Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2015
“Non dobbiamo pensare all’area archeologica centrale come un’area deputata solo alla fruizione dell’archeologia, ma come un pezzo di città, ricco di eventi, nel rispetto dei monumenti. I luoghi dell’archeologia sono attrattivi: sfondo ideale per realizzazioni virtuali, teatro, spettacoli, musica, arte”, spiega il soprintendente speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale romano e l’area archeologica di Roma, Francesco Prosperetti. Il tema è la sorte delCirco Massimo che, dunque, sarà ancora il contenitore per tutte le occasioni. Concerti, ma non solo.
“Non sono contrario in maniera pregiudiziale ai concerti al Circo Massimo, se ci sono dei motivi ostativi, li faremo valere al tavolo permanente con il Comune”, dice ancora Prosperetti. Chiedersi quali possano essere questi motivi è naturalmente lecito. Conoscerli al momento, impossibile. Certo è che risulta già stabilito che nel 2016 nell’area suoneranno i Coldpay, nel concerto del tour di addio della band. Insomma non sembra cambiare nulla per il luogo centrale dell’archeologia romana più utilizzato. Per finalità di ogni tipo.
Condivisibile l’idea che i pezzi di città nei quali ci sono monumenti antichi debbano uscire dal ghetto nel quale sono stati lasciati finora. Che vengano finalmente legati ai contesti esterni. Che insomma tornino ad essere patrimonio di tutti. Spazi non più da osservare dall’ “esterno”, ma da vivere dall’ “interno”. Riassemblare la città, fascendo uscire dalla loro sostanziale marginalità i luoghi dell’archeologia, è un proposito legittimo. Esito di un’idea di Roma moderna, corretto. Perché mira ad includere, realmente.
Più discutibile è invece ritenere che funzionale a questa operazione di inclusione dei luoghi dell’archeologia sia il loro utilizzo. Più incerta la tesi secondo cui sia necessario che i monumenti del passato debbano essere cornice di eventi. Insomma come sostiene il soprintendente, “sfondo ideale per realizzazioni virtuali, teatro, spettacoli, musica, arte”. L’attrattiva non si incrementa riempiendo di eventi strutture antiche svuotate dell’originaria funzione e del loro significato identitario. Semmai, ci si dovrebbe spendere perché accada il contrario. Cioè perché quei luoghi, relitti del passato, diventino poli culturali, da fruire. Nelle migliori condizioni possibili. Ovunque. Non solo nel centro, ma anche più fuori, fin dove il territorio dei municipi più esterni confina con altri comuni.
Il Circo Massimo secondo la visione delineata da Prosperetti corre il rischio di continuare ad essere un luogo neutro. Una spianata nella quale l’archeologia è confinata ad un settore. Rilevantissimo, ma esiguo. Quanto l’utilizzo indiscriminato dell’arena possa portare dei benefici all’area archeologica non è chiaro. Quanto il sacrificio di quegli spazi sia accettabile, compensato da una migliore valorizzazione dei resti antichi, incomprensibile.
“I resti del grande arco realizzato per l’imperatore Tito. Straordinario rinvenimento sovrintendenza al Circo Massimo”, ha twittato alcuni giorni fa Giovanna Marinelli, Assessore alla Cultura di Roma Capitale. Una bella notizia, a metà. Dal momento che la mancanza di fondi hanno costretto a ricoprire tutto.
Italianostra-venezia.org, 5 Giugno 2015 (m.p.r.)
(Immagine: in questa forma il Fontego non sarà più visibile date le trasformazioni al tetto che ora sono state autorizzate). Il Consiglio di Stato ha respinto l'appello di Italia Nostra contro la sentenza del TAR che considerava legittima la trasfromazione del Fontego dei Tedeschi in centro commerciale e tutte le modifiche edilizie connesse all'operazione. Il nostro appello al Consiglio di Stato era l'unica arma che rimaneva per impedire che uno storico edificio veneziano venisse deformato nella sua natura architettonica e sottratto all'uso pubblico per divenire un ennesimo centro commerciale ad uso dei turisti e a beneficio delle società proprietarie.
Avremo modo nei prossimi giorni di esaminare la sentenza e di commentarla nei dettagli. Per ora riportiamo qui il comunicato stampa con il quale il Comune dà la notizia ai media, citando alcune parole dalla sentenza. Secondo quelle parole, le deroghe concesse dal Comune ai proprietari sarebbero giustificate dalla "effettiva sussistenza dell'interesse pubblico" e dagli "effetti benefici per la collettività che dalla deroga derivano". In aggiunta, il Consiglio ritiene che i sacrifici per l'immobile siano "minimi" mentre l'edificio verrebbe "restituito alla città con la destinazione originaria del 1500, che era proprio quella commerciale". La differenza tra uso di fondaco nel 1500 e uso di centro commerciale Vuitton nel 2015 è evidentemente troppo sottile per contare qualcosa. Ritorneremo presto sull'argomento con i dettagli.
Leggi il comunicato stampa del Comune.
Riferimenti
Sulla vicenda si veda su eddyburg di Francesco Erbani L’odissea veneziana del Fontego dei Tedeschi tra pubblico e privato, di Salvatore Settis Quel centro commerciale che ferisce Venezia. La strategia di occupazione concertata (con i sindaci veneziani, da Massimo Cacciari a Giorgo Orsoni) è documentatamente raccontata da Paola Somma nel saggetto Benettown, un ventennio di mecenatismo, edito da Corte del fontego editore, nella collana "Occhi aperti su Venezia". La vicenda del Fontego dei Tedeschi è narrato, nella medesima collana, dal libretto di Lidua Fersuoch, Il nostro Fontego dei Tedeschi
Megastruttura di un secolo fa, nata da logica ingegneristica extraurbana, e in crisi di ruolo da decenni, fa riflettere sulla megalomania di altri impropri progetti di urbanizzazione. Corriere della Sera Milano, 3 giugno 2015, postilla (f.b.)
Via al maquillage dei Rilevati ferroviari, involucro dei Magazzini Raccordati. Opera da cinque milioni di euro, non più rinviabile. Grandi Stazioni preme sull’acceleratore ed entro l’estate, con lo scorporo dell’attività di retail, selezionerà i progetti degli investitori stranieri intenzionati allo sviluppo dei 66 mila metri quadrati. Comincia a giorni il maquillage dei Rilevati ferroviari. Superati i problemi tecnici per l’occupazione del suolo pubblico, Grandi Stazioni si prepara a dare il via ad un intervento che si configura come un restauro conservativo del manufatto.
I due chilometri di infrastruttura, che sorgono alle spalle della Stazione Centrale e portano i binari ferroviari fuori città, non sono mai stati oggetto di manutenzione. E i segni del tempo e dell’incuria sono più che mai visibili. I ferri che ne costituiscono l’ossatura, arrugginiti a causa delle infiltrazioni d’acqua, in molti punti si sono gonfiati fino a causare l’esplosione di quella copertura di conglomerato cementizio, che gli artigiani del tempo lavorarono trasformando in finto marmo e pietra.
Il recupero delle facciate dei Rilevati, sul fronte di via Ferrante Aporti e di via Sammartini, ha un costo stimato in 5 milioni di euro. Ed è solo l’inizio di una trasformazione ben più imponente. Entro luglio, infatti, la società che ha affidato allo studio Giugiaro lo studio di massima dello sviluppo del Rilevato attraverso il recupero dei Magazzini Generali, una vera e propria città nascosta, chiusi quindici anni or sono e abbandonati, esaminerà le proposte di investitori intenzionati ad acquisire quote dell’attività retail di Grandi Stazioni che sarà scorporata per consentirne lo sviluppo. I Rilevati con gli ex Magazzini Raccordati, lo ricordiamo, furono inaugurati nel 1914.
Il dossier preparato dal manager Paolo Gallo, già ex numero uno di Acea, ha acceso l’interesse soprattutto oltreconfine. E sono diversi gli operatori, a cominciare dal Blackstone Group — società finanziaria statunitense specializzata nei settori di private equity, investimenti immobiliari, hedge funds, ristrutturazione di aziende e gestione di fusioni e acquisizioni — e dai francesi Klépierre, gli specialisti europei dei centri commerciali, alla compagnia franco olandese Unibal Rodamco, di cui si attendono le proposte. Entro luglio. Da settembre partirà il confronto, promesso in un’assemblea pubblica dall’ad Gallo e ora confermata, con il Comune e le associazioni di cittadini da tempo mobilitati per il recupero dei Rilevati e dei quartieri che sullo stesso s’affacciano.
Realizzare l’imponente ristrutturazione non solo dei Magazzini Raccordati (33 mila metri quadrati) ma di una porzione altrettanto vasta di corpi di fabbrica che si sviluppano alle spalle della Stazione ha un costo stimato in 50 milioni di euro. Soldi che dovranno arrivare in parte proprio dall’ingresso dei fondi di investimento privati. Il cronoprogramma del restyling della Centrale ad oggi è stato rispettato. A cominciare dalle strutture in vetro e acciaio collocate nell’ampio spazio monumentale, la Galleria delle Carrozze, che collega le piazze IV Novembre e Luigi di Savoia. Ora tocca all’involucro esterno. Infine, entro l’anno l’aggiudicazione al privato che diventerà il partner dell’operazione di sviluppo.
È noto il progetto di Grandi Stazioni che sarà scissa in tre diverse società, Gs Retail, Gs Rail e Gs Real Estate, alle quali saranno conferiti rispettivamente gli asset commerciali, le attività infrastrutturali e alcuni immobili adiacenti alle stazioni. Oggi Grandi Stazioni è una società partecipata al 60% da FS al 40% da Eurostazioni (veicolo finanziario che mette insieme Pirelli, Caltagirone e Benetton con le ferrovie transalpine di Sncf), e ha trasformato e gestisce le quattordici principali stazioni della penisola. La gara internazionale per individuare il futuro acquirente della parte retail sarà lanciata prima dell’estate e chiusa entro fine anno, come ha confermato l’ad di Ferrovie, Michele Mario Elia.
Ad accrescere l’interesse dei grandi fondi di investimento è quel progetto che suddivide il Rilevato in sette corpi di fabbrica e la destinazione di ogni blocco ad una diversa attività — dal food market su via Sammartini al centro commerciale con ristoranti e caffè. «È importante — dice la vicesindaco Ada Lucia De Cesaris — che comincino a dimostrare di fare un lavoro di pulizia, perché anche un intervento di decoro è già una risposta importante al quartiere e ai cittadini. Ci auguriamo che si impegnino a dare le gambe al progetto che va quanto prima reso operativo, affinché quel luogo straordinario possa tornare ad essere vissuto come un luogo di qualità».
Ancora oggi praticamente non passa giorno senza che qualche architetto non presentiqui e là la sua «audace idea» di megastruttura che mescola mobilità econtenitori di residenza, produzione, servizi, sul modello del Piano di Algeridi le Corbusier, o del precedente americano Roadtown di Edgar Chambless. Ecco,forse basterebbe la complessità e sviluppo nel tempo di questa mega-digestioneurbana di una infrastruttura ingegneristica del genere, a dare il senso diquanto possano essere azzardate, o quantomeno mal poste, quelle ideeprogettuali. Il rilevato ferroviario nasce in modo evidentementeautoreferenziale, ma altrettanto evidentemente sulla traccia dei progetti diinsediamento lineare novecenteschi. Basta però un primo accenno del processo diurbanizzazione che queste macrostrutture deliberatamente inducono, per metternein crisi ruolo e impianto, trasformandole in una enorme terra di nessuno.Perché il processo di degrado che porta a questo «restyling» si può proprioriassumere così: la presenza assurda in città di un manufatto estraneo allacittà, e che dura quantomeno dalle periferie cantate nel Ragazzo della ViaGluck, via che sta giusto allo sbocco dei tunnel. Seguire l’evolversi dellalunga digestione forse è un modo per riflettere anche su altre, analoghemegastrutture che prima o poi presenteranno il conto (f.b.)
Almeno, non il Rossi in cui avevano sperato gli (ormai ex) elettori Pd che (come me) ritengono la svolta renziana una irreversibile mutazione genetica. Non il Rossi che si era presentato come un'alternativa, e che giorno dopo giorno è invece meno distinguibile dagli imbarazzanti vassalli toscani del premier-segretario.
La spia più impressionante di questa precipitosa omologazione è la trasformazione del linguaggio di Rossi, un tempo gentile e quasi timido, oggi intriso dall'inconfondibile arroganza renziana. Nelle ultime ore questa inedita violenza verbale si è appuntata su Anna Marson: sua attuale assessore e autrice principale di quel Piano del Paesaggio che è uno dei principali risultati della Giunta uscente.
La Marson ha la colpa di aver notato che il programma di Rossi è singolarmente reticente proprio sul paesaggio, e di aver dunque espresso la sua preoccupazione per ciò che succederà al Piano e soprattutto al paesaggio da lunedì in poi. Come spiega la Marson in questa nota diffusa dall'Ansa (ma ignorata dalla stampa toscana di oggi) Rossi avrebbe potuto creare subito l'Osservatorio (aperto anche alle associazioni) previsto dal Piano, ma ha preferito rimandare alla prossima legislatura: un pessimo segnale. Perché è evidente che il Pd toscano neorenziano, che ha provato in tutti i modi ad affondare il Piano (ed ha dovuto mandarlo giù solo perché Rossi avrebbe completamente perso la faccia), si appresta ora a smontarlo pezzo a pezzo. E a livello nazionale, il partito che ha varato lo Sblocca Italia ha fretta di liquidare quell' intralcio 'ambientalista' ereditato da un passato di sinistra che si vuol archiviare più in fretta possibile.
Se le cose non stessero così, Rossi avrebbe fatto di Anna Marson – cioè del suo lavoro, e del suo rapporto con le associazioni e i comitati di cittadini che lottano perché la Repubblica tuteli davvero l'ambiente (come prescrive l'articolo della Costituzione che dà il titolo a questo blog) – una bandiera elettorale. Così non è stato, perché nel frattempo – come è detto in un appello elettorale firmato anche da chi scrive – «il Pd toscano ha subìto una profonda mutazione genetica, ed Enrico Rossi non ha più alcun margine di indipendenza politica dalla linea di Matteo Renzi. Quel modello è finito».
Alla vigilia del voto, le dichiarazioni della Marson rischiano di fornire ai cittadini toscani un prezioso elemento di conoscenza: qualcosa di rivoluzionario, in una campagna elettorale singolarmente vuota di contenuti, sottotono, quasi al cloroformio. Da qui la reazione scomposta del segretario del Pd toscano (il brutale Dario Parrini), il quale si è ben guardato dal rispondere nel merito, ma ha accusato la Marson di «infelici speculazioni elettorali» (e non si capisce a pro' di chi, visto che la Marson non è candidata né sostiene alcuna lista). Ma è stato Enrico Rossi a rilasciare la dichiarazione più inquietante: «Il Piano è mio, Marson può stare tranquilla». No, caro Rossi: il Piano non è tuo. È dei toscani, è degli italiani. E dopo il «ghe pensi mi» berlusconiano, e l'uomo solo al comando renziano, in tanti speravamo proprio di non sentirti mai dire una cosa del genere.
Il programma elettorale del Pd toscano è #paesaggiostaisereno. Toscani avvisati, mezzi salvati
Siamo tutti annichiliti dalla bestialità con cui l'Is distrugge lo straordinario patrimonio culturale dei territori che conquista. È probabilmente dalla Seconda Guerra Mondiale che l'umanità non perde monumenti così importanti.
Corriere della Sera Lombardia, 27 maggio 2015, postilla (f.b.)
Da 22 mila vetture in transito domenica 16 maggio, primo giorno, alle 43.500 di picco registrato venerdì. La Teem fa il botto e dopo una settimana già mostra i suoi effetti: Tangenziale Est liberata e più 35 per cento sulla Brebemi. Partenza col botto, per la Teem: inaugurata sabato 16 maggio, è già arrivata a una media giornaliera di 40 mila veicoli che scelgono il suo asfalto e migliora via via, dando ossigeno anche alla Brescia-Bergamo-Milano. Autostrada, quest’ultima, che a un anno di vita dava ancora risultati deludenti e adesso forse prende la strada del riscatto: le ultime statistiche descrivono un aumento di traffico del 35 per cento. Risultati sopra le attese per entrambi i tracciati. La nuova Tangenziale est esterna — che collega la A4 ad Agrate e la A1 a Melegnano — puntava a 25 mila-28 mila vetture nei primi mesi e 55 mila da settembre in poi. Mentre l’obiettivo di Brebemi, che sta per inaugurare anche la bretella di collegamento tra l’area del cremasco e Romano di Lombardia (in provincia di Bergamo) era di 28 mila (dagli attuali 20 mila veicoli), con prospettiva di arrivare a 40 mila a fine 2016, se verrà completato il tratto verso Brescia.
L’area metropolitana
La sfida, per Teem, è chiara: decongestionare il traffico Est-Sud della Grande Milano intercettando i flussi di auto dell’anello più interno. Resta solo un’incognita, quella dei costi: le tariffe, come per l’autostrada che attraversa la bergamasca, sono più alte (5 euro la media «scontata», contro i 3,euro 6 della «vecchia» Tangenziale Est). E gli utenti, che per la maggior parte pagano con il Telepass, visualizzeranno la sorpresa a fine mese. Il gioco, per loro, varrà la candela? Ovvero: la maggior spesa sarà compensata dal guadagno in termini di tempo (e carburante)? I conti sono presto fatti: la vecchia autostrada, spesso congestionata, ha una percorrenza di 25-60 minuti; la nuova dovrebbe garantire lo stesso tragitto in meno di un quarto d’ora. Da qui devono partire le considerazioni. Soddisfazione, tutto sommato, per le aziende. Ma per la massa dei pendolari, principale mercato cui si rivolge la struttura? I prezzi più alti, dopo la prima fiammata, scoraggeranno gli automobilisti e avranno la meglio sui tempi di percorrenza più veloci? Il rischio c’è. Remoto però, sostiene più d’uno: si pensi all’Alta velocità ferroviaria (costi triplicati rispetto al treno ordinario, eppure linee sempre affollate).
Le analisi economiche
«È una boccata d’ossigeno per la Brebemi. Una risposta ai suoi detrattori e ai catastrofisti che in questi mesi parlavano di opera inutile», si è lasciato andare a questi primi dati l’assessore regionale alle Infrastrutture e Mobilità, Alessandro Sorte. E parole soddisfatte arrivano anche dal presidente della società inaugurata nel luglio 2014, Francesco Bettoni: «Siamo finalmente nel sistema autostradale nazionale, i dati sono estremamente positivi. Aumentano sia le auto sia i furgoni e i camion. E cresceremo ancora — è l’auspicio del manager — con l’apertura delle prossime interconnessioni. Ecco la lungimiranza del progetto Regionale di ridefinizione del sistema autostradale lombardo. A tutto vantaggio della qualità della vita per chi nel territorio vive e lavora, della sicurezza, e della competitività delle piccole e medie imprese che si trovano a sud est di Milano».
Inaugurata nel primo weekend con 22 mila veicoli, la Teem venerdì — giorno strategico anche per BreBemi — ha toccato un picco a 43.500, per poi scendere a 41 mila lunedì. Un veicolo su quattro, si calcola, è camion, furgone o tir. Per Brebemi, che conta sui sette giorni una media di 20 mila veicoli (14 mila nei fine settimana), era partita con un più 10 per cento già sabato 16 maggio. Poi, anche per lei, lo sprint: più 35 per cento. E il flusso potrebbe diventare più consistente se, come da piano, agli impiegati e ai professionisti diretti a Milano si uniranno artigiani e piccoli imprenditori.
Sui social network
Fino a dieci giorni fa tra la Brescia-Bergamo-Milano e Teem era aperto solo il cosiddetto «arco», per convogliare il traffico verso le nuove superstrade Paullese e Cassanese. Ora, l’alternativa alla «vecchia» tangenziale c’è. Realizzata in 32 mesi, nei tempi previsti, e con 2,2 miliardi di spesa, da soggetti privati, in particolare il gruppo Gavio e Intesa San Paolo, Teem oltre al tracciato principale prevede 38 chilometri di strade provinciali e comunali e altri 30 di piste ciclabili. La pubblicità, per ora, corre solo sulle emittenti locali e sulle radio. Nessun gran battage. Ma c’è il passaparola. E ci sono i social network. Su Twitter, il topic Teem è balzato in pochissimi giorni tra i primi cinque su scala nazionale.
postilla
Evaporate nel nulla, le sprezzanti critiche al sistema autostradale lombardo promosso (e spudoratamente rilanciato) dal governo locale di centrodestra? Perché come prometteva qualche mese fa Roberto Maroni, dopo aver inaugurato il tentennante segmento di Bre.Be.Mi. tanto ridicolizzato per le corsie deserte, la rete deve entrare a regime per funzionare. In questa logica, ovviamente perversa ma tant’è, tutto si tiene: centralità dei trasporti privati su gomma, e relativo «sviluppo del territorio» il quale sviluppo per inciso rafforza i poli di attrazione per il medesimo traffico, attirandone di nuovo. E figuriamoci se, come nelle implicite premesse, l’anello esterno completo accennato da Pedemontana, Teem, Magenta-Malpensa e dal vagheggiato segmento da Melegnano attraverso Binasco dovesse «entrare a regime» pure lui. In sostanza, nella famosa logica della Città Infinita avremmo un compatto (in senso edilizio) comune allargato di Milano con diversi milioni di abitanti, invivibile, insostenibile, ma perfettamente in linea con quel «trionfo della città» alla Edward Glaeser, che si legge nei bilanci economici. In tutto questo, al momento, pare tacere il pensiero progressista: che dicono ad esempio i partiti del centrosinistra, o se è per questo della sinistra sinistra? Nebbia in val padana (f.b.)
Ieri ha tagliato l’ultimo nastro a Como, per la consegna di 2,4 chilometri della nuova Tangenziale, felice come una pasqua. Qualche giorno fa, il 16 maggio, nell’annunciare il maxi piano di 37 opere prioritarie per la mobilità – dove, di nuovo, le autostrade fanno la parte del leone – ha buttato lì la battuta da bauscia, davanti al ministro Del Rio: «Visto che le cose le sappiamo fare e rispettiamo i tempi previsti ci candidiamo a realizzare altre grandi opere, come magari la Salerno-Reggio Calabria». Roberto Maroni è preda del demone autostradale.
Ovvero di quell’idea nefasta, nonché obsoleta, che il progresso di un territorio si misuri nella quantità di chilometri e corsie a disposizione del traffico privato. Il governatore leghista non ha dubbi in proposito. Anche se l’ultima creatura del partito autostradale lombardo, la sciagurata Brebemi, ha le corsie vuote e il bilancio spaventosamente in rosso. Anche se è un flop colossale costato già alle casse pubbliche 300 milioni di euro (denari della Regione dello Stato per evitarne il fallimento, appena nata), Maroni scrolla le spalle e va avanti. Il maxipiano sulle infrastrutture presentato al governo è, a proposito, un documento impressionante quanto a protervia e incapacità di visione, e di conseguenza di programmazione, sul futuro della Lombardia. Maroni batte cassa al governo per asfaltare tutto l’asfaltabile. Di più: ripresenta come opera prioritaria la più inutile e avversata delle autostrade programmate in Lombardia, la leggendaria Broni-Mortara.
E si permette di chiedere al governo di «favorire una positiva conclusione della procedura d’impatto ambientale nazionale in corso al ministero dell’ambente ». Ovvero di interferire in una procedura tecnica, cosa che un governo degno di questo nome non dovrebbe mai fare, oppure – si dovrebbe dedurre – di tacitare i noiosi oppositori della “grande opera” (praticamente tutti, da Broni a Mortara) con qualche compensazione economica. Non basta, perché se la Broni- Mortara è la più inutile autostrada dell’ Occidente, al secondo posto ecco la Cremona-Mantova. Qui, in qualche modo, l’indemoniato Maroni addirittura si supera. Perché uno dei capi della protesta contro questa “highway” della Bassa, che taglierebbe per oltre 80 chilometri una campagna straordinariamente produttiva, e ancora non sconciata, è nientemeno che il suo assessore all’agricoltura Gianni Fava.
Quarantasetteanni, leghista della prima ora, piccolo imprenditore di Viadana, deputatodimessosi per fare l’assessore con Maroni, Gianni Fava dichiara che per fare laCremona-Mantova «dovranno passare sul mio cadavere. Ho detto basta al consumodi suolo per opere inutili e la Cremona- Mantova lo è». Quel che appare certo èche Maroni nemmeno si è preoccupato di chiedere un parere ai suoi. D’altrondela testardaggine del presidente per le autostrade è tale da far pensare chenemmeno si sia accorto, ad esempio, che nelle prime tre settimane di Expo ivisitatori siano andati a Rho-Pero in metrò, treno, pullman, moto e persinobici. E praticamente mai in auto. E che nemmeno si sia accorto che in Italia,in Lombardia e a Milano si vendano e si usino sempre meno automobili. Persinomeno che nel resto d’Europa, dove hanno smesso da un pezzo di sognare nuoveautostrade.
La Repubblica, 24 maggio 2015
Sono parole che ci hanno fatto pensare che Pompei fosse un’”emergenza” (magari per giustificarne il commissariamento da parte della Protezione Civile) o un «tesoro» (che potesse legittimare faraonici progetti di luna park dell’archeologia, e speculazioni di ogni tipo). Trovare altre parole per Pompei è urgente: tanto da far accogliere con grande favore persino una mostra, nonostante che il desiderio di una moratoria assoluta delle esposizioni si faccia acutissimo nel momento in cui tonnellate (letteralmente) di opere d’arte vengono irresponsabilmente tradotte al gran bazar dell’Expo.
Ma «Pompei e l’Europa» è un’altra cosa. Perché dietro c’è un solido progetto culturale e scientifico: un primo frutto intellettuale del governo affidato al generale Giovanni Nistri (direttore del Grande Progetto Pompei) e all’archeologo Massimo Osanna, soprintendente e ora curatore di questa mostra insieme alla storica dell’arte Maria Teresa Caracciolo e allo storico dell’architettura Luigi Gallo.
La mostra non vuole sciorinare i “capolavori” restituiti dalla terra che copriva Pompei, né esserne una sostituzione, un succedaneo commerciale da far girare per il mondo (come è invece accaduto anche molto di recente). È, invece, un invito a ritornare nelle strade della città antica, o ad andarci per la prima volta: ma vedendola attraverso gli occhi dei pittori, degli architetti e degli scrittori europei che la amarono dal tempo della sua scoperta, alla metà del Settecento, fino al terribile bombardamento del 1943. Nel 1839 l’architetto tedesco Johann Daniel Engelhardt affermava che «un giovane architetto dovrebbe assolutamente visitare Pompei, anche se questa si trovasse in Giappone». Visitare la mostra significa ritrovare le parole con cui l’Europa, per due secoli, ha parlato di Pompei: per poterle ritessere in un discorso nuovo.
La prima di queste parole è «contesto». Nel 1747 fu il grande antiquario veronese Scipione Maffei a intuire perché la scoperta di Pompei fosse un evento fuori scala: «O qual grande ventura de’ nostri giorni è mai che si discopra non uno ed altro antico monumento, ma una città!». Riavere Pompei significava conoscere l’antichità non attraverso una somma di oggetti disparati, ma poter camminare, respirare in una città antica “resuscitata”. Ci volle un secolo, e il genio di Giuseppe Fiorelli, perché questo diventasse possibile: ma intanto Pompei aveva fatto capire che il patrimonio culturale è una rete di relazioni che va conosciuta tutta intera. Quando, cinquant’anni dopo, Napoleone smontò il contesto vivo dell’arte italiana per portarne il fior fiore al museo imperiale del Louvre, un grande intellettuale francese — Antoine Quatremère de Quincy — gridò che «il paese stesso è il museo... senza dubbio non crederete che si possano imballare le vedute di Roma!». Era la lezione di Pompei: una lezione che oggi abbiamo dimenticato.
La seconda parola, tutt’altro che banale, è «conoscenza». Di fronte alle lettere in cui il grande Winckelmann denunciava gli errori delle autorità napoletane, tutta l’Europa colta — la Repubblica delle Lettere, come si diceva allora — rivendicò la sovranità della conoscenza contro quella giuridica della dinastia borbonica: Pompei apparteneva a tutti coloro che la volevano conoscere. Ancora oggi è urgente chiedersi “di chi è Pompei”, e ancora oggi è rivoluzionario rispondere che è di chi la studia, aprendone a tutti la conoscenza.
Un’altra parola terribilmente urgente è «lavoro». Il 20 dicembre del 1860 il grande soprintendente Giuseppe Fiorelli (l’inventore del nuovo metodo per ottenere i celeberrimi calchi dei corpi dei pompeiani: calchi restaurati, e resi nuovamente visibili, in occasione della mostra) annota di aver scritto ai «sindaci dei comuni vicini, onde tutte le persone bisognevoli di lavoro fossero inviate agli scavi, riservandomi di determinare il numero dei lavoratori». Quella era la manovalanza degli scavi: ma quanto lavoro — a partire da quello per i nostri famosi cervelli in fuga — potrebbe oggi dare una Pompei che torni ad essere una città aperta della ricerca!
Potrà sorprendere, ma un’ultima parola che scaturisce dalla città morta è «politica». Nel 1848 «i custodi delle rovine di Pompei, usati a vivere taciturni tra gli squallidi avanzi di un popolo che da 18 secoli è scomparso dalla terra, hanno ivi giurato fedeltà al Re e alla costituzione con un grido che rimbombando fra queste solitudini troverà un’eco nel cuore di tutti gli italiani, della cui antica gloria, potere e indipendenza qui gelosamente conserviamo molte sacre reliquie».
Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2015
Sabato mattina intorno a Castel Sant’Angelo a Roma: mucchietti di spazzatura dispersi dai gabbiani, pantegane che saltellano e spaventano i passanti, gazebi sventrati e non ancora smontati. Per sei giorni e sei notti, le mastodontiche tribune per inaugurare la Mille Miglia hanno occupato oltre mille metri quadri in un luogo che è tappa obbligatoria per i turisti. Nonostante la rievocazione della mitologica corsa sia finanziata da multinazionali col fatturato miliardario (Mercedes, Banca Ubi, Alfa Romeo), la società ha saldato un conto più che modesto: 14.100 euro. Il sindaco Ignazio Marino ha ottenuto in assemblea un aumento tariffario, ma ancora il prezzo è molto abbordabile e accessibile per eventi
meno blasonati del transito di macchine d’epoca. Con Gianni Alemanno, per lo stesso periodo, Mille Miglia ha lasciato una mancia di 2.553 nel 2013. Marino ha ricalibrato le tariffe per sedare la polemica dopo lo scandalo degli 8.000 euro chiesti ai Rolling Stones per il concerto al Circo Massimo. La questione non è soltanto ospitare e chiedere un obolo per le Mille Miglia, ma garantire poi la pulizia e il decoro per i turisti. Non è accaduto. Quest’episodio non è l’ultimo e neanche il più eclatante: è l’Italia intera, dagli scavi di Pompei al museo degli Uffizi, a mettersi in affitto per custodire l’immenso patrimonio culturale che viene ignorato dai governi. Per restare ancora a Roma, però, va citata la moda degli
“aperitivi archeologici”. Esiste un portale che, per circa venti euro, propone ai turisti assaggi di cucina locale nei luoghi più suggestivi (e vincolati) di Roma, niente coratella o pajata, bensì stuzzichini che si possono consumare nei sotterranei domiziani di Piazza Navona, nella rinascimentale Cappella del cardinale Bessarione o nei ruderi romani al Celio.
Il circus Agonalis, lo stadio di Domiziano che risale al I secolo, fu restaurato da un mecenate che donò 1,5 milioni di euro al Campidoglio dell’allora sindaco Gianni Alemanno e così, per nove anni, lo gestisce come se fosse di sua proprietà.
La cappella e i ruderi, invece, ricadono nella giurisdizione della sovrintendenza: anche lì s’è preferito adibire i siti per visite e spuntini. Sui tavoli della chiesetta di piazza Santi Apostoli, che ospita dipinti del ’400 e conserva impronte bizantine, gli avventori possono trovare la famosa “torta alla bisbetica” che forse piaceva al cardinale. Chissà. Sempre venti euro a coperto. Ai privati. Non al pubblico, non per le casse dello Stato che mette in affitto se stesso.
I beni culturali pubblici possono essere “prestati” ai privati per merito della legge Ronchey del 1993 e del Codice dei beni culturali (2004). “Il ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali – si legge – possono concedere l’uso dei beni culturali che abbiano in consegna, per finalità compatibili con la loro destinazione culturale, a singoli richiedenti”. Unica condizione: un “canone dovuto”. Quali siano “finalità compatibili” e “canone dovuto”, si decide di volta in volta. Per esempio, sabato 29 giugno l’allora sindaco Matteo Renzi concesse per un’intera serata il Ponte Vecchio di Firenze alla festa privata della Ferrari. In cambio – disse – di 120 mila euro. Anche stavolta l’erede Dario Nardella ha aumentato le tariffe per l’occupazione delle aree di interesse artistico (il costo giornaliero per metro quadro per alcune piazze storiche di Firenze è quintuplicato). Il comune ha anche reso pubblico il tariffario dettagliato dei suoi pezzi pregiati. Per organizzare un concerto nella galleria degli Uffizi, per esempio, servono 15 mila euro, per presentare un libro nello splendido museo di Orsanmichele ne bastano appena 500, mentre un convegno nella Sala Bianca della Galleria Palatina costa 2 mila. Altrove i prezzi non sono noti. Ma si affitta di tutto. Nell’estate del 2013, l’anfiteatro di Pompei è stato concesso per la modica cifra di 20.000 euro alla cena degli agenti di Fondiaria Sai. L’estate successiva la villa di Poppea di Oplontis – stessa area archeologica – è stata “prestata” a un’azienda privata per una festa con 2 mila invitati. Prezzo? Appena 5.000 euro. Il tariffario – conferma la Soprintendenza – nel frattempo non è cambiato.
Non è cambiato nemmeno quello dell’area archeologica di Segesta: il tempio del V secolo a.C. è stato concesso per alcune serate a un gruppo di facoltosi privati statunitensi. Prezzo, anche qui: 5 mila euro a sera. Il direttore Sergio Aguglia promette una gestione più sobria: “Tendenzialmente non lo concediamo”. Ma “tendenzialmente” la tariffa resta quella. Nord, centro e sud. Si affitta ovunque: il Castello mediceo di Ottaviano, ex feudo del boss Raffaele Cutolo,oggi si apre a matrimoni e mercatini invernali, i musei della Fondazione Torino – si legge sul sito – mettono a disposizione di tutti “angoli di charme per momenti indimenticabili”. E ancora: la Reggia di Venaria, la Villa Reale di Monza e così via. Basta aprire il portafogli.
Con tutte le particolarità di una visione specifica e professionale, anche il gruppo responsabile dell’idea di Orto Planetario stronca la «filosofia» BIE dell’evento, del supermercato globale La Repubblica Milano, 19 maggio 2015
Ancora insieme, come all’inizio dell’avventura. Quando Jacques Herzog, l’architetto che con il suo studio Herzog & De Meuron ha firmato progetti in tutto mondo, e Carlo Petrini, il maestro del gusto e del legame con la terra e la sapienza contadina, vennero chiamati per “inventarsi” una nuova Expo. Entrambi, nel tempo, hanno preso le distanze dall’evento. Ma le loro strade sono tornate a incrociarsi anche con quelle dell’Esposizione. Lo hanno fatto nel padiglione di Slow Food, che Herzog ha plasmato realizzando in qualche modo il suo piano originario per tutte le strutture dei Paesi. Un sogno che non si è realizzato. Lì, insieme al commissario Giuseppe Sala, oggi inaugureranno lo spazio. Ripartendo dal valore della biodiversità.
Lei è uno degli architetti che ha firmato il primo masterplan di Expo: riconosce ancora le sue idee nel progetto?
«Il nostro masterplan era basato su due elementi. Il primo: l’estrema semplicità del concept urbanistico, un giardino planetario strutturato come la griglia di un’antica città romana, con il cardo e il decumano come riferimenti spaziali per tutti i padiglioni e gli eventi. Il secondo: una visione per riuscire a reinventare il concetto di Esposizione mondiale: invece di avere forme individuali, i padiglioni dei Paesi avrebbero dovuto essere strutture temporanee standardizzate. Avrebbero dovuto differenziarsi attraverso i contenuti, non attraverso queste ridicole capriole architettoniche che si possono trovare in qualsiasi rivista di design. La prima parte è stata realizzata, perché il cardo e il decumano sono la spina dorsale urbanistica, ma la seconda no. Questo significa che la vera visione dietro il nostro masterplan, il ripensamento radicale di Expo, non è stata portata a compimento».
Nel 2011 ha deciso di lasciare Expo. Perché?
«Abbiamo lasciato proprio perché a questa idea radicale non è stata data un’opportunità. Le Esposizioni sono un format datato e piuttosto noioso, la loro innovazione culturale, tecnica e politica è scaduta con la fine della modernità, intorno al 1960. Da quel momento sono diventate puro intrattenimento e uno spreco di soldi e risorse. Ma il tema di questa Expo che ruota attorno a come nutrire il pianeta era davvero una fantastica opportunità per rompere le regole e innovare il concetto stesso di Esposizione mondiale: ogni Paese partecipante avrebbe avuto uno stesso “peso” e sarebbe stato percepito solo attraverso il proprio contributo alla sfida di produrre cibo in modo sostenibile a livello mondiale».
Il suo giudizio sugli organizzatori?
«Non vogliamo accusare gli organizzatori e i progettisti di Expo per questa occasione mancata, semplicemente perché non abbiamo ancora capito perché e chi ha bloccato questa iniziativa. La politica? Gli interessi commerciali? Onestamente, non lo so. Le forze dietro la routine sono state ovviamente più forti dell’energia necessaria a lavorare in una direzione contraria».
Pensa che questa Expo sia differente da quelle del passato?
«Probabilmente no».
Fin dall’inizio ha detto che l’incontro con Carlo Petrini è stato l’unico momento ispiratore sul versante dei contenuti. È per questo che ha deciso di disegnare il padiglione di Slow Food?
«Sì, Carlo Petrini è un uomo molto interessante, un ispiratore. Inoltre, è in grado di mettere il gusto del cibo come concetto base della sua filosofia, cosa che apprezzo molto. Slow Food è ovviamente in forte conflitto con le grosse compagnie dell’agroalimentare. Io non sono per niente ideologico su questo argomento, ma è uno degli interessanti potenziali di questa Expo: avere la possibilità di discutere differenti concetti controversi della produzione agricola. Carlo Petrini e Slow Food ci hanno chiesto di progettare il loro spazio. Abbiamo accettato perché ci piaceva il contenuto, la loro volontà di riutilizzare la struttura. Abbiamo potuto realizzare quel genere di padiglione prefabbricato e standardizzato che in origine avevamo pianificato per tutti i Paesi e i partecipanti di Expo».
Vedi anche La trappola filosofica di Expo Theme Park
«Gli 11 chilometri del litorale romano soffocano tra stabilimenti e strutture fuorilegge, inclusi i parcheggi di Esercito e Finanza. Ma l’assessore alla legalità della capitale, l’ex pm Sabella, annuncia il via libera all’iter per revocare le licenze». La Repubblica, 18 gennaio 2015
È il corpo di reato più lungo di Roma, 11 chilometri e 300 metri. Fatto di cemento, a tratti è decorato da un filo spinato come le torrette delle prigioni. Dietro il grande muro di Ostia c’è un mare che non si vede mai.
È sempre troppo alto o sempre troppo grosso, impasto di calcestruzzo e malaffare, questo recinto senza fine l’hanno tirato su corrompendo e calpestando leggi, decreti, normative, codici, regolamenti. Un muro che è diventato deposito di illeciti accumulati nel tempo con il silenzio complice di giunte, vigili urbani, presidenti e consiglieri municipali, uffici tecnici e giudiziari. Sono abusivi perfino i parcheggi di Esercito e Finanza. Abusiva è la Caritas nell’ex colonia fascista per bambini Vittorio Emanuele, abusiva è la moschea, i chioschi, la grande libreria al Pontile della Vittoria, abusive sono birrerie e paninerie, palestre e scuole di danza. Tutto sprofonda sul mare e nel mare di Ostia. E tutto è appuntato e protocollato nelle carte del Comune di Roma.
Eccolo il grande muro circondato da quella che è una città nella città, un bastione che ci ricorda con le sue vedette sul territorio e le sue sanguisughe la Brancaccio palermitana degli anni ’80, con i suoi roghi la Gela degli anni ‘90, con la sua paura certi paesi della Calabria di oggi. Ma Ostia è solo Ostia, costola di Roma Capitale e di Mafia Capitale, sfregiata e sottomessa ai padroni del lungomare che l’hanno fatta brutta. Per non far bere l’acqua dalle fontanelle qualcuno le ha interrate, così la minerale si compra per forza nei loro bar. Undici chilometri e 300 metri e il mare lo devi sempre immaginare, c’è ma è oltre quella case e quei casotti a volte colorati e a volte grigi, incastrati uno all’altro che sottraggono alla vista sale da gioco e cabine trasformate in mini residence (antenne satellitari e condizionatori e bombole di gas nei box de Le Dune per cambiarsi un costume?), gabbie di ferro, cubi, lussi e volgarità architettoniche che si mischiano, 11 chilometri e 300 metri dove a ogni passo si inseguono sempre gli stessi nomi. Quelli dei Fasciani, degli Spada, dei Triassi, usura e ricatti, droga e delitti. E quelli dei Balini e dei Papagni, gli affaristi più presentabili, porto e lidi, appalti e poltiglia politica.
Ostia di Levante e Ostia di Ponente, 100 mila abitanti che diventano mezzo milione quando è estate, un lungomare che comincia alla rotonda e finisce dove - sempre chiuso con catene – c’è il cancello del parco che ricorda il luogo dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Ecco il Kursaal con il suo famoso trampolino, l’Hibiscus Beach, poi gli storici stabilimenti come il Battistini e poi ancora l’Hakuna Matata affidato in gestione dal presidente del porto Mauro Balini a Cleto Di Maria, uno che vent’anni fa l’hanno preso in Brasile con un carico di stupefacenti. Ecco il chiosco delle suore di Vito Triassi, il Village che era dei Fasciani, un po’ più indietro l’Orsa Maggiore dove erano soci gli Spada. Sono 71 gli stabilimenti, uno per uno censiti in queste settimane dall’assessore alla legalità del Comune di Roma Alfonso Sabella, voluto dal sindaco Ignazio Marino commissario ad Ostia dopo i primi scandali. Il quartiere generale di Sabella, magistrato del pool antimafia di Palermo con una spiccata attitudine nella caccia ai latitanti, è in una delegazione sulla strada verso la tenuta presidenziale di Castelporziano che ha una sigla apparentemente incomprensibile (Uoal, Unità organizzativa ambiente litorale) dietro la quale sono nascosti gli interessi più indicibili di Ostia. L’anno scorso, a ottobre, qualcuno ha dato fuoco ai locali per ridurre in cenere i documenti che registrano ufficialmente gli imbrogli. Sabella quei documenti li ha recuperati, fotocopiati e inviati a una ventina di destinatari. La prudenza non è mai troppa. Dice: «Ormai solo Nerone, incendiando tutta Roma, potrebbe farli sparire».
Lungomare Amerigo Vespucci, lungomare Lutazio Catulo, lungomare Duilio, di fronte a Le Dune di Paolo Papagni c’è quel capolavoro che è il Polo Natatorio costruito per i Mondiali di Nuoto del 2009, progettista Renato Papagni, fratello di Paolo e presidente di Federbalneari. È un altro ammasso di cemento costato tre volte in più di quanto doveva costare (13 milioni di euro), le piscine sono 5 cm in meno di quelle regolamentari. Possono fare tutto certi personaggi qui ad Ostia. I Papagni e poi quegli altri come Mauro Balini, uno immerso – testuale dall’ordinanza di custodia cautelare di una delle tante operazioni antimafia ad Ostia, «in un ambiente economico finanziario inquietante ». Balini tratta con i signorotti locali e con colossi come le coop rosse. Un piede di qua e uno di là, commercio clandestino e buone entrature per gli affari che contano.
Nella città della città dove il mare non si vede mai ci spingiamo fino nel regno degli Spada, piazza Gasparri, via Forni, via degli Ebridi. Intorno tappezzerie e bische che passano di mano in mano, la comparsa di un certo Armandino che alza le corna per comandare, il traffico di compravendita di case popolari curato da Salvatore I, gli Spada «cucinati » che insultano via Facebook, la ciurma che inneggia sempre ai «miti» vivi o morti di questa Ostia lercia, nomi di battaglia «Baficchio» e «Cappottone », «Maciste», «Sorcanera». E voci che si accavallano. Come quelle su alcuni funzionari dell’ufficio tecnico – ce le racconta uno del ramo molto informato – che hanno un tariffario estorsivo: 300 euro per un inizio lavori per un tramezzo, 1000 euro per sanare una veranda, 10-15 mila euro per avere la licenza di costruzione di una villetta. Il muro di Ostia non finisce mai.
La Repubblica Milano, 17 maggio 2015, postilla (f.b.)
Alleggerire l’anello trafficato più vicino alla città. É la sfida lanciata dalla Tangenziale Est esterna di Milano, inaugurata ieri. Trentadue chilometri tra Agrate Brianza e Melegnano, 2,2 miliardi (dei quali 330 milioni pubblici), la Teem scommette di attirare 55mila auto. Automobilisti che vanno convinti, però, a spendere almeno 4,76 euro, il 50 per cento in più rispetto a oggi, e non è banale. Solo così la nuova superstrada non rischierà di fare la fine della Brebemi. «Un esempio di opera senza ritardi né sprechi», definisce la Teem il ministro alle Infrastrutture, Graziano Delrio. È proprio a lui che il governatore lombardo Roberto Maroni ha consegnato ieri un dossier per chiedere a Roma impegni soprattutto finanziari per tutte le 37 infrastrutture che la Regione vuole realizzare nei prossimi anni. Ci sono le tre tratte ancora scoperte della Pedemontana e un raccordo per la Brebemi, ma anche progetti meno noti come la Cremona-Mantova e la Varese- Como-Lecco. In tutto, si chiedono finanziamenti e impegni per 320 chilometri di nuove autostrade, senza contare le corsie in più da aggiungere a quelle già esistenti e arterie più locali. Autostrade, ma anche potenziamenti ferroviari e persino interventi per migliorare la navigabilità del Po. Per gli ambientalisti è «un libro dei sogni che non è sostenibile economicamente, non si giustifica sotto il profilo trasportistico e dannoso per l’ambiente: va privilegiata la mobilità ferroviaria».
Ci sono i completamenti di opere già avviate, che altrimenti resterebbero per buona parte incompiute: è il caso delle tre tratte della Pedemontana che da sole valgono 44 chilometri su un totale di 67 di tutta l’infrastruttura. Ma anche progetti tutti nuovi, per i quali non c’è un euro stanziato, sono poco noti e quindi via con la corsa a batter cassa al governo: è il caso della Cremona- Mantova e della Varese-Como-Lecco. Nel dossier consegnato al governo, la Regione chiede a Roma finanziamenti e impegni per accelerare l’approvazione di 320 chilometri di nuove autostrade. Ci vogliono miliardi. In tutto, una lista di 37 progetti, non solo d’asfalto, che si punta a realizzare in Lombardia nei prossimi anni.
Il governatore lombardo Roberto Maroni ha approfittato della visita, ieri, del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio per consegnargli la lista dei desideri delle opere che vorrebbe realizzare o portare a termine in Lombardia. Autostrade, ma anche potenziamenti ferroviari e persino interventi per migliorare la navigabilità del Po. «È uno strumento programmatico - spiega Maroni - che sintetizza tutte le opere che vanno completate o realizzate in ambito viario a cominciare dalla Pedemontana, nel campo ferroviario e in quello della navigazione». Ma cosa c’è dentro le 45 pagine di dossier? In cima la Regione batte cassa per i 44 chilometri previsti per finire la Pedemontana, le tratte B2, la C e la D fino a Osio Sotto. Non solo. Sempre nello stesso territorio ci sono da completare anche la tangenziale di Varese (6 chilometri per 340 milioni) e quella di Como, il cui progetto negli ultimi mesi è stato rivisto e dovrebbe costare meno (si spera) dei 690 milioni inizialmente previsti per seimila metri d’asfalto. C’è spazio anche per la Brebemi,nel dossier a Roma. Dopo l’iniezione di 300 milioni di denaro pubblico per salvare i conti di un’opera che doveva essere l’esempio del project financing puro ma tant’è, aperta meno di un anno fa e sottoutilizzata, si torna a chiedere altri impegni: per dare ossigeno alla strada mezza vuota, ora è il turno di un nuovo raccordo autostradale con la A4 a Brescia Castegnato. Anche qui, milioni sul piatto.
Ma nell’elenco del Pirellone ci sono anche progetti nuovi dei quali poco si parla e dei quali non tutti proprio convidono l’utilità. C’è l’autostrada regionale Cremona-Mantova, 60 chilometri «per alleggerire la A4 verso l’Adriatico» ma anche i 37 chilometri per la Varese-Como-Lecco per meglio collegare la fascia pedemontana (e la Pedemontana?), ma si legge, anche per «meglio collegare Malpensa con la rete autostradale nazionale ». Non solo. Nuove autostrade ma anche nuove corsie, come per la Milano-Meda, la quarta per la Tangenziale Ovest e la Milano- Lodi. Oltre a nuove strade «della rete viaria complementare», come una tranche della Tangenziale Ovest Esterna così osteggiata dal territorio che il progetto oggi (mai finanziato) si è rimpicciolito nella Magenta- Abbiategrasso-Vigevano. Ce n’è davvero bisogno di nuovi 320 chilometri solo di autostrade? Gli ambientalisti parlano di «libro dei sogni senza corrispondenza con la realtà - critica Dario Balotta, esperto di trasporti di Legambiente - . L’unica opera che serve davvero sarebbe una vera tangenziale Nord da Agrate a Pero, tutto il resto è contorno inutile. Non è bastato il flop della Brebemi e il primo mezzo flop dell’arco Teem con soli 8mila passaggi al giorno? Nell’anno dell’Expo quando si prende atto che non c’è più suolo necessario per i beni primari, insistiamo su un capitolo chiuso da anni in tutta Europa anzichè su snellire i “colli di bottiglia” del traffico».
Secondo gli ambientalisti insomma questo dossier «non è sostenibile economicamente, non si giustifica sotto il profilo trasportistico e assolutamente dannoso sotto il profilo ambientale: la logica va capovolta». Più ragionevole sarebbe la parte dei rafforzamenti ferroviari. Dieci interventi su 37 richiesti, nemmeno un terzo. Da tempo è atteso il quadruplicamento della Rho-Gallarate, il terzo valico dei Giovi, il raddoppio della Milano- Mortara. Per il Pirellone «è necessario anche realizzare un intervento specifico su Orio al Serio, potenziando il nodo ferroviario di Bergamo- dice l’assessore lombardo Alessandro Sorte - . Va realizzata la linea Seregno- Bergamo e l’innesto sulla Bergamo-Treviglio. Serve il completamento della linea Malpensa-Lugano; il potenziamento della Rho-Gallarate e il quadruplicamento della Milano-Pavia, ma l’elenco non finisce qui». Chiude la lista, il Po, un generico «interventi per la navigabilità del fiume».
postilla
Visto che alla noia di chi legge si affianca ahimè anche quella di chi scrive, pare giusto e opportuno, davanti a questa specie di replica del dramma «Il Verme Trionfante» di Edgar Allan Poe, in cui si scambia la realtà per la rappresentazione, infilandosi in bocca al mostro, rinviare almeno a tre articoli scritti qualche tempo fa, e che già provavano a delineare a spezzoni il disegno. Si tratta, inutile dirlo, esattamente delle medesime opere e idee descritte dall’articolo, ma lette sullo sfondo dell’animalesco istinto che le sottende: rivolgersi al grande e piccolo elettore leghista-forzista, rancoroso e asserragliato dentro la villetta e in capannone, a loro volta dentro la maglia autostradale che tutto riassume. Ciò premesso c’è da chiedersi se abbia qualche senso parlare di mezzi pubblici come fanno alcuni, senza prima discutere il modello territoriale e ambientale. Comunque si provino a rileggere:
Cremona Mantova Express: un esperimento di federalismo asfaltato
I Capannoni della Zia T.O.M.
Bre.Be.Mi. e mutazione genetica (f.b.)
«Se non riuscite a dormire di notte per quello strano rumore che sale dalla strada, sappiate che è solo il fruscio del vostri soldi aspirati lontano». Così qualche anno fa il presidente di una associazione commercianti americana riassumeva a modo suo uno dei tanti impatti negativi dell’insediamento di un gigante big-box nel suo territorio. L’efficace per quanto assai parziale metafora, evidentemente un po’ troppo appesa per ovvi motivi alla corda del portafoglio e agli istinti localisti, coglieva però molto bene l’effetto risucchio-svuotamento da sempre caratteristico dell’insediamento commerciale suburbano, almeno sin da quando si era perfezionato il modello architettonico-urbanistico e il relativo modus operandi (di cui quel modello fisico è solo una delle tante conseguenze), che presiede le strategie degli operatori. Non è certo un caso se, quasi subito e contemporaneamente, circa a metà del XX secolo, il cosiddetto inventore dello shopping mall introverso moderno, l’architetto Victor Gruen, cercava in un articolatissimo saggio sulla Harvard Business Review di uscire dalla trappola in cui in pratica si era cacciato da solo, proponendo di spostare il medesimo metodo alle aree urbane, che ne sarebbero così state beneficiate non solo riequilibrando i conti col suburbio, ma anche innestando virtuosi processi di riqualificazione. Il povero Gruen con tutta la sua innocente boria da progettista demiurgo di era razionalista, ma allevato da sempre nel vivaio degli interessi commerciali, non aveva proprio capito il suo vero contributo allo scatenamento del mostro-aspiratutto territoriale.
Il parco a tema fiera della pappatoria moderna
Venendo ai nostri giorni, in effetti pare adesso un po’ esagerato stupirsi per l’effetto risucchio, e di proporzioni piuttosto giganti, che sta avendo il sito Expo, sia sul tessuto socioeconomico della regione urbana milanese, sia sui temi fondativi dell’evento. Per provare strumentalmente una lettura «alla Gruen» proviamo a riassumere in poche battute la vicenda del piano urbanistico e tematico. In principio era l’Orto Planetario, proposto dal gruppo internazionale di architetti-urbanisti e in sostanza anche dal comitato scientifico, che avrebbe dato un senso coerente sia di contenitore all’area scelta e necessariamente dedicata agli eventi centrali (questo è da sempre il modus operandi delle esposizioni universali), sia di fatto qualificando il resto dell’area metropolitana, con le sue varie eccellenze ambientali e di produzione-proposta alimentare. In pratica pur accettando come era inevitabile le infinite spinte di interessi particolari che si focalizzano su un evento del genere, quel fare dell’area un puro contenitore di spunti culturali, magari marginalmente guarnito di servizi commerciali e non all’utenza, provava molto seriamente a evitare l’effetto aspirapolvere. Che invece, con le scelte piuttosto ottuse e speculatrici messe in campo sin dall’inizio e con premeditazione ultraconservatrice, sia da parte delle autorità locali di centrodestra che da parte del BIE («un orto di melanzane non interessa a nessuno» così riassumevano i giornali le dichiarazioni di un alto esponente), ha finito per prevalere. Oggi, come osserva anche da molto lontano certa attenta stampa internazionale, l’effetto lustrini e insegne sfavillanti tipico dei centri commerciali e dei parchi tematici suburbani, con le scelte architettoniche e urbanistiche messe in campo scatta inevitabile.
«Ascoltate il fruscio del temi Expo che vengono risucchiati lontano»
Ultimo piccolo ma significativo simbolo, di questa logica concentratrice micidiale imperante da retailtainment suburbano postmoderno, la decisione dell’ente di prolungare gli orari serali di apertura visto l’enorme successo delle attrazioni «secondarie» commerciali e spettacolari. Vivamente contestato dalle amministrazioni locali che ovviamente rappresentano gli interessi di tutte le altre attività analoghe, ovvero quelle che avevano considerato e considerano Expo e il suo sito dedicato alla stregua di un «volano», magari da manovrare a piacere. Per intenderci, un po’ come se Disneyland si facesse condizionare nelle sue scelte di fondo dall’associazione titolari di chioschi di bibite accampati tra i parcheggi, sempre che ne siano ammessi. Diciamo che stanti come stanno le cose, la posizione degli oppositori è analoga a quella dei preti e dei conservatori in genere, quando ritengono che le aperture domenicali dei negozi rubino clientela alle loro iniziative religiose o familiari tradizionali, e si lanciano in disquisizioni piuttosto ridicole sulla sacralità della festa (poi massicciamente smentite dalle preferenze della stragrande maggioranza della popolazione, che ha poco senso liquidare come ipnotizzata da compulsivo consumismo). Posto che questo è il pasticcio, sia funzionale che tematico, perché la stessa cosa vale anche per il dibattito sull’alimentazione del pianeta e la produzione agricola globale, ridotti a una specie di angolo o chiosco specializzato dentro il grande baraccone, va detto che esistono almeno due percorsi per provare almeno a esorcizzare il rischio peggiore.
Il parco a tema diffuso
Il primo passo sta proprio nel riconoscere che non aver davvero considerato – prima e poi – le vere potenzialità del progetto Orto Planetario, sia per il sito in sé che per le tematiche dell’evento, ha condotto quasi fatalmente alla situazione attuale. Che riproduce per filo e per segno le infinite vicende locali/globali della grande distribuzione-erogazione di servizi extraurbana, finendo per polarizzare spazi, polemiche, e mettendo in luce una spesso patetica guerra tra poveri, mentre i grandi interessi si fregano le mani disinteressandosi dei territori che stanno prosciugando. Una volta compreso questo errore di polarizzazione, che dovrebbe quantomeno indurre a riconsiderare anche in positivo tutto il successo mediatico del divertimentificio, sempre che si possa almeno un po’ integrare in quanto veicolo di divulgazione dei temi centrali, si tratterebbe di recuperare il metodo sotteso all’idea originaria, che considerava quel luogo, insieme all’idea dell’alimentazione globale, solo e coerentemente in funzione strumentale. Ovvero, scavalcata concettualmente la logica monofunzionale specializzata del polo di qualsivoglia eccellenza, per quanto apparentemente auspicabile, e recuperando il vero respiro almeno «locale» dell’idea di integrazione, seguire la logica strategica di chi per il dopo Expo prova a indicare qualcosa che va al di là dell’ennesima cittadella tematica (che su un altro piano riprodurrebbe risucchi analoghi). Ovvero, invece di un progettone pubblico-privato per valorizzare quel rettangolo tra le autostrade dove ora si celebra la fiera della pappatoria e della movida notturna internazional-popolare, svuotando di senso territorio e dibattito, un piano di scala metropolitana che pure senza schivare la questione di quelle aree ricomponga il complesso mosaico delle evoluzioni in atto. Senza negare che ci sono degli interessi belli grossi in campo e in gioco, ma mettendo sul tavolo delle trasformazioni e delle aspettative anche quella collettività, composta non dimentichiamolo anche dagli operatori piccoli, medi e grandi non monopolisti, sempre evocata oggi solo come pubblico pagante.
Riferimenti
Oliver Wainwrigh, Expo 2015: what does Milan gain by hosting this bloated global extravaganza? The Guardian, 12 maggio 2015. Le citate riflessioni vintage di Victor Gruen, piuttosto interessanti per conto loro, disponibili in italiano, nella sezione Antologia de la Città Conquistatrice, Il metodo del centro commerciale nella riqualificazione urbana (1954)
La Repubblica, 14 maggio 2015
Ma come ha fatto la Deposizione ad arrivare al nostro tempo sana e salva, attraversando centinaia di torride estati romane senza climatizzazione artificiale? Semplice: in quelle epoche si seguivano i principi elementari della conservazione, e le finestre della Borghese erano protette da pesanti imposte, sempre chiuse durante le ore di insolazione estiva. Imposte eliminate alla riapertura della Galleria nel 1997, quando tutto fu affidato all’impianto: se questo non funziona, Raffaello muore.
L’attuale direttrice, Anna Coliva, ha ripetutamente chiesto alla Soprintendenza di manutenere o sostituire gli impianti: invano. Evidentemente la priorità è l’organizzazione di mostre, spesso mediocrissime. Mentre i musei non si son mai visti conferire gli introiti dei loro biglietti, promessi un anno fa da Dario Franceschini: e ora non riescono più a fare nemmeno la manutenzione ordinaria. Nella fatale attesa che sia scelto il superdirettore previsto dalla riforma Franceschini, la Borghese fa capo al Segretariato regionale dei beni culturali, retto da Daniela Porro: la quale ammette che l’impianto «non ha mai funzionato» (aggiungendo che solo ora «si sta dando avvio alla sostituzione dei macchinari », anche se presto si dovrà pensare ad una «completa sostituzione dell’impianto»), e dichiara che in base al costante monitoraggio si è sicuri che, per ora, il colore non è saltato via dal legno. Per ora. Finché la manutenzione non passerà dall’annuncio alla realtà, tutte le tavole della Borghese sono in pericolo, e viene in mente il disastro di quelle della Galleria Sabauda di Torino: rovinate nel 2012 dal malfunzionamento della climatizzazione. Allora, Enrico Castelnuovo invocò un’«associazione per i diritti delle opere d’arte». Quell’associazione sarebbe il Ministero per i Beni culturali: se non fosse un corpo morente da anni, che rischia di ricevere il colpo di grazia dalla caotica applicazione di una riforma che punta tutto sulla “valorizzazione”. Ma quale fantomatico manager potrà mai “valorizzare” un Raffaello distrutto?
La città invisibile, maggio 2015
La legge nazionale
«Un testo sbagliato – affermava Vezio De Lucia all’assemblea della Rete dei comitati per la difesa del territorio (Firenze, 9 maggio) – complicatissimo, di ripetute e concatenate scadenze, denso di concerti, di diffide e di labilissimi poteri sostitutivi, di improbabili divieti e incentivazioni di nuove inverosimili nomenclature, anche perché non usa la lingua dell’urbanistica ma quella dell’agricoltura: viene da piangere pensando alla lingua limpida e lucida della legge del 1942».
Si tratta in effetti di una normativa che non promette niente di buono. Innanzitutto per il meccanismo a cascata nel quale il Ministro dell’agricoltura, di concerto con quello dell’ambiente, stabilisce le quote annuali di suolo ancora edificabile («la riduzione progressiva, in termini quantitativi, di consumo del suolo a livello nazionale», art. 3, c. 1); tali quote sono poi ripartite tra le regioni, le quali a loro volta le suddividono (come?) tra i comuni. A questo punto sono passati tre anni. E se le regioni non sono riuscite a rendere cogente la «ripartizione» sarà il presidente del consiglio dei ministri a provvedere d’imperio alla spartizione del bottino (art. 3, c. 2).
Ma cosa succede intanto in questi tre anni? Le norme transitorie ricordano lugubremente l’ “anno di moratoria” post Legge Ponte (1967) che costò all’Italia milioni di metri cubi di cemento: l’art. 10 del DdL, pur affermando che non sarà consentito nuovo consumo di suolo, fa salva una serie di interventi, di procedimenti in corso e di strumenti attuativi «adottati» prima dell’entrata in vigore della legge (e un’adozione, si sa, non si nega a nessuno).
Se non si salvano i centri storici, non va meglio al territorio rurale. I «compendi agricoli neorurali periurbani» (avete letto bene, “compendi”, forse dall’inglese “compound”, recinto), previsti nell’art. 5, sono incentrati sulla trasformazione dell’edilizia rurale (fino alla sua demolizione e ricostruzione) di cui è previsto, in conformità con gli strumenti urbanistici, il cambio di destinazione d’uso (comma 5) in servizi turistico-ricettivi, medici, di cura, ludico-ricreativi etc. Da una legge dei ministeri di agricoltura e ambiente ci si doveva aspettare invece la definizione dell’estensione e dell’uso dei terreni coltivati dal detto “compendio”, di quale tipo di agricoltura vi dovesse essere esercitato. Perché il consumo di suolo si attua anche attraverso la monocoltura agroindustriale, le piscine o i campi da golf, che costituiscono la negazione della neoruralità che l’articolo afferma di perseguire. La neoruralità, l’accesso universale alla terra e il suo uso rispettoso necessitano invece di misure che favoriscono l’agricoltura contadina, e di una sapiente ripartizione del demanio agricolo, non della sua vendita al miglior offerente.
La legge regionale
A livello nazionale si ignora o volutamente si trascura l’esempio toscano che, quanto al blocco del consumo di suolo, dimostra una potenziale efficacia, esposta tuttavia al rischio di essere travolta: qualora infatti il DdL agro-ambientale fosse approvato, la ridefinizione in corso dell’art. 117 della Costituzione (e in particolare del terzo comma che norma la competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni) «obbligherà la Toscana al rispetto di quelle inconcludenti e devastanti procedure» (De Lucia).
Solo un colpo di reni da parte della politica potrebbe stavolta smentire il peninsulare destino che fa prevalere, nella molteplicità delle soluzioni
Riferimenti
Vedi qui la snella ed essenziale proposta legislativa di eddyburg.Un più ampio panorama della posizione di eddyburg sull'argomento è in questo articolo.
Un'analisi veloce ed efficace delle politiche e della gestione della città di Firenze, che da anni gioca un ruolo di laboratorio sperimentale per il grande cantiere nazionale di rottamazione della civiltà delle città e del territorio. La città invisibile, 11 maggio 2015
Il Piano Strutturale fiorentino e l’appena approvato Regolamento Urbanistico, in linea con la gestione delle città globali, rispecchiano il paradigma neoliberista che vuole l’1% arricchito sulle spalle del 99%. Paradigma che spazialmente produce un “centro” (un luogo di potere) sempre più piccolo e fortificato, e “periferie” sempre più grandi e lontane dai luoghi della politica [1].
La politica neoliberista produce una polarizzazione delle risorse economiche nell’1% dello spazio urbano, tirato a lucido. L’esempio più classico è quello della via Tornabuoni e della sua recente riqualificazione di segno renziano: la realizzazione del nuovo volto del salotto cittadino viene finanziata con debiti a lunga scadenza che rompono il patto generazionale (nel progetto, i previsti “sbuffi di profumo” sono evitati grazie all’opposizione in consiglio comunale). Ma rientrano nella stessa logica anche:
- i parcheggi interrati, funzionali all’1% della popolazione e alla trasformazione borghese (gentrificazione) dei quartieri storici, che si realizza attraverso la formula: rinnovamento dei settori urbani = rinnovamento dei residenti;
- i servizi pubblici mercificati e privatizzati che drenano enormi ricchezze sono un altro aspetto della detta polarizzazione: forniscono servizi peggiori ai cittadini più “periferici” mentre costituiscono uno dei favoriti «finanziamenti occulti della politica» (P. Berdini).
Gestire la città secondo i principi neoliberisti, comporta lo svuotamento di senso pianificatorio di progetto, di disegno del PS e RU, che eludono la materia, girano intorno ai temi fondanti senza mai stringere; zeppi di proclami ma vuoti di strumenti/soluzioni/idee/progetti che possano veramente contribuire al governo della città o a disegnare la città futura. I due atti urbanistici ripetono come un mantra la triade mixité sociale-governance-sviluppo sostenibile. Triade che, valida per lenire tutti i mali della città globale, si declina localmente in:
1) “mix di funzioni”, ripetuto incessantemente, ma che sarà il privato a determinare poiché il RU abdica alla determinazione degli usi della città;
2) pseudo-partecipazione, risolta nella farsa dei facilitatori del consenso;
3) ammiccamenti a una “natura in città” in disegnini a margine dell’articolato (quando poi è previsto, tra l’altro, la copertura del canale Macinante con una strada a quattro corsie che, come una vecchia “penetrante”, condurrà i cosiddetti “city users” dall’aeroporto fino al cuore del consumo turistico).
Inutile sottolineare il ricorso asfissiante alla metafora della smart city: la città intelligente che, come un automa, si autoregolerebbe buttando al macero urbanisti e piani. E poi, le politiche del “brand” messe in atto in una logica di competizione internazionale tra città, che si risolvono:
- nella mercantilizzazione della città e della sua immagine. Pro domo sua (del sindaco) ovviamente: l’affitto del Ponte vecchio ad un sodale politico, prima dell’arrampicata a palazzo Chigi, passa come atto di normale amministrazione;
- e nella logica degli eventi, ognuno singolarmente, ognuno alienato dal contesto: la pedonalizzazione di piazza del Duomo e la cantierizzazione tuttora irrisolta del servizio di trasporto pubblico che prima vi transitava, ne sono l’emblema.
Vediamo quali sono i caratteri della città dell’1%, del centro (o centri), delle eccellenze. Tutto si gioca sull’espulsione/occultazione alla vista dei residenti. Il centro da offrire ai media come immagine del successo del sindaco, o della riuscita della città nella competizione mondiale (le città competitive...), deve essere sterilizzato: via le persone, via i mercati e anche le macchine (oggi – è duro ammetterlo – l’espulsione si attua anche attraverso la pedonalizzazione, in specie se non seguita da buon servizio di mezzi pubblici).
La città pubblica (lo spazio urbano, le strade, le piazze) è interpretata e gestita come proprietà privata, come prodotto da valorizzare nel senso più feroce del termine, anche con i metodi più classici della produzione capitalista. Perciò procede senza arresto la vendita/svendita del patrimonio pubblico, patrimonio che, come da anni avverte Paolo Maddalena, costituisce l’osso della società civile, la speranza per la sua rifondazione civile. La vendita a Firenze stenta a decollare, il maggior aquirente è una connivente Cassa Depositi e Prestiti Spa, e assume i toni grotteschi dell’operazione “Florence, city of the oppurtunities” nella quale il sindaco Nardella si trasforma in piazzista (di edifici pubblici, ma anche privati) presso le fiere internazionali della speculazione immobiliare. Se ciò da un lato rappresenta la delega al privato del disegno della città, dall’altro è la parodia di un governo della città che si sovrappone al mercato immobiliare, e con esso coincide.
Il valore d’uso dello spazio è, in quest’ottica, l’ultimo elemento ad esser preso in considerazione nel piano e nelle trasformazioni urbane. Potremmo dire che anzi non viene preso in considerazione. Le centinaia di schede del RU lasciano, edificio per edificio, aperte tutte le possibilità al mercato. L’esempio che pare più espressivo è quello della scheda dell’area su cui ora insiste il centro sociale autogestito “nextEmerson”, e per la quale il RU presenta già un rendering con villette a schiera sul sedime della fabbrica da demolire. L’urbanistica neoliberista cala la maschera: nel voler cancellare un’esperienza pluridecennale di pratiche di appropriazione collettiva e di uso di un luogo oggi appetito, mostra le sue fattezze autoritarie. La legalità del piano urbanistico nega la legittimità di un uso pluridecennale a servizio di un quartiere di periferia povero di spazi di aggregazione.
Nelle aree periferiche la risposta risiede inoltre nell’adozione di soluzioni securitarie: l’illuminazione carceraria (via Palazzuolo-via Panicale) e le videocamere periferizzano anche alcuni settori della Firenze duecentesca.
È sicuro che vanno nella direzione opposta i parcheggi (che esasperano l’uso dei mezzi individuali), il “banchetto infrastrutturalista” del PS e le grandi opere (che sottraggono risorse alla cittadinanza).
Ecco, non è questa la nostra idea di città
Un gruppo di intellettuali (primo firmatario Gustavo Zagrebelsky) fa appello al Comune perché soprassieda dal progetto di alienazione e smembramento della Cavallerizza e apra una stagione di «progettazione partecipata» sul suo futuro utilizzo.
Un vecchio partigiano, l’avvocato Bruno Segre (già detenuto in via Asti), nel corso della cerimonia con cui gli viene consegnato il «sigillo civico» dichiara che gli occupanti della caserma meritano l’appoggio della città. Per l’establishment torinese è davvero troppo. Così ieri interviene la scomunica di Repubblica che, con un articolo dell’avvocato Vittorio Barosio, pubblicato in prima pagina nella cronaca cittadina, non si limita a esprimere il proprio (legittimo) dissenso rispetto alle occupazioni ma invoca al riguardo «tolleranza zero» e chiede espressamente una «azione esemplare» della magistratura perché la violazione della legalità in atto «non può essere tollerata».
Gli interessi in gioco sono evidentemente assai forti! Ma c’è, oltre agli interessi, una cultura che va contrastata in radice. Nel sistema disegnato dalla nostra Carta fondamentale, infatti, la legalità – come ha insegnato Piero Calamandrei nella indimenticabile arringa in difesa di Danilo Dolci del lontano 1956 – è esattamente l’opposto del legalismo conformista, che tende alla pura conservazione dell’esistente, ed è fatta anche di «strappi» e di disobbedienza civile (di cui ci si assume, ovviamente, la responsabilità) per realizzare il disegno costituzionale. Del resto Antigone – mito della tragedia greca e simbolo, nei secoli, di libertà e di lotta contro il sopruso – per dare sepoltura al fratello, disobbedendo alla legge di Creonte, non disconosce il significato della legge e non predica l’illegalità ma si fa portatrice di una legge superiore (il «diritto degli dei») e accusa il sovrano di illegalità.
E, poi, è inutile occultare che l’invocazione della «tolleranza zero» è una opzione solo e tutta politica. Viviamo in un Paese in cui le leggi sono tanto numerose quanto violate. Perseguire la legalità significa dunque, inevitabilmente, definire gerarchie di valori e priorità di interventi. Non tutto si può fare contemporaneamente e con lo stesso impegno di risorse e intelligenza.
Occorre scegliere.
Si può cominciare lottando contro le mafie o liberando le città dalla presenza «fastidiosa» di accattoni e lavavetri, contrastando la speculazione edilizia e l’inquinamento ambientale o perseguendo chi protesta (magari con qualche eccesso) a tutela della salute propria e dei propri figli, impegnandosi per eliminare (o contenere) l’evasione fiscale oppure sgombrando edifici abbandonati occupati da «contestatori» e via elencando. Inutile dire che la definizione del calendario degli impegni (e la connessa mobilitazione dell’opinione pubblica) è scelta politica e non un vincolo giuridico.
Ma c’è di più. Anche le modalità dell’intervento teso a ripristinare una legalità che si assume violata non sono automatiche. La corsa di ciclomotori in una strada urbana si può contrastare con multe pesantissime, con un controllo del traffico da parte di vigili in divisa, con la predisposizione sulla carreggiata di apposite bande tese a impedire una velocità eccessiva; lo sgombero di baracche abusive e pericolose si può effettuare con le ruspe o con i servizi sociali, con la polizia in assetto di guerra o predisponendo soluzione abitative alternative; la legalità può essere imposta con la forza o perseguita con il confronto e la trattativa…
Ancora una volta non si tratta di automatismi giuridici ma di scelte politiche. Ed è questa – non altra – la questione aperta, oggi, a Torino
«All'assemblea della Rete dei comitati per la difesa dell'ambiente, Vezio De Lucia denuncia: "Il governo lavora a una legge che bypassi le normative regionali". A rischio gli innovativi provvedimenti della Regione Toscana. Asor Rosa: "Si restringono gli spazi di democrazia, a tutti i livelli"». Il manifesto, 10 maggio 2015
La rivelazione dell’esperto urbanista strappa il velo dell’ipocrisia di un Pd che, fino all’ultimo, aveva cercato di sterilizzare le prescrizioni adottate da Anna Marson per tutelare “dinamicamente” la carta d’identità presentata dalla Toscana nel mondo. “Noi abbiamo apprezzato le novità legislative apportate dalla giunta di Enrico Rossi grazie al lavoro dell’assessore Marson – tira le somme Alberto Asor Rosa – ma la legge urbanistica in discussione a Montecitorio nega i risultati ottenuti, anche grazie al lavoro fatto dai comitati, dai provvedimenti regionali”.
Questo basta e avanza, osserva Asor Rosa, per denunciare il progressivo restringimento degli spazi di democrazia, a tutti i livelli. E per rivendicare l’importanza del neo ambientalismo non di élite intellettuali ma che parte e si sviluppa “dal basso”. Nelle forze vive di una cittadinanza attiva che si mobilità, approfondisce, segnala le criticità, e propone soluzioni alternative per una vivibilità sempre da riconquistare, di fronte alla filosofia delle “grandi opere inutili” terribilmente impattanti per l’ambiente e per la salute dei cittadini.
A riprova, la Rete continua a denunciare alcune “criticità epocali”. Dal nuovo aeroporto incastrato tra Firenze e altre città come Prato, Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio, imposto per compiacere interessi privati e sotto la regia del braccio destro di Matteo Renzi, Marco Carrai. Poi un sottoattraversamento fiorentino dell’alta velocità “assurdamente inutile”, dai costi che volano nel silenzio delle istituzioni; con rischi ambientali altissimi, e con continue traversie giudiziarie che ne evidenziano i limiti. E ancora un’autostrada tirrenica che impatterà pesantemente sul territorio maremmano, ancora in equilibrio fra ambiente e operosità dell’uomo. Infine il maxi inceneritore di Case Passerini alle porte del capoluogo, contestato da anni ma sempre difeso prima da Ds e Margherita, poi dal Pd.
«Ecco come la redazione di Milano in Movimento ha concluso la diretta sulla manifestazione del Primo Maggio». Comune-info, 1 maggio 2015 (m.p.r.)
Abbiamo iniziato la giornata raccontando una piazza che si riempiva di 50mila persone, di spezzoni pieni di gente e colori che hanno portato per le strade della città capitale della crisi le ragioni del proprio no a Expo e al modello di sviluppo che Expo mette in vetrina.
Il modello della deroga ai diritti di tutti per tutelare gli affari di pochi, il modello dei soldi pubblici finiti nelle tasche delle banche, degli speculatori, delle mafie che si aggiudicano gli appalti e finanziano il sistema, che sono parte integrante di un sistema al quale da tempo opponiamo le ragioni di un no che è fatto di contenuti, di costruzione di reti e percorsi di lotta.
Expo è stato, è e sarà per i prossimi 6 mesi la sperimentazione avanzata di quanto di peggio questo modello si sviluppo produce: nasconde dietro a un logo colorato e a un claim accattivante il finanziamento delle peggiori speculazioni, la cementificazione di ampie aree un tempo agricole a ridosso della metropoli, l’utilizzo di lavoratori sottopagati, stagisti, volontari (!), che devono lavorare in fretta perchè la grande macchina è in ritardo e lo spettacolo deve andare avanti, sacrificando i diritti, la sicurezza, le vite di fasce di popolazione che già stanno pagando duramente la crisi e la disoccupazione, la mancanza case, di lavoro e di un welfare davvero universale.
Expo finge di parlare di alimentazione sana e cibo per tutti e poi costruisce partnership con i peggiori divoratori del pianeta, con le multinazionali dell’agroindustria, le catene di cibo spazzatura, i peggiori responsabili delle disuguaglianze del Pianeta. Parla di aiutare i Paesi poveri e fortifica chi sfrutta le materie prime e i territori delle aree povere del mondo, depredando popoli e natura, salvo poi cercare di respingerli quando bussano ai nostri confini affrontando viaggi nei quali forse moriranno, perchè quel forse è tutta la speranza che gli abbiamo lasciato.
I media mainstream alimentano da mesi un immaginario di scontri e devastazioni a tutela della passerella di vip e politici piazzati nella vetrina dell’inaugurazione a chiacchierare di solidarietà abbuffandosi a spese dei soldi pubblici e dei beni comuni che diventano affari di pochi.
Noi crediamo nella contestazione, nel conflitto, nella radicalità dei contenuti e delle pratiche associati all’intelligenza, alla costruzione di consenso intorno ai contenuti. Crediamo nel conflitto agito da tanti e tante, nella costruzione quotidiana di pratiche alternative nel modo di vivere, intessere relazioni, fare politica nel territorio e nel mondo globale, costruire economie alternative e sostenibili.
Ci siamo trovati costretti, nostro malgrado, a raccontare un corteo che, bisogna che siamo sinceri, non avremmo voluto così. E ci vedremo costretti a raccontare di spazi di agibilità che si chiudono, di fermi, arresti e repressione, e questo frenerà la riflessione fra gli attori del movimento e farà sì che non ci esprimeremo, perchè di fronte alla repressione poi smettiamo anche di ragionare in nome della giusta solidarietà a chi viene colpito.
Noi crediamo però che qualche ragionamento dobbiamo pure farcelo. Perchè anni di lavoro sui contenuti, di condivisione e di lotte oggi sono stati letteralmente spazzati via dalla scena pubblica, e se la stampa e la comunicazione mainstream hanno gioco facile a far vedere colonne di fumo nero che si alzano nel cielo della città e roghi di auto e negozi, e vetrine tirate giù, beh, qualcuno ‘sto lavoro di demonizzazione glielo ha reso davvero facile, e non abbiamo davvero niente da guadagnare dal totale isolamento nel quale ci ritroveremo, da domani, a fare politica nella nostra città.
E non ci interessano i commenti dei politici di turno o delle personalità dello stato, ci interessa la distanza che con questo immaginario scaviamo fra il corpo militante e la gente comune, fra chi ogni giorno mette il suo tempo e la sua fatica al servizio della costruzione di percorsi condivisi che ambiscono a diventare maggioritari e quel pezzo di cittadinanza che continuerà a pagare il prezzo della crisi, abbandonata dalla politica istituzionale e che tuttavia non capisce il senso di certe pratiche ed è sempre più lontana dal nostro mondo.
Abbiamo ripetuto all’infinito che la politica delle alte sfere non ha niente a che fare con la vita vera delle persone in carne e ossa e continuiamo a non essere capaci di costruire la connessione sentimentale con quei pezzi del Paese e della società che dobbiamo invece imparare a capire e coinvolgere nelle battaglie che o sono di massa o sono condannate all’irrilevanza.
Non c’è riflessione a caldo che possa affrontare questi temi in modo approfondito e ampio, ma non possiamo chiudere questa diretta in un modo che sia diverso dall’esprimere la necessità di una riflessione sulle ambizioni, sulle pratiche e sugli immaginari, che già qualche tempo fa abbiamo provato a stimolare con un editoriale che aveva dato l’avvio a qualche ragionamento, e che dentro la redazione è tema di dibattito molto sentito.
Torneremo presto su questo tema con una riflessione più articolata, per oggi siamo davvero esausti, e chiudiamo qui.
La violenza criminale e demenziale di chi ieri ha sfasciato Milano rendono ancora più difficile esprimere il senso di rigetto che ingenera l'immane baraccone dell'Expo. I fiumi di retorica alimentati da presidenti, ex presidenti, sindaci, ex sindaci, giornalisti sono imbarazzanti almeno quanto il pessimo gusto della cerimonia d'apertura, o la patetica trovata dell'inno nazionale modificato.
Il giorno dopo i riot di Milano, il "movimento" si interroga su come gestire una delle fasi più delicate degli ultimi anni. Con la consapevolezza che d'ora in avanti bisognerà ragionare su come gestire la piazza senza trascurare il nodo del consenso». Il manifesto, 3 maggio 2015
Toc toc, c’è nessuno? Silenzio. Il giorno dopo tutto tace, tutti tacciono. Ha bisogno di tempi più lunghi la metabolizzazione di una bella botta che costringe tutti ad un’autocritica senza peli sulla lingua per cercare di rimettersi in piedi. La riflessione collettiva è appena cominciata, ma ancora solo a microfoni spenti. Comprensibile. Anche se un po’ stupisce questo silenzio visto che le “cose” attorno cui il “movimento” si trova costretto a ragionare erano già state ampiamente previste. Da tutti, nel dettaglio. Rispettiamo i tempi un po’ troppo analogici delle liturgie assembleari.
Dopo il primo vero “riot” della modernità che ha sconvolto la giornata inaugurale dell’Expo - piaccia o meno anche queste pratiche di piazza rientrano nelle sgradevolezze della globalizzazione - sul tavolo rimangono alcuni nodi da sciogliere piuttosto ingarbugliati. Per il cosiddetto “movimento”, naturalmente, ma anche per coloro che a caldo non sanno andare oltre la prevedibile indignazione di rito, un altro modo per non interrogarsi sul problema reale con cui prima o poi bisognerà fare i conti (quella che si autoproclama l’altra Milano, in testa il sindaco Giuliano Pisapia, oggi si ritrova in piazza Cadorna per ripulire la città sfregiata). Gli altri, quelli che non possono accontentarsi dell’analisi “sono tutti delinquenti”, sono invece costretti a fare uno sforzo in più. Operazione non facile per chi è direttamente coinvolto nella gestione della MayDay, dove qualcosa evidentemente non ha funzionato come doveva.
In sintesi. Il cosiddetto “blocco nero” era dentro il corteo (uno degli spezzoni più numerosi) in mezzo agli spezzoni più “ragionevoli”. La piazza milanese - come nessun’altra piazza antagonista - non ha avuto e non ha la forza politica e “militare” per limitarne la presenza. Il conflitto sempre più aspro espresso ieri, a tratti disperato e senza prospettive, sta diventando la cifra di ogni manifestazione “contro”. Ad Amburgo, Francoforte, Bruxelles, adesso anche Milano: benvenuti in Europa. Dunque, si può convivere con leggerezza con chi non accetta mediazioni e scende in piazza solo per spaccare tutto? Evidentemente no, ma sul che fare è ancora buio pesto per gli antagonisti che contestano il modello Expo. Di sicuro, a leccarsi le ferite, è rimasto un “movimento” che rischia di non avere più spazi di agibilità per lungo tempo. Ma il problema del consenso prima o poi bisognerà affrontarlo, anche perché mai come in questo momento tutti sono contro - si fa per generalizzare - quei cattivi dei “centri sociali”. Chi invece abbozza analisi non scontate che rischiano di essere tacciate di “fiancheggiamento” al blocco nero (ce ne sono) oggi non ha la forza di uscire allo scoperto. Prima o poi potrebbe arrivare la buriana: ieri 15 persone sono state portate in questura, e i cinque arrestati rischiano fino a quindici anni di carcere per “devastazione”.
I primi a ragionare “nero su bianco” (il comunicato) sono i più coraggiosi nell’analisi. Con toni e accenti diversi tra loro. Prendiamo l’area di Infoaut, il punto di vista più articolato. Il corteo del primo maggio, scrivono, «è la prima grande protesta contro Renzi e il suo modello di sviluppo, e così verrà ricordata». Sulla questione che più indigna, “il metodo”, questo il ragionamento: «Spaccare utilitarie o vetrine a caso è un gesto idiota che ha senso soltanto per chi assume come referente del suo agire politico il proprio micro-milieu ombelicale». Ma il punto è: «Con quel modo di stare in piazza bisogna fare i conti e nessuna struttura organizzata è in grado di esercitare una forza di controllo». Il che significa: «Quella rabbia, quella composizione, quei soggetti sono affare nostro e vogliamo averci a che fare, con tutte le difficoltà del caso. Chi se ne tira fuori - per calcolo, paura o presunta superiorità politico-morale - sta tracciando un solco tra gli alfabetizzati della politica e gli impoveriti ed arrabbiati». Il nodo del “consenso”, esiste, scrive Infoaut, ma non porsi il problema di come dare un senso a quella rabbia è un grosso errore. Non solo per il movimento.
Militant.blog vuole precisare che non c’è un corteo buono e uno cattivo, anche se la rabbia del primo maggio non è stata espressa nel migliore dei modi. Il problema, scrivono, «non è lo scontro e la devastazione» ma «è come creare consenso attorno a pratiche conflittuali». Ripartire da qui è il punto, «tornando a fare politica, cioè costruendo un discorso conflittuale che vada di pari passo al sentire comune della classe. Senza accelerazioni inutili o altrettanto inutili attendismi». Sul sito di Milanoinmovimento (una delle realtà più “dentro” alla costruzione della MayDay) si legge un primo abbozzo di autocritica: non avrebbero voluto un corteo così. Il timore è che arresti e repressione impediscano anche di ragionare, perché «anni di lavoro sui contenuti oggi sono stati letteralmente spazzati dalla scena pubblica». Il punto è che «continuiamo a non essere capaci di costruire connessione sentimentale con quei pezzi del paese e della società che dobbiamo invece imparare a capire e coinvolgere nelle battaglie che o sono massa o sono condannate all’irrilevanza». Vero. Le riflessioni dunque sono appena cominciate, la Rete No Expo deve ancora esprimersi e probabilmente lo farà dopo l’assemblea di oggi pomeriggio. Ma a poche ore dal disastro sembra che qualcosa stia già ricominciando a muoversi.
«Chi agisce ricorrendo ad una violenza fine a se stessa, distrugge in primo luogo la politica, il diritto di manifestare pacificamente, mette in un angolo i movimenti che vogliono esprimere - anche in piazza - un’altra visione del mondo». Il manifesto, 3 maggio 2015
Che senso ha incenerire la giusta lotta per il diritto al cibo con una raffica di molotov? Come si possono contrastare la povertà e la fame nel mondo, se si danneggiano negozi, se si incendiano le auto di cittadini incolpevoli, se si mette in campo solo una anarchica voglia di distruzione? Cosa significa manifestare indossando una maschera antigas?
Ha ragione il sindaco di Milano, Pisapia, a definire imbecilli questi travestiti di nero che si divertono a fare i cattivi. A volto coperto. Tuttavia non basta qualche aggettivo per catalogare dei comportamenti sconsiderati. Perché chi agisce ricorrendo ad una violenza fine a se stessa, distrugge in primo luogo la politica, il diritto di manifestare pacificamente, mette in un angolo i movimenti che vogliono esprimere — anche in piazza — un’altra visione del mondo.
Gli effetti del vandalismo anti-Expo del primo maggio non sono solo quelli che abbiamo visto nelle immagini tv. Ce ne sono altri, meno evidenti. Eppure molto concreti. Perché secondo il prevedibile copione, la legittima protesta e la contestazione della rassegna universale sono state offuscate proprio dal fumo nero che si è levato dai tanti focolai di incendio provocati dai piromani di professione.
Questi cosiddetti black bloc conoscono bene le regole della comunicazione, sanno benissimo che il sensazionalismo delle loro azioni viene usato per ignorare i comportamenti, pacifici, altrui. E questo ruolo non gli va più concesso: i movimenti devono essere i primi a sentirsi danneggiati per quanto è accaduto. E comportarsi di conseguenza, prendendo le distanze e difendendosi da chi ha nulla a che fare con la politica.
L’Expo può essere e deve essere criticato. Perché non risolverà i problemi degli affamati della Terra. Perché l’economia mondiale non può restare nelle mani delle multinazionali che, come dice Vandana Shiva, pensano soprattutto a nutrire se stesse, non certo il Pianeta. Perché come accade con i grandi eventi, sempre molto costosi, difficilmente sedimenterà qualcosa che durerà nel tempo. Perché bisogna essere davvero ottimisti per credere che risolleverà il nostro Pil di qualche decimale. Perché una delle “vocazioni” del paese, il turismo, non si alimenta con le manifestazioni a termine ma con una strategia e investimenti di ampio respiro.
La violenza ha messo in un angolo anche l’altro Primo Maggio, quello più autentico e storico: la festa del lavoro che non c’è. La messa a soqquadro di Milano ha fatto passare in secondo piano la protesta sindacale contro il governo e i suoi fallaci e patetici proclami sulle magnifiche e progressive sorti del Jobs Act. E ha messo in sordina il forte messaggio lanciato da un luogo simbolico dell’accoglienza agli immigrati in fuga da guerre, disperazione, fame. Forse Pozzallo, piccolo paese siciliano, rappresentava il vero contraltare all’abusata retorica del presidente del Consiglio all’inaugurazione dell’Expo.
Tutto questo è stato “bruciato” da chi ama distruggere le cose e anche le idee e le opinioni costruite faticosamente. E soprattutto quelle dietro le quali si nascondono. Perché agiscono insinuandosi e confondendosi nei cortei, nei movimenti. Ai quali diamo un modesto consiglio: la prossima volta si scenda in piazza con un efficiente servizio d’ordine. Un tempo si organizzavano come strumento di autodifesa. In primo luogo dalla polizia che, stavolta, ha fatto un’opera di contenimento, evitando di provocare uno scontro generalizzato che avrebbe avuto ben altre conseguenze. Adesso i servizi d’ordine devono servire anche per distinguersi da chi pensa che ferire il centro di una città sia la soluzione. Ma una presenza organizzata in piazza non si improvvisa, richiede una coesione politica e sociale che manca sia nei movimenti che nella sinistra di alternativa.
Ilfatto quotidiano.it, 1° maggio 2015 (m.p.r.)
Il Museo Civico archeologico di Cirò Marina dal 9 aprile ospita, provvisoriamente, l’acrolito di Apollo Aleo, proveniente dal Museo Archeologico di Reggio Calabria ma recuperato nel 1929, durante la prima campagna di scavi nell’area archeologica di Punta Alice. Un pezzo straordinario allontanato dal suo contesto. Il santuario scavato nel 1924 da Paolo Orsi e poi, tra gli anni Settanta e Novanta, interessato da campagne di scavo e di rilievo eseguite dall’Istituto Germanico e dalla Soprintendernza archeologica della Calabria. Un edificio datato al VI secolo a.C., ma la cui attività di luogo sacro si protrasse almeno per due secoli. Santuario del quale restano per breve altezza lo zoccolo del muro perimetrale della cella e le basi del colonnato centrale e dei pilastridell’ambiente ad ovest della cella. Le condizioni di conservazione più che precarie. Con le superfici dei blocchi, quasi tutti distaccati, alveolizzate.
La musealizzazione all’aperto poco più di un’idea. Con il pannello didattico, appoggiato a terra, leggibile solo in parte. L’accessibilità all’area recintata assicurata da un cancello. Sempre aperto. Al taglio dell’erba spontanea, provvedono gli animali al pascolo. Un luogo quasi incantato. Con il mare all’orizzonte e prima il faro. Ma quasi a ridosso dell’area archeologica le strutture industriali dello Stabilimento Syndial. Un frammento di paesaggio nel quale le scelte industriali del passato continuano a mostrarsi nella loro ingombrante fisicità. Ma intanto meritoriamente si è deciso di provvedere alla risistemazione dell’area archeologica. Aggiudicata la gara di appalto per i lavori di ‘scavo, restauro e musealizzazione del santuario dedicato ad Apollo Aleo’, finanziati con fondi Por Calabria, Fesr 2007-2013 per un importo di quasi500 mila euro. Tra le misure previste anche interventi conservativi, adeguamenti funzionali e di sicurezza, oltre ad un centro polifunzionale.
“Una struttura molto flessibile, predisposta ad ogni tipo di attività artistica e culturale, darà servizi e potrà accogliere manifestazioni ed istallazioni volte a valorizzare in ogni caso il sito e il territorio in generale“, si legge nelle Relazioni tecniche generali. Mentre nelle Relazioni specialistiche si specificano luoghi e modalità delle indagini, alle quali sono da aggiungersi “scavi preventivi laddove il progetto prevede la realizzazione della struttura del punto informativo“. Insomma sembra che si sia pensato proprio a tutto. Naturalmente compresa la scelta della ditta che si occuperà dei lavori, l’impresa edile Serafina Sammarco, che ha avuto la meglio anche su società con chiare competenze nell’ambito dei Beni Culturali. Circostanza questa che potrebbe essere poco rilevante se non fosse che nella cifra complessiva a disposizione il 43,51%, pari a 212.953,85 euro, come da capitolato, sarà per lavori di scavo archeologico.
Cifra alla quale vanno aggiunti i 51.142,70 euro, pari al 10,51% dell’intera cifra, per il restauro archeologico. Eccezione questa alla quale la Relazione specialistica Scavo, restauro e musealizzazioneha pensato. Basterà fare ricorso ad “archeologi specializzati di provata esperienza che dovranno avere un curriculum vitae che dimostri un’esperienza continuativa di almeno cinque anni in cantieri archeologici diretti da Soprintendenze o Dipartimenti Universitari e … a topografi-disegnatori che dovranno avere un curriculum vitae che dimostri un’esperienza continuativa di almeno sette anni in cantieri archeologici diretti da Soprintendenze o Dipartimenti universitari“. Quindi alla mancanza di competenze specifiche l’impresa ovvierà con il coinvolgimento di professionisti che rispondano ai requisiti indicati. Ma non è tutto.
A suscitare una certa preoccupazione è il criterio stesso che ha indirizzato la scelta finale, ovvero il ribasso percentuale sulla cifra complessiva. Un 21,80%, che ha sbaragliato la concorrenza. Un ribasso lontano da quelli ben oltre il 50% registrati a Pompei, in diversi appalti per il restauro di parti della città antica. Ma in ogni caso meritevole di una giusta attenzione. Perché quel che è accaduto al teatro della città campana, restaurato impropriamente e al centro prima di ribassi e poi di rialzi praticati dalla Caccavo srl è un caso emblematico. Di come, spesso il ribasso preceda il rialzo, non di rado comportando interventi sbagliati con materiali inadeguati. Passare dall’abbandono, motivato dalla mancanza di risorse, ad un intervento inappropriato, causato da incerte competenze, sarebbe una sciagura. Che il tempio di Apollo ‘protettore del mare e della navigazione’ non merita.
Ma questa confusione tra misure ordinarie e straordinarie, per non dire quella tra effimero e stabile, non è un’invenzione del commissario Fiori: questi si è limitato a interpretare (saranno i processi a dirci se spingendosi fino al compimento di reati e alla produzione di danni all’erario) la retorica corrente della procedura di emergenza come strumento per il governo dell’ordinario. Pompei è nello stesso Paese del Mose e dell’Expo: e soprattutto nello stesso Paese dello Sblocca Italia e nel disegno di legge Madia sulla mitologica “semplificazione”. Due leggi, queste ultime, con le quali il governo Renzi ha dimostrato di non voler affatto rompere con il regime dell’emergenza: come se per “fare” (ciò che tutti vogliamo) non fosse necessario disboscare in modo razionale la giungla delle norme contraddittorie, ma fosse possibile (e anzi preferibile) aggirare le singole leggi con la figura eccezionale del commissario, o della corsia di emergenza. Durante l’audizione parlamentare preliminare all’approvazione dello Sblocca Italia, la Banca d’Italia ha inutilmente provato a mettere in guardia circa il potenziale criminogeno delle procedure eccezionali: avendo buon gioco a prevedere che l’unico frutto della legge sarebbe stata (oltre al cemento) la corruzione. E dunque i processi a Fiori saranno importanti perché potranno dimostrare, ex post e su un caso preciso ed eccellente, quanto sia necessario abbandonare questa strada, sempre contrabbandata come innovativa, e in verità già tante volte disastrosamente sperimentata.
C’è, infine, la seconda questione. Ammesso, e non concesso, che il commissario potesse fare anche valorizzazione, sfigurare un monumento per trasformarlo in “set” è valorizzazione o no? Se io fossi l’avvocato difensore di Fiori, convocherei come testimoni il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini, il presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali Giuliano Volpe e il professore di archeologia Daniele Manacorda. Che sono gli entusiastici sostenitori dell’idea di costruire arena e spalti nel Colosseo, per adibirlo a location di spettacoli di cassetta su cui lucrare i diritti televisivi. Un’idea che non solo subordina la conoscenza alla spettacolarizzazione, ma che interpreta la valorizzazione come messa a reddito, trasformandola in una scelta “politica” (la propugna il ministro, non il soprintendente) totalmente separata dalla tutela. E, anzi, potenzialmente in conflitto con quest’ultima: perché non si dica che adibire il Colosseo a luogo di spettacoli di massa sarebbe compatibile con una corretta conservazione e fruizione del monumento.
La Pompei di Fiori come laboratorio della valorizzazione-spettacolarizzazione dell’età di Renzi? È forse presto per dirlo, ma è certo che il processo contabile che si celebrerà a Napoli promette di avere un significato che trascende di gran lunga il caso specifico, pur clamoroso.