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Qualche breve considerazione generale sul fallimento del progetto Cerba di Umberto Veronesi a Milano, e sulle prospettive future di una città metropolitana al passo coi tempi, e non con le esigenze di qualche gruppo finanziario speculativo

Nell'ultima valanga di dichiarazioni arroventate, dopo la bocciatura del progetto di Centro Ricerche Biomediche Avanzate, si confonde sicuramente nel clamore quella sottotono dell'ex candidato alla presidenza della regione Lombardia, Umberto Ambrosoli, e della vicesindaco con delega all'urbanistica, De Cesaris: cerchiamo un'altra area? Non trova tantissima eco, e per forza, dato che implacabilmente mette in primo piano il vero oggetto del contendere di tutta la faccenda, ovvero una ennesima, grossa speculazione edilizia, finanziaria e chissà cosa sul groppone dei cittadini, della qualità ambientale, dello sviluppo metropolitano, pudicamente nascosta dietro la semitrasparente tendina del solito progetto sostenibile per autodefinizione, di green hospital, e naturalmente dell'ego di Umberto Veronesi, all'interno del quale ogni contraddizione urbanistica, giudiziaria, sociale, scientifica, sanitaria e via dicendo, deve per destino ineluttabile trovare ricomposizione. E invece no.

E invece: cerchiamo un'altra area? Si riparte esattamente dalle osservazioni di chi, giusto all'inizio della vicenda, non si sognava neppure di metter becco negli obiettivi scientifici, occupazionali, socio-sanitari di questo green hospital, e neppure a ben vedere nemmeno del suo estendersi su tutti quegli ettari. Anche se di solito il risultato urbanistico di certe autoreferenziali megalomanie mediche (quei baracconi fabbriche di traffico degrado esclusione e di disagio dentro e fuori che sono la maggior parte dei nostri ospedali) non è gran che, accettiamo pure in parte questa relativa invasione di campo. Ma: perché proprio lì? Non c'è un altro posto?

Visto che ci si appella all'Europa, al globo terracqueo intero per salvare la Scienza con la S maiuscola, per rilanciare il ruolo dell'area metropolitana sul versante dell'economia della conoscenza, magari si potrebbe attingere al medesimo contesto anche qualche spunto sul versante della pianificazione territoriale, e senza passare necessariamente attraverso il filtro tuttologico del professor Veronesi, che sicuramente (l'ha già fatto con le scorie nucleari, con gli Ogm all'Expo eccetera) vorrebbe impartire all'umanità tutta lezioni magistrali di planning. Se guardiamo a tutto il mondo, scopriamo che le migliori tendenze e i migliori auspici per lo sviluppo urbano, occupazionale, di riqualificazione sostenibile, ruotano attorno a un paio di principi: contenimento sino all'opzione zero del consumo di superfici greenfield, e coinvolgimento delle imprese di alto profilo tecnologico, scientifico e organizzativo nel recupero di aree brownfield, dove intervenire per progetti integrati che massimizzino il riuso di infrastrutture esistenti e ricostruiscano sistemi di quartiere multifunzione.

Solo per fare un piccolo esempio: pare del tutto campato per aria straparlare di mobilità dolce e integrazione spaziale, se alla prima occasione (e che occasione, sul versante occupazionale e competitivo) ci si siede passivamente sul modello insediativo suburbano automobilistico, salvo promettere come si fa in buona sostanza sempre da una cinquantina d'anni, grandi futuri investimenti in costose metropolitane. Intervenire su aree già urbanizzate, tendenzialmente centrali, consente il riuso e rilancio di infrastrutture esistenti, la modernizzazione di altre, un effetto domino positivo su zone confinanti. E ogni metro di recupero brownfield corrisponde a parecchi metri di greenfield risparmiato.

Il professor Umberto Veronesi, nelle sue varie e multiformi espressioni dichiarazioni, pubblicazioni, sostiene la superiorità della dieta vegetariana, e forse non gli sarà sfuggito neppure il moderno movimento che tende a legare in qualche modo alimentazione, salute, territorio, ambiente. Senza entrare in dettagli, vale però la pena ricordare che nei modelli di sviluppo urbano (quelli per intenderci su cui si discute da un paio di secoli, non le trovate dell'altro ieri tutte da verificare) c'è il sistema delle interposizioni agricole e naturali ai processi di espansione urbana e artificializzazione degli spazi. In gergo si chiamano queste fasce di separazione greenbelt, green wedge, green buffer, e a seconda dei contesti svolgono un ruolo di superfici agricole, a parco, o più recentemente di infrastrutture verdi ovvero sfruttamento anche ingegneristico di funzioni naturali nel metabolismo urbano. Lì si possono concentrare anche le produzioni di alimenti destinati alla rete di distribuzione locale, che come ancora insegnano le esperienze internazionali risultano più sani, sostenibili, socialmente utili.

Il Cerba, piazzato nel bel mezzo della greenbelt milanese, con l'unico evidente motivo di stare accanto all'esistente Istituto Oncologico Europeo del professor Veronesi, era in aperta contraddizione con tutto quanto riassunto sopra. Le vicende legali del gruppo Ligresti, proprietario delle aree, le modifiche successive del progetto urbanistico piuttosto banalizzanti, ne hanno anche messo in luce non pochi risvolti del tutto strumentali a cose che con la Scienza, la Salute, lo sviluppo locale, hanno pochissimo o nulla a che fare. E, lasciando ovviamente alla magistratura il compito di far chiarezza e giustizia su questi risvolti, si può concludere invitando tutti, Veronesi incluso, a considerarli proprio dei risvolti, sgradevoli ma secondari. E a rilanciare l'inascoltato, sinora, appello di tutti gli oppositori. Oppositori non della Scienza, della Salute e che altro, ma oppositori di loro strumentalizzazioni indebite a nascondere squallide speculazioni sulla pelle dei cittadini e della città. Allora: cerchiamo un'altra area?

Poscritto. Pare che Veronesi voglia indire addirittura un referendum cittadino a sostegno della propria idea (e implicitamente degli interessi che l'hanno sostenuta sinora). Abbastanza facile immaginare quali sarebbero le argomentazioni di questo referendum, spiegato più o meno nei termini: tu cittadino sei favorevole o contrario alla lotta contro il cancro? Il che confermerebbe se necessario l'idea maturata lungo tutto l'arco della vicenda, che il principale ostacolo al Centro Ricerche Avanzate sta nell'ingombrante presenza del suo sponsor, il professore Veronesi (f.b.)

Intervistato da Giampiero Rossi sul fallimento del Cerba nel Parco Sud, il professore da par suo si lancia in una serie di considerazioni paradossali: che saranno mai un po' sterpaglie (sic) paragonate alla ricerca, fatta dove dico io? Corriere della Sera Milano, 19 dicembre 2013 (f.b.)

«È strano, davvero strano, avere un sindaco contrario a un’opera di scienza, di civiltà, di avanzamento culturale... Ma noi andremo avanti, troveremo il modo per realizzare comunque il Cerba».

Il professor Umberto Veronesi, il “padre” del progetto Cerba, assicura di non essere arrabbiato. Anzi di essere «tranquillissimo». Ma le sue parole lasciano intendere chiaramente il disappunto nei confronti della decisione del Comune di Milano.
Lei non trova che le motivazioni per congelare il progetto del Cerba abbiano fondamento?

«Se devo dire la verità, io non riesco proprio a capire. Anche perché è una posizione che il Comune ha assunto soltanto di recente. Tutti i sindaci precedenti sono stati favorevoli. E anche lo stesso Pisapia lo era fino a sei mesi fa... No, proprio non capisco».

Ma oltre alle implicazioni giudiziarie, i terreni interessati dal progetto sorgono nel Parco Sud...
«Sulla carta. Ma andiamo a vederlo: quello non è davvero un parco. Si tratta di terreni brulli, pieni di sterpaglie e immondizie. Noi, piuttosto, abbiamo in progetto di trasformarlo in un vero parco, piantando 20 mila alberi nella tradizione dei cosiddetti green hospital».

Ma secondo lei che lo ha pensato, se non si fa il Cerba cosa perde Milano?
«Perde uno dei più grandi progetti di questo inizio secolo. Un punto di riferimento per l’intera ricerca europea, perché nel nostro continente la scienza medica è ancora molto frammentata, diffusa, non ha un coordinamento e armonizzazione, come negli Stati Uniti. In futuro quel ruolo di spinta e regia toccherà al Cerba».

Professore, lei continua a essere certo di realizzarlo?
«Noi siamo pronti a partire, siamo arrivati fin qui e andremo avanti».

E come?
«Certo, ora è un problema, ma se convinciamo il Parco Sud a darci un pezzo di terreno...».

Nota: in questa cartella dedicata a Milano, sono decine e decine i contributi che raccontano le vicende del CERBA di Veronesi; ho provato su Millennio Urbano a circostanziare un po' di più, e anche contestualizzare in un quadro internazionale, questo disprezzo per l'ambiente, e in fondo la salute (f.b.)

A proposito di "città resiliente". La soluzione non è nell'imparare a resistere al danno, ma nell'impedirlo. Partiamo dal "diritto alla salute" per risanare il territorio. Così evitiamo anche che il "fare" si traduca nell'"affare". Il manifesto, 18 dicembre 2013

Nel lin­guag­gio comune i disa­stri ambien­tali sono espressi come se fos­sero delle malat­tie da curare o da pre­ve­nire. Quando si dice «cura del ter­ri­to­rio» si intende rife­rirsi ad un luogo fisico idro­geo­lo­gi­ca­mente amma­lato. L’Anci sco­pre la «resi­lienza» (la capa­cità dei metalli di resi­stere agli urti) e scrive un deca­logo per invi­tare le città a orga­niz­zarsi con­tro gli eventi avversi. 6663 comuni sono a rischio idro­geo­lo­gico. I retori della poli­tica nei talk show tra­di­scono la loro cat­tiva coscienza: «Dob­biamo par­tire dai pro­blemi del paese», e subito dopo imman­ca­bil­mente il pas­sag­gio sul «fare»: «Basta con le chiac­chiere abbiamo biso­gni di fatti».

Tra­volti dall’ineluttabile, il «fare» si tra­sforma in «affare» come con il ter­re­moto dell’Aquila, l’Ilva di Taranto, la «terra dei fuo­chi». L’affare è tanto la cura del ter­ri­to­rio malato quanto tutto quanto lo fa amma­lare. Dipende. Il ter­ri­to­rio amma­lato, scri­vono i gior­nali, è un affare che distrugge altri affari. La «terra dei fuo­chi» causa il calo del con­sumo della moz­za­rella Dop. Si tratta di «met­tere in sicu­rezza il ter­ri­to­rio» dice il con­sor­zio allar­mato. Curare il ter­ri­to­rio o curare le per­sone pone sem­pre la stessa eterna que­stione dei finan­zia­menti… altri affari.

Ma si può curare il ter­ri­to­rio senza curare le per­sone? Si pos­sono curare le per­sone senza eman­ci­parle? E si pos­sono eman­ci­pare le per­sone senza libe­rarle dalle oppres­sioni? E si pos­sono libe­rare le per­sone dalle oppres­sioni senza che val­gano qual­cosa? Ma siamo pro­prio sicuri che dob­biamo par­tire dai «pro­blemi»? Siamo pro­prio sicuri che dob­biamo «fare» senza eman­ci­pare? Siamo sicuri che la strada degli affari prima ancora che quella dei diritti sia la stra­te­gia giusta?

Il mio dub­bio, lo con­fesso, non è tanto meto­do­lo­gico, ma este­tico, per­ché il discorso dell’emancipazione della per­sona oggi nello stato in cui si trova la sini­stra, sem­bra un rot­tame di altri tempi. Eppure nel nostro paese l’unica vera impor­tante espe­rienza di salute è coin­cisa con l’ideale di eman­ci­pa­zione dell’uomo, cioè di libe­ra­zione del sog­getto dagli asser­vi­menti, dallo sfrut­ta­mento, dalle discri­mi­na­zioni. Un tempo la salute nei luo­ghi di lavoro coin­ci­deva con la rior­ga­niz­za­zione della fab­brica, quella della donna con l’emancipazione dalle discri­mi­na­zioni, quella men­tale con la lotta con­tro le isti­tu­zioni totali, quella dei diver­sa­mente abili con il rifiuto dell’esclusione sociale, e quella dell’anziano con il diritto a non essere sra­di­cati, e infine quella del bam­bino non più visto come «pro­dotto con­ce­pito», ma come sog­getto evolutivo.

Que­sta lezione la con­si­dero, a certe con­di­zioni, molto attuale. Il suo nucleo è pro­fon­da­mente uma­ni­stico ed era quello che Kant non Marx avrebbe defi­nito un «impe­ra­tivo morale cate­go­rico»: la salute non è nego­zia­bile e men che mai mone­tiz­za­bile per­ché l’idea di diritto e di per­sona non è nego­zia­bile né mone­tiz­za­bile. Oggi se pen­siamo all’Ilva in ragione di una discu­ti­bile «real­po­li­tik» l’imperativo cate­go­rico è cam­biato: l’art 32 è nego­zia­bile e mone­tiz­za­bile per­ché le per­sone e il ter­ri­to­rio, nei con­te­sti ostili al lavoro, sono nego­zia­bili e mone­tiz­za­bili fino alle estreme conseguenze.

Anche la sini­stra crede di poter «risol­vere pro­blemi senza eman­ci­pare» vale a dire di poter «curare» il «pro­blema» dello schiavo senza eman­ci­parlo dalla «con­di­zione» di schia­vitù. Tra le tante schia­vitù, oltre quella della disoc­cu­pa­zione gio­va­nile, della dein­du­stria­liz­za­zione, della man­canza di inve­sti­menti, quella più odiosa di tutte è la cata­strofe pri­vata del can­cro, che potrebbe essere evi­tata a milioni di per­sone ma che non lo è in ragione dei nuovi impe­ra­tivi eco­no­mici della real­po­li­tik. Ma i pro­blemi che la real­po­li­tik vor­rebbe risol­vere, fuori da un qual­siasi ideale di eman­ci­pa­zione sem­brano ribel­larsi fino a diven­tare quasi irri­sol­vi­bili. Biso­gnebbe «fare» que­sto, quello, quell’altro ecc. E’ a que­sto punto che avviene l’abbraccio tra real­po­li­tik e fata­lità. In Cam­pa­nia, nella terra del «bio­ci­dio», per «fata­lità» l’incidenza dei tumori cre­sce come a Taranto, in misura mag­giore rispetto alle medie già altis­sime del paese, e sem­pre per «fata­lità» i tempi di attesa per la che­mio­te­ra­pia media­mente sono di due mesi e mezzo. La Cam­pa­nia, terra sca­ra­man­tica è il para­digma della falsa fata­lità, essa dimo­stra che fuori da un pro­getto di eman­ci­pa­zione si sfal­dano le garan­zie sociali, si taglia sulla sanità, si cor­rom­pono i diritti, si abban­do­nano le per­sone al loro destino. Ma se «inciam­pare nei pro­blemi», come dicono i pop­pe­riani retard della poli­tica, è un falso fata­li­smo, allora vuol dire che senza eman­ci­pa­zione si muore e basta e che la real­po­li­tik si dovrebbe assu­mere le pro­prie responsabilità.

Nel nostro Paese, dice l’Ocse la spesa è calata negli ultimi anni del 2.4%, ma se i malati aumen­tano chi ha pagato que­sta ridu­zione? E in che modo? Curare il ter­ri­to­rio costa quanto curare le per­sone, ma allora, chiedo soprat­tutto alla sini­stra, se la ric­chezza di un paese non è solo Pil ma anche salute, cioè eman­ci­pa­zione, per­ché non si pro­duce eman­ci­pa­zione per pro­durre ric­chezza sapendo che pro­du­cendo eman­ci­pa­zione riduco l’incidenza della spesa sani­ta­ria sul Pil? Quindi la domanda secca è: l’art 32 (il diritto alla salute) è o no un ideale di eman­ci­pa­zione? Non ritengo che l’ideale di eman­ci­pa­zione sia fal­lito e nean­che che sia incom­piuto, penso solo che l’art 32 debba essere ricon­te­stua­liz­zato in un nuovo pro­getto di eman­ci­pa­zione e in luogo della real­po­li­tik dare voce ad un nuovo riformismo.

Si avvicina, almeno così pare e speriamo, il definitivo accantonamento – anche se per motivi che avremmo preferito diversi - del progettone Ligresti-Veronesi in mezzo al Parco Sud. La Repubblica Milano, 18 dicembre 2013, postilla (f.b.)

La richiesta della Procura è arrivata qualche giorno prima che il Collegio di vigilanza, previsto per oggi pomeriggio, fosse convocato. E adesso questo passaggio rischia di compromettere ulteriormente la vicenda già tormentata del Cerba. I magistrati milanesi hanno chiesto a Palazzo Marino una serie di atti amministrativi correlati al progetto del Centro europeo di ricerca biomedica avanzata, nell’ambito del procedimento penale che verte sul fallimento delle due immobiliari del gruppo Ligresti, ImCo e Sinergia, proprietarie dei terreni su cui il polo scientifico dovrebbe sorgere. Una novità, questa, che potrebbe contribuire a confermare i dubbi degli enti locali, e in particolare di Palazzo Marino, sull’ipotesi di andare avanti con il progetto. E di dare l’ok alla richiesta, presentata dalla società Visconti srl, di avere un’ulteriore proroga per firmare gli atti integrativi all’Accordo di programma, necessari per permettere al progetto di restare in vita.

I pm che indagano sul crac hanno chiesto a Palazzo Marino i documenti che ripercorrono tutto l’iter amministrativo del Cerba. Ovvero, i verbali dei Collegi di vigilanza che si sono svolti finora, le proposte di integrazione all’Accordo di programma fatte nei mesi scorsi da Visconti srl (la società costituita dalle banche creditrici di Ligresti per presentare il concordato e rilevare il progetto), le richieste di proroga alla diffida inviata dal Comune nella primavera del 2013, e il provvedimento di sospensionedella diffida stessa firmato da Palazzo Marino a giugno.

La vicenda del Cerba inizia nel 2007, con la firma di un Accordo di programma tra Comune, Regione, Provincia e Fondazione Cerba. Nel 2012, il crac di ImCo e Sinergia, le immobiliari di Ligresti proprietarie dei terreni, si è rivelato il primo grande ostacolo all’operazione: in seguito al fallimento, il Comune la scorsa primavera ha inviato alla Fondazione una diffida (scadenza: 30 giugno) con la quale venivano concessi 90 giorni per regolarizzare la situazione e procedere alla firma di alcune integrazioni all’Accordo di programma.

La diffida prima dell’estate è stata prorogata di sei mesi (scadenza, 31 dicembre) in attesa dell’approvazione del concordato. La richiesta della Procura rischia però di complicare ulteriormente l’operazione. Tanto che i dubbi sull’esito del Collegio di vigilanza di oggi, decisivo per permettere al progetto di proseguire, sono diversi. Al centro della discussione, la richiesta di un’ulteriore proroga alla diffida presentata da Visconti srl, e alcune modifiche al progetto originale, quali la trasformazione del giardino previsto attorno al polo scientifico in parco agricolo. E la costruzione per unità di intervento, per diluire il pagamento degli oneri di urbanizzazione.

postilla

Implicito, nel linguaggio e nei temi dell'articolo, un giudizio complessivo riguardo all'operazione: niente progresso della scienza, aggiustamento minore nel modello di espansione urbana, insediamento di grande qualità architettonica fiore all'occhiello della metropoli europea. Solo, come su questo sito è stato ribadito infinite volte, miserabile speculazione sulla pelle dei cittadini e del loro diritto a un ambiente equilibrato, di cui l'archistar e lo scienziato rappresentavano solo la (consapevole, rassegnata) foglia di fico. Unico vero rimpianto, al solito, che a cavare le castagne dal fuoco debba essere la magistratura, e non altri controlli di merito, come quelli sul modello di crescita urbana e la sua coerenza, che a prima vista avrebbero dovuto entrare in campo con maggior evidenza da subito. Che serva almeno come monito per il futuro (f.b.)

Greenreport, 11 dicembre 2013

Per Legambiente il diritto di prelazione che lo Stato vuole esercitare sull’isola Budelli è una scelta inutile e dannosa. Il Cigno Verde spiega il perché in una lettera aperta che ha scritto ai membri della commissione Bilancio della Camera dei Deputati. Vittorio Cogliati Dezza e Vincenzo Tiana, rispettivamente, presidente nazionale e sardo di Legambiente, scrivono che «Sulla vicenda di Budelli, l’isola privata in vendita sulla quale qualcuno vorrebbe che lo Stato esercitasse il suo diritto di prelazione a suon di milioni di euro, è passata secondo noi una comunicazione confusa e distorta. La nostra associazione è fra quanti ritiene, insieme a Federparchi e al presidente del Fai, Andrea Carandini, che si tratterebbe di una spesa inutile, se non addirittura dannosa».

Cogliati Dezza e Tiana provano a spiegare perché: «E’ inutile perché quell’isola è privata sin dal 1800 e si è conservata integra in virtù dei vincoli e dei divieti severissimi che hanno impedito qualsiasi modificazione dello stato dei luoghi. Già oggi, ad esempio, non è possibile ad alcuno mettere piede sulla Spiaggia Rosa, la zona forse più delicata dell’isola, sia anche il custode o lo stesso attuale proprietario. Se Mr. Harte in persona, il magnate neozelandese che ha sborsato 3 milioni di euro per acquistare l’isola, volesse domani semplicemente passeggiare sulla Spiaggia Rosa, non potrebbe farlo, anche se quella spiaggia è sua. A ciò si aggiunga che quella spiaggia è sua solo in parte, perché una porzione significativa è invece demanio, cioè già oggi “bene comune”, e tale rimarrà. In sostanza l’ambiente di Budelli è supertutelato grazie alle misure che lo Stato, il pubblico, ha saputo apporre su un bene privato di pregio come ce ne sono tanti nel nostro Paese. Del resto il territorio italiano è pieno di beni privati, isole, colline, boschi, montagne, delle cui sorti per fortuna non dispone il proprietario del bene». Per i due dirigenti dell’associazione ambientalista se si vuole realmente tutelare l’ambiente nell’arcipelago è «Meglio utilizzare quei fondi per completare la bonifica dei fondali dell’isola della Maddalena, o usarli per dare ossigeno alle aree marine protette dell’isola colpita dai recenti fenomeni alluvionali».

Per Legambiente l’acquisizione dell’isola di Budelli potrebbe addirittura rivelarsi dannoso per le politiche di conservazione della natura e del paesaggio: «Sarebbero guai infatti se dovesse farsi strada la logica per cui la tutela di un bene dipende dalla natura, pubblica o privata, del bene stesso. Sarebbe una corsa all’acquisizione in ogni prossima legge di spesa: domani magari Spargi, un’isola dell’arcipelago ben più importante di Budelli dal punto di vista della biodiversità. E poi ancora l’isola di Molara. E perché non quella di Maldiventre? E Serpentara? E l’isola de Li Galli, in Campania. E gli isolotti della laguna veneta? Sarebbe pericoloso lasciare intendere che fino a quando un bene non è pubblico è a rischio e, al contrario, solo i beni in mano allo Stato sono al sicuro. Anche perché la realtà ci ha abituati a soluzioni d’ogni tipo: beni sapientemente gestiti dal privato e altri degradati in mano allo Stato o viceversa. Non è quindi la proprietà del bene che ne garantisce la tutela, ma i vincoli che lo Stato è riuscito ad apporre su quel bene e la capacità di gestione del bene stesso. Basti pensare, ad esempio, alle migliaia di ettari di oasi magistralmente gestite da fondazioni e associazioni ambientaliste (soggetti privati…) e che dialogano correttamente con la gestione pubblica di spazi limitrofi».

La conclusione, che va nella direzione contraria a quel che dicono Verdi, Sel ed altre associazioni ambientaliste, è «Ben vengano quindi privati che vogliano confrontarsi sul tema della conservazione della natura all’interno di un quadro di regole che lo Stato ha individuato. Ne potranno trarre vantaggio sia i privati che lo stesso pubblico. Pensare che ci sia un privato cattivo e un pubblico buono è una suddivisione ideologica e novecentesca, buona a strappare demagogicamente consensi facili, ma che rischia di non incidere su quello che a noi ci interessa sopra tutto, la reale tutela dell’ambiente e del paesaggio. E a noi questo confronto non ci fa paura».

In una lettera testimonianza dalle ultime sacche agricole metropolitane devastate dall'Expo, gli impatti reali dell'evento mediatico, e qualche seria questione. Corriere della Sera Milano, 10 dicembre 2013, postilla (f.b.)

Abito in una cascina confinante con l'area Expo. Ho visto distruggere l'agricoltura e le cascine della zona. A noi hanno tolto un grande campo dove sino a poco tempo fa pascolavano le vacche Jersey.

Ma l'ultima “caramella” è stata l'esproprio dei fontanili. Scavati ai tempi di Ludovico il Moro ora saranno usati per il tubo trasportatore di acqua che alimenterà le vie fluviali. Sopra poi passerà una via ciclabile. Il nostro fontanile è ricchissimo di flora spontanea e rifugio di volpi, scoiattoli, gallinelle d'acqua e varietà ampia di uccelli, dai barbagianni a cinciallegre, pettirossi e uccelli in transito.

Sono rassegnata, ma Expo ha martoriato e distrutto una zona agricola fiorente. I miei pensieri sono quelli di una donna anziana che abita questa azienda agricola da quando fu costruita nel 1942, e non hanno nessun valore commerciale, sono solo constatazioni personali.

postilla
Constatazioni personali, come conclude la signora Virginia Oliva, che però mettono in campo direttamente e tangibilmente il senso, locale e globale, del grande evento che sarebbe dedicato al tema “Nutrire il Pianeta”. Si è discusso (anche con toni piuttosto grotteschi, come nel caso del contraddittorio Umberto Veronesi-Oscar Farinetti) dell'alternativa fra una Expo targata Ogm e una segnata dalle pratiche biologiche e sostenibili. Il che corrisponde per molti versi in modo quasi esatto, almeno nella situazione attuale e del prevedibile futuro, a un modello territoriale da un lato legato alla città compatta tradizionale, che nella sua espansione respinge le zone rurali sempre più lontano, contando sul sistema agro-industriale per gli approvvigionamenti; dall'altro ai sistemi di infrastrutture verdi, rinaturalizzazione della città, convivenza fra natura e artificio ad esempio con l'agricoltura urbana, ma non solo. Anche al netto di un sistema ereditato da scelte precedenti, onestamente non appare chiaro se la triste obliterazione del paesaggio rimpianto dalla signora Oliva avvenga nella prospettiva dell'una, o dell'altra strategia. Probabilmente non lo sanno neppure i grandi decisori strategici, ma farebbero meglio a iniziare a chiederselo. I "fontanili" di cui al titolo della lettera, sono le caratteristiche fonti di acqua risorgiva padane utilizzate per l'irrigazione (f.b.)

Trovato un equilibrio, imperfetto ma tutto sommato ragionevole, fra esigenze ambientali, urbanistiche, di equilibrio metropolitano e riorganizzazione aziendale, per un progetto controverso che si trascina da anni. Corriere della Sera Milano, 4 dicembre 2013, postilla (f.b.)

«Finalmente oggi si parte. Vogliamo trasformare un luogo abbandonato in un luogo di vita». Il presidente della Regione Roberto Maroni annuncia così il simbolico avvio dei lavori per la realizzazione della Città della Salute di Sesto San Giovanni. Tra gli imponenti ruderi di quel che resta dell’area delle acciaierie Falck, il governatore ha voluto riunire per una cerimonia ufficiale i protagonisti dell’operazione: l’autore del grande progetto, l’architetto Renzo Piano, il sindaco di Sesto Monica Chittò, i vertici del Besta e dell’Istituto dei tumori, cioè le due strutture ospedaliere che qui troveranno una nuova sede.

A loro e alle centinaia di invitati, Maroni ha ribadito che i tempi previsti saranno rispettati. Prima si procederà con la bonifica, poi partirà la costruzione che dovrà garantire l’apertura della nuova struttura nel 2019. «Entro fine anno ci aspettiamo il decreto del governo — dice il governatore —. Ho sentito stamattina il ministro Orlando e mi ha garantito che arriverà». Poi ricorda che «entro il 2018», prima della fine del suo mandato, intende aumentare «dall’attuale 1,6% del Pil al 3%» gli investimenti della Lombardia per la ricerca. E si concede una battuta: «Visto che la Città della Salute aprirà nel 2019, per vederla funzionare mi toccherà fare un secondo mandato...». E a proposito della fondamentale opera di bonifica del terreno sottolinea: «Una novità tutta lombarda, è il coinvolgimento del privato nella realizzazione di un’opera pubblica. I privati entrano in queste cose se c’è un ritorno dell’investimento, non per beneficenza. Noi siamo riusciti, qui, a trovare un sistema che darà vita a un polo di eccellenza europeo nella sanità, coinvolgendo i privati, lasciando a loro il loro ritorno sull’investimento ma per fini pubblici. Questo è il modello speciale di Sesto che oggi inauguriamo».

Per la realizzazione di quest’opera, la Regione ha stanziato 330 dei 450 milioni di euro complessivi, necessari per il progetto. Altri 40 milioni sono in conto al ministero della Salute e 80 milioni anticipati dal concessionario privato dei terreni. E proprio sul significato simbolico di quella fetta di territorio di un milione e 400 mila metri quadrati si sofferma il sindaco di Sesto San Giovanni: «Questo è un luogo storico del lavoro e dell’innovazione — dice Monica Chittò a proposito dell’enorme ex acciaieria — l’area Falck è da sempre importante non soltanto per noi di Sesto, ma per tutta l’Italia. Qui gli operai hanno dato vita agli scioperi del 1943». Quindi dedica la giornata di festa a Giuseppe Granelli, partigiano e operaio simbolo della Falck, morto pochi giorni prima. E a mezzogiorno in punto suona ancora la sirena che sanciva la fine del turno di migliaia di lavoratori.

Soddisfatti i presidenti dell’Istituto dei tumori, Giuseppe De Leo, e del Besta, Alberto Guglielmo, che sottolineano come i livelli di eccellenza scientifica possano trovare ulteriore impulso dalla nuova e più funzionale sede comune. Come sarà? «La città che era diventata fabbrica tornerà a essere città», riassume con una suggestione Renzo Piano, che, con proiezioni di planimetrie e foto aeree, spiega i dettagli del progetto, prima al pubblico istituzionale e poi agli studenti del Politecnico: sottolinea che ci saranno 10 mila alberi, «perché qui il verde attecchisce che è una meraviglia», ci saranno pannelli solari, pozzi geotermici ed edifici a basso consumo energetico, residenze e attività terziarie che porteranno «la città nell’ospedale».

postilla

Se c'è un possibile, ulteriore commento a una vicenda che questo sito eddyburg.it ha seguito (forse seguirà ancora) nei suoi più o meno virtuosi o surreali passaggi, è che per una volta pare che il pubblico trionfi sul privato. Almeno se confrontiamo lo sbocco provvisorio del progetto di Città della Salute con quello, del tutto complementare/concorrente promosso dalla cordata Umberto Veronesi Salvatore Ligresti ecc. per un Centro Europeo di Ricerche Biomediche Avanzate. Se non altro la Città della Salute pubblica col suo a volte patetico itinerare da una localizzazione all'altra, da una strategia all'altra, dall'ipotesi greenfield, a quella brownfield (fortunatamente scelta), all'opzione zero di una riorganizzazione solo aziendale e non urbanistica, si è svolta in modo relativamente trasparente. La scelta finale in pratica pare una specie di compromesso abbastanza leggibile fra le vere esigenze di rafforzamento della ricerca avanzata in un polo di livello europeo, e altre strategie sia di riequilibrio metropolitano, che di bonifica ambientale grazie alle risorse così messe in campo. Mentre dall'altra parte, il Cerba ha evidenziato e continua a evidenziare la pura strumentalità del polo scientifico sanitario a un'operazione immobiliarista, ambientalmente discutibile, e senza alcuna sinergia con altri aspetti. Aspettando le successive evoluzioni di entrambi i progetti, naturalmente (f.b.)

Ogni giorno ce n'è una nuova. Magari con la fine delle "larghe intese" sarà tutto diverso? <sarebbe bello poterlo sperare. Il Fatto quotidiano, 30 novembre 2013

«Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto». Nell’imbarbarimento del discorso pubblico dell’Italia del 2014 anche la piana ed innocua definizione del museo messa a punto dall’International Council of Museums rischia di suonare rivoluzionaria.

I musei non sono al servizio di chi li dirige, né di chi ci lavora, né di chi li studia. Non sono al servizio del denaro, né della classe politica. Non sono al servizio delle società di servizi – che, a Firenze, a Roma o altrove ne hanno fatto ‘cosa loro’ – ma al servizio della società. In Italia i musei sono al servizio del progetto della Costituzione: della sovranità del popolo, dell’uguaglianza sostanziale, del pieno sviluppo della persona umana. Al servizio dell’integrazione e della dignità di tutti.

dell’arte che lavorano al Polo Museale Fiorentino e che aderiscono alla Cgil e alla Cisl: da oggi raccolgono firme nel piazzale degli Uffizi per protestare contro la privatizzazione della fruizione del Corridoio Vasariano, il meraviglioso ‘passaggio segreto’ dei granduchi che congiunge Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti passando attraverso gli Uffizi e sorvolando Ponte Vecchio.

I lavoratori del Polo Museale contestano la decisione della soprintendente Cristina Acidini (nota per aver acquistato il Crocifisso falsamente attribuito a Michelangelo e aver approntato un agile prezzario per la svendita del patrimonio storico e artistico che le è affidato) di affidare le visite guidate del Vasariano al concessionario: Opera Laboratori Fiorentini del gruppo Civita, presieduto da Gianni Letta. Essi fanno notare che all’interno del Polo ci sono forse più che sufficienti e che non ci sarebbe alcun bisogno di privatizzare. Questo è un problema più generale, e riguarda l’assurdo e colpevole sotto-utilizzo degli Ava (Addetti alla Vigilanza e Accoglienza): non di rado superqualificati giovani studiosi (con dottorati di ricerca e master assortiti) lasciati a vegetare sulle sedie dei musei di tutta Italia. La seconda denuncia dei lavoratori fiorentini riguarda le assurde tariffe annunciate dalla Acidini per il servizio privatizzato con Civita: 34 euro a prezzo pieno, 25 il ridotto e (tenetevi forte) 16 il… gratuito!

Lasciamo dunque la parola al comunicato sindacale: «La Fp Cgil e la Cisl Fp hanno avanzato una controproposta che prevede l’offerta di visite guidate garantite dal personale ministeriale, ovvero dal personale interno alla Soprintendenza fiorentina, come già avvenuto in passato con grande successo. Una soluzione del genere eliminerebbe i costi aggiuntivi per l’utenza, che pagherebbe tutt’al più il solo biglietto di ingresso alla Galleria degli Uffizi.
I lavoratori della Soprintendenza non rivendicano benefici economici per se stessi, desiderano piuttosto che i cittadini e i turisti siano esentati da un evitabile balzello. Rivendichiamo con slancio e passione la funzione pubblica del nostro lavoro. È nostro desiderio poter fornire un servizio pubblico, gratuito e qualificato, e poter raccontare il patrimonio che custodiamo.
Reclamiamo l’applicazione dell’art. 3 della Costituzione, ovvero la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Crediamo che in un periodo di grave crisi economica sia un dovere delle amministrazioni pubbliche utilizzare al meglio il proprio personale e non esigere dalla cittadinanza e dai turisti oneri impropri».

Non si potrebbe davvero dire meglio. Ma non si sarebbe detto tutto, senza dare notizia della replica della Soprintendente: che è davvero illuminante. E ancor più per la forma che per i contenuti.

Cristina Acidini si è detta «perplessa», e ha sottolineato che «il possibile intervento di personale esterno all’Amministrazione coinvolgerebbe il concessionario, che già dal 1998 cura per nostro conto tutti i servizi aggiuntivi». Insomma, giù le mani dalla nostra amata Civita. E la cosa davvero importante da notare è che se la carta intestata del comunicato è del Ministero per i Beni Culturali, la firma è quella dell’ex giornalista dell’edizione toscana del Giornale che oggi cura la comunicazione della Soprintendente, ma essendo nell’organico di Civita.

E cioè: un dipendente di Civita difende gli interessi di Civita per bocca del soprintendente, e usando il simbolo del Mibac. Più che il pieno sviluppo della persona umana sembra il pieno sviluppo degli interessi privati attraverso la svendita del patrimonio pubblico.

Forse dopo ben quindici anni alla soprintendenza di Firenze farebbe bene cambiare il concessionario. O la soprintendente.

Greenreport, 28 novembre 2013

La recente e tragica alluvione in Sardegna potrebbe forse avere anche qualche ricaduta positiva sulla politica: infatti il Ministero dei beni e delle attività culturali (Mibac) sta valutando di impugnare alla Corte Costituzionale la revisione del Piano paesaggistico della Sardegna (Pps), varata di recente dalla Giunta Cappellacci. Lo ha ribadito la direttrice regionale del Mibac, Maria Assunta Lorrai, intervenendo al convegno nazionale del Fondo ambiente italiano (Fai) “Sardegna Domani! Terra/Paesaggio/Occupazione/Futuro”, in corso di svolgimento al Teatro Massimo di Cagliari.

«A questo punto abbiamo chiesto all’amministrazione centrale di verificare la possibilità di una impugnativa costituzionale del piano. E ora il Ministero, ufficio legislativo e ministro, stanno valutando questa possibilità» ha informato Lorrai. Già ai primi di novembre era emersa l’intenzione da parte del Mibac di impugnare il nuovo Piano regionale, che ha fatto sollevare molte polemiche. Poi l’alluvione che ha portato manifestamente sul banco degli imputati il consumo di suolo e l’urbanizzazione selvaggia (lo ricordava anche ieri il Capo della Protezione civile Prefetto Gabrielli), che ha fornito altri elementi di riflessione, ed ora il convegno del Fai, un appuntamento pensato per discutere delle grandi potenzialità dell’isola e definire un nuovo modello di sviluppo estraneo alle logiche di cementificazione e speculazione edilizia, che pare “cascare a fagiolo”.

«Nel Piano paesaggistico della Sardegna approvato dalla Giunta regionale a ottobre si infrangono o si allentano le regole poste dalla legge Salvacoste nel 2004 e dal precedente Piano del 2006 - ha dichiarato Andrea Carandini, presidente del Fondo ambiente italiano (Fai) - Il Pps permette di resuscitare tutte le lottizzazioni precedenti il 2004. Si tratta di progetti edilizi vecchi di anni, figli di una mentalità speculativa che la coscienza dei sardi più sensibili ormai rifiuta perché inutili allo sviluppo generale della regione».

Carandini ovviamente ha accennato anche alla recente alluvione: «L’abbattimento o l’allentamento dei vincoli relativi al reticolato idrico, minore e maggiore, è di assoluta gravità. Le alluvioni di Capoterra, Villagrande e quelle dei giorni scorsi ne sono la riprova. L’invasione capillare dell’agro con costruzioni svincolate dall’uso agricolo, il Pps consente la costruzione di un manufatto con destinazione abitativa in un lotto minimo di un ettaro, è da rigettare non solo perché sottrae la terra alla sua destinazione naturale, ma perché manomette il territorio», ha concluso il presidente del Fai.

Perché pagare onerosi affitti alla grande proprietà immobiliare quando esistono edifici già pubblici che si vorrebbero alienare? Il manifesto, 27 novembre 2013

Al sindaco di Roma Ignazio Marino si possono attribuire molte responsabilità per l'opaca e contraddittoria azione di governo fin qui messa in atto, ma almeno un grande merito lo ha conseguito. Poco tempo fa, per la prima volta, ha reso pubblico l'elenco degli affitti passivi che il comune di Roma paga alla grande proprietà edilizia per lo svolgimento delle sue funzioni, e cioè per gli uffici comunali, le scuole e altro. Va dato atto al sindaco di aver compiuto un gesto importante, ed è forse a questo che bisogna ricondurre la forte opposizione che incontra oggi Marino.

Il sindaco ha infatti messo a nudo il dominio incontrastato della grande proprietà immobiliare che sta portando Roma al collasso economico.Scorrendo l'elenco si comprendono bene i motivi per i quali i predecessori non hanno inteso rendere pubblica la sconvolgente tabella: tutti i romani avrebbero potuto constatare che una parte rilevante dei loro soldi, per la precisione 52 milioni di euro, transita dalla casse comunali a quelle della proprietà edilizia. E avrebbero potuto anche verificare che questo enorme flusso di denaro pubblico non viene da qualche recente emergenza. Al contrario, perdura indisturbato da decine di anni. E ciò di fronte alla possibilità di avviare un oculato investimento poliennale per realizzare edifici di proprietà o anche in presenza di un vasto patrimonio pubblico inutilizzato che potrebbe con modesti investimenti essere riutilizzato per ospitare uffici pubblici e diminuire l'esposizione finanziaria.

Ma vediamo nel dettaglio la giostra infernale, fermandoci soltanto ai casi più eclatanti. In testa alla classifica dei beneficiati per numero di immobili si trova l'Ente Eur, noto di recente per la distruzione del Velodromo olimpico e per le gesta dell'ex amministratore delegato Riccardo Mancini, fedelissimo di Alemanno, finito in carcere. Ebbene, l'ente prende dalle tasche dei romani 9,6 milioni di euro per ospitare uffici e una scuola. I contratti di affitto sono molto vecchi, datano per la maggior parte dal 2002 e 2003, gli anni d'oro del «modello Roma» inventato da astuti politicanti: sono dunque almeno dieci anni che ci sveniamo per rimpinguare i bilanci dell'Eur e gli abbiamo trasferito a occhio e croce 90 milioni di euro.

Scandaloso è in particolare l'ammontare di un ultimo contratto d'affitto acceso nel 2013. In tutta Roma e anche all'Eur i valori di affitto sono calati per la crisi immobiliare che attraversiamo. Molti conduttori hanno ricontrattato con i proprietari i valori di locazione strappando diminuzioni. Ebbene, a fronte di affitti a metro quadro anno di 211 e 214 euro stabiliti negli anni 2002 e 2003, nel 2013 il comune di Roma affitta altri 9 mila metri quadrati a un valore medio di 338 euro al metro quadro. Gli affitti calano dunque per tutti meno che per il comune di Roma e non essendoci più organi di controllo - sono gli effetti della nefasta legge del 1993 - si spera ormai soltanto nell'intervento della Corte dei Conti.

15 milioni e seicento mila euro, il primo posto in classifica, vanno a Milano '90 del costruttore Scarpellini. Di questi, oltre 6 milioni vanno per l'esercizio della democrazia, e cioè per le sedi dei gruppi consiliari nell'edificio di via delle Vergini e altri 9 per l'edificio di largo Loria, lungo la Cristoforo Colombo, che ospita in 18.000 metri quadrati autoparco, ragioneria e altro. Il costo unitario di questo affitto stipulato nel 2008 arriva a circa 530 euro al metro quadrato e forse comprende anche l'erogazione di servizi, altrimenti sarebbe incomprensibile.

E veniamo ad altri tre beneficiati. Il primo è il più grande fondo immobiliare italiano, Idea Fimit, di proprietà De Agostini con la partecipazione dell'Inps (un'eredità dell'Inpdap) il cui fondo Alpha affitta sempre in zona Cristoforo Colombo 9.950 mq. per 2,5 milioni anno. Un'altra società immobiliare, Il tiglio, affitta per oltre un milione di euro anno uffici municipali di 3.200 mq. dall'altro lato della città, lungo la via Flaminia. Altre due società, Fresia srl e Valle Giulia srl affittano ben 20.550 mq di uffici a via Ostiense: lì paghiamo oltre 5 milioni per anno. Come si vede, una girandola di localizzazioni che ci costano per i collegamenti tra uffici un fiume di soldi di gestione: ma di questa voce non c'è ovviamente alcun riscontro, va tutto nel grande calderone del debito complessivo.

Con due esempi possiamo invece comprendere la possibilità immediata di voltare pagina e riportare tutte le attività all'interno del grande patrimonio pubblico esistente non utilizzato. Per il canone degli uffici del giudice di Pace di via Teulada, paghiamo circa 2 milioni e 400 euro anno. A duecento metri c'è il bellissimo deposito Atac di piazza Bainsizza abbandonato da anni per tentare una volgare speculazione. Perché non portare lì quegli uffici? Ancora. I depositi del teatro dell'Opera sono stati affittati nientemeno che nella borgata Finocchio a 15 chilometri dall'edificio di piazza Beniamino Gigli. Sparsi per Roma e molto più vicini, ci sono decine di capannoni di vecchie caserme abbandonate: perché non risparmiare soldi ed evitare speculazioni e vendita di quell'immenso patrimonio pubblico?

E infine una perla. La famiglia Pogson Doria Pamphili affitta per 228 mila euro anno i locali per la biblioteca comunale di piazza Grazioli. Siamo ovviamente a favore della diffusione della cultura, ma questo affitto va avanti dal 1988 e ci è pertanto costato almeno 5 milioni, una cifra notevole con cui si potevano costruire almeno cinque nuove biblioteche invece di alimentare la rendita parassitaria.

Un quadro desolante, dunque, a cui va aggiunto quanto si mormora sempre più spesso e cioè che il comune di Roma paghi per l'assistenza alloggiativa dei troppi cittadini che non hanno i mezzi per avere o affittare una casa, più di 40 milioni di euro anno ai soliti gruppi immobiliari formati ad esempio, dicono i bene informati, da Bonifaci, proprietario del Tempo o dalla famiglia Totti. A tal proposito speriamo che il sindaco Marino renda al più presto pubblico anche questo elenco per dovere di chiarezza. Comunque sono circa 100 i milioni che i cittadini romani trasferiscono alla rendita immobiliare.

La sessione di bilancio iniziata lunedì rischia di far concludere prematuramente l'esperienza di Ignazio Marino. Molti sono stati i suoi errori di supponenza e di prospettiva. Vogliamo soltanto ricordare l'ultimo in ordine di tempo: a fronte di una periferia che impiega mediamente due ore per raggiungere il centro, il sindaco ha proposto la realizzazione di tre nuove linee tramviarie che interessano sempre e soltanto il centro pregiato. Uno schiaffo alla periferia che non alimenta il consenso, mentre l'opposizione si avvale di protagonisti convinti come il gruppetto di Marchini e di grandi giornali come il Messaggero. E sta qui, forse, la motivazione più profonda dello scontro di questi giorni. Marino e il suo assessore Caudo stanno tentando con rigore di far prevalere l'idea che non è costruendo altri quartieri in periferia che si salva questa città che ha già troppi alloggi invenduti. Si salva solo se fa fino in fondo i conti con una rendita immobiliare predatrice che sta facendo fallire la città.

52 milionI transitano dalle casse del comune di Roma a quelle della proprietà edilizia. Cui vanno aggiunti i 40 per l'assistenza alloggiativa

la Repubblica, 26 novembre 2013, postilla (f.b.)

MILANO — Le autostrade in Lombardia hanno un nuovo padrone: l’alleanza formata dal gruppo Gavio e Intesa Sanpaolo ha preso il controllo di Tem, la spa che sta realizzando la nuova tangenziale est di Milano, un’opera da 2 miliardi di valore. Un anno fa, la stessa coppia in proporzioni diverse, aveva scalato Brebemi, l’autostrada che collegherà il capoluogo con Brescia (cantiere che vale altri 2 miliardi). E così le società a monte della Tem e di Brebemi, secondo il progetto di Gavio e Intesa, verranno fuse insieme e successivamente dovrebbero essere quotate sul mercato. Il gruppo Gavio tramite Sias avrà il ruolo di socio industriale e gestore delle due tratte autostradali, mentre Intesa Sanpaolo sarà il partner finanziario che a tendere dovrebbe collocare le sue quote a Piazza Affari.

È questo l’esito dell’assemblea che ha dato il via a un aumento di capitale di Tem da 96 milioni, non sottoscritto dalla provincia di Milano (presente nel capitale con la controllata Serravalle) e da Impregilo. La prima perché ha difficoltà di bilancio tanto da aver messo in vendita la sua quota di controllo proprio di Serravalle, la seconda perché ha deciso di cedere al gruppo Gavio la partecipazione in Tem e anche il pacchetto di lavori che avrebbe dovuto realizzare sulla tangenziale. Detto in altro modo: il socio pubblico oramai senza soldi lascia il posto ai privati, un modo per salvare sia il finanziamento pubblico a fondo perduto della provincia da 330 milioni, sia il valore strategico dell’infrastruttura che sarà realizzata prima dell’Expo. L’obiettivo è il controllo del 59,1% di Tem e la fusione di quest’ultima con Autostrade Lombarde, controllata al 13,4% da Gavio e al 42,5% da Intesa, titolare del 79%di Brebemi. E c’è anche chi si spinge a pronosticare che l’accoppiata Gavio-Intesa i potrebbe persino puntare sulla Pedemontana

A breve ci sarà l’aumento di capitale da 536 milioni per realizzare la terza grande opera infrastrutturale delle Lombardia, una superstrada da 4 miliardi che attraversa 94 comuni con 4 milioni di abitanti. Un’opera ambiziosa e i cui rapporti di forza potrebbero cambiare se Serravalle, che controlla il 76,42% della società, non sottoscrivesse la sua parte. Il gruppo Gavio, che tramite la non quotata Itinera parteciperà anche alla realizzazione di 300 milioni di lavori (un decimo di tutte le opere previste per Tem e Brebemi), ha reinvestito sulle autostrade italiane tutti i 565 milioni realizzati nel 2011 dalla cessione delle attività cilene, andando a insidiare il suo primo rivale, ovvero la Atlantia che fa capo alla famiglia Benetton. Due anni fa il gruppo di Tortona aveva speso 225 milioni per rilevare proprio da Atlantia la tratta Torino-Savona e ora ha puntato altri 300 milioni sulla tangenziale esterna, che una volta che sarà collegata alla Brebemi, diventerà una valida alternativa alla A4, uno dei gioielli della corona delle concessioni del gruppo Benetton, che solo qualche anno fa aveva allargato la tratta fino a Bergamo a quattro corsie. E mentre Atlantia che in Italia è leader, ha deciso di investire sempre più all’estero, Gavio ha invece ceduto le attività in Sudamerica per completare la sua rete a livello nazionale.

postilla
Chi segue da un po' di tempo l'evoluzione di questo sito eddyburg.it forse non ha dimenticato il definirsi per tasselli successivi di un disegno di scala territoriale e infrastrutturale vasta, la vera e propria fabbrica dello sprawl, che conglomera interessi compositi attorno al modello autostradale. Il quale modello non è solo o tanto questione di impatti locali (le sei o otto corsie che rovinano il paesaggio della cascina o tagliano fuori una frazione dal capoluogo comunale) ma una vera e propria filosofia di sviluppo. Alla base di qualunque vera strategia di contenimento dei consumi di suolo, sta il controllo delle forme di urbanizzazione, e questo controllo sta in una pianificazione in grado di affrontare alla scala adeguata le sfide: questa scala è quella della megalopoli, o della macroregione come l'hanno chiamata i candidati del centrodestra alle ultime elezioni. Sfottuti stupidamente da chi non capiva la posta in gioco, e ha anche per questo malamente perduto, lasciando libero campo agli interessi particolari sostenuti da chi tiene saldamente il potere. E continuerà a tenerlo, finché non si capisce di cosa parliamo quando parliamo di territorio, modernizzazione, ambiente ecc. (f.b.)


Solo per citare alcuni dei "tasselli" evocati all'inizio: il sistema degli insediamenti industriali a grappolo nel Cuore Verde della Megalopoli, oppure il progetto di Sistema autostradale padano meridionale che lo alimenta, o il demente (ma solo se lo si legge coi paraocchi) Raccordo Trasversale con la linea pedemontana.

Anziché una “opinione”, da Giorgio Todde autorevole collaboratore una lezione di urbanistica, una denuncia politica, un appello: chi lo raccoglie con una sua adesione nei “Commenti”, contribuisce alla buona politica contro la cattiva, alla città delle persone contro quella degli affari

Su Stangioni significa, in sardo, lo stagno, la palude grande.

Chi, a Cagliari, si oppone al nuovo quartiere sovietico detto Su Stangioni che sorgerebbe su una piana all’estremità del territorio cagliaritano, accanto a un vecchio inceneritore che ha sparso veleno per decine d’anni, un quartiere collegato solo da strade a scorrimento veloce, un ghetto più vicino all’hinterland che alla città, chi si oppone sarebbe radical chic. Mentre dei problemi spacciati per veri se ne occupano con le maniche rimboccate quelli che dicono di “pensare concretamente alla città”.

Tra gli obiettivi degli uomini “del fare” rientrerebbe l’impresa di “riportare a Cagliari i cagliaritani emigrati nell’hinterland perché il centro era troppo caro”. E di trasferirli a Su Stangioni, ultimo lembo extra moenia del territorio di Cagliari. Dall’hinterland all’hinterland, insomma.

Così gli abitanti continuerebbero a entrare in città solo per lavorare e a uscirne per andare a dormire. Un obiettivo speculare per indegnità a quello dei centri storici alla spina, vivi solo di notte, abitati da pochi spericolati residenti con il sonnifero sul comodino.

Cagliari non è un’eccezione nel Paese.

Cagliari – da 220mila abitanti nel 1981 a 150.000 nel 2012 - ha da tempo praticamente esaurito il proprio territorio.E l’hinterland, dove oggi si trovano i 70mila abitanti che mancano alla città, è diventato il luogo nel quale la speculazione edilizia si è scatenata con più violenza. E hanno pianificato: il vuoto al centro e il pieno nell’hinterland. Basta un giretto lungo le squallide statali 554 e 130 per comprendere e rabbrividire.

Però quest’area disastrata è stata insignita del titolo di area vasta con lo scopo, nobile solo in origine, di fornirle un unico governo. Da più di dieci anni si chiama area vasta di Cagliari l’area che comprende il capoluogo e 15 comuni intorno. Una popolazione di circa 420.000 abitanti che decrescerebbe se non ci fosse una modesta immigrazione extracomunitaria.

Pochi e costretti a una pericolosa dispersione urbana. Nell’hinterland la densità abitativa è bassa, meno di 600 abitanti per chilometro quadro, dissolti in uno spazio spropositato. Nell'area vasta lavorano circa 140mila persone. Quasi 90mila a Cagliari. L’80% di chi entra a Cagliari ogni mattina sceglie l’auto.

L’area vasta di Cagliari è, sotto ogni aspetto, un compiuto esempio di insostenibilità economica e sociale. Niente di nuovo. Spersonalizzazione, cancellazione dei caratteri e rapporti sociali che definivano le diverse comunità, la sindrome da spaesamento ormai epidemica. E poi, un auto ogni due abitanti, inquinamento, tempi di spostamento insopportabili, incidenti. Tutto questo considerato non una patologia, ma una tassa da pagare a una finta, grottesca modernità.

L'agglomerato urbano comprende in realtà anche una decina di altri comuni oggi tenuti fuori dall’area vasta, ma afflitti dalle stesse malattie. Con gli abitanti di questi comuni si raggiungono i 490mila abitanti su un territorio di oltre 1.800 chilometri quadrati. La popolazione della provincia, che non coincide con l’area vasta, è di 563mila abitanti. Un rompicapo amministrativo.

E la scuola? In questa popolazione sono presenti, nel 2001, diecimila analfabeti totali e più di cinquantamila dichiarano di saper leggere e scrivere un testo semplice ma di non aver conseguito nessun titolo di studio. Dati desolanti e in peggioramento.

Insomma, l’area vasta sarda ripete le percentuali abitative di aree che nelle facoltà di architettura sono di solito indicate come nocivo esempio di sprawl. Curiosamente Atlanta ed Elmas, il paragone suscita un sorriso, spargono i loro abitanti nel territorio più o meno con le stesse percentuali.

Qua come altrove è la politica, sospinta dagli affari, che ha consentito la completa dissociazione tra fabbisogni reali e il costruito in eterna, tragica moltiplicazione. Senza un disegno urbanistico e senza una filosofia dell’abitare.

Occorreva un governo e una visione sovra-comunale. Ma nessun sindaco, nessuna municipalità ha accettato, se non a parole, un’autorità condivisa.

Il Piano Strategico Intercomunale c’è, ma è solo carta, senza contare che quando un progetto è definito “strategico” allora siamo di certo in pericolo. Le espressioni “risiedere, muoversi agevolmente, godere dell’ambiente e di fruire dei servizi” dovevano essere “strategici” però sono rimasti parole e le vere azioni “strategiche” sono consistite nel ricoprire di cemento l’area vasta.

Ogni Comune ha deciso il suo Puc oppure ha deciso che è meglio non possederne uno. Ma in tutti i casi le Giunte comunali sono rimaste i soliti centri d’affari dedicati all’edilizia che “regge il mondo”. E hanno vinto i localismi.

Anche la definizione di Area Metropolitana è rimasta volutamente vuota. Una legge regionale annunciò nel ’97 il riassetto delle province sarde e che il territorio di Cagliari si sarebbe potuto riorganizzare facendo coincidere l’assetto provinciale con l'Area metropolitana dotata di un’Autorità che la governasse. Tutti sanno come è andata a finire e la commedia muta in tragedia.

Intanto nel Piano attuativo regionale per la spesa dei fondi destinati alle aree sottoutilizzate 2007/13 – si trattava di 2278 milioni di euro - le parole “trasporto pubblico, coesione sociale, ambiente” sono state sostituite da parole molto più remunerative come“strade, svincoli, assi di scorrimento”. Soldi per fare strade, insomma. E infatti oltre il 90% delle risorse riguarda collegamenti stradali. Pochissimo per aeroporti, porti e ferrovie. Hanno vinto gli affari e non c’è speranza di uscire da una perniciosa concezione della nostra area urbana ridotta a territorio di speculazione.

Intanto il nuovo quartiere de Su Stangioni resta un progetto che respira di nuovo perché qualcuno, anche nel Pd cagliaritano, tenta di rianimarlo.

Ancora case disperse e ancora la distorsione e l’abuso di parole come “sostenibile, ecologico, verde” nel tentativo di contrabbandare come housing sociale l’ordinario cemento, mentre la città, svuotata, quindicimila appartamenti vuoti, si sfalda e si disperde nel solito orrendo nulla urbano.

Rudimenti di urbanistica.

Il consumo irrazionale di suolo, quello distaccato dal fabbisogno reale, deve cessare anche a Cagliari, la bruttezza delle campagne divorate dal “cemento a vanvera” deve cessare, la vita di relazione deve essere facile, il trasporto pubblico deve vincere. Non si vive vicino a un territorio inquinato per decenni dall’incenerimento dei rifiuti. E non si vive in un luogo brutto.

Su Stangioni è un luogo che evoca acque ferme, paludi malsane. Nessuna manna, solo polveri avvelenate. Si deve definire il livello di inquinamento di quest’area e solo dopo favorire la ricostituzione di un nuovo paesaggio campestre e, magari, agricolo. Non esiste altra via.

E’ necessario stabilire un punto fermo dove finisce la città e dove inizia la campagna. Esattamente come accade nei Paesi dove l’urbanizzazione si è data regole certe. E quel punto, quel confine esiste già. Molto lontano da Su Stangioni e molto prossimo alla città attuale.

Ai “sostenitori” del progetto è consigliabile un volo sopra i Paesi europei dove amano davvero i loro suoli per vedere come le città abbiano un confine netto e come da quel punto inizi l’agro. Noi vogliamo la città compatta dove per il bene comune si vive, si va in una scuola vicina, in un teatro vicino, in un cinema vicino, in ambulatori e ospedali vicini, in botteghe vicine, dove si cresce, si matura e si invecchia in compagnia di altri esseri umani e dove una comunità conserva le sue caratteristiche e peculiarità proprio perché si vive vicini.

Nuove micro città sono come la gramigna: consumano i luoghi, sprecano risorse comuni e producono malessere.

La politica, la parte buona che sopravvive, cerca oggi a Cagliari di evitare il cemento a Su Stangioni. Ma una parte del Pd locale pensa e agisce contro ogni abbiccì urbanistico. L’interesse di pochi non deve determinare la crescita della città, noi non dobbiamo pagare urbanizzazioni folli, insediamenti insensati, dannosi e antieconomici.

Per questo siamo sicuri che il pensiero raccolto intorno a Eddyburg è profondamente contrario a un progetto brutto, vecchio, scriteriato, svantaggioso e nocivo come quello di Su Stangioni. E che sarà accanto a chi si oppone a questo inaccettabile progetto.

Riferimenti

Se volete sapere di più sulla lottizzazione di Su Stangiuni, che non piace al sindaco ma piace a parte consistente della sua maggioranza scaricate e leggete il dossier del gruppo di lavoro sul consumo di suolo del Circolo Copernico
La Nuova Sardegna, 25 novembre 2013, con postilla

Le politiche che favoriscono l’interesse generale faticano a trovare un consenso ampio e duraturo, persino quelle che mettono in sicurezza un territorio e che aiutano a mitigare le conseguenze, sempre più frequenti e tragiche, dei cambiamenti climatici.

Sembra un paradosso ma non lo è. Anche le migliori riforme toccano gli interessi di qualcuno, e quel qualcuno si opporrà al cambiamento. Per esempio, sappiamo che il commercio internazionale fa bene ai Paesi che ne accettano le regole, ma poi andate nel Sulcis a dirlo agli operai dell’Alcoa, un impianto che la competizione globale ha condannato alla chiusura.

PPR, risultato storico
Il Piano Paesaggistico Regionale (PPR, in breve) rischia di essere vittima di questa sindrome. Il PPR è stato disegnato per favorire l’interesse generale. La sua adozione è un risultato storico per la Sardegna, una delle cose più lungimiranti mai realizzate nella nostra regione. Tenere alta la qualità del paesaggio ha infatti due enormi vantaggi. Primo, dà un beneficio diretto ai residenti. Non si tratta solo del poter godere ogni giorno della bellezza di un paesaggio. Stiamo imparando a nostre (e purtroppo crescenti) spese che si tratta anche di un piano essenziale per garantire la sicurezza del territorio, di una normativa autorevole senza la quale niente potrà fermare le speculazioni edilizie che prima o poi trasformano eventi climatici in enormi tragedie.

Secondo, in una regione a vocazione turistica il Piano paesaggistico rende competitiva la nostra offerta. Quando si tratta di esportare beni e servizi, le imprese sarde sono spesso in difficoltà per carenze di vario tipo. Ma nel turismo di qualità il fattore decisivo è la risorsa naturale e quella c'è, eccome. Il problema è conservarla con cura: più passa il tempo, più diventa la merce rara che un numero crescente di turisti è disposto a comprare ad alto prezzo.

Il Piano paesaggistico regionale favorisce dunque l'interesse generale, ma questo non basta a metterlo al riparo dal rischio di iniziative legislative che ne danneggerebbero gravemente la sua efficacia. Lobby di speculatori che desiderano rimuovere vincoli rigorosi e ragionevoli, e politici pronti a sostenerle non sono mai merce rara, in Sardegna come altrove. Il rischio vero è quelle lobby trovino consensi ampi anche da parte chi non ha interessi diretti a speculare sul paesaggio.

Questo pericolo esiste perché il PPR attualmente non distribuisce in modo equo i benefici che crea. Al momento della sua adozione il Piano paesaggistico regionale ha di fatto congelato la situazione esistente: qualcuno aveva costruito (quasi sempre molto e male) lungo le coste, altri erano stati più prudenti e conservativi. L'improvviso congelamento dello status quo ha generato un paradosso, che è la principale debolezza del piano. Immaginate un tratto della fascia costiera con due comuni confinanti, uno pieno di alberghi e di seconde case, l'altro con una costa in gran parte intatta. Garantire che la parte intatta rimarrà tale anche in futuro rende più competitiva l'offerta turistica di quel pezzo di Sardegna. Significa infatti dare la certezza che nelle vicinanze della vostra casa o del vostro albergo preferito ci sarà sempre un parco naturale di grande prestigio, cosa che stimola la domanda turistica di qualità e con essa i prezzi delle case, degli affitti, dei soggiorni nelle strutture ricettive.

Nella situazione attuale però i soldi generati da questo meccanismo vanno soprattutto al comune che ha speculato nel passato, quello nel quale i turisti devono risiedere. Poco o niente arriva al comune che ha preservato la qualità del proprio paesaggio. La sua scelta rischia così di favorire esclusivamente il vicino meno virtuoso. È facile intuire che, se questo problema non verrà affrontato, i nemici del Piano paesaggistico regionale potranno sempre contare sul sostegno politico di chi ritiene ingiusta l'attuale distribuzione dei benefici economici generati dal piano.

E questo è un rischio enorme: se riparte la speculazione sulle coste i sardi, nel loro complesso, ne avranno enormi svantaggi. Questa è una sfida importante per chi vuole difendere il PPR sardo migliorandolo: bisogna trovare il modo di distribuire anche ai comuni che hanno conservato la propria risorsa naturale i benefici che oggi arrivano soprattutto a chi, in passato, il paesaggio lo ha consumato.

Chi possiede una casa o un albergo paga imposte in proporzione a valori che crescono anche in funzione della qualità del paesaggio circostante. Il gettito di queste imposte dovrebbe rimanere in Sardegna, indipendentemente dal comune di residenza dei proprietari. E sarebbe bene che una parte di quel gettito venisse trasferita nelle casse dei comuni virtuosi, per convincerli concretamente che la loro scelta è stata quella giusta.

Un intervento di questo tipo, perfettamente giustificabile sul piano dell'equità, ridurrebbe il malcontento intorno al Piano paesaggistico regionale e toglierebbe spazio ai politici che su quel malcontento fanno sciaguratamente puntano le loro carte elettorali.
Postilla

Pigliaru ha perfettamente ragione: i benefici dell’utilizzazione di una parte del territorio dovrebbe appartenere a tutti coloro cui il territorio appartiene. Ma proprio sull’interpretazione di quest’ultima parola che si gioca la soluzione del problema. Nell’attuale regime giuridico sembra che il territorio, spezzettato in frammenti, appartenga ha chi ne è “proprietario”. Questo è un aspetto rilevante del regime economico-sociale capitalistico-borghese, nato e consolidato nel XVIII e XIX secolo. Il territorio da “bene” è stato tramutato in “merce”. La disequità segnalata da Pigliaru è un aspetto di questo quadro. Si è tentato di affrontarlo in diversi modi, tra l’altro con la fiscalità, la quale dovrebbe servire non solo a finanziare lo stato e il suo funzionamento ma anche a redistribuire la ricchezza. E ci si è lavorato in alcune esperienze di pianificazione territoriale (per esempio nella Provincia di Bologna).
Tuttavia anche in Italia si sta tentando di affrontare la questione in modo più radicale: nel senso di andare alla radice del problema. Una strada che mi sembra interessante è quella che, opponendo il concetto di bene” a quello di “merce” (ossia rivalutando il “valore d’uso” sul “valore di scambio” ) ragiona sul superamento delle vigenti forme dell’istituto giuridico della proprietà e sull’affermazione di istituti e pratiche coerenti col concetto di “bene comune e “bene collettivo”. Mi riferisco, in particolare, la lavoro della Commissione Rodotà e agli scritti di Paolo Maddalena, che da qualche decennio sta lavorando proprio sui i nessi dei concetti di “appartenenza” e “proprietà con le pratiche di tutela del paesaggio (come Pigliaru saprà, Maddalena, vicepresidente emerito della Corte costituzionale è il sostanziale autore "tecnico" della Legge Galasso).
Certo è che non è un piano paesaggistico lo strumento che può affrontare il problema e distribuire in modo equo i vantaggi che crea. Può dare un segnale e imprimere una direzione e innescare un processo, iniziando dal primo passo indispensabile: proteggere il bene dalla sua distruzione. Non a caso lo sgambetto che ha portato Soru alle dimissioni è stata la volontà, del suo stesso partito, di non completare il PPR con l’approvazione della disciplina degli ambiti interni. E non a caso il primo atto compiuto da Cappellacci è stato quello di distruggere l’Ufficio del piano, di impedire l’attivazione degli altri strumenti d’implementazione previsti. Loro si che sono dei furbacchioni. Ma non è detto che vincano sempre.

Il manifesto, 23 novembre 2013, con postilla

Mentre nella giornata di lutto nazionale la situazione meteo volge di nuovo al peggio, con previsioni di nuovi temporali per il fine settimana, sull'alluvione che ha devastato mezza Sardegna continua a divampare la polemica. Protagonisti Renato Soru, ex presidente della giunta è ispiratore del Piano paesaggistico regionale (Ppr) che tutela ambiente e paesaggio, e il governatore in carica Ugo Cappellacci.

«Cappellacci - ha detto ieri Soru in una dichiarazione rilasciata alle agenzie - è un politicante che mente in totale malafede. Le bugie sono la sua regola. Con le modifiche che il leader del centrodestra sardo vorrebbe apportare al Ppr, il piano sarebbe totalmente cancellato: rivivono tutte le lottizzazioni, le zone F, cioè quelle riferite all'ambito turistico-costiero, i campi da golf, si cementificano le campagne, si cancellano i centri storici e si invitano i comuni ad andare avanti senza norme».. «Non è vero - ha aggiunto Soru- che è stato Cappellacci ad aver ampliato la fascia di tutela nei pressi dei fiumi. La sua proposta di modifica del Ppr, infatti, contiene per la prima volta il tentativo esplicito, e pericolosissimo, di riferire le distanze alla linea di mezzeria, invece che dall'alveo del fiume, lasciando poi alla discrezionalità del caso per caso di stabilire vincoli diversi». Ma è tutto l'impianto del nuovo piano predisposto da Cappellacci che non convince Soru. «Si vogliono resuscitare - ha detto l'ex presidente - tutte le lottizzazioni in zona F (turistiche-costiere), bloccate dal Ppr, per circa dieci milioni di metri cubi. Si punta a far rivivere le zone F per attività turistiche per altri cinque milioni di metri cubi. Si prevedono circa venticinque nuovi campi da golf, in realtà altre seconde case, per circa tre milioni di metri cubi. Si vuole trasformare tutta la campagna della Sardegna in aree edificabili: basterà anche un solo ettaro e chiunque potrà costruirsi una casa. A cui si aggiungeranno logge, cortili e strade sui quali correrà l'acqua, compromettendo la vocazione agricola e sicurezza dei territori». E ancora. «Si punta ad eliminare la tutela nei centri storici dei paesi che vengono giudicati non importanti, mantenendola soltanto nelle città più note, e ad eliminare le norme di salvaguardia esistenti, di fatto incentivando i comuni a non adottare i piani urbanistici».

Immediata la replica di Cappellacci: «In queste ore preferisco dedicarmi all'emergenza, ma stia tranquillo Soru che poi mi occuperò di lui con una operazione verità sul suo finto ambientalismo. Le sue sparate e i suoi picchiatori mediatici non intimoriscono nessuno. Il suo velenoso tentativo di collegare gli eventi tragici di questi giorni a una revisione del piano paesaggistico che ancora non ha completato il suo iter dimostrano che gli unici bugiardi e cinici sono il mio predecessore e i suoi amici».

Al presidente della giunta ha replicato, sulle colonne della Nuova Sardegna, uno dei più noti scrittori sardi, Marcello Fois: «E allora, dottor Cappellacci, ha visto che alla fine i sardi le hanno creduto? Ha visto che ha colpito nel segno quando, zainetto in spalla, aria da bel bello, si aggirava per le campagne in uno spot, pagato con molti soldi pubblici, per dire che insomma questi pedanti difensori del territorio a noi sardi ci stavano mettendo le mani in tasca? Sorridente e concessivo ci raccontava che di territorio integro in Sardegna ce n'era fin troppo e che, in un'economia di sussistenza, vietare troppo significava adottare un sistema punitivo. Sempre con i nostri soldi aveva pagato una costosa campagna pubblicitaria di domande e risposte, dove auspicava l'avvento di tempi belli in cui impunemente i balconcini potessero essere trasformati in camerette per bambini senza che questo si dovesse chiamare abuso. Le hanno creduto e l'hanno votata in molti. Ora, però, penso che i suoi spin-doctors debbano ragionare su formule alternative, che non facciano ricorso necessariamente al ventre molle dell'elettorato, ma, finalmente, alla sua testa. Credo che lei dovrebbe fare un passo indietro di fronte all'evidenza che un'alluvione eccezionale fa danni eccezionali dove ancora esiste il territorio, ma fa morti dove il territorio non esiste più».

postilla
In realtà Cappellacci aveva cominciato a violare le tutela del PPR prima ancora di presentare il suo propagandistico "piano paesaggistico dei sardi". I suoi tre piani casa e la legge per il golf ne sono le prove lampanti, non semplici indizi E ieri ha dichiarato: che i tre milioni di metri cubi attorno ai campi di golf nono indispensabili perchè quelli che vanno sul green devono poter mangiare bene (la Repubblica)
Il manifesto, 22 novembre 2013

Dopo i sedici morti e la devastazione causata dal ciclone Cleopatra in Sardegna, sono scattate due inchieste per omicidio colposo e per disastro colposo, avviate dalle procure di Tempio Pausania e di Nuoro. La magistratura ha chiesto alle amministrazioni coinvolte nella catastrofe di lunedì scorso, i progetti, le delibere e tutto quanto possa consentire di far chiarezza su opere stradali, edifici, strutture e pianificazioni urbanistiche realizzati negli ultimi anni. Per ora siamo ai primi accertamenti. I fascicoli sono senza un nome, ma è chiaro che i morti e i danni provocati dall'alluvione non hanno soltanto cause naturali. Lo aveva detto, già martedì mattina, il sostituto procuratore del tribunale di Tempio Riccardo Rossi, in visita al centro di coordinamento dei soccorsi allestito dalla protezione civile a Olbia: «Questo è il momento del dolore e della misericordia, poi arriverà quello della giustizia. Questa drammatica vicenda ha posto in luce evidenti carenze strutturali che, passata l'emergenza, dovremo valutare se potevano essere evitate».

Le inchieste delle procure di Nuoro e di Tempio Pausania sono indirizzate ad accertare sia le cause delle morti sia quelle dei danni ambientali. In particolare la procura nuorese indaga per omicidio colposo in merito alla morte del poliziotto Luca Tanzi, 44 anni, inghiottito nella strada crollata mentre con l'auto di servizio scortava un'ambulanza; e per la morte della pensionata Maria Frigiolini, 88 anni, travolta dall'acqua e dal fango nella sua casa allagata a Torpè. Mentre la procura di Tempio vuole fare chiarezza sulla morte di un'intera famiglia di nazionalità brasiliana, padre madre e due figli, annegati in un sottopiano ad Arzachena.

E sulle cause del disastro, dopo le accuse mosse dagli ambientalisti al presidente della regione Sardegna Ugo Cappellacci, ieri contro il tentativo del centrodestra sardo di smantellare la legislazione di tutela dell'ambiente e del paesaggio approvata nella legislatura precedente dalla giunta guidata da Renato Soru è intervenuta, per conto del ministero dei Beni culturali, la sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni. «Il nuovo piano paesaggistico approvato dalla giunta Cappellacci - ha dichiarato la collaboratrice del ministro Massimo Bray - prevede un allentamento del grado di tutela sia nella costa marina sia in altre zone di particolare pregio paesaggistico, quali i centri storici o i corsi d'acqua pubblica». «Il disastro che ha portato in Sardegna gravi lutti e ingenti danni - ha aggiunto la sottosegretaria - riporta di nuovo, ancora una volta, al centro della nostra attenzione il problema della tutela e della messa in sicurezza del nostro territorio e del suo paesaggio. Un tema che, in alcuni casi, viene volutamente aggirato o considerato un ostacolo a uno sviluppo economico e occupazionale. L'allentamento delle tutele progettato dalla giunta Cappellacci porterà a modifiche sostanziali di molte zone anche nell'agro, attraverso demolizioni di piccoli fabbricati agro-pastorali preesistenti per successive ricostruzioni, con forti aumenti di cubatura e accorpamenti di volumetrie con sagome del tutto dissimili».

Bisogna ricordate che, nelle scorse settimane, il ministero dei Beni culturali aveva annunciato l'intenzione di ricorrere contro il piano di Cappellacci sia in sede Tar sia alla Corte costituzionale. Il Codice Urbani, ossia la legge nazionale che detta le norme generali di tutela del paesaggio, prevede infatti che in materia urbanistica le regioni non possono legiferare (come invece ha fatto Cappellacci) da sole: è necessario l'assenso del governo nazionale. Ma ieri Borletti Buitoni è andata oltre il dato formale. La nota dettata alle agenzie si chiude con un esplicito rilievo politico: «Al di là del vizio di forma e di procedura nell'approvazione del piano da parte della giunta regionale sarda, è a tutti ben chiaro che il territorio sardo aveva e ha la necessità di essere maggiormente tutelato e non maggiormente sfruttato. Purtroppo i tragici eventi di questi giorni lo confermano».

Intanto, mentre ancora prosegue il lavoro delle squadre di soccorso per rimuovere le macerie provocate dal ciclone, il consiglio dei ministri ha proclamato per oggi una giornata di lutto nazionale per la tragedia che ha colpito la Sardegna. «Ritengo sia una scelta importante - ha detto il premier Enrico Letta - che si lega alla decisione dell'immediata dichiarazione dello stato emergenza e alla tempestiva allocazione dei fondi necessari».

Di fronte alle cronache angosciose che arrivano dalla Sardegna l'animo è agitato da sentimenti contrastanti. Si vorrebbe...>>>

Di fronte alle cronache angosciose che arrivano dalla Sardegna l'animo è agitato da sentimenti contrastanti. Si vorrebbe tacere per rispetto dei tanti, troppi morti, alcuni dei quali bambinelli, strappati dalle mani disperate dei padri dalla furia delle acque. Ma si vorrebbe anche urlare per la rabbia e lo sdegno, perché ormai da troppi anni sciagure territoriali consimili punteggiano il nostro calendario civile. Chi se ne ricorda?

In queste ore sembra che il problema dei disastri alluvionali sia nella prontezza degli allarmi con cui far scappare la popolazione da territori che sono diventati una trappola mortale. Ma chi si ricorda del nubifragio a Vibo Valentia, in Calabria, nel 2006, destinato a ripetersi, sempre con morti e danni rilevanti, ai primi di gennaio del 2010? Chi si ricorda delle frane e dei morti di Giampilieri, a Messina, i primi di ottobre del 2009 con tragica replica, nella stessa provincia, il 22 novembre del 2011? E l'alluvione, con la piena del Bacchiglione, che ha sommerso Vicenza e la Bassa Padovana ai primi di novembre del 2010? Abbiamo dimenticato la rovina delle Cinque terre del 25 ottobre 2011, l'alluvione spaventosa che ha colpito Genova il 4 novembre dello stesso anno? E l'acqua che ha sommerso Orvieto e l'Orvietano nel novembre 2012? Ma chi segue le vicende del territorio italiano ha ormai la certezza che l'arrivo dell'autunno porterà morte e distruzione in qualche angolo della penisola. E, come si è visto dall'elenco molto sommario delle alluvioni - che privilegia solo gli episodi più gravi degli ultimi anni - i fenomeni di distruzione territoriale non riguardano solo il franoso Mezzogiorno, ma l'intero habitat nazionale.
Abbiamo ripetuto in passato sino alla noia le cause di questo flagello che è diventato sistematico della recente storia nazionale. D'altra parte, tali cause sono ormai diventate senso comune e perfino la televisione di stato ora le ripete, quando i morti sono ancora a terra, salvo poi dimenticarsene appena l'evento è diventato mediaticamente obsoleto. E tuttavia i fatti di Olbia e di altre aree della Sardegna ci devono far trarre alcune conseguenze di rilievo.
La prima di queste, ormai evidente a chi ha memoria e sa guardare la realtà, è che il territorio italiano non regge più il cemento che l'opprime e l'invade da ogni lato. L'abbiamo detto mille volte: il suolo del Bel Paese non ha la stessa solidità di quello della Francia, della Gran Bretagna, della Spagna, della Germania. Paesi geologicamente più antichi e stabili del nostro, densamente popolato e collocato per giunta dentro le turbolenze climatiche del Mediterraneo. Esso dovrebbe essere oggetto di cura, controllo e manutenzione e non costituire l'occasione e la materia prima di una mercificazione ormai insostenibile. Eppure, negli ultimi 10 anni, a fronte di una popolazione nazionale stagnante, sono stati costruiti sul nostro suolo circa 2 milioni e 500 mila edifici, pari a 1 miliardo di metri cubi di cemento.
autore:PierMa non è solo il cemento, c'è anche l'asfalto. Si costruiscono sempre nuove strade e tangenziali e varianti, mentre altre si prospettano, di grande impatto ambientale, come l'autostrada Orte-Mestre. Ma le strade sventrano colline, spianano campagne, rompono equilibri idrogeologici fragili. Eppure siamo il paese nel quale si sta scavando nientemeno sotto Firenze, per fare passare il Tav, con rischi imprevedibili per una delle città più preziose del mondo. Ricordiamo che la talpa incaricata di scavare è ferma per iniziativa della magistratura, impegnata a indagare sugli illeciti addebitati a politici e amministratori, tra cui l'ex presidente della Regione Umbria. Lo rammentiamo per sottolineare quali sono le ragioni strategiche che in Italia spingono il ceto politico a promuovere le cosiddette Grandi opere.

Queste ultime considerazioni ci portano alla seconda conseguenza da trarre dalla tragedia di questi giorni. È evidente che il nostro territorio, anche in ragione dei mutamenti nel regime della piovosità, è diventato sempre meno sicuro. Senonché il territorio è la nostra casa comune e dunque l'insicurezza è quella di tutti noi, di tutti i cittadini italiani. La nostra incolumità personale, la nostra stessa vita sarà sempre più esposta a rischi anche dentro le nostre città. Dunque, quello che è un antico diritto costituzionale della persona, il diritto alla sicurezza (sicurezza della vita e della libertà nei confronti dei soprusi dello stato e di altri poteri) oggi è insidiato da un versante inedito: quello della fragilità territoriale e della violenza climatica.

È evidente, a questo punto, che l'incultura e l'irresponsabilità del ceto politico nazionale e degli amministratori locali (ma anche di tanti privati cittadini che costruiscono abusivamente) tende a sconfinare verso ambiti di natura penale. Crediamo che su questo punto occorra la riflessione innovativa degli studiosi del diritto. Stiamo entrando in un nuova era, inaugurata dal caos climatico, che renderà problematico il rapporto tra cittadini e ambiente e caricherà di responsabilità inedite chi si candida a governare la cosa pubblica. L'Italia è già un'avanguardia e un laboratorio, non solo l'America dei cicloni. Per il momento dobbiamo incominciare a dire ai nostri governanti e agli uomini politici, che non hanno mai letto una pagina scritta sui caratteri del territorio italiano, che la loro inefficienza nel gestire le risorse disponibili, l'attività di distrazione di investimenti destinati alla cura del territorio e impiegati in grandi opere, sempre più viene a configurarsi come un danno dell'interesse collettivo, tendenzialmente criminale.
www.amigi.org

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto.

La Repubblica, 22 novembre 2013, con postilla

Nei giorni della catastrofe che si è abbattuta sulla Sardegna con l'uragano in cielo mare e terra che ha devastato Olbia e il territorio circostante e le terre del Nuorese, un gruppo di intellettuali sardi rappresentati da Marcello Fois si è fatto sentire con parole commosse e vibranti. L'articolo di Fois su 24 Ore è intitolato "Non ci perdoneranno". Ne cito un passo particolarmente significativo.

«Quei morti non ci perdoneranno mai perché noi dovevamo sapere e lo dovevamo dire. Dovevamo sapere che lasciar costruire centrali nucleari in riva al mare poteva essere un modo per rendere micidiale per secoli un evento micidiale ma passeggero come uno "tsunami"». Dovevamo sapere — prosegue Fois — che cementare gli stagni per fare parcheggi o costruire villette a schiera sui letti secchi dei fiumi significa sfidare gli eventi eccezionali perché diventino carneficine. Ma le centrali nucleari in riva al mare sono state fatte, gli stagni prosciugati, i letti dei fiumi edificati. E oggi, al capezzale della civiltà dei sardi, a noi intellettuali ci chiedono parole di sostegno. Ma un appello al mondo quando la tragedia si è consumata è tempo perduto. La parola sostegno dovrebbe corrispondere a urlare No tutte le volte che si avallano decisioni e situazioni insostenibili. La Sardegna è stata abbandonata a se stessa e noi sardi abbiamo consentito che ciò avvenisse, anzi ci siamo adeguati al tozzo di pane che ci arrivava dal “placebo” del cemento selvaggio che produce lavoro solo per il tempo necessario a liquidare una tornata elettorale. Il corso terribile della Natura diventa devastante quando si accompagna all’ignoranza diffusa, alla disonestà degli amministratori, alla pessima memoria di chi si illude di poter modificare la propria precarietà con progetti di piccolo cabotaggio. Continueremo a maledire la nostra “malasorte”?».

La citazione è lunga ma meritava d’esser fatta. Con un’aggiunta però: fanno bene gli intellettuali sardi a denunciare una situazione diventata per loro insanabile, ma essa non riguarda soltanto la Sardegna. Riguarda tutte le terre italiane, soprattutto quelle del Sud ma non soltanto. E non è recente, è antica. Sonnino e Franchetti la denunciarono nella loro inchiesta sulla Sicilia fin dalla fine dell’Ottocento; Giustino Fortunato coniò nel 1904 l’immagine dell’Appennino in Calabria e nel Cilento come uno “sfasciume pendulo sul mare”; Carlo Levi raccontò negli anni Quaranta come e perché Cristo si era fermato a Eboli e analoghi racconti fecero Guido Dorso, Gaetano Salvemini, Giuseppe Di Vittorio e Danilo Dolci in nome dei contadini salariati, consapevoli degli interessi di classe ma anche della terra sulla quale quel lavoro veniva sfruttato per depredarla e impoverirla con colture di rapina.

Questa situazione non si è modificata, anzi è peggiorata dovunque, il cemento selvaggio ha invaso tutta la costiera italiana, dovunque i fiumi sono stati edificati, l’abusivismo è diventato un fenomeno non più gestibile, la trasformazione dei torrenti in suoli edificabili e edificati d’estate e in fiumi di fango in inverno e primavera. Centinaia di milioni andati in fumo, migliaia di vittime cadute sul campo di queste devastazioni.

Bisogna riprendere con paziente tenacia le educazioni di quelle che un tempo si chiamavano “le plebi” e che tali stanno ridiventando a causa d’un analfabetismo di tipo nuovo, che non riguarda più l’ortografia e la grammatica, ma la conoscenza e la cultura.

La Sardegna è una delle terre più colpite ed ha bisogno di risvegliarsi con la massima urgenza. Segnalo a questo proposito un’iniziativa che può essere molto opportuna; è stata presa dal Fai (Fondo ambiente italiano), dal suo attuale presidente Andrea Carandini e dalla presidente onoraria Giulia Maria Crespi. Un convegno nazionale scandito da quattro parole: terra, paesaggio, occupazione, futuro; valori intimamente legati tra loro che possono rilanciare l’economia, l’artigianato, il turismo, l’energia proveniente da fonti non convenzionali. Ci vuole un ripensamento dei centri storici nei paesi e nelle città, la ristrutturazione dei beni residenziali esistenti, l’avvio del nuovo eco-sviluppo che si estenda all’Italia intera e comprenda anche la politica delle banche sul territorio e l’impiego differenziato delle tariffe energetiche che incentivino le potenzialità della terra, del paesaggio e dell’occupazione sulle quali il convegno è come abbiamo detto impegnato.

La catastrofe sarda ha dato, con la devastazione e le vittime che ha prodotto, l’ultimo allarme. Non lasciamolo cadere invano.

Postilla

Ottime parole, opportunamente e utilmente pronunciate (ma il dito dell’accusatore andrebbe rivolto, prima che alle plebi, a chi le ha plagiate). Peccato che al convegno organizzato dal FAI, ampiamente segnalata dal fondatore della Repubblica, non ci sia nessuna relazione dedicata alle coste della Sardegna, e in particolare alla difesa della rigorosa tutela decisa dal Piano paesaggistico della giunta di Renato Soru, formalmente vigente ma smantellato, eluso e derogato giorno per giorno dalla maggioranza guidata da Cappellacci.

Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2013

RENATO SORU: «ILLUSI DAI METRI CUBI E ADESSO SI PIANGONO I MORTI»
intervista di Giorgio Meletti,

Esattamente cinque anni fa, a fine novembre del 2008, Renato Soru si dimise da governatore della Sardegna dopo essere stato mandato sotto dalla sua maggioranza di centrosinistra su un emendamento della nuova legge urbanistica. Un mese prima l'alluvione di Capoterra, pochi chilometri da Cagliari, era costata quattro morti. “Avevano costruito case e strade sul letto del rio San Girolamo”, borbotta Soru. Il copione si ripete. Ora come allora la conta dei morti fa da prologo alla campagna elettorale. Ora come allora il governatore berlusconiano Ugo Cappellacci chiede il voto per liberare la Sardegna dalle “regole talebane” fissate da Soru con il piano paesaggistico regionale del 2006.

Scusi Soru, l’hanno attaccata anche i potenti del centrosinistra sardo, lei alla fine sulla difesa del territorio ha perso le elezioni di febbraio 2009. Non è che alla maggioranza dei sardi il cemento piace?
Non lo so se ho perso su questo o su altre cose. Posso solo dire che la coscienza ambientale dei sardi è matura, e le mie regole le hanno accettate, ma la forza della speculazione si impone sulla coscienza dei cittadini quando rimane silente.

Cappellacci pochi giorni fa ha varato una delibera che smonta il suo piano paesaggistico.
Ha notato? E praticamente nelle stesse ore ci tocca contare i morti. Sono anni che attaccano a testa bassa il nostro lavoro. Abbiamo messo sotto tutela le coste, bloccando la cementificazione, abbiamo dato alla regione un piano idrogeologico, mai fatto prima, proprio per prevenire frane, inondazioni e disastri.

Vi hanno accusato di uccidere l'economia.
Sì, con i vincoli a costruire sul greto dei fiumi, con le distanze minime dai corsi d'acqua anche se apparentemente secchi. Ci hanno scatenato contro polemiche infinite. E adesso tra le nuove norme c'è la possibilità di dimezzare le distanze dai corsi d'acqua, quelle fissate da noi con il piano idrogeologico. Sono anni che ci provano.

A fare che cosa?
Sto pensando a quella famiglia, quattro persone morte in uno scantinato della ricchissima Arzachena.

Ricchissima?
Sì, ricca di cemento, così ricca da far dormire le famiglie negli scantinati.

Che c'entra con Cappellacci?
Sa quante volte hanno cercato di far passare la sanatoria per rendere abitabili gli scantinati? Fa una bella differenza vendere una villetta al mare di 100 metri quadrati, se si possono aggiungere 40 metri di scantinato. Ma gli scantinati non sono fatti per farci vivere esseri umani, e nemmeno per farceli morire. Eppure hanno cercato in modo sistematico di smontare le tutele del paesaggio attraverso le deroghe previste dai “piani casa”. Ne hanno fatto uno all'anno, siamo già a quattro, con la previsione di costruire 50 milioni di metri cubi di case. Si calcola che equivalgano a diecimila palazzi di sei piani.

Ma chi li dovrebbe comprare?

Aspetti. Prima le parlo della legge sui campi da golf. Hanno previsto di fare 25 campi da 18 buche, con la possibilità di costruirci intorno 3 milioni di metri cubi.

Ma che c'entrano i metri cubi con le buche del golf?
Effettivamente potevano chiamarla legge sulle case da fare vicine ai campi da golf. Era talmente fuori da ogni regola che è stata impugnata dal governo Monti.

Torniamo al punto. Per chi sono tutte queste case? Il popolo sardo ha veramente questa voglia di mattone?
Siamo fuori del mondo, le speculazioni immobiliari non sono più leve di crescita, ma motivo scatenante della crisi finanziaria. Anche in Sardegna l'invenduto è enorme. Solo a Olbia ci sono 15 mila appartamenti in cerca di acquirenti. Il mio piano paesaggistico ha salvato un sacco di immobiliaristi, impedendo loro di rovinarsi. Qualcuno è venuto addirittura a ringraziarmi.

Però Cappellacci insiste.
Quella delibera del 25 ottobre è una grida manzoniana, dice “liberi tutti”, ma è illegittima. C'è il rischio che qualcuno si lasci ingannare, che magari spenda soldi in progetti e procedure per niente. Il procuratore della Repubblica di Oristano ha dovuto fare una lettera richiamando sindaci e privati sul rischio di commettere addirittura reati.

Magari rivince le elezioni.
Lui ne è convinto, pensa che le due promesse sullo stile del suo maestro Berlusconi facciano ancora presa.

Due promesse?
La prima è a livello di reato di abuso della credulità popolare: la zona franca, niente più tasse in tutta la Sardegna. Come a Livigno, ma per un milione e mezzo di persone. La seconda è il cemento.

Magari funziona ancora.
A Roma la cattiva politica si nutre di debito pubblico, a Cagliari, non potendo fare debito, si stampano metri cubi. Ma no, non funziona più. Nel 2009 Cappellacci ha vinto perché così era l'Italia del tempo, c'era Berlusconi trionfante, è venuto qui a fare la campagna elettorale e ha promesso tutto a tutti: Porto Torres, Alcoa, Carbosulcis, Eurallumina. Molti si sono fidati. Ha promesso 100 mila posti di lavoro con l'edilizia, invece ne abbiamo persi 70 mila. E adesso c’è un livello di disoccupazione non dico mai visto, ma neppure mai pensato.

LA CURA DEL CENENTO DEL MEDICO DI B.
di Antonella Brianda e Alessandro Ferrucci

Il futuro era lì, vicino, a portata di mattone. Settimo Nizzi, ex sindaco, aveva anche fissato la data: “Nel 2025 Olbia sarà una città da centomila abitanti con un’area urbana estesa fino alla tangenziale”. Di fatto la strada sopraelevata sarebbe diventata un moderno muro di cinta. E ancora zone agricole edificabili, un milione di metri cubi dedicati alla zona costiera, la più pregiata. Alberghi, ville. Ancora alberghi. Altre ville.

Era il 2004 e il professor Nizzi credeva di poter dire, fare, attuare ogni scempio in Costa Smeralda, in fin dei conti era l’ortopedico di Silvio Berlusconi. Fedele alla Casa delle libertà, la politica dell’ex primo cittadino era improntata sull’idea delle “mani libere”, del laissez-faire. A tanti, troppi è andata bene. Come il Caimano, anche lui amava mostrarsi in varie vesti, da medico, a politico, fino a operaio con tanto di caschetto giallo in testa e foto-ricordo sulle ruspe.

Più erano originali, per non dire fuori legge, le proposte di edificazione, più lui dava il via libera ai lavori. “Sono posti di lavoro!”, il classico mantra attira consensi. Ed ecco la selva di gru nella città dal 1997, gli anni dell’ebbrezza da cemento, della santificazione di massa per la Sardegna. Dello status symbol. Dei gommoni in acqua a caccia di vip sugli yacht. Dei Briatore a brindare a champagne. Pronunciare le parola “piano” associata a “regolatore” equivaleva a una bestemmia carpiata. L’ultimo risale al 1960 quando Olbia aveva appena 18 mila abitanti (diventati 60 mila). Solo nel 1984 il sindaco Giampiero Scanu lancia l’impianto per la nascita di un piano regolatore generale, piano che per i dieci anni in cui è stato a capo della città, non si è potuto realizzare . Ci si opponeva sempre e comunque. Nel frattempo Berlusconi e il principe Karim Aga Khan decidono di puntare su alcune aree di Olbia e presentano due programmi, di 2,5 milioni di metri cubi ciascuno, per edificare in zone da distribuire sia a nord della città in località Razza di Juncu, che a sud verso Capo Ceraso. Il valore complessivo degli investimenti era esorbitante : 5 mila miliardi di lire. Niente da fare, il piano non passa. Per fortuna c’è lui, caschetto-Nizzi, eletto per la prima volta proprio nel 1997, e tutto cambia: ecco diciassette piani di risanamento, 23 nuovi quartieri, vuol dire l’emergenza portata a sistema senza nessuna strategia strutturale.

E ancora il via libera alla costruzione di abitazione a Santa Mariedda e Pozzuru, quindi gli agognati alberghi da cinque e oltre stelle come l’Hilton e il Geo Village, sorti in zone un tempo industriali e magicamente diventate edificabili.

Il procuratore capo a Tempio Pausania, Domenico Fiordalisi, ha sulle sue scrivanie pile di documenti, carte relative ad alcune costruzioni di dubbia regolarità. Dubbia per la legge, non per i suoi abitanti. Nizzi nella zona è ancora considerato un personaggio di spessore, ha ancora il suo cerchio magico, dirige il Cipnes, un consorzio di industriali che gestisce milioni e milioni di euro, con la facoltà di approvare piani edilizi e assegnare licenze nelle zone di sua competenza. Quali zone? Esattamente dove Olbia dovrebbe espandersi, ovvio, dove lui, in fin dei conti, è di casa.

Greenreport, 21 novembre 2013

«La devastazione provocata dall’alluvione in Sardegna, con la tragedia della perdite di vie umane, impone alla Regione il radicale cambiamento nella gestione del territorio, con il blocco di ulteriori compromissioni e l’adozione di efficaci interventi di riassetto idrogeologico e paeseggistico». E’ questo il succo dell’appello unitario lanciato da Fondo ambiente italiano (Fai), Italia Nostra, Istituto nazionale di urbanistica (Inu), Legambiente e Wwf che spiegano: «La Giunta Regionale ha approvato un nuovo Ppr, che stravolge il precedente, proponendo di annullare molte delle misure a tutela del nostro territorio, costruite in decenni di lavoro comune e di crescente attenzione della comunità sarda».

Le 5 associazioni il 23 novembre terranno una conferenza stampa a Cagliari, e intanto lanciano l’appello “Salviamo il Paesaggio della Sardegna” che parte da un assunto: «La salvaguardia dei suoli e dei paesaggi delle coste e delle zone interne deve costituire la risorsa strategica per promuovere uno sviluppo che sia sostenibile».

Inu ed ambientalisti invitano a partecipare studiosi, esperti, amministratori, rappresentanti delle istituzioni e tutti i cittadini che hanno a cuore la tutela del patrimonio paesaggistico ambientale della Sardegna a quella che, dopo il disastro del ciclone “Cleopatra” si presenta come una rinascita culturale e politica della Sardegna che metta al centro la tutela ed il recupero della sua più grande risorsa: il territorio e l’ambiente.

Le associazioni concludono: «Siamo fiduciosi che i sardi sapranno scegliere di difendere il proprio territorio per promuovere nuove politiche del lavoro basato sulla salvaguardia ambientale, su un esteso programma di riassetto idrogeologico e sulla riqualificazione dell’edificato esistente. Rafforzare la qualità del territorio e la sua attrattiva nel panorama internazionale con il restauro del sistema paesaggistico costiero, la riqualificazione dei tanti villaggi costieri e dei centri urbani, con migliaia di seconde case e di edifici invenduti o inutilizzati, il recupero alle grandi tradizioni produttive agroalimentari dei terreni abbandonati sono la grande sfida per la generazione vivente e per quelle future, con decine di migliaia di posti di lavoro e garanzia di vita delle comunità insediata».

Usare nostalgia e tradizione per promuovere obiettivi di innovazione? Pare questa, la prospettiva di ricucitura percettiva di un quartiere. Corriere della Sera Milano, 20 novembre 2013, postilla (f.b.)

Dieci itinerari per scoprire la vecchia Greco, borgo con una storia antica, che il rilevato ferroviario spezzò in due negli anni Venti, ma oggi ritrova la propria identità, grazie all’azione decisa dei cittadini. Le «Social walking» sono passeggiate serali che l’associazione 4 tunnel organizza ogni lunedì sera. La voce narrante, che svela tratti inediti di questo angolo di città, è quella di Gianni Banfi, lo «storico» di Greco. Ed è così che in una sera umida e piovosa, zigzagando da via Cavalcanti a via Venini, con il naso all’insù ad ammirare facciate di palazzi decorati in stile Art Noveau, Liberty e Decò, si arriva a piazza Morbegno, dove s’affaccia l’edificio del Terragni, esponente della corrente razionalista del Ventennio, che è meta ogni giorno di visita di turisti giapponesi.

Mentre sull’altro lato del Rilevato ferroviario, si organizza per giovedì sera un incontro per la riqualificazione della via Gluck, che sabato sarà anche oggetto di un maquillage mirato, di qua dal rilevato i residenti riscoprono il quartiere che contende a Gorla l’appellativo di Piccola Parigi. Il primo itinerario parte dal Museo della Shoah. Un altro conduce alla Casa del Glicine di via Tresseno, l’itinerario ‘arancio’ ci accompagna lungo el «vie del silenzio» di via Venini. «Un tempo si chiamava via Libertà - spiega Banfi -. Qui, da Ferrante Aporti a viale Monza c’era la Greco Urbana, del commercio e della residenza, di là la Greco ‘capoluogo’ agricola e poi sede di industrie piccole e grandi, fino alla Pirelli, con la sede del Comune, la chiesetta, la cinquecentesca cascina Conti. Greco era un comune rosso, socialista, che aveva assorbito una quantità di persone qui immigrate da tutta Italia. Il fascismo cambiò nome a tutte le strade».

I protagonisti insistono a sottolineare il valore culturale delle passeggiate: «Vogliamo ripopolare le nostre strade, abitarle, ma prima di tutto occorre conoscerle - spiega Irma Surico, di 4tunnel-. Vogliamo anche vedere ciò che non va, parlarci, e questo è un modo per collaborare a migliorare la qualità della vita». Bella la piccola Greco, che al tempo dei Savoia si chiamava Segnano. Tante le ipotesi a che si debba quel nome, Greco. «Forse alla direzione del vento (il grecale) che spira a Nord-Est dove il borgo nacque. Novant’anni dopo essere stato declassato a quartiere di periferia, oggi Greco ritrova la sua identità.

postillaQualche settimana fa, a Milano si discuteva dei motivi non strettamente culturali e psicologici dell'incidente con tre morti di via Famagosta, in un quartiere tagliato a metà da un'arteria automobilistica di grande scorrimento che di fatto trasformava in due universi incomunicanti i due lati della strada. Anche giustamente, molti commentatori preferivano invece privilegiare proprio questi aspetti soggettivi e psicologici: il problema non era tanto l'impatto urbano dell'infrastruttura, ma il modo di percepirla e usarla, individuale e collettivo. Per molti versi si può dire che l'Associazione 4 Tunnel, coerentemente al proprio nome (sono i passaggi sotto il rilevato ferroviario, unici trait-d'union fra i due lati del quartiere Greco) stia tentando di aggredire il problema su entrambi i fronti. Usando la nostalgia del bel tempo che fu per recuperare un'idea unitaria di quartiere, brutalmente tagliato dalla mannaia ferroviaria della Stazione Centrale. Usando invece idee assai moderne di recupero degli spazi dismessi, per ricucire fisicamente il tessuto urbano. Un processo certamente da seguire, sperando che questa azione su due fronti sia consapevolmente perseguita, ovvero che l'obiettivo non si limiti a discutibili patchwork di idee di salvaguardia locale come quella, giustamente un po' contestata, della via Gluck di celentaniana memoria (f.b.) QUI il sito dell'Associazione, per capirne di più

il manifesto, 20 novembre 2013


La roulette del territorio fai-da-te
di Sandro Roggio

Cosa è successo in Sardegna? Se lo chiedono in tanti e forse pure i turisti «continentali» che neppure sanno immaginarsele le coste sarde d'inverno. Sull'onda dell'emozione le risposte rischiano di essere precipitose. In realtà, il ripetersi di eventi catastrofici ci obbliga a prendere sul serio le prime reazioni, ormai arricchite da considerazioni già svolte in circostanze simili. Sembra una ripetizione oziosa parlare di malgoverno del territorio, ma tutti sappiamo con quale ostinazione si continua a urbanizzare aree inadatte. E quindi: piove ed è colpa del governo, da battuta popolare diventa espressione di meditata saggezza; non perché piove, certo, ma perché una pioggia straordinaria (spesso è così ) è solo una fra le cause di tragedie come questa.

Il governo del territorio in Sardegna: e viene in mente la confusione nei dibattiti intitolati «Tutela ambientale e sviluppo del territorio». Ma oggi il tema è un altro, la gravità del momento porta un elenco di domande per quando smetterà di piovere. I ponti devono sempre crollare? Le case devono stare nelle depressioni e negli alvei dei fiumi? Le tremila ville nell'agro di Arzachena sono una quantità gestibile? I condoni edilizi compensano la mancanza di case popolari a Olbia?

Insomma sarebbe facile la risposta: tutta colpa degli uomini cattivi che hanno maltrattato il territorio dell'isola. Vero in generale, ma dire che c'è un nesso di causalità diretto tra il disastro di queste ore e le trasformazioni avvenute in questi decenni è almeno precipitoso.

E d'altra parte servirà un po' di tempo per consentire agli studiosi più competenti - penso agli idrogeologi - di guardare caso per caso nel merito delle circostanze puntuali. Ma i dubbi non mancano. L'intensità dei fenomeni è stata notevole, ma è inesatto dire che non era prevedibile. La statistica osserva i fenomeni atmosferici e ne definisce la probabilità che possano ri-accadere. E si considerano i tempi «di ritorno» per intervalli in genere tra i 50 e i 500 anni. Ma il fatto che eventi si ripetano dopo centinaia di anni non mette al sicuro. La roulette spiega che lo zero ha 1/37 possibilità di uscire ma può succedere anche tre volte di seguito. Per cui: chi ha costruito male in un area a rischio può sentirsi al sicuro da eventi «probabili» a distanza di centinaia di anni?

Le precauzioni. Le aree urbane della Sardegna costiera sono cresciute negli ultimi trent'anni con un ritmo tale che i luoghi come li abbiamo visti solo una decina di anni fa sono del tutto irriconoscibili. Rispetto alla crescita tra Otto e Novecento, c'è stata una incredibile accelerazione. I tempi lunghi del processo insediativo consentono di correggere una scelta improvvida: una calamità rimane nella memoria delle comunità. Per cui la selezione dei luoghi adatti alla edificazione è avvenuta grazie al passaparola tra generazioni. Non è così nei tempi brevi. Intanto, nel nostro Paese, l'interesse per il bene comune è scivolato agli ultimi posti nella classifica dei valori. Il buon governo del territorio è una ossessione dei soliti che vaneggiano sul paesaggio invece di calcolare con ottimismo quanti bilocali - abusivi - starebbero su quel versante così tenero che si taglia con un grissino.

Il territorio della Sardegna è prezioso e vulnerabile e chiede una grande cura invece di assecondare il fai-da-te mentre si mandano rassicurazioni ai grandi speculatori. Il governo regionale ha deliberato di recente la variante al Piano paesaggistico. Mi auguro che il presidente Cappellacci vorrà tenere conto dei giudizi preoccupati che provengono da più parti su quell'atto, e che oggi sono ovviamente cresciuti.
Chi pensa alla Sardegna come immune da rischi si sbaglia.

La coscienza assente e il gioco di specchi
di Marcello Madau


Colpisce in queste ore drammatiche lo schizofrenico alternarsi di ordinario e straordinario, di normale ed eccezionale. Gioco di specchi che disorienta e ferisce. La solidarietà è eccezionale perché dovrebbe essere normale, ma ordinariamente non lo è rispetto ai valori ufficiali. I media, assieme ai corpi, alle case, alle terre violate, mettono la bontà - reale - in prima pagina. Sarebbe da prima pagina - normalmente - anche l'eccezionale fatto che a portare solidarietà alle popolazioni sia un governatore ex-presidente della società che ha avvelenato di cianuro il territorio di Furtei. Si invoca l'evento imprevedibile, millenario.

E questo ciclone sardo - perché chiamarlo Cleopatra e non Antonio? - è certamente il segno di un rapporto drammaticamente mutato fra terra, aria e mare nel nostro mediterraneo. Una eloquente risposta ai negazionisti del mutamento climatico globale. Ma è assente la coscienza normale che proprio per ciò bisognerebbe aumentare e non diminuire le tutele, non autorizzare urbanizzazioni dissennate, proteggere gli argini dei fiumi. Non cancellare, come è stato fatto pochi mesi fa, i fondi per gli studi idrogeologici.

Non mi convincono le accuse di assenza ad uno Stato e una Regione che invece sono molto presenti: nel nuovo Piano paesaggistico regionale - Ppr (S) - la tutela delle aree fluviali è indebolita, le cubature ammesse, il regime delle acque terrestri modificato. Anche con quei campi da golf che Ugo Cappellacci ha magnificato a Bosa, dove Condotte ne progetta uno su una delle più belle coste dell'isola.

Delicatissima e fragile la traccia ampia dell'antica Ichnoussa, delle biodiversità e dei ventimila monumenti archeologici. Se la Direzione Regionale del MiBac ha detto no al Ppr (S) di Cappellacci, oggi impressiona l'irrituale appello del Soprintendente Archeologo. Egli chiede in modo encomiabile che si segnali qualsiasi notizia di danneggiamento al patrimonio archeologico: è la coscienza, nella stessa chiamata d'aiuto, di un sistema inadeguato. Il nostro pianeta attraversa una profonda crisi ambientale. La Sardegna vi partecipa con un habitat climatico mediterraneo modificato e un territorio avvelenato da troppi decenni di saccheggio. L'eccezionale ciclone è il tracciante di questa situazione, la metafora di una crisi drammatica. Della necessità di forme nuove basate sull'autogoverno territoriale dei beni comuni, di cultura, tutela, democrazia e identità. Sulla maniera di gestire il territorio si decide il futuro della Sardegna, a partire dalle prossime elezioni regionali.

Considerazioni di un addetto ai lavori sull'imminente riforma degli enti locali, orientate a un moderato ottimismo. Corriere della Sera Milano, 17 novembre 2013, postilla (f.b.)

A 23 anni dalla loro istituzione per legge e a 12 dal loro inserimento nella Costituzione, sembra che adesso le Città metropolitane stiano davvero per nascere cogliendo, salvo pochi addetti ai lavori, un po’ tutti di sorpresa. Carlo Tognoli, intervenendo nei giorni scorsi su questo tema, ha affermato che «se non c’è condivisione e rapidità nelle decisioni … tutto rischia di rimanere com’è adesso».
Come mai, dopo anni di attese e rinvii, oggi è possibile, oltre che urgente, procedere in questa fondamentale opera di riforma istituzionale? Perché con il decreto legge sulla spending review del governo Monti, quello che abolisce le Province, la questione di cosa mettere al loro posto è tornata di stringente attualità. Con una novità, però, che spiega perché sia forse questo il momento buono. Mentre in precedenza le città metropolitane erano calate dall’alto ed erano praticamente fatte «con lo stampino», ossia tutte uguali fra di loro, ora debbono nascere dal basso e possono essere fatte «su misura» dai diretti interessati. Quindi si può procedere. È evidente che si tratta di una sfida importantissima per la politica locale. Dal 1 gennaio 2014 il Sindaco di Milano subentrerà infatti al Presidente della Provincia e verrà chiamato a presiedere la Conferenza dei sindaci cui spetta di scrivere lo Statuto della Città metropolitana, ossia di dire «che cosa» sia, quali obiettivi si proponga e «come» dovrà funzionare per raggiungerli. Un compito da padri costituenti.

A cosa deve servire, infatti, la città metropolitana? Innanzi tutto a «reinventarsi» il ruolo dei Comuni nell’era della contrazione della spesa pubblica, a rinnovare il rapporto tra cittadini e istituzioni, a fornire servizi più efficienti a costi più contenuti , ad estendere ed intensificare quella qualità urbana che è uno dei fattori fondamentali per lo sviluppo dell’economia contemporanea ed infine, ma non per ultimo evidentemente, a ritrovare l’anima profonda della città. Milano non è una megalopoli né vuole diventarlo adesso, trasformandosi in una specie di super Comune. Essa è piuttosto il «cuore» e anche il «cervello» di un arcipelago funzionalmente integrato e densamente popolato, punteggiato di città e comuni che ne costituiscono, per così dire, le «isole». «Isole» dotate di ampia autonomia e di radicati e profondi sentimenti di appartenenza locale. Solo tenendo conto di questi sentimenti Milano può costruire qualcosa di solido e duraturo.

Come diceva Carlo Cattaneo, le città si sono storicamente evolute seguendo due vie: la via etrusca, «federativa e molteplice», «vivaio di città generatrici di città», e la via romana, tendente ad ingigantire un’unica città «che il suo stesso incremento doveva snaturare». Accingendosi ad imboccare una nuova strada, Milano farebbe bene a ricordarsi di questo suo illustre cittadino.

postilla
Anche al netto dalla vaga sensazione che queste considerazioni come spesso accade siano rivolte più che altro a qualche “suocera” che deve intendere, più che a noi “nuore” lettrici, conforta in qualche modo notare come il puro approccio contabile alla riforma degli enti locali e istituzione delle Città Metropolitane non occupi tutto lo spettro del dibattito politico, ma serva prevalentemente come strumento di azione e consenso. Per quali fini possiamo solo supporre, come implicitamente provavano a ipotizzare in vario modo anche gli interventi alla Scuola Estiva di Eddyburg di quest'anno, dedicata all'argomento (f.b.)

Il Fatto Quotidiano, 16 nov. 2013

Giovedì scorso Salvatore Settis ha indirizzato, dalla prima di Repubblica una eloquente lettera in cui ha elencato al cardinale Angelo Scola tutte le ragioni per cui sarebbe grave installare nel Duomo di Milano un ascensore che porti fino a una terrazza-bar da realizzare tra le guglie: un pio ritorno alla Milano da bere che circola almeno da luglio, e che ha trovato un pericoloso sponsor nel ministro Maurizio Lupi. Così conclude Settis: “Dobbiamo forse immaginare che ogni campanile, ogni cattedrale, ogni palazzo pubblico debba essere svilito aggiungendovi ascensori e terrazze-bar e noleggiandolo a ditte private che non vi vedono altro se non un’occasione di profitto? Dobbiamo forse suggellare per sempre, perfino nelle chiese, l’idea che il denaro è l’unico valore corrente? Una sola parola viene in mente per definire l’idea-base che una chiesa debba servire di supporto ad attività di intrattenimento commerciale. Questa parola è: simonia”. Sacrosanto: purtroppo non si tratta solo di immaginazione.

A Napoli l’intervento di Italia Nostra ha evitato che la Curia realizzasse una caffetteria sulla terrazza absidale del Duomo. A Bologna si sono già “celebrati” alcuni aperitivi sui ponteggi del restauro della facciata di San Petronio: “Unici per la qualità dei cibi, l’esclusiva collocazione, i suggestivi tramonti e la piacevole compagnia”. A Siena è stato appena lanciato “Un te all’Opera”: dove l’Opera non è un teatro, ma l’Opera del Duomo, che nella “cripta” della cattedrale organizza mostre a pagamento. Ma come è possibile che qualcuno pensi di sorbire al piano terra il sangue di Cristo della messa, al primo piano un mojito, al piano di sotto un Caravaggio?
Non ci si è arrivati di colpo: è l'ultimo stadio della trasformazione di molte delle più insigni chiese italiane in attrazioni turistiche a pagamento. A Firenze (sempre all’avanguardia nella mercificazione selvaggia del proprio stesso corpo) si paga per entrare in Santa Maria Novella e in Battistero, le tombe dei Medici in San Lorenzo sono fisicamente coperte da un bookshop, e se si vogliono vedere le “urne dei forti” in Santa Croce occorre sborsare 6 euro (per esigere i quali il portico gotico esterno è stato trasformato in un’orrida biglietteria di metallo e vetro). A Siena si entra in Duomo a pagamento , a Pisa si paga per il Camposanto e il Battistero e San Francesco di Arezzo (con gli affreschi di Piero della Francesca) viene ormai definita “museo” ed è stata affidata alla società Munus (presieduta da Alberto Zamorani: sì, quello di Mani Pulite), che stacca i biglietti in un cubo di cristallo che devasta lo spazio sacro. A Milano costa 6 euro vedere il luogo dove sant’Ambrogio battezzò sant’Agostino. A Verona si paga in Duomo, a San Zeno, a Sant’Anastasia e a San Fermo.

A Venezia l’associazione Chorus-Chiese vende un pass per entrare in ben 16 chiese, tra le quali i Frari. A Ravenna ci vuole il biglietto per varcare la soglia di Sant’Apollinare Nuovo, di San Vitale e di molti altri templi. Una selva di balzelli: un’altra barriera che impedisce l’accesso al patrimonio artistico da parte dei cittadini italiani che lo mantengono con le loro tasse. E di fronte a questo dilagare del culto del denaro non è solo uno storico dell’arte laico come Settis a parlare di “simonia”, cioè di mercimonio del sacro.

Qualche mese fa Francesco Moraglia, il patriarca di Venezia succeduto proprio ad Angelo Scola, ha tuonato contro l’accesso a pagamento nelle chiese: “Non di rado succede che la mentalità funzionalistica si trasformi in mentalità imprenditoriale; fronteggiare tale tendenza e soprattutto recuperare il senso del sacro, del mistero e dell’adorazione è essenziale”. In effetti, il contrasto non potrebbe essere più stridente: nel sito dell’Opera del Duomo di Firenze, dopo una fiscalissima serie di precisazioni sulla validità del biglietto (tipo: “Il biglietto va utilizzato entro la mezzanotte del sesto giorno a partire dalla data selezionata al momento dell'acquisto, e ha validità di 24 ore dal passaggio al primo monumento”), si può leggere che “non è possibile accedere con un abbigliamento non confacente al luogo sacro che si intende visitare”. Ed essendo il bel San Giovanni un luogo ormai sacro al mercato, ci si chiede se l’allusione sia alla bombetta e all’ombrello della City.
Per questo il 31 gennaio 2012, la Conferenza episcopale ha diramato una nota in cui si ricorda che “secondo la tradizione italiana, è garantito a tutti l’accesso gratuito alle chiese aperte al culto, perché ne risalti la primaria e costitutiva destinazione alla preghiera liturgica e individuale”. Salvo poi aprire una gesuitica via di fuga: “L’adozione di un biglietto d’ingresso a pagamento è ammissibile soltanto per la visita turistica di parti del complesso (cripta, tesoro, battistero autonomo, campanile, chiostro, singola cappella, ecc.), chiaramente distinte dall’edificio principale della chiesa, che deve rimanere a disposizione per la preghiera”. Prescrizione comunque clamorosamente disattesa in moltissimi casi, da Santa Croce a Firenze ai Frari di Venezia.
Soluzioni? Un certo Giovanni, nel suo Vangelo ne racconta una radicale: “Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: ‘Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato’”. E così sia.

Una denuncia e un appello del Comitato "Una spiaggia per tutti" e dell'"Assise Cittadina per Bagnoli"per la salvaguardia di un bene prezioso cui i cittadini di Napoli non sono disposti a rinunciare. Per aderire vedi in calce

Il recupero ad uso pubblico del litorale di Bagnoli corre un serio rischio. Da alcuni mesi autorevoli esponenti della fondazione Idis sostengono pubblicamente di avere raggiunto con il Comune di Napoli un accordo per la riedificazione dei fabbricati di Città della Scienza distrutti dal rogo del 4 marzo scorso; gli edifici verrebbero ricostruiti “com’erano e dov’erano”, a meno di una piccola area marginale che sarebbe trasformata in giardinetto con vista sul mare e graziosamente concessa alla fruizione della cittadinanza, la quale potrebbe accedervi tramite due accessi pedonali attrezzati dalla fondazione. Tale accordo, secondo fonti giornalistiche, dovrebbe essere formalizzato il 19 novembre a Roma durante un incontro tra Idis, Comune e Governo. Il sindaco De Magistris continua ad proclamare di aver raggiunto un “compromesso soddisfacente”, sul quale però non fornisce alcuna delucidazione, ed ha ribadito durante la recente seduta monotematica su Bagnoli del Consiglio Comunale che spetterà a tale organo l’ultima parola in merito. Appare tuttavia strano che su una questione così delicata non ci sia stata una discussione pubblica e che il ruolo del consiglio debba ridursi ad approvare o rigettare, a scatola chiusa, un accordo definito dal Sindaco in altre sedi.

Affermiamo senza mezzi termini che l’approvazione di un tale accordo, indipendentemente dalla sede dove eventualmente dovesse avvenire, costituirebbe un atto gravissimo sia per le sorti dell’ex area industriale di Bagnoli che per le procedure democratiche di governo del territorio.

E’ bene precisare subito che la riqualificazione di Bagnoli è imprescindibilmente legata al recupero del suo lungomare per la pubblica balneazione ossia alla realizzazione di quella grande spiaggia cittadina a cui napoletani anelano da oltre un secolo. A questo fine mirava la legge per il primo finanziamento della bonifica di Bagnoli, la 582/96, stabilendo al comma 14 dell’articolo 1 l’obbligo di ripristinare la morfologia naturale della costa. Nella stessa direzione andava la Variante al PRG per l’area occidentale del 1998, disponendo di demolire e riedificare in altra sede gli edifici siti a valle di via Coroglio, per realizzare un arenile continuo da Nisida a la Pietra. Questo sacrosanto obiettivo, sostanzialmente recepito nel 2005 dal Piano Urbanistico Attuativo per Bagnoli-Coroglio, è stato recentemente ribadito dal Consiglio Comunale di Napoli, che il 25 settembre 2012 ha approvato con larghissima maggioranza (praticamente all’unanimità) una delibera d’iniziativa popolare, sottoscritta da oltre13mila cittadini napoletani, la quale impegna la Giunta ed il Sindaco a compiere una serie di atti per destinare ad uso balneare gratuito il tratto di litorale tra Nisida ed il confine comunale con Pozzuoli.

Purtroppo nessuna amministrazione pubblica ha finora tradotto questi provvedimenti in azioni concrete; tuttora il lungomare di Bagnoli, ancorchè inquinato da sostanze pericolose come quelle sparse sui fondali e negli arenili o nella famigerata colmata a mare, è sottoposto ad un processo di privatizzazione strisciante, imperniata prevalentemente sugli interessi dei concessionari balneari privati e della fondazione Idis. Com’è noto, un accordo di programma ha imposto nel 1997 che il trasferimento dei volumi di Città della Scienza siti a valle di via Coroglio, previsto dalla Variante, avvenisse solo alla data di ammortamento dei finanziamenti pubblici erogati per la loro ristrutturazione. Dopo l’incendio che ha distrutto tali fabbricati, evento sulle cui oscure motivazioni la magistratura tuttora indaga, la fondazione Idis ha promosso una campagna martellante per assicurarsene la ricostruzione in loco, malgrado logica e diritto andassero in un’altra direzione. Il Comune, che sembrava in un primo momento deciso a trasferire la struttura nel rispetto delle norme urbanistiche, si è successivamente attestato su una posizione attendista, se non addirittura conciliante, verso le richieste dell’Idis.

Ben si comprende l’interesse particolare della fondazione Idis a mantenere un affaccio diretto sul mare, benchè esso sia marginalmente o per nulla collegato alle sue attività istituzionali. Molto meno comprensibile è l’esitazione del Comune ad affermare il prevalente interesse generale a recuperare integralmente alla balneazione quel prezioso tratto di costa dove Napoli può ancora sperare di riavere la sua spiaggia. Lo stesso interesse generale che dovrebbe spingerlo a verificare quale bonifica abbia effettuato l’Idis sui suoli dell’ex Montecatini dov’è insediata Città della Scienza, come anche gli effetti ambientali del recente incendio, prima di prendere in considerazione ogni ipotesi di riuso dell’area. Appare poi una beffa che il Governo (all’epoca presieduto da Mario Monti) abbia saputo reperire in poche settimane oltre 20 milioni di euro per la ricostruzione di Città della Scienza, mentre solo un anno prima aveva tagliato senza scrupoli 50 milioni di euro destinati al ben più importante obiettivo della bonifica del mare di Bagnoli.

La poca chiarezza che aleggia sulla questione autorizza i peggiori sospetti, come quello che si stia barattando l’intoccabilità di Città della Scienza e la rinuncia a rimuovere la colmata a mare con l’erogazione di qualche finanziamento per la riqualificazione dell’area di Bagnoli.

E’ quindi necessario affermare senza equivoci che avallare le pretese dell’Idis significherebbe violare tutte le disposizioni precedentemente richiamate, facendo strame delle procedure democratiche e sabotando il fondamentale obiettivo di restituire ai napoletani una spiaggia pubblica balneabile degna di questo nome. La ricostruzione in loco dei fabbricati distrutti autorizzerebbe tutti gli edifici e le funzioni che attualmente insistono sull’area destinata a spiaggia dagli strumenti urbanistici a rimanere dove sono: al posto di un arenile pubblico attrezzato secondo un disegno unitario di qualità, rimarrebbe l’attuale spezzatino di manufatti scadenti ed attività commerciali private. Verrebbe inoltre incoraggiata la volontà dell’Idis di completare il suo originario progetto e realizzare sul pontile dell’ex Montecatini un approdo per le Vie del Mare, con il conseguente traffico di barche ed aliscafi che comprometterebbe definitivamente il ripristino della balneazione in quell’area.

Va invece ribadito che le attività di Città della Scienza allocate nei fabbricati distrutti dall’incendio possono e devono trovare nuova sede in un’area adeguata da individuare a monte di via Coroglio, secondo le previsioni della Variante al PRG per l’area occidentale, essendo tragicamente quanto ineluttabilmente venuta meno ogni esigenza di ammortamento. La risposta adeguata ad un atto criminale come quello che ha colpito gli edifici di Città della Scienza non può consistere certo nell’avvalorare scelte contrarie a quelle norme di governo del territorio che la città si è data da tempo ma nella celere e puntuale individuazione di autori, mandanti e ragioni del gesto da parte della magistratura.

Per questo chiediamo al Sindaco, alla Giunta ed al Consiglio Comunale di impegnarsi formalmente affinché in nessuna sede di confronto istituzionale venga rimessa in discussione la scelta, sancita nelle leggi nazionali e negli strumenti urbanistici comunali, di rimuovere sia la colmata a mare che tutti gli edifici siti a valle di via Coroglio per realizzare un arenile ininterrotto da Nisida a La Pietra, da destinare a spiaggia pubblica cittadina.


Le adesioni possono essere inviate all'indirizzo di "una spiaggia per tutti"

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