha già annunciato alcune contromisure: speriamo che siano efficaci e meglio consigliate e non siano rallentate, come sembra, dalla crisi del PD. La sentenza del Consiglio di Stato non dice – né potrebbe dirlo – che i vincoli non sono appropriati, ma che devono essere fatti bene e facendo tesoro delle sue “prescrizioni”. Ma il problema non è solo giuridico. Speriamo che non si riproducano errori che non è sufficiente ammettere se non si modifica quella parte di prassi autoritaria e approssimativa che ne è causa. Tutti gli uomini che amano la cultura e capiscono il valore della gigantesca necropoli (espressi dall’appello di centinaia di studiosi e semplici cittadini capeggiato da Giovanni Lilliu) devono battersi democraticamente e con grande fermezza per salvarla ed acquisire definitivamente i terreni al patrimonio pubblico. Gli Enti territoriali, e non solo la Regione, dovrebbero togliere ogni edificazione da un’area anche troppo martoriata, eventualmente, laddove come pare vi siano diritti giuridicamente maturati, spostandola in cambio verso altre aree. Intanto, una mobilitazione è bene che riparta, che cittadini, associazioni culturali e ambientaliste vigilino e continuino a documentare e fotografare. Che il luogo non venga abbandonato e la precisa localizzazione dei nuovi rinvenimenti, che modificano profondamente i termini della questione, diventi di evidenza pubblica, anche con una mostra autorevole e ‘indipendente’.
Il fronte a favore del vincolo su tutto il colle di Tuvixeddu, corre ai ripari dopo la sentenza del Consiglio di Stato. Legambiente spedisce una lettera al ministro dei Beni culturali Sandro Bondi in cui chiede la «realizzazione di un grande parco Tuvixeddu-Tuvumannu». Il Socialforum fa appello alla soprintendenza. E la Giunta regionale discute un provvedimento da prendere al rientro dalle ferie: di «salvaguardia dell'area per motivi d'urgenza sulla base della legge urbanistica».
Intanto al Comune il sindaco ha tenuto un incontro coi funzionari per capire come procedere dopo la sentenza. Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso della Regione e ripreso, nella sostanza, il precedente pronunciamento del Tar. In particolare per quanto riguarda l'allargamento del vincolo a tutto il colle: il provvedimento regionale è stato annullato in quanto non valida la procedura adottata per arrivare a quella decisione. È stata, infatti, invalidata la commissione regionale al Paesaggio (sulla base delle cui indicazioni era stato ampliata la tutela assoluta). Inoltre il Consiglio ha anche ribadito il giudizio del Tribunale amministrativo, per il «grave eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento», in rapporto all'iter che ha portato la Regione al progetto del paesaggista francese Gilles Clément.
Per gli uffici comunali, però, prima di far riprendere i lavori all'impresa che sta realizzando la viabilità della zona, occorre quantificare i danni. Il cantiere del parco è, invece, sotto sequestro su disposizione della magistratura. Il Muncipio, sulla base delle disposizioni regionali, aveva bloccato le opere e ora le imprese si rivarranno sull'amministrazione che, a sua volta, chiederà i conti al governo dell'isola. Secondo Paolo Zoccheddu, dirigente della divisione urbanistica del Comune, le nuove tombe della necropoli sono state rinvenute nella zona a vincolo diretto e, pochissime, in quella a vincolo indiretto. In ogni caso sempre all'interno dell'area tutelata.
Intanto l'assessore regionale alla Cultura Maria Antonietta Mongiu ha incontrato il dirigente regionale delle soprintendenze Elio Garzillo e hanno ribadito la necessità di una tutela integrale del colle. A monte della forte diatriba - va ricordato - c'è, da una parte, l'accordo di programma firmato nel 2000 tra la Regione, il Comune e la Coimpresa per la realizzazione di una lottizzazione integrata: un parco archeologico (di circa venti ettari) con al centro l'area della necropoli punico romana (la più grande del Mediterraneo) e, in un'altra parte del colle di Tuvixeddu, a lato di via Is Maglias, la costruzione di residenze per circa quattrocento abitazioni. E, dall'altra, c'è l'azione della Regione per la realizzazione di un parco su tutto il colle, che si basa sulle normative del Codice Urbani (del 2004, regola i beni culturali nazionali) che ha acquisito il concetto di paesaggio come bene culturale inalienabile e non commerciabile; e che va, quindi, oltre la difesa dell'area archeologica e coinvolge, nella tutela, il paesaggio in cui questo bene si inserisce.
Tra i ricorrenti al Consiglio di Stato, oltre alla Regione e al ministero per i Beni culturali c'era anche Italia Nostra. «Le sentenze vanno sempre rispettata - precisa Carlo Dore, l'avvocato che ha curato l'esposto dell'associazione ambientalista - ed è certo che vi sono stati degli errori formali e qualcuno di sostanza nel procedere della Regione. Ma lascia perplesso che non venga considerato il nuovo quadro culturale nato dopo il Codice Urbani». Oltre a Legambiente un appello allo Stato centrale viene fatto dai consiglieri regionali del Pd Stefano Pinna e Cicco Porcu, che affermano che Roma «non può stare a guardare ed è chiamata ad apporre su Tuvixeddu il vincolo paesaggistico di fronte a una riconosciuta emergenza storico culturale il cui valore (...) è sotto attestato dal mondo accademico isolano». Il consigliere comunale e regionale del Pd Marco Espa sottolinea che Tuvixeddu sta diventando oggetto di strumentalizzazione politica, «mentre è un bene che appartiene a tutta l'umanità». Ninni Depau e Andrea Scano (consiglieri comunali del Pd), pur ribadendo che le sentenze vanno rispettate, sottolineano l'esigenza di «togliere l'assedio del cemento dal colle di Tuvixeddu, colpevolmente trascurato da decenni». E «oggi Cagliari ha la straordinaria opportunità di ridisegnare completamente il proprio futuro utilizzando le grandi aree dismesse e valorizzando i suoi beni culturali e archeologici».
Nonostante i meritori tentativi del ministro Bondi, la manovra finanziaria d'estate si chiude con tagli assai pesanti ai Beni culturali. Un miliardo di euro in meno nel prossimo triennio peserà sull'Amministrazione come un macigno, riducendone drasticamente la funzionalità: e ciò all´indomani di una riforma del Codice che le assegnava nuovi e più impegnativi compiti nella difesa del paesaggio. Cresce a ogni giorno che passa l´età media dei funzionari (oltre i 55 anni), e senza soldi di turnover non se ne parla. Il già ridicolo finanziamento della Cultura (0,28% del Pil, ai livelli più bassi d´Europa) è stato ulteriormente falcidiato.
Eppure, chi trova questa situazione preoccupante viene accusato di "statalismo". Interessante rimbrotto, che si può interpretare in due soli modi: o nel senso che proteggere beni culturali e paesaggio è di per sé deplorevole, e dunque sarebbe meglio distruggere e svendere ogni cosa a man salva; o nel senso che la necessaria tutela del nostro patrimonio culturale e paesaggistico può farsi lo stesso, anche se i finanziamenti dello Stato si riducono in modo così massiccio. Nessuno è tanto cinico (o barbaro) da sostenere la prima di queste due tesi. Molti invece i sostenitori della seconda, che tuttavia puntano su quattro diverse strategie. Vediamole.
Secondo alcuni, come l´onorevole Aprea, il Ministero avrebbe «accumulato qualcosa come 4.000 miliardi di vecchie lire di residui passivi», e perciò basta pescare in questo salvadanaio e «rimodulare i meccanismi di spesa», e il gioco è fatto: i tagli della manovra d´estate sarebbero solo un invito alla virtù. Peccato che le cose non stiano così: questa cifra è aggregata su più anni, per giunta considerando "residui passivi" le somme già spese ma non liquidate, dunque dà un´idea distorta della realtà (sarebbe giusto che fosse lo stesso Ministero a chiarirlo).
Seconda teoria: se lo Stato si dilegua, arriveranno i privati a gestire musei e parchi archeologici. Ma quali privati? La favoletta secondo cui in America i musei vanno a gonfie vele perché privati ha già fatto il suo tempo, ma giova ripetere perché: nessun museo d´America ha il bilancio in attivo (il Getty, che è il più ricco, copre con gli introiti meno del 10% delle spese), ma tutti possono contare su beni patrimoniali investiti (endowment). Sono donazioni di uno o più mecenati, il cui frutto è obbligatoriamente investito in attività culturali, a fondo perduto: nulla di comparabile con l´assetto dei musei italiani, che di endowment non ne hanno proprio. Ma perché tanti generosi donatori in America, in Italia quasi nessuno? Facile: in quel grande Paese vige un sistema fiscale efficiente, che prevede fra l´altro la detassazione totale delle quote di reddito che vengano donate a musei, teatri, università, istituti di ricerca. In tal modo, gli Usa e i singoli Stati federati rinunciano a introiti significativi, e i cittadini-donatori stabiliscono un legame di fidelizzazione con le istituzioni che sostengono. Donazioni private sì, ma rese possibili dalla lungimiranza dello Stato. Perché invece di parlare di un inesistente modello americano di gestione redditizia dei musei non si adotta il concreto modello americano di un sistema fiscale efficiente? Forse perché il fisco italiano (che il governo sia di destra o di sinistra) non rinuncia a un centesimo di tasse, né può farlo, dato lo stratosferico livello dell´evasione fiscale nell´infelice Penisola. L´adozione del "modello americano" comporterebbe in primis la lotta all´evasione fiscale, perciò non se ne parla. Meglio qualche chiacchiera a vuoto sul "museo come azienda", che non tocca gli interessi di nessuno (salvo che dei musei).
Terza strategia per sostituire lo Stato in ritirata: le Fondazioni museali a partecipazione mista, pubblico-privata. Buona idea, se funziona. Ma funziona? A dieci anni dalla legge in merito (Veltroni-Melandri, con regolamento Urbani), c´è una sola fondazione nata intorno a un museo statale (l´Egizio di Torino), un´altra (Aquileia) sta nascendo. Il freno principale è precisamente la difficoltà di trovare capitali di provenienza non pubblica: se a Torino si è potuto contare su due grandi fondazioni bancarie, in quasi tutte le città italiane non è così. Il meccanismo è forse efficace, ma di lentissimo rodaggio. Un´Italia che si converte in massa alle Fondazioni per colmare i tagli che devasteranno il Ministero non è plausibile, si accettano scommesse.
Quarta ipotesi, la devoluzione dei beni culturali alle Regioni, che l´infelice riforma del Titolo V della Costituzione tortuosamente sembra consentire. Proposte in tal senso sono state avanzate dalla Toscana nel 2003, da Lombardia e Veneto nel 2007, dal Piemonte un mese fa: cioè sempre da regioni governate da una coalizione politica diversa da quella del governo nazionale del momento. Verrebbe così a crearsi per i beni culturali una situazione simile a quella della sanità, dove dal 2001 (secondo "Cittadinanza Attiva") «una distorsione del concetto di federalismo declina il diritto costituzionale alla salute in 21 modalità diverse». Con due aggravanti: primo, mentre i malati possono spostarsi – quando possono– – da una regione all´altra (nel 2007 lo ha fatto il 51% dei cittadini, e il dato è in salita), monumenti e paesaggi sono inchiodati in situ. Secondo, le regioni più povere avrebbero ben poco da destinare alla tutela: in regime di "federalismo fiscale", solo sette regioni sarebbero autosufficienti, nessuna al Sud; e al Sud va solo il 5% delle contribuzioni liberali delle Fondazioni bancarie. Ma la devoluzione dei Beni culturali comporterebbe un risparmio di spesa a parità di servizi? C´è da dubitarne: la sanità "federale" non solo è distribuita in modo diseguale, costa anche di più: «nel ´98 costava 55 miliardi, oggi ne brucia il doppio» (G. Trovati, Il Sole, 4 agosto). Che cosa accadrebbe ai beni culturali? E al paesaggio? La risposta è chiara: o il moltiplicarsi della spesa, o un drammatico affievolirsi della tutela.
Insomma: se lo Stato dovesse dileguarsi, il rimedio per i Beni culturali è ancora da trovare. Sandro Bondi ha scritto (Il Giornale, 3 agosto) che la tutela «è un formidabile generatore di senso comunitario, di creatività, di crescita civile e produttiva», e che perciò «non dev´essere compresso il finanziamento alla cultura, all´istruzione e alla ricerca». «Un Paese come l´Italia che non scommette sulla cultura e l´istruzione è un Paese che non ha futuro». Non si può che essere d´accordo con lui. Ma basterà «incoraggiare l´intervento dei privati e delle autonomie locali» per tappare l´enorme buco di bilancio creato dalla manovra d´estate?
Intanto, i nostri vicini di casa ci giudicano. La Süddeutsche Zeitung del 5 agosto commenta questi tagli col titolo «La minacciata liquidazione della tutela dei beni culturali assesta il colpo di grazia alla cultura italiana e devasta i tesori più preziosi d´Europa». La situazione, scrive Volker Breidecker, «non è drammatica, è catastrofica», e l´Europa non può disinteressarsene, dato che l´Italia è «culla della classicità, luogo d´origine del Rinascimento e della civiltà comunale, civiltà a cui si devono quasi tutte le idee-guida della politica e della vita pubblica, e per questa ragione sede di un patrimonio archeologico, architettonico, paesaggistico e artistico senza paragoni sulla Terra». Che cosa accadrebbe, si chiede Breidecker, in caso di devoluzione? La privatizzazione, come quella dei templi di Agrigento, progettata dalla Sicilia? O la vendita del patrimonio culturale pubblico, come a Verona va facendo il Comune?
Consigliamo la lettura di questo articolo al presidente Berlusconi e al ministro Tremonti. Vi troveranno un giudizio durissimo, ma che tradisce a ogni parola un amore senza riserve per l´Italia, per la sua tradizione e per il suo futuro. Anche questo amore, condiviso da tanti in Europa e fuori (anche in Italia? anche in Parlamento?), è un asset su cui contare. I tagli alla Cultura non solo mettono a repentaglio il futuro del nostro patrimonio, ma costituiscono un immediato, grave danno d´immagine per il Paese. Chi saprà correggerlo? E come?
CAGLIARI. Il trasloco gli è stato imposto in fretta e furia dal ministero ai Beni culturali. Dopo appena quattro mesi, alla fine di luglio, Fausto Martino si è visto sfilare la poltrona e l'incarico di soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici della Sardegna. Scelta punitiva, ha detto chi in lui - arrivato da Salerno - aveva visto un intransigente servitore dello Stato.
- Soprintendente, è stato cacciato via?
«La mancata riconferma era nell'aria. Due i motivi: il decreto Rutelli, con cui ad aprile ero stato nominato, ha incassato da subito i rilievi della Corte dei conti e il ministro lo ha azzerato».
- Ma non tutti i soprintendenti dell'era Rutelli sono stati rimossi da Bondi.
«È vero, ma bisogna ammettere che il decreto aveva in sé alcuni peccati originali e questo è bastato al nuovo ministro per rivoluzionare le Soprintendenze di mezza Italia».
- Il secondo motivo della sostituzione?
«Lo spoil system. Nuovo governo, nuovi uomini di fiducia, nuove nomine. Succede».
- Il che vuol dire: Fausto Martino non sta con il centrodestra.
«Può esserci anche una lettura geopolitica ma non spetta a me entrare in argomento, fare e disfare. Posso dire soltanto: non so se il mancato rinnovo sia dipeso più dalle cose che ho fatto o da quelle che avrei voluto fare».
- Altri dicono: Martino non era gradito neanche al centrosinistra, colpa di quel suo intervento, a gamba tesa per alcuni, sul Piano paesaggistico e i controversi beni identitari.
«In quell'occasione, ho soltanto ribadito i poteri dello Stato, che non può essere un semplice testimone nella tutela del patrimonio architettonico e paesaggistico».
- La "Salvacoste" è una buona legge?
«Mi rifaccio a quanto detto dalla Confindustria in proposito: il Piano va rivisto, sono necessarie alcune varianti. Mentre in quattro mesi ho visto soprattutto interpretazioni su questo o quell'articolo. E sono state proprio le interpretazioni a scatenare il conflitto con l'autorità giudiziaria che poi ha portato al sequestro di alcuni cantieri».
- Vuol dire che, a suo tempo, non c'è stata chiarezza.
«Significa che sarebbe stato meglio affrontare i problemi nel rispetto reciproco delle competenze, in armonia e senza imporre nulla».
- La Regione voleva imporre qualcosa allo Stato?
«Di certo lo Stato non può essere relegato a un ruolo secondario e subordinato».
- La Soprintendenza ha sempre vigilato?
«Abbiamo fatto il massimo anche se più di contraccolpo c'è stato dopo l'accorpamento territoriale e la divisione delle competenze: beni storico-artistici da una parte, architettonici e paesaggistici dall'altra. Poi va detto che gli organici sono al minimo mentre il lavoro è aumentato. Ma in tutti i collaboratori ho trovato grande entusiasmo e voglia di fare. Sono sicuro che il mio successore (Gabriele Tola) troverà la stessa disponibilità che io ho riscontrato da aprile a luglio».
- A gennaio entrerà in vigore il nuovo Codice dei beni culturali: le Soprintendenze avranno più poteri.
«Esatto. Il nostro parere non sarà più di legittimità, come adesso, ma entrerà nel merito, diventerà preventivo, obbligatorio e vincolante con il rilascio dell'indispensabile autorizzazione paesaggistica».
- Può essere per questo motivo che qualcuno non ha voluto un intransigente servitore dello Stato tra i piedi?
«Anche questa è una lettura geopolitica. Non la posso fare certo io».
- Se la facesse qualcun altro?
«Io non potrò che ascoltare. Da Salerno».
Arte e Cultura, cronache di una disfatta totale: l’Italia precipita ancor più lontano dagli altri Paesi avanzati dove quelle due voci sono considerate un investimento sociale, e non un costo (da tagliare). La scure «rivoluzionaria» - ieri l’hanno detto in coppia Gianni Letta e Giulio Tremonti - calata sulla spesa pubblica si è infatti abbattuta più pesantemente del temuto anche sul ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Al “MiBac” sono stati tolti - secondo le cifre fornite dalla Uil Beni Culturali - 355, 369 e 552 milioni di euro rispettivamente nel 2009, 2010 e 2011. Il totale sottratto sale così, nel triennio, a un miliardo 276 milioni. Un terzo delle cifre tagliate è stato amputato alla voce Tutela e valorizzazione: nel prossimo triennio il MiBAC e le sue Soprintendenze si limiteranno a pagare gli stipendi e poco più, secondo la logica dell’ente inutile “perfetto” che si mangia in costo del personale tutto ciò che incassa e/o riceve. Saranno quindi possibili chiusure o drastiche riduzioni di orario in musei e aree archeologiche e pertanto la stessa voce “turismo culturale” ne sarà colpita al cuore, con minor capacità di attrazione dell’Italia, minori entrate dirette e soprattutto minor indotto turistico-culturale. Un bel contributo alla rianimazione della nostra indebolita economia. Non basta: i tagli hanno spazzato via i 45 milioni preventivati in tre annualità dal ministro Rutelli per l’abbattimento di altri “ecomostri”, ma se uno spulcia i singoli capitoli, vede, per esempio, che viene ridotta pure la spesa ordinaria destinata al comando dei carabinieri per la tutela del patrimonio: ladri e rapinatori dell’arte e dell’archeologia - tombaroli in testa - facciano dunque festa. Questo ministero viveva già al limite: i tagli, tutt’altro che lievi, decisi dal Berlusconi IV lo mettono su una strada. O lo conducono alla chiusura. Cosa potranno fare le Soprintendenze che già nel recente passato verso metà anno non avevano più fondi per i telefoni, per i francobolli, per pagare le imprese di pulizia (bagni dei musei inclusi)? Quali missioni sul posto potranno organizzare quelle Soprintendenze ai Beni architettonici nelle quali ogni tecnico si ritrova alle prese con un migliaio di pratiche delicate all’anno? Le amputazioni vanno a minare l’attuazione stessa del Codice per il paesaggio, reso ben più stringente e severo, dalla gestione Rutelli-Settis, ragion per cui il saccheggio del nostro paesaggio riprenderà con grande vigore. La scure (“rivoluzionaria”, beninteso) di questo governo, che considera la cultura un optional e che ha affidato la custodia dei Beni culturali ad un personaggio come Sandro Bondi, senza alcun peso specifico (infatti le sue deboli proteste hanno contato meno di zero), si abbatte su settori già più che “francescani”, come gli archivi e le biblioteche, l’Istituto centrale per il catalogo, la Scuola Archeologica Italiana di Atene che partirà, nel triennio prossimo, con 157.000 euro in meno di finanziamento statale e arriverà con 307.000, in meno naturalmente. Poi ci sono le somme e i contributi previsti per una miriade di associazioni, istituzioni e fondazioni che, con qualche eccezione, certo, rappresentano il sistema capillare della ricerca culturale, la storia stessa del nostro Paese: le antiche Accademie locali, le Deputazioni di storia patria (già vedo Bossi sorridere contento), le Fondazioni politiche (Sturzo, Turati, Nenni, Gramsci, ecc.) e quelle musicali, ecc. Anche in questo caso, spesso, verrà meno l’ossigeno. Tanto più che enti locali e Regioni, anch'esse mutilate, non potranno subentrare in nulla. Ma passiamo al tanto discusso e però fondamentale Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus). Il taglio per le Fondazioni lirico-sinfoniche parte dai 51,7 milioni dell’anno prossimo e arriva, in progressione, agli oltre 101 del 2011. Il fondo per le attività musicali perde inizialmente 15,2 milioni e arriva a 29,8 milioni, mentre l’altro per le attività teatrali di prosa da va da 17,7 a ben 34,6 milioni. Ma ci saranno riduzioni di contributi anche per la già deperente danza classica. Tornando agli ex Enti lirici e sinfonici, è vero che devono essere riformati nel senso di una maggiore snellezza gestionale e di minori bardature burocratiche. Vi sono Enti infatti che registrano incidenze assurde del personale sui costi totali: l’Opera di Roma col record del 70,9 per cento, seguita dal Massimo di Palermo col 67,3 e dal Carlo Felice di Genova col 66,7, fino a scendere all’incidenza minima (encomiabile) del Regio di Torino: 42,3 per cento. Ma non sarà il drastico e per niente finalizzato taglio delle risorse a curare le situazioni più malate. Così si ammazzano il melodramma, la musica, il balletto, punto e basta. O si mettono le Fondazioni musicali di fronte ad un bivio: ridurre le produzioni ed abbassarne il livello (sovente già scaduto), oppure portare il prezzo dei biglietti a quote inarrivabili dai più, a cominciare da giovani e giovanissimi. Significa inoltre sterilizzare la spesa per la didattica artistica e musicale, negando, per decenni, al Paese di uscire dal gorgo di ignoranza e di maleducazione nel quale è precipitato rispetto all’Europa, ex Paese dell’Arte, della Musica e del Bel Canto. Il Consiglio Superiore dei Beni culturali, all’unanimità, aveva espresso, il 16 scorso, la più viva preoccupazione per una «temuta deriva che rischia di annichilire la tutela e il governo del patrimonio culturale e paesaggistico» invitando a «considerare la spesa per la cultura nel suo pieno valore economico per l’impatto generale che essa ha sul sistema economico e sociale del Paese, dall’industria del turismo al cosiddetto Made in Italy, all’immagine complessiva della Nazione». Tremonti ha accelerato la macellazione della cultura. Parole al vento, dunque. Come le patetiche proteste del ministro Bondi. Il quale (al pari della collega dell’Ambiente, Prestigiacomo, per i Parchi Nazionali) ha già una sua idea: assumere, magari a New York, un super-direttore dei musei statali con più “polpa” e affidarne la gestione a società private. Il trionfo del privato sul pubblico. La fine della cultura come valore fondamentale per tutti. Specie per chi ha minor reddito e minori chances di partenza. Un futuro radioso.
CAGLIARI. Il curriculum di uno dei quattro esperti esterni che componevano la commissione regionale per il paesaggio riporta una data successiva alla nomina. Questo per il Consiglio di Stato dimostra «la scarsa trasparenza dell’azione amministrativa» della Regione nell’operazione Tuvixeddu. Non solo: doveva essere il consiglio regionale e non la giunta a indicare i nomi dei membri laici, saltati fuori senza alcuna precisazione sui criteri della scelta. «Non è dato comprendere - scrivono i giudici - sulla base di quale norma la giunta si sia direttamente attribuito il potere di designarli».
Ma soprattutto, come aveva già detto chiaramente il Tar l’8 febbraio scorso, era indispensabile una legge regionale per istituire l’organismo previsto dal Codice Urbani perchè le precedenti commissioni provinciali erano state messe in piedi con un atto della massima assemblea sarda. La giunta Soru invece «senza esservi affatto costretta, ha ritenuto di derogare alla disciplina primaria regionale di settore e di ritenere prevalente su questa la sopravvenuta norma statale». A causa di questo incredibile pasticcio la commissione era dunque illegittima e di conseguenza sono illegittimi - come hanno sostenuto i legali di Iniziative immobiliari Coimpresa, del comune di Cagliari e della Cocco Costruzioni - tutti gli atti conseguenti. Nulla la perimetrazione dell’area di notevole interesse pubblico, nulle tutte le nuove prescrizioni imposte su richiesta della commissione e deliberate dalla giunta.
Dure da incassare, per la Regione, le tre sentenze depositate martedì scorso con cui sono stati respinti i ricorsi del governo Soru contro la bocciatura dei vincoli sull’area dei colli punici. Due anni di controversie avvelenate e costose travolti dai giudizi a tratti sferzanti del Consiglio di Stato, che hanno confermato punto per punto la fondatezza dei gravami avanzati davanti al Tar dall’amministrazione di Cagliari e dai privati.
Ci sono però due passaggi di questa decisione ‘una e trina’ che aprono nuove vie all’iniziativa di contrasto mandata avanti dal governo Soru contro la cementificazione di Tuvixeddu: i giudici spiegano chiaramente come dev’essere costituita la commissione per il paesaggio destinata a valutare l’imposizione di nuovi vincoli e chiariscono sia pure sbrigativamente - senza entrare nel merito dei beni da tutelare e delle nuove scoperte nell’area storica - come la Sovrintendenza archeologica «chiamata a monitorare costantemente le aree oggetto delle opere cantierate, sia pur sempre in grado di paralizzare le stesse in presenza di appurate, eventuali nuove emergenze archeologiche». Un’affermazione in sè scontata ma probabilmente ritenuta doverosa dai giudici - presidente Barbagallo, consiglieri Buonvino, Chieppa, Bellomo e Contessa - considerata la leggerezza, denunciata dall’Avvocatura dello Stato e dalle associazioni culturali ed ecologiste, con cui il problema del sito archeologico di Tuvixeddu è stato affrontato negli anni.
Nei giudizi amministrativi la forma degli atti diventa sostanza per le decisioni. Ma in questo caso il Consiglio di Stato ha seguito la traccia del Tar Sardegna e si è addentrato in aspetti non solo formali di una vicenda che ormai coinvolge anche i magistrati penali: per palazzo Spada lo «sviamento di potere» rilevato dai colleghi sardi c’è davvero e rappresenta il lato più oscuro del caso Tuvixeddu. Se infatti i legali della Regione - Vincenzo Cerulli Irelli, Paolo Carrozza e Giampiero Contu - liquidano il progetto alternativo per il ‘parco Karalis’ elaborato dall’archistar francese Gilles Clement come «un semplice studio a carattere orientativo» i giudici di Roma ribattono che «la giunta regionale, di sua iniziativa, nel fare proprio il parere espresso dalla commissione regionale, ha finalizzato puntualmente la propria azione alla realizzazione del progetto di tutela, conservazione e ripristino delle aree secondo le indicazioni dello studio del professor Clement». Lo studio - rilevano i giudici - viene formalmente richiamato «nella stessa delibera di imposizione del vincolo» e quindi «doveva essere ben noto alla Regione nei suoi specifici contenuti e logicamente doveva averne avuto sostanziale approvazione». Ma il punto è questo: «Non è dato comprendere - è scritto nella sentenza - in che modo, in assenza di alcuna formale iniziativa al riguardo e in difetto di ogni motivazione atta a consentire un idoneo scrutinio di legittimità della scelta così operata, possa essere stato individuato quel progetto e possa esserne stata prescritta l’osservanza». Un progetto - scrivono ancora i giudici romani - di «non definita origine e di non precisate fonti normative» che conferma «il grave eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento» di cui la Regione si è macchiata. Ed è qui che il giudizio amministrativo va a incrociarsi con l’inchiesta penale sollecitata dai legali di Coimpresa e aperta su ipotesi di abuso d’ufficio dal sostituto procuratore Daniele Caria: sulla scena di Tuvixeddu, prima ancora che il Tar si esprima sui nuovi vincoli, compare uno studio finanziato in parte dalla Fondazione Banco di Sardegna, conosciuto soltanto alla giunta regionale, affisso negli uffici dei beni culturali ma di cui non c’è traccia nei documenti ufficiali.
Quasi in contemporanea ai vertici dirigenziali dell’assessorato regionale ai beni culturali viene nominata la moglie del presidente del Banco di Sardegna. Se la scelta di finanziare lo studio Clement - ormai censurata sia dal Tar che dai giudici amministrativi di secondo grado - e quella nomina al ruolo inedito di direttore generale dei direttori generali siano fatti significativi da mettere in relazione sarà la Procura a stabilirlo.